Leggere le decisioni di giustizia attraverso Marx, le scienze cognitive e un cantastorie

Tradizionalmente il diritto e la giustizia vengono raccontati ricercando l’equilibrio tra la fissità della norma giuridica e le interpretazioni del fatto alla luce della logica giuridica. Tutto ciò in una apparente apollinea perfezione delle forme. Lo fa il giudice (o almeno crede di farlo, sempre in buona fede) e lo fanno anche (o almeno credono di farlo, usualmente in buona fede) il pubblico ed i media che si occupano di vicende di cronaca. Questa rigidità cognitiva presenta due limitazioni: da un lato non rispecchia le varie sfaccettature che il diritto e la giustizia applicata (lo jusdicere) portano con sé nell’esercizio di questa complicatissima attività del decidere umano; dall’altro, come conseguenza della prima limitazione, trasforma un fare ‘molto concreto’ dell’agire umano in qualcosa di estraneo alla percezione, non solo sensoriale ed istintiva, ma persino intellettuale.

Il ‘fare giustizia’ viene così trasfigurato in qualcosa che può essere trattato come il prodotto di un duello rusticano o di una prova ordalica, privi di regole popperianamente falsificabili o, almeno, empiricamente riscontrabili. Dove il vincitore (colui che decide) è, al contempo, l’effetto dell’espressione di una morale mitologica o di una altrettanto mitologica immoralità. Rompere la dialettica improduttiva tra fatto e diritto vuol dire creare un percorso cognitivo sulla giustizia che può ‘suonare’ come eccessivamente dissacrante, spudoratamente dionisiaco, banalmente da cantastorie. Ma sono le scienze cognitive ad imporre di rompere lo schema apollineo di una presunta dialettica costruttiva tra fatto e diritto, a favore dello schema ‘senza confini’ ed eracliteo (più aderente, appunto, allo spirito musicale dei cantastorie folk) dettato dalla psicologia cognitiva, la filosofia della mente e l’antropologia culturale.

Il cervello del giudice è composto di neuroni e sinapsi, neurotrasmettitori e DNA metilato. Non è un ‘angelo cognitivo’, ma un soggetto antropologicamente analogo a tutti gli altri individui, che ‘vivono’ di euristiche (scorciatoie cognitive) e bias (errori cognitivi) trappole mentali e pregiudizi. Le scienze cognitive, con il loro approccio ‘aperto’ e multidisciplinare indeterminato, consentono di affondare l’interpretazione sulla giustizia applicata nel cuore pulsante della decisione (nel cervello) evidenziando come questo sia paragonabile ad una biblioteca, laddove lo spazio del libero arbitrio è direttamente correlato e dettato dai ‘testi’ che formano la biblioteca medesima. Non possono essere ‘lette’ scelte differenti dai ‘volumi’ presenti in ‘archivio’ ed il contenuto di detti volumi segna il ‘colore’ del libero arbitrio e del libero convincimento (e dunque, anche, le euristiche, i bias e le trappole mentali del decisore).

Per comprendere realmente le vicende di giustizia, oltre alle scienze cognitive, è decisiva anche la filosofia, che da sempre studia i grandi temi dell’umanità, tra i quali la libertà del fare è certamente uno tra quelli più ponderosi. Sul piano filosofico lo spunto qualificante e direttamente correlato con gli statuti scientifici sulla cognizione, risiede nel pensiero di Marx ed in specie nella parte afferente il concetto di struttura e sovrastruttura. In Per la critica dell’economia politica (1859) l’autore afferma che «non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza»; più specificatamente, ed in modo precipuo circa il rapporto uomo-legge, Marx sottolinea che questo ‘essere sociale’ (l’uomo) è determinato dalla struttura della produzione economica e la legge è solo una sua sovrastruttura. Dunque, per cambiare la legge, è necessario, preliminarmente, modificare la struttura che ne sta alla base.

L’approccio da cantastorie all’interpretazione ed alla narrazione della giustizia, rompendo con lo schema dialettico tra fatto e diritto come unica chiave di lettura dello jusdicere, consente una reinterpretazione del libero convincimento alla luce della psicologia cognitiva e del rapporto conflittuale tra struttura e sovrastruttura di tradizione marxiana. Mi spiego: il cervello del giudice è, come detto, antropologicamente identico a quello di ogni altro individuo. L’io cognitivo del singolo individuo determina la prima struttura cognitiva del giudicante. Tale cervello (con la sua biblioteca personalissima sopra descritta) è però inserito all’interno di un diverso sistema cognitivo, con uno statuto suo proprio, costituito dall’apparato di giustizia che si concretizza (esplicitato in modo generico) nella garanzia di proteggere i cittadini onesti da coloro che delinquono, nel tutelare la vittima, nel sanare una ferita sociale (Durkheim), nello svolgere una funzione di ‘crime control’ e nell’ ‘istruire’ la collettività attraverso la pena ed il processo nei confronti del singolo (funzione general-preventiva della pena). L’inserimento del giudice all’interno di questo apparato o sovrastruttura di secondo livello costituisce, secondo il modello-Zimbardo (esplicitata nel testo L’effetto Lucifero), una forma assai cogente di mente estesa che ragiona, in armonia o in conflitto, con quella dell’io (di primo livello).

A questi due livelli di cognizione si deve aggiungere un ulteriore livello cognitivo, ennesima sovrastruttura rispetto all’io pensante ed all’io mente estesa, e cioè dire la legge. Come per Marx, per il quale la legge è sovrastruttura della coscienza collettiva, la medesima legge costituisce, reinterpretata in chiave scientifico-cognitiva (‘vestita’ sul giudice) una sovrastruttura (l’ennesima) nel rapporto cervello, mente estesa e mondo (laddove il mondo è il non-io del giudice, l’oggetto del giudizio, il fatto da giudicare attraverso lo jusdicere). La legge è, così, a sua volta, un nuovo livello cognitivo ed anche una nuova forma di mente estesa, che gioca un suo ruolo dialettico e confliggente con l’io cognitivo e la mente estesa costituita dall’apparato della giustizia.

A questo schema complesso e composito va poi aggiunto, in specifici casi di giustizia applicata, un altro mondo cognitivo, assai spesso alieno rispetto alle conoscenze del giudice e costituito da ‘menti estese’ quali la scienza e la tecnica (al servizio della prova penale), la normativa amministrativa (si pensi a quella antiriciclaggio rispetto al delitto di riciclaggio), oppure la scienza medica, l’ingegneria o altre specialità peritali.  Il precipitato di questa lettura della cognizione processuale, estranea alla tradizionale interpretazione giuridica (ma, come detto, da cantastorie folk) comporta delle conseguenze decisive, sia in ambito filosofico che, più specificatamente, in ambito cognitivo. Per quelle di ordine filosofico: Marx ha statuito che la liberazione dalla trappola struttura-sovrastruttura consiste nella rottura della struttura, volta poi a modificare la sovrastruttura (è la dottrina del materialismo storico); per Hegel, secondo il quale la legge è un momento della fenomenologia dello spirito, nel percorso dialettico tendente all’assoluto, detta liberazione è protesa verso l’unità epistemica nel rapporto io-mondo. Per entrambi i sistemi filosofici il riscatto e la piena coscienza è dunque possibile, così mettendo in salvo l’io dall’alienazione del sé. Per il giudice questo non può accadere. Costui non può rompere né la struttura né la sovrastruttura (l’io cognitivo di primo livello o l’io della mente estesa dei livelli successivi); né, del pari, può abbattere la sovrastruttura costituita dalla legge. In questo modo la dialettica dell’ io-giudice (con gli apparati cognitivi predetti) ed il citato non-io, costituito dalla questione di fatto da risolvere mediante lo jusdicere, resta intrappolata, senza scampo, nei percorsi cognitivi del giudice e ciò in quanto priva di una soluzione armonica. Tale indissolubile trappola si risolve, sempre marxianamente, in una continua alienazione della coscienza cognitiva. Il risultato di questa alienazione è un gioco di euristiche e bias cognitivi continui che, come in un flipper impazzito, rischiano di ‘giocarsi reciprocamente’ la pallina del fatto, oggetto del giudizio (il non-io del giudice) e della conseguente decisione. Con la evidente perdita del tasso di certezza della scientificità cognitiva di ogni decisione e del rispetto delle regole di diritto.

Luca D’Auria

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Le euristiche del giudice ed il processo penale. Anche il giudice può cadere nelle trappole mentali

Il mondo della giustizia (penale) è un mondo di decisioni. Il giudice è il decisore per eccellenza. Nelle sue mani sono racchiuse le sorti dell’accusato. A sua volta l’accusato è imputato di aver deciso di trasgredire le regole su cui si fonda la comunità in cui vive. Le scienze cognitive affrontano il tema della decisione mettendo in luce come il cervello, con i neuroni, le sinapsi ed i neurotrasmettitori, determina le decisioni nell’interazione col mondo, utilizzando i percorsi “stampati” nelle connessioni cerebrali. Tutto questo è il frutto dell’apprendimento. Questo è il vero pilota della nostra vita, spesso automatico in quanto “sicuro di sé” (l’apprendimento serve proprio a non dover sempre “ragionare” su ogni scelta) e gioca una partita a scacchi con il DNA ed il caso. Ne scaturisce un uomo ben diverso da quel “legislatore universale” che vorrebbe Kant; chi potrebbe dirsi capace di decidere in modo così “angelico” come avrebbe voluto il Padre Nobile dell’illuminismo? E’ vero, l’Occidente è figlio di quella tradizione che, però, presa dogmaticamente, rischia di trasformarsi in un paradigma antistorico. Il diritto penale applicato è uno dei campi che restano maggiormente ancorati a questo dogma. Il giudice deve decidere secondo il suo “libero convincimento” ed il reo deve aver deciso con “libertà d’intendere e di volere”.

Sia concesso qualche ragionamento sul giudice. Il codice impone che la decisione sia logica, libera, rispettosa delle regole processuali. I caratteri quasi religiosi di questo strumento di gestione della collettività sono di immediata intuizione. La toga, lo scranno ed i simboli dell’Ordine giudiziario ne sono la rappresentazione “pop”. Questi sono solo all’apparenza inutili. Lo “jusdicere” deve affascinare, fare paura, creare rispetto. E non essere discusso nei suoi aspetti più profondi: quelli che attengono alla libertà del decidere. Oggi qualsiasi scienziato cognitivo afferma che è una chimera sostenere la piena logicità del nostro fare; le euristiche e cioè le scorciatoie che in ogni istante il cervello plastico prende per agire senza sorprese, determinano il fare e convincono la coscienza di aver scelto “la via giusta”. Talvolta è così; altre volte si tratta di trappole mentali che determinano i bias cognitivi e cioè errori di rapporto tra il mentale e la realtà che vuole una risposta. Questi colpiscono tutti, sempre. Sono modalità decisorie normali, utili ed adattive. Insano sarebbe un metodo diverso. E’ vero per tutti e tutto tranne che per il giudice? Non risultano individuate da nessuno le trappole mentali e dunque le euristiche causatrici di bias cerebrali specificatamente riferite alla funzione della decisione giudiziale. Di contro, la psicologia cognitiva, come è noto, ha catalogato quelle più comuni che inficiano il ragionamento.

Un seppur superficiale e non esaustivo elenco delle trappole mentali giudiziarie è necessario ed utile per una corretta comprensione della decisione giudiziaria. Alle comuni euristiche possono affiancarsi le seguenti trappole mentali tipicamente giudiziarie:

Tolomeo mental trap: la trappola mentale di Tolomeo riguarda tutti gli errori nei quali può incorrere il giudice rispetto alla prova tecnica o scientifica. Tale fonte conoscitiva esula infatti dalle sue competenze e dunque chi decide può essere fuorviato dall’idea astratta che un certo mezzo conoscitivo porta con sé (si pensi alla prova del DNA) trascurando le emergenze che nel singolo caso possono rendere non affidabile la fonte di prova.

Aristotele mental trap: la trappola di Aristotele consiste nel rischio che il giudice confonda il tipo di sillogismo da applicare in sede giudiziaria; in specie non utilizzi il metodo induttivo che va dal particolare (la fonte di prova) al generale (la prova della commissione del fatto) ma si attesti sul sillogismo deduttivo che, per definizione, non dimostra nulla in quanto la premessa maggiore contiene già la conclusione.

Wig mental trap: è la trappola della parrucca (simbolo del giudicante ma anche delle parti processuali). Si può verificare ogni qualvolta il giudice non valuti la prova così come offerta dall’istruzione ma faccia prevalere il proprio ruolo di garante della collettività e dunque si trovi a decidere in base a ciò che ritiene giusto per il ruolo ricoperto più che in base agli atti.

Josef K mental trap: è la trappola mentale dell’accusato. Nel celebre romanzo di Kafka (Il Processo) Josef K viene accusato e condannato e il protagonista stesso non trova la modalità per dimostrare l’infondatezza dell’accusa.

Giovanna d’Arco mental trap: la trappola mentale di Giovanna d’Arco può colpire il giudice nella valutazione della deposizione vittima del reato. In questi casi il giudice può dare eccessivo credito alla versione di chi lamenta di aver subìto un reato oppure, al contrario, la vittima può essere, a suo volta, “vittima” di uno svilimento delle proprie ragioni.

Dr. Watson mental trap: è la trappola mentale del poliziotto. Investe il giudice ogni qualvolta crede alla ricostruzione della polizia anche se questa diventa un postulato.

Black money mental trap: la trappola del “denaro nero” riguarda il giudizio che attiene ogni utilizzo sospetto del denaro stesso.

Eyes mental trap: la trappola mentale degli occhi attiene a tutte quelle situazioni in cui il giudice deve porsi nella condizione di “cosa avrebbe visto” l’agente prima della commissione del fatto e non già “guardando” al suo comportamento in ragione dell’evento accaduto.

Ink mental trap: la trappola dell’inchiostro si ha ogni volta in cui il giudice è chiamato a decidere sulla base di documenti o, ancora di più, di intercettazioni trascritte. Queste ultime possono infatti essere lette in svariati modi e sensi in quanto la trascrizione scritta delle medesime non permette di comprenderne i toni e dunque il valore “indiziante” delle medesime.

Due process of law mental trap: la trappola mentale del “giusto processo” è l’errore di sistema processuale per cui il giudice sente per prima la versione dell’accusa. Questa garanzia giuridica per l’accusato, sul fronte delle scienze cognitive, costituisce trappola mentale in quanto i neuroni vengono “segnati indelebilmente” dalla prima versione proposta (al giudice).

Pop justice mental trap: la trappola causata dal “lato pop” della giustizia attiene a tutte quelle influenze esterne che possono riverberarsi sul processo (si pensi alla così detta giustizia mediatica) ma ancora di più riguarda la funzione general preventiva della pena. Questa infatti può portare il giudice a decidere proiettandosi verso la società e non già rimanendo strettamente legato alla prova.

Old sage mental trap: è la trappola mentale del “vecchio saggio” o “saggio precedente giurisprudenziale” preso in esame dal giudice. In realtà è esperienza comune verificare come la giurisprudenza, anche consolidata, non sia sempre immediatamente utilizzabile come “stare decisis” in una nuova.

Hans Georg Gadamer mental trap: la trappola mentale di Georg Gadamer si verifica ogniqualvolta in giudice applica l’ermeneutica in luogo dell’epistemologia. L’ermeneutica, infatti, metodologia tipica dello storico, consente di “riempire” i vuoti informativi usando la scienza propria dell’interprete. Comprendere le trappole mentali del giudice non è un modo per svilirne l’attività ma, anzi, per consentire una maggior aderenza giuridica delle sentenze alle esigenze imposte dalle regole sulla prova penale.

Luca d’Auria

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