Hikikomori: l’universo in una stanza

Un ritiro dalla vita sociale e da tutto ciò che la caratterizza. Ogni forma di comunicazione con l’esterno viene interrotta, la stessa identità inizia a vacillare sotto il peso del silenzio che l’isolamento porta con sé. Questi sembrano essere i denominatori comuni dell’hikikomori, fenomeno dilagante in Giappone che sembra stia assumendo i contorni di una vera e propria “piaga sociale” e le cui vittime sono soprattutto i giovani.

Hikikomori, espressione formata dalle parole hiku (tirare) e komoru (ritirarsi), fu coniato dallo psichiatra Saito Tamaki per definire l’autoisolamento tipico di un giovane che sceglie un luogo sicuro come la stanza della propria abitazione per fuggire dalla società e da tutto ciò che essa rappresenta, ma che con il passare del tempo diventa una vera e propria prigione di solitudine. Un esilio volontario che può durare mesi o in alcuni casi anche molti anni, un allontanamento da tutto ciò che costituisce e scandisce la nostra quotidianità: la scuola, il lavoro e le interazioni con gli altri e che spesso comprende anche la totale mancanza di comunicazione e relazione con gli stessi membri del nucleo familiare. Un allontanamento che rappresenta e la paura del confronto con tutto ciò che costituisce l’altro da sé, che si ritiene in quel preciso momento pericoloso per la propria psiche e che dà vita a una forma di fobia sociale. È possibile rintracciare i fattori determinanti che spingono un giovane nel pieno della sua forza fisica e psicologica a isolarsi tra le mura di casa, riducendo al minimo lo scambio con il mondo esterno? Un fenomeno come quello dell’hikikomori non può essere semplicemente associato a una comune forma depressiva, dal momento che ha delle specificità che lo rendono un fenomeno complesso dal punto di vista clinico e sociale.

L’aspetto sociale, sottolineato da molti sociologi e antropologi, riveste un’ importanza fondamentale e può essere delineato nelle sue forme generali. La cultura tradizionale nipponica è costituita al suo interno da gerarchie, ruoli sociali e familiari molto ben delineati che impediscono una mobilità sociale libera da vincoli. Il conformismo e l’omologazione sembrano i caratteri dominanti, dal momento che nella società giapponese l’individualità assume valore solo in rapporto alla collettività e al gruppo di appartenenza. Da questo punto di vista l’identità del singolo dipende ed è vincolata per tutto il corso dell’esistenza all’identità sociale e al riconoscimento all’interno della scala sociale. Il confucianesimo, dove il modello di società è rappresentato dalla famiglia, fa sentire senza dubbio la sua influenza. In tal senso, lo stato si configura come una grande famiglia, dove i singoli devono adempiere ai loro compiti solo rispetto al grande meccanismo sociale.

Il ruolo che riveste la famiglia è un altro tassello importante da considerare se si vuole indagare il fenomeno dell’hikikomori. Le famiglie di origine, infatti, soprattutto nei confronti dei giovani di sesso maschile, riversano grandi aspettative in termini di progettualità futura e realizzazione professionale: lo studio e il lavoro sono aspetti determinanti nella vita di un giapponese di classe sociale medio-alta. È proprio per cercare di sfuggire alle pressioni sociali che l’hikikomori cerca di preservare la propria integrità psicologica scegliendo l’isolamento. La perdita del proprio ruolo all’interno della società e della famiglia sgretola l’identità generando ansia, stress e senso di colpa. Proprio per questo la famiglia e le mura domestiche vengono viste dall’hikikomori come un vero e proprio rifugio. Sono le stesse famiglie che spesso, a causa della vergogna generata dal bisogno di salvare a tutti i costi le apparenze e dalla paura del giudizio altrui, non chiedono aiuto, minimizzando e nascondendosi dietro a una passiva indifferenza: «Il ragazzo in hikikomori rimane in famiglia, sta uchi (dentro), dove non è mai rifiutato, dove può provare vergogna senza essere biasimato, dove la sua rabbia è consentita e persino la violenza è accettata»1.

Solo costruendosi una realtà alternativa, il giovane che ha fatto della solitudine e del silenzio la sua scelta esistenziale riesce a sfuggire allo sguardo dell’altro e alla perdita totale della propria identità che quello sguardo rappresenta. Ecco allora che l’ “altro”, da occasione di dialogo, confronto e ricchezza per lo sviluppo della personalità, diventa una minaccia da cui fuggire.

Il fenomeno dell’hikikomori getta luce sui limiti di una società che ha fatto dell’economia e del prestigio sociale fattori determinanti per lo sviluppo del singolo, in cui, tuttavia, le attitudini e i desideri dell’individuo sfumano, schiacciate da un senso di appartenenza invalidante e dal peso dell’omologazione.

Greta Esposito

NOTE:
1. C. Ricci, Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, p. 41-42

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Il pendolo di Schopenhauer: l’attesa

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«La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra dolore e noia, passando attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia»1.

Arthur Schopenhauer ritiene che sia un pendolo a giostrare la nostra vita e l’attesa dell’oscillazione che ne scandisce il tempo è ciò che ci è concesso per sperare. Di questo tempo nel mezzo, dell’attesa che impregna ogni attimo parlerà questo promemoria filosofico.

Siamo indiscutibilmente proiettati verso il futuro. Siamo in perenne attesa che qualcosa accada per andare avanti e magari qualcosa possa migliorare.

Aspettiamo una svolta per l’Italia, una politica più trasparente e che si rivolga in primis sempre al bene dei suoi cittadini, ma intanto con il sarcasmo di Crozza ci consoliamo e ridiamo della sua corruzione. Ci crogioliamo nel tempo in attesa di una democrazia più vera e concreta, se mai sarà possibile.

C’è chi aspetta una casa dopo che il terremoto gli ha rubato la sua. Le macerie che sono rimaste non sono solo che briciole di quel tetto pieno di ricordi che era una volta. E il freddo e il gelo che non dà tregua in quelle zone non fa che peggiorare la situazione e sperare però che torni il prima possibile il sole o uno squarcio di primavera. Si attendono aiuti e volontari perché possa tornare un po’ di normalità dopo tante scosse che non hanno travolto solo la terra.

Si attende una proposta di lavoro, o almeno si cerca un posto. La disoccupazione è solo uno stato di passaggio dal non fare al fare che non dovrebbe farsi attendere troppo. Se sei giovane c’è chi dice che di tempo ce n’è sempre e bisogna fare esperienza per trovare un lavoro stabile, ma non si vive di sole esperienze se manca il sostegno economico dietro a queste. La voglia di imparare e l’impegno dovrebbero essere ripagate come giusto meritano e non essere sottopagate o peggio, sfruttate.

Se sei una mamma o un papà anche tu hai aspettato con pazienza per nove mesi qualcosa di meraviglioso, che poi è arrivato e ti ha sconvolto la vita. Meritava, non è vero?

L’importante è il viaggio e non la meta, qualcuno diceva, e aveva ragione: siamo bloccati nel tempo che passa, un attimo prima era ora, e qualche secondo dopo è passato. L’unico modo per sopravvivere a questo è lasciare che gli eventi ci attraversino, rimanendo però saldi e presenti per viverli.

In fondo è una vita che aspettiamo qualcosa e la risposta forse è molto semplice: speriamo sempre in un futuro che sia migliore.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:

1.Aforisma tratto dall’opera “Il mondo come volontà e rappresentazione” 

[Immagine tratta dall’opera L’attesa di Baron Daniele (Google immagini)]

Per uno sviluppo sostenibile: intervista all’ex ministro Enrico Giovannini

Abbiamo raggiunto telefonicamente Enrico Giovannini sulla via del ritorno dal Festival di Internazionale a Ferrara, svoltosi dal 29 Settembre al 2 Ottobre scorso. Giovannini, economista e statistico, già presidente dell’Istat, ex ministro del Lavoro e delle Politiche sociali del governo Letta, da sempre attento ai temi della sostenibilità, è ora fondatore e portavoce dell’ASviS (Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile): si tratta di una rete di associazioni del mondo civile ed industriale italiano con l’obiettivo di sensibilizzare la società e la politica italiana rispetto agli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU in materia di sviluppo sostenibile. L’abbiamo contattato il giorno dopo il suo intervento dal titolo Un’altra idea di mondo al Teatro Nuovo di Ferrara, gremito di giovani, nel quale ha parlato delle varie proposte della sua associazione e del futuro dell’Italia.

 

Giovannini, lei è portavoce dell’ASviS (Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile): ‘sviluppo sostenibile’ oggi ci sembra un termine quasi abusato, malamente applicato all’interno dei contesti, probabilmente perché il concetto non è realmente capito. Ce lo può spiegare?

Per molti anni il concetto dello sviluppo sostenibile è stato declinato  fondamentalmente in una dimensione ambientale. Per fortuna non è più così. Dalla commissione Bruntland, che aveva parlato di uno sviluppo sostenibile articolato in quattro dimensioni – economica, ambientale, sociale e istituzionale – è passato gradualmente un concetto che è più esteso della pura dimensione ambientale. Dopodiché, l’anno scorso, con l’assunzione dell’agenda 2030 dell’ONU e la fissazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile, questa visione – come si dice in modo abusato – a 360 gradi, è stata riconosciuta come l’unica possibile. Sul piano della misurazione da molti anni gli statistici internazionali hanno fatto presente che la sostenibilità di un modello di sviluppo ha a che fare con la quantità di capitale fisico, sociale, naturale e umano che ogni generazione trasmette alla generazione successiva; quindi effettivamente ormai, nonostante il rischio di abuso di cui lei parla, penso che il concetto sia stato almeno definito in modo chiaro.

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Quali possono essere i mezzi e le strategie più efficaci affinché si generi una maggior sensibilità, una sensibilità condivisa nei singoli a queste tematiche, che sono dunque estese oltre il problema ambientale?

Abbiamo creato l’ASviS, l’Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile, proprio per sostenere in Italia l’applicazione dell’intera agenda 2030, di tutti i 17 goals e i 169 targets che vanno dalla povertà alla pace, alla violenza, alle disuguaglianze, all’educazione alla salute, alle tematiche ambientali, ma riguardano anche l’occupazione e la crescita del benessere. Noi di ASviS abbiamo sposato proprio questa logica nel rapporto che è stato presentato il 28 Settembre alla Camera dei Deputati, e che è accessibile sul sito www.asvis.it. Ecco, queste 126 organizzazioni della società italiana che formano ASviS, rappresentano complessivamente più di duemila associati che si sono messi insieme per delle proposte molto concrete. Per esempio abbiamo suggerito di inserire il principio di sviluppo sostenibile nella parte prima della Costituzione, come è stato fatto in Francia e come è stato fatto in Svizzera, perché, se lo sviluppo sostenibile deve guidare non solo le politiche ma anche i comportamenti dei singoli e delle imprese, trovo questo uno dei principi cardine su cui vogliamo che si basi tutto, quindi anche le future leggi. Abbiamo inoltre proposto che il Presidente del Consiglio prenda in mano l’agenda complessivamente, trasformando il comitato interministeriale per la programmazione economica in un comitato interministeriale per lo sviluppo sostenibile proprio per marcare un cambiamento di paradigma, in cui non ci si concentri soltanto sulla crescita economica. E poi ci sono altre iniziative istituzionali tra cui l’avvio di una campagna informativa continua su questi temi, ma soprattutto l’educazione allo sviluppo sostenibile nelle scuole. Per questo siamo in contatto con il MIUR per sviluppare dei programmi in tale direzione. È importante che le università italiane, tramite la conferenza dei rettori, abbiano creato la rete delle università per lo sviluppo sostenibile, volta non solo ad applicare i principi di sostenibilità alla mobilità degli studenti, ma che condivide anche una strategia a tutto campo che ha a che fare con la ricerca e con i programmi didattici. Per ciò che riguarda invece le proposte di politiche concrete, queste sono articolate intorno a sette assi: il primo asse ruota intorno al cambiamento climatico e all’energia, il secondo riguarda le disuguaglianze, non solo di reddito o di ricchezza ma anche di accesso, di opportunità e di genere, il terzo asse riguarda l’innovazione e il lavoro, il quarto asse ha a che fare con il capitale umano (che vuol dire salute, istruzione stili di vita), il quinto riguarda il capitale ambientale e quindi le dimensioni ambientali, poi ancora le città, le infrastrutture, il capitale sociale e infine la cooperazione internazionale.

Esiste una differenziazione a livello strategico nel loro coinvolgimento alle politiche sostenibili? Qual è il loro ruolo sia in termini ricettivi che attivi?

Le rilevazioni che sono state fatte in Italia (ma non solo), mostrano come i giovani siano molto più ricettivi su queste tematiche, hanno molto più la consapevolezza dell’interdipendenza nel nostro Paese rispetto ad altri Paesi, e sono più sensibili ai temi della sostenibilità ambientale. Trasformare tutto questo in azione è credo uno dei grandi interrogativi che le società in particolare occidentali hanno, perché è evidente che questo nuovo paradigma non promette necessariamente umori meravigliosi e per definizione migliori del passato.

Questo è un cambio importante. Vuol dire passare da un concetto di crescita quantitativa a uno di benessere anche qualitativo. Però è evidente che in questa prospettiva la disoccupazione giovanile, che in Italia è così alta, non aiuta, anzi taglia le gambe a quella che sappiamo essere la generazione più istruita che questo Paese abbia mai avuto. Quindi come riuscire a coinvolgere i giovani è uno dei temi anche per l’ASvis  e stiamo prendendo contatto in particolare con associazioni studentesche e soggetti che mettano i giovani sul mercato del lavoro, per coinvolgerli attivamente, non semplicemente come ricettori, ma come attivi partecipanti. Ieri a Ferrara sono stato molto lieto che il teatro fosse pieno di giovani interessati e anche al termine dell’incontro ho avuto modo di conversare con loro. Insomma credo che questa, essendo un’agenda per il futuro, sia un’agenda che le giovani generazioni debbano usare per cambiare un modello di vita insostenibile.

Lei ritiene che oggi si possa parlare di un’etica della sostenibilità?

Sempre di più ci sono persone che a causa della crisi di questi anni hanno scoperto di consumare in modo superfluo. E questa è una ragione per cui, in Italia e non solo, gli stili di consumo stanno cambiando. Certamente negli altri Paesi europei c’è una disponibilità molto maggiore, per esempio per una mobilità non basata sul mezzo privato. Nelle città italiane il mezzo privato è ancora considerato fondamentale; in quelle spagnole, danesi, nel nord Europa, sono invece considerati prioritari altri strumenti, in nome di una condivisione dei mezzi. Quindi è molto difficile dare giudizi in modo così generalizzato. L’ultima considerazione da fare è che molte imprese stanno effettivamente cambiando approccio. Alcune si stanno facendo semplicemente un new dressing: usano cioè il concetto di ‘sviluppo sociale’ o ‘sostenibilità’ come uno specchietto per le allodole in termini pubblicitari; molte altre invece hanno intrapreso veramente delle trasformazioni importanti. Il fatto che a fine anno finalmente l’Italia dovrebbe recepire la direttiva europea per la rendicontazione non finanziaria (cioè l’obbligo per le imprese di rendicontare attraverso bilanci che non guardino solo alle dimensioni economiche, ma anche a quelle sociali e ambientali) può aiutare a cambiare questa cultura. Dicevo, molto sta cambiando ma troppo lentamente perché il tempo che abbiamo davanti per cambiare modello di sviluppo non è molto, prima di avere il collasso di alcuni sistemi.

Concludiamo con una questione che ci è (ovviamente) cara: che cosa pensa della filosofia? Ritiene che possa predisporre l’apertura mentale giusta per accogliere ed anche attuare delle politiche più consapevoli?

Quand’ero ragazzo, dovendo scegliere che facoltà frequentare, l’alternativa era tra Filosofia ed Economia. Alla fine scelsi Economia, ma ritenendo che l’economia (soprattutto moderna) non debba essere pura matematica applicata attraverso modelli rigidi, ma che la componente umana sia assolutamente fondamentale per capire comportamenti e movimenti che nella società sono molto più profondi di quelli insiti nei modelli economici. Se filosofia vuol dire la riflessione sui fini ultimi dell’uomo, della società, e vuol dire anche l’elaborazione di modelli che aiutino in modo più complessivo, olistico, a trattare le problematiche che oggi abbiamo davanti, indubbiamente la filosofia può contribuire a questo modello di sviluppo, a questo nuovo modo di concepire le relazioni tra economia, ambiente e società, e soprattutto a rendersi conto che i singoli non sono tali ma sono sempre parte di una società che è viva, che evolve ma non necessariamente nella direzione giusta. Quindi tutti sono chiamati a contribuire a questo sforzo di portare il mondo su un vero e proprio sentiero di sviluppo sostenibile.

 

Dalle parole di Giovannini si evince quindi il volere di unire un forte spirito umanistico a politiche economiche e sociali concrete per cambiare il modello di sviluppo che conosciamo oggi. Importante è anche la visione di sostenibilità che comprende tantissimi ambiti interconnessi tra loro: dall’ambiente in primis, all’istruzione, alla salute, al lavoro. Non bisogna pensare di cambiare singoli ambiti della nostra vita, ma di cambiare il nostro modello di vita affinché sia più sostenibile in tutti i sensi e garantisca maggiore giustizia e inclusione sociale. Le premesse e le volontà popolari sembrano esserci, come testimonia la nascita di Asvis. Ora la palla, come sempre, passa alla politica.

Tommaso Meo

[Le immagini sono tratte da Google Immagini e da www.onuitalia.com]

Brexit: il Leviatano capovolto

Al di là della valutazione sull’esito del referendum, abbiamo assistito a una pagina di storia importante per l’Unione Europea e per la storia in generale: il Regno Unito entrato nel mercato unito nel 1973 ha deciso di abbandonare l’Unione Europea. La Filosofia e il pensiero hanno l’obbligo di provare a interpretare la contemporaneità e le vicende che ci riguardano tutti, qualcosa è cambiato.
Le mutazioni derivanti dall’innovazione e la svolta digitale stanno modificando in maniera indelebile le democrazie contemporanee, assistiamo sempre di più alla richiesta di partecipazione, alla disintermediazione che sembra minare in profondità l’idea stessa di democrazia rappresentativa. La democrazia rappresentativa sorge da esigenze palesi, non tutti possono decidere tutto o essere informati su tutto, servono luoghi preposti alla decisione, infrastrutture precise e la decisione non può essere sempre estesa a tutti, eppure il modello democratico che vede nel Regno Unito un esempio a partire dal 1700 sembra entrare in crisi in una nuova richiesta di partecipazione.

Il Regno Unito è la patria di Thomas Hobbes, teorico della turborappresentatività: tutti i cittadini devono stringersi intorno a un despota illuminato e dar così vita al Leviatano; oggi quel Leviatano sembra essersi capovolto, le classi dirigenti sembrano sempre più in balìa di una smodata richiesta di partecipazione che non riescono a canalizzare. Del resto una delle lamentele ricorrenti relative all’Unione Europea è proprio la sua distanza, il sembrare scarsamente rappresentativa della volontà del popolo o di una nuova categoria che serpeggia sempre più nel dibattito pubblico quotidiano “la gente”.

«Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto – per parlare con più riverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa…»
Thomas Hobbes, Leviatano

Hobbes oggi ci sembra un autore estremo, dispotico, conservatore e accentratore, ma nel contempo appare altrettanto rischioso far esprimere tutti su tutto se non correttamente informati. Studi recenti mostrano come l’analfabetismo funzionale sia in fase dilagante mentre l’istruzione di base delle persone è complessivamente migliorata, ma se è vero che ormai quasi tutti sanno leggere pare che non tutti siano in grado di interpretare correttamente un testo. La rete, internet e la digitalizzazione sono strumenti potentissimi per l’informazione, ma diventano anche veicolo di disinformazione: quante volte abbiamo visto amiche e amici cadere tranello in qualche bufala? Perché la tentazione di leggere superficialmente e condividere alle volte è forte, l’approfondimento o il controllo delle fonti risulta faticoso e complesso – anche chi vi scrive adesso un paio di volte è cascato in qualche idiozia per pigrizia. L’editoria così come l’abbiamo conosciuta è in crisi e il controllo delle fonti sembra sempre più superato, la comunicazione si è velocizzata a discapito della profondità; e non lo scrivo con nostalgia, non si torna indietro, ma bisogna farci i conti perché la circolazione di informazioni fallaci comporta anche la costruzione di opinioni meno consapevoli o per nulla consapevoli, irrazionali e dettate spesso da rabbia o rivendicazione.

Guardando la BBC stupisce vedere certi intervistati dire:
«I’m shocked e worried. I voted Leave but didn’t think my vote would count. I never thought it would actually happen». Oppure: «What I have done? I actually didn’t expect the UK to leave».
Persone che in fondo non pensavano che il loro voto avrebbe contato, che lo hanno fatto superficialmente o per esprimere un malessere. Persone che magari lo hanno fatto nella convinzione, anche questo è un mito ricorrente nel dibattito contemporaneo, al motto “tanto i poteri forti non ce lo faranno mai fare!”. Ecco, questa vicenda ha dimostrato che si può uscire dall’Europa, che la democrazia diretta può esprimersi liberamente; non ci sono limiti e proprio per questo dovrebbe renderci tutti più responsabili, perché tutti andiamo a determinare quel Leviatano molto strano di cui ci parla Canetti nel libro Massa e Potere. L’autore impiegò 38 anni a scrivere questo libro, ci tengo a segnalarlo per far capire quanto è complessa questa bestia strana che chiamiamo “Massa”, che è formata da tutti e nel contempo è anche “altro” dalla mera somma di tutti noi.
L’Europa, per le generazioni che l’hanno voluta, era l’orizzonte per sentirsi di giorno in giorno in una “casa”, in un posto più sicuro dopo che la divisione intestina degli Stati Nazione aveva portato a quella deriva culminate nelle due guerre mondiali; oggi ci avventuriamo in acque inesplorate dove ci si chiede fino a che punto si sfogherà questa spinta centripeta che potrebbe vedere la disarticolazione del Regno Unito con la separazione di Irlanda del Nord e Scozia. Ma non è solo questo: in Spagna si inizia a chiedere che Gibilterra, dove ha ampiamente vinto al 96% il Remain, possa tornare spagnola.

Hobbes afferma che il suo Stato assoluto può degenerare in una tirannide, tuttavia ripete a più riprese che questa situazione sarà sempre migliore e più sopportabile della guerra civile. Estremo? Decisamente sì. Però bisogna anche far attenzione ad invocare la democrazia diretta attraverso il referendum in maniera poco accorta, perché il paese si può anche spaccare generando fortissime tensioni sociali tra le parti.

C’è chi ha ridotto questo voto alla disuguaglianza derivante dall’Unione Europea e il declino della classe media, ma è interessante notare invece che i giovani britannici, i quali certamente sono il gruppo sociale che soffre più di tutti delle accresciute disuguaglianze economiche, hanno votato in massa per restare, mentre chi soffriva meno, ovvero gli anziani, ha deciso di lasciare. C’è da aggiungere che molti anziani hanno fondi pensione integrative molto sensibili alla fluttuazione della sterlina e che quindi subiranno maggiormente la sofferenza della moneta.

Non esprimo giudizi, ma pare che l’epoca contemporanea sia sempre più in balìa di un Leviatano capovolto: non un monarca al potere, ma l’egemonia della massa nell’epoca della rete e della democrazia diretta, dove ognuno vale uno, ma non sempre si può garantire che ognuno sia informato correttamente.

La Filosofia e i saperi umanistici forse possono essere d’aiuto nella acquisizione di una maggior consapevolezza, perché senza consapevolezza non può essere fatta una scelta davvero genuina: possiamo scegliere nell’ignoranza, ma restiamo pur sempre responsabili della nostre azioni – come dice Aristotele -, quindi meglio assicurarci di aver capito bene cosa stiamo scegliendo prima di impugnare la matita e fare una X su un foglio elettorale.

Matteo Montagner

Tell Tale Signs: il cinema italiano riparte da Londra

E’ colpa nostra se il cinema italiano non viene valorizzato a dovere nel nostro Paese, o è merito delle altre nazioni che sanno sfruttare bene tutto quello che abbiamo da offrire? L’annosa questione della cosiddetta “fuga di cervelli” dall’Italia non riguarda solo l’ambito della ricerca universitaria e scientifica, ma finisce per coinvolgere sempre più spesso anche il mondo della cultura. Sono infatti tantissimi i registi e gli autori che in questi ultimi anni hanno lasciato la nostra terra per cercare fortuna altrove, con risultati spesso gratificanti.

Una di loro è Ginevra Gentili, giovane regista di origini toscane, trasferitasi a Londra già da alcuni anni. Negli ultimi mesi l’autrice ha dato vita a un progetto molto interessante, attraverso una campagna di raccolta fondi sul sito newyorkese specializzato in crowdfunding: Kickstarter. Lo scopo è quello di finanziare il suo prossimo cortometraggio ambientato proprio nella capitale inglese. Una produzione britannica che prende vita da una mente italica. “Sono rimasta affascinata dai vari incontri che ho fatto nel corso degli anni qui a Londra, dalle storie che si celano dietro i tatuaggi che marchiano a vita la pelle delle persone. La mia intenzione è quella di raccontare la storia di un personaggio danneggiato nel profondo, attraverso i tatuaggi che si fa imprimere durante la sua esistenza, i suoi segni rivelatori.” Tell tale signs (in inglese “segni rivelatori”, per l’appunto) è un film che già dal soggetto si preannuncia molto interessante per la sua capacità di unire temi molto diversi tra loro come l’amicizia, la realizzazione di sé stessi, l’amore e gli abusi psicologici subiti all’interno di una famiglia. Sentimenti che lasciano un segno prima di tutto al nostro interno ma che possono essere esternati grazie alla realizzazione di un tatuaggio. All’attore inglese Frankie Wilson è stato assegnato il ruolo di protagonista. Conosciuto in patria per le serie tv Cradle to Grave in onda su BBC Two, Still Life e Acceptance il ragazzo sembra destinato ad avere una carriera molto promettente nel corso dei prossimi anni.

Tell tale signs non è solo un film, è un’opportunità da non farsi sfuggire per tutti coloro che credono nel cinema e nella valorizzazione dei nostri talenti all’estero. Per far iniziare le riprese del film, la produzione deve infatti raggiungere la quota di 15 mila sterline attraverso una serie di donazioni online. A 18 giorni dalla scadenza, la produzione ha già raccolto una somma di 6846 sterline. Un ottimo risultato che però non basta per far iniziare le riprese. Chiunque di voi voglia contribuire alla causa può farlo liberamente cliccando su questo link. Per tutte le persone che faranno una donazione sono previsti svariati premi e riconoscimenti che vanno dal dvd ufficiale del film (donando un importo pari a 25 sterline), al titolo di associate producer con la possibilità di vedere il proprio nome all’interno di un progetto che ha l’obiettivo di girare numerosi festival europei, esportando il suo modello di produzione cinematografica in più Paesi possibili. Se non possiamo aiutare il nostro cinema in Italia quindi, possiamo sempre cercare di aiutarlo a farsi conoscere all’estero grazie al nostro sostegno. Sempre più spesso infatti, non sono i film girati grazie ad avventate sovvenzioni statali quelli in grado di farci uscire appagati dai cinema, ma sono l’iniziativa e il coraggio dei giovani talenti italiani le caratteristiche giuste per raccontare storie che siano ancora in grado di farci emozionare. L’importante è accorgersene in tempo, riuscendo a dar loro il valore che meritano.

Alvise Wollner

Il Festival della Filosofia da spettatore

Eventi come il Festival della Filosofia, tenutosi in Settembre nelle città di Modena, Carpi e Sassuolo, sono preziosi: non solo perché si ha l’opportunità di ascoltare le riflessioni di autori di spessore; ma anche – o meglio: soprattutto- per liberarsi di alcuni pregiudizi riguardo ai nostri tempi.

Il festival di quest’anno, che ha avuto come tema l’ereditare e le problematiche connesse all’eredità, alla genitorialità e alla figliolanza, è stato uno dei colpi che è necessario e giusto vibrare contro la retorica – troppo facile- che va predicando l’assenza di interesse, da parte degli uomini del nostro tempo, per la filosofia e la cultura nel suo senso più ampio. Un notevole numero di persone, infatti, ha affollato le città di Modena, Carpi e Sassuolo per ascoltare riflessioni autorevoli: l’uomo del nostro tempo (forse più che mai) si misura con gli interrogativi dell’esistenza e cerca punti di riferimento.

Non si vive la rassegnazione totale all’assenza di senso, si dà ancora importanza alle questioni fondamentali. E si vuole ancora udire la voce della filosofia, il cui verbo è talvolta terribile e dal quale, sulle prime, si vorrebbe fuggire quando non lo si riesce a confinare nelle aule lontane delle università; quel verbo che è pur sempre necessario che risuoni. E che risuoni per tutti.

Emanule Lepore

[immagine tratta da Google Immagini]

BEATRICE TACCOGNA E LA SUA ARTE

 

Quando l’Arte passa di generazione in generazione, questo è il caso di Beatrice Taccogna: nonno e padre artisti hanno trasmesso la loro passione alla giovane. Diplomata in Scenografia d’Arte presso l’Istituto d’Arte, ora studia all’Accademia di Belle Arti di Firenze dove partecipa anche a mostre organizzate da essa oltre ad altre esposizioni.

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Beatrice ama, sia come pittrice che come persona, Frida Kahlo, traendo ispirazione da questa artista, «dall’insieme delle sue opere che raccontano una storia tormentata quanto piena di emozioni», è grazie a questo che è arrivata a trovare lo stile che ora utilizza e infatti i suoi, guardando attentamente, possono ricordare i quadri di Frida ma con un modo di dipingere molto personale.

Dipingendo ciò che le parole non possono spiegare, Beatrice Taccogna si ispira molto anche al suo stato d’animo, trasponendo su tela le sue emozioni, raccontando di sé stessa, di lati che non sempre conosce prima di trasformarli in immagini e colori, ricordandosi sempre che l’Arte è qualcosa che nessuno mai potrà toglierle. Le sue opere parlano quindi dell’artista stessa che si ritaglia un momento tutto suo nell’atto di dipingere, molto spesso dipinge ritratti inconsci nei quali si rivede soltanto alla fine. Beatrice ammette che forse è un po’ egoista in questo ma chiunque può identificarsi e apprezzare i suoi particolari lavori, costituiti da emozioni contrastanti. Non crede che un artista debba forzatamente imporsi un messaggio sociale legato alla propria arte ma, e concordo in pieno, a volte si può creare Arte per il semplice piacere di farla.

La giovane artista non si sente legata a un particolare stile nel quale identificarsi, anche questo si nota molto ammirando i lavori; per creare le sue opere usa spesso olio, acquerello e stencil, ultimamente si è avvicinata anche alla forma artistica del collage.

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Del nostro Paese pensa, come tutti, «che abbia un patrimonio artistico senza uguali al mondo ma nonostante questo i giovani artisti hanno grandi difficoltà a trovare spazi e occasioni per emergere» in questo campo, un grande problema che si presenta per tutti noi che cerchiamo di farci conoscere per la nostra passione. «I costi per “fare Arte” e presentarsi al pubblico sono molto elevati quindi o si ha la fortuna di avere proprie possibilità economiche o si rischia di restare sempre limitati in ambiti locali», infatti sono davvero poche le persone disposte ad aiutare i giovani in modo gratuito, purtroppo la maggior parte vede l’Arte semplicemente come fattore economico, ragione per la quale lavorano con artisti già conosciuti che possono pagare lasciando i giovani nell’ombra.

Come molti anche Beatrice, per il futuro, spera di poter viaggiare «e ,anche se può sembrare un’utopia visti i tempi» afferma l’artista, vivere della sua arte e creare spazi che diano possibilità a giovani artisti come lei di potersi esprimere e farsi conoscere, luoghi di cui si sente sicuramente gran bisogno.

 

[Immagini concesse da Beatrice Taccogna, informazioni ottenute tramite intervista all’artista stesso]

Chi? Maddalena Sperotto, la moda è mamma!

“Chi, loro?” vuole dare voce ai giovani di oggi, non solo attraverso le mie parole ma anche per mezzo dei loro stessi racconti.

Voci multiple e completamente diverse tra loro che compongono un unico coro cantando l’inno della realizzazione, dell’impegno e della passione.

Oggi vi presento Maddalena Sperotto, classe 1987, mamma e stilista della sua linea personale Corallo Bambù.

– Maddalena, ragazza under 30, mamma e stilista: come è iniziato il tuo percorso nel mondo della moda?

La moda è sempre stata una mia passione, fin da bambina amavo giocare con i vestiti delle bambole e sognavo di fare la stilista. Il mio percorso in questo mondo é iniziato quando mi sono iscritta all’Istituto Marangoni di Milano, dove ho conseguito il titolo di “Fashion Designer” e la soddisfazione di vedere gli outfit creati per la sfilata finale pubblicati su Vogue.it . Questa esperienza mi ha, inoltre, dato la possibilità di trovare lavoro come stilista, prima alla Replay per uno stage di sei mesi e poi da Basile a Milano dove ho lavorato per due anni, prima di decidere di lanciarmi nell’avventura di Corallo Bambù.

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– Corallo Bambù, così si chiama la tua linea di abiti sartoriali: perché questo nome e come descriveresti la tua linea?

Il corallo bambù è una reale qualita di corallo, ho dato questo nome alla mia linea perché mi piace utilizzare pietre dure e applicazioni ricercate per impreziosire i mie abiti ed inoltre le due parole vicine mi davano un sensa di raffinata freschezza. Posso descrivere il mio stile come molto femminile ed elegante, ogni abito é creato con attenzione sartoriale per mescolare con perfetto equilibrio silhouhettes moderne e tessuti ricercati.

– Essere giovane ed essere stilista: secondo te, nel nostro Paese, è un vantaggio nel tuo campo essere giovani o si rischia di sparire prima ancora di iniziare?

Credo che ogni fase della vita abbia i suoi pro e i suoi contro. La giovane età porta con sé molta energia, positività e quel pizzico di incoscienza che mi ha spinto a mettermi in gioco senza paura. Per quanto riguarda lo sparire ancora prima di iniziare, tema che non ci si possa ritenere immuni a nessuna età. 

– La moda è arte, è espressione artistica. Concordi con questa affermazione? Perché?

Certo concordo con questa affermazione. La moda è arte in quanto forma di espressione umana, penso che al pari della pittura e delle scrittura possa essere un tramite tra le nostre emozioni ed il mondo esterno.

– Molti considerano la moda qualcosa di superfluo se non frivolo. Cos’è, secondo te, che non arriva agli occhi di queste persone e quali passi in più dovrebbe fare la moda per convincerli a ricredersi?

Credo che ciascuno possa percepire la moda in modo diverso, anche non interessarsene é un’espressione del proprio essere e come tale va rispettata. Per questo non credo che si debba fare nulla per far ricredere queste persone, anche se sono sicura che nel vestirsi ogni giorno, fanno delle scelte basate su uno stile che, per quanto personale, é in qualche misura influenzato dalla moda.

– La moda come libertà espressiva parte da una riflessione dello stilista stesso: nel tuo caso, come nasce un nuovo modello?

I miei modelli ancora prima che da una riflessione, partono dall’istinto, da un’idea un po’ confusa che si materializza piano piano quando metto la matita sul foglio.

– Quale riflessione ti spinge a creare?

Come ti dicevo sono molto istintiva nella creazione dei miei modelli, mi influenzano sicuramente le tendenze del momento e i colori della stagione, ma, soprattutto, nelle forme e nei tessuti seguo molto il mio gusto personale.

– In un’intervista il regista Vanzina ha detto che ormai nessuno sa più cosa vogliano i giovani di oggi perché nessuno li racconta. Secondo te nessuno li racconta o nessun giovane ha il coraggio di esporsi? Perché?

Io direi che i giovani, non abbiano bisogno di essere raccontati, credo che siano perfettamente in grado di esprimere cosa vogliono con forza e senza timori.

– A tuo avviso, cosa vuole oggi un giovane della tua età?

Credo che i giovani della mia età abbiano tanta voglia di realizzarsi, e non solo in ambito lavorativo, ma anche negli affetti. Posso garantire che oltre agli sforzi per farsi una carriera, vedo molti miei coetanei ambire a farsi una famiglia.

– Cosa pensi della tua vita? Quali traguardi vuoi ancora raggiungere?

Non ti nascondo che sono molto contenta, sono da poco mamma ed é in assoluto l’esperienza più bella, un’avventura che ti obbliga a ridefinire la parola amore. Come traguardo, oltre a continuare con Corallo Bambù con ancora più impegno, voglio solo che la mia famiglia sia felice.

– Una domanda per il nostro sito: cosa pensi della Filosofia nei nostri giorni?

Penso che la filosofia, intesa come “amore per la conoscenza” in quanto tale, sia oggi un po’ sottovalutata, la conoscenza e lo studio sono sempre più spesso utilizzati come tramite per trovare un lavoro e la sete di sapere svilita dalla facilità con cui si possono reperire le informazioni. Ritengo pero’ che il pensiero filosofico sia ancora vivo, in quanto insito nella natura dell’essere umano. Insomma chi più chi meno, siamo tutti portati, in qualche momento della vita, a sederci a riflettere e porci quesiti esistenziali!

Maddalena è una dei tanti giovani che oltre ad essere immersa nel mondo del lavoro con entusiasmo e competenze, ha la capacità di conciliare carriera e famiglia, dimostrando quanto la volontà sia la migliore arma per arrivare al soddisfacimento dei propri obiettivi.

In bocca al lupo Maddalena!

 

Per gli interessati:

Questo il sito di Corallo Bambù

Questa la pagina FB

 

Valeria Genova

[Immagini di proprietà di Maddalena Sperotto]

Malinconia?! Portami via!

Spesso parliamo di giovani pensando alla spensieratezza, alla gioia di vivere, alle aspettative che hanno del loro futuro.

Poche volte si associano sentimenti negativi ai ragazzi quali malinconia, nostalgia, paura.

Credo che l’errore sia grave perché sono convinta che questi ultimi aggettivi descrivano accuratamente la fragilità di un giovane di oggi frustrato dalle responsabilità, dalla società opprimente, dalla superficialità delle relazioni e dalla perdita di genuinità.

Il giovane di oggi è ben diverso dal giovane dei decenni passati, perché non lotta più per un ideale da condividere con la società ma combatte per se stesso contro quella stessa società, colpevole, a suo avviso, di renderlo inerme di fronte alle difficoltà.

Ecco la prima parola chiave: difficoltà, la seconda è malinconia.

Le difficoltà o rafforzano o distruggono. O aggregano o allontanano.

Il giovane d’oggi spesso soccombe alle prime difficoltà, innescando in sé un processo di allontanamento da tutto e da tutti che porta alla malinconia della solitudine.

Occhi speranzosi che si tingono di un vuoto malinconico che rischia di portare all’oblio.

Non bisogna, però, essere negativi, perché è dal fondo che si costruisce, è con la paura che si diventa forti, è con la malinconia che si tocca l’apice della passività per poi riprendersi.

È proprio il senso originario della parola malinconia a dimostrarci quanto essa sia un sentimento inconsapevole ma di aiuto per  cogliere aspetti della vita invisibili ai più audaci, infatti essa nell’antichità significava un dolce oblio che, penetrando nell’animo, lo  rendeva profondo ed orientato all’introspezione, alla ricerca in sé.

Il malinconico è consapevole di esserlo ma impotente  di reagire a causa di una spiccata sensibilità che lo riporta ad analizzare il passato per poter proseguire la strada nel presente rivolto al futuro.

La malinconia nei giovani permette loro di conoscersi, vivendo nella frustrazione e nella difficile consapevolezza dell’impossibilità di certi eventi di cui nessuno può essere responsabile; proprio per questo il giovane malinconico piuttosto che audace è sempre da non sottovalutare, perché nasconde in sé un logico mondo dove il passato che spaventa viene tenuto in considerazione per le scelte future.

Malinconia

che fugge

…tra le dita.

 

Malinconia incostante,

derisa da pensieri futili.

 

Malinconia rabbiosa,

trepidante d’attesa

di ciò che non esiste.

 

Malinconia eterea,

flebile come un alito di vento.

 

Malinconia subdola,

divoratrice di anime sospese.

 

Malinconia dolce

che culla la speranza del sogni.

Valeria Genova
[Immagine tratta da Google Immagini]

 

La nostra vita ridotta a codice html

siamo solo noi
che non abbiamo più niente da dire
dobbiamo solo vomitare
siamo solo noi
che non vi stiamo neanche più ad ascoltare

Erano gli anni ’80 quando Vasco Rossi cantava questa canzone, inno di una generazione di ‘sconvolti’, di giovani che vivevano la vita appieno, anche esagerando, però sempre da protagonisti delle loro storie, sempre in prima linea nei loro rapporti e sempre reali.

All’epoca non esistevano i Social Network. I famigerati Social Network.

A quei tempi il non avere più niente da dire o il non avere più voglia di ascoltare erano da imputare ad un senso di ribellione nei confronti della società che scaturiva dalla necessità di essere liberi ed emancipati .

Oggi sono dovuti alla perdita inesorabile di relazione tra le persone.

Cosa vuol dire relazione?

Da sempre concetto problematico in Filosofia, essa può intendersi, semplicisticamente e in riferimento a due persone, come una particolare disposizione nei confronti di qualcuno che fa interagire due pensieri tra loro.

Così intesa la relazione è un rapporto di scambio tra due individui che decidono di condividere qualcosa.

Oggi questo tipo di concezione è  assolutamente messa in crisi dalla presenza sempre più massiccia di Internet e, soprattutto, dei Social Network; attraverso questi nuovi potenti mezzi di comunicazione le relazioni si fanno sempre più deboli, diventando virtuali.

La virtualità è ciò che contraddistingue la  vita dei giovani d’oggi: non più piazze, giardinetti, concerti, manifestazioni, ma una stanza e un monitor. Non più sensazioni tattili, visive, olfattive ed uditive ma solo contatti freddi fatti di immagini (ritoccate possibilmente) e di parole studiate, ragionate, dunque poco spontanee.

Dove sono finiti il coraggio di affrontarsi di persona, di litigare vis à vis e l’emozione di un ‘Ti amo’ sussurrato, di un abbraccio sincero? Possibile che tutto questo possa davvero essere sostituito da un semplice dispositivo tecnologico?

Chi sono loro? Chi sono i giovani di oggi e perché non lo sappiamo?

Semplice: loro si raccontano eccome, ma solo attraverso Facebook, Twitter e simili. Loro ci parlano per mezzo di Like, Tweet, Followers perché si sentono veri in un mondo fasullo.

La vita è virtuale e la relazione tradizionale fatta da “Ciao! Che bello vederti!’ diventa solo “Ciao! Ho visto su Facebook che ti sei sposato!’. Le loro informazioni girano nel web, quindi non hanno bisogno di andare a dire ‘a voce’ quello che sono o quello che fanno.

Una domanda, però, sorge spontanea…loro sono davvero quello che vediamo virtualmente?

Non parlo solo di foto o nomi che spesso sono fasulli (ma perché?), intendo capire se quello che i giovani scrivono sia davvero ciò che pensano, sentono, sognano o se sia solo ciò che serve loro per costruirsi un’immagine perfetta agli occhi degli altri.

Difficile dirlo e scoprirlo. Se lo chiedessimo a loro risponderebbero che il tutto corrisponde a realtà. Ma loro sanno cos’è la vera realtà? Veramente farebbero e/o direbbero tutto quello che scrivono? Io non ci credo, perché Internet è un fantastico modo per nascondersi, per celare la propria personalità fragile o violenta, emotiva o arrogante. È una vetrina dove ognuno espone la propria merce al meglio, chi per farsi accettare, chi per scatenare l’invidia altrui, chi per timidezza.

La realtà, oggi, è stata completamente assorbita dal virtuale.

[…]con il virtuale non ci si confronta. Nel virtuale ci si immerge, ci si tuffa dentro lo schermo. Lo schermo è un luogo di immersione, ed ovviamente di interattività, poiché al suo interno si può fare quel che si vuole; ma in esso ci si immerge, non si ha più la distanza dello sguardo, della contraddizione che è propria della realtà. […]Nella realtà virtuale tutto è effettivamente possibile, ma la posizione del soggetto è pericolosamente minacciata, se non eliminata.¹

Nel mondo virtuale i rapporti soggetto-oggetto e soggetto-soggetto non esistono più, tutto viene posto sullo stesso piano, senza alcuna differenza tra vero, falso, reale, immaginario e così via.

Il conflitto tra reale e virtuale è stato ben rappresentato da Jean Baudrillard in un’intervista² del 1999 in cui lo rivede in chiave platonica attraverso il mito della caverna:

L’immagine di Platone è diversa in quanto si riferisce alla figura di una nascita, di qualcosa di irreale in quanto ombra di qualcosa, ma tuttavia il mito parla comunque dell’essere. Ci sono ombre che si muovono in circolo e noi non siamo che il riflesso di un’altra sorgente, che esiste altrove, una fonte luminosa dinanzi alla quale però si interpone un corpo, e le ombre sfilano. Nel mondo virtuale, invece, direi che non ci sono né apparenze né essere, non esistono ombre giacché l’essere è trasparente, in un certo senso questo è il dominio della trasparenza totale. Noi siamo perciò come attraversati in qualche modo dai messaggi, dall’informazione, dai megahertz o che so io, da tutto quel che si vuole, poiché noi stessi siamo trasparenti all’interno della realtà virtuale, non abbiamo più un ombra. La nostra, se si vuole, è tipicamente l’epoca dell’uomo che ha perduto l’ombra. La famosa frase, “egli ha smarrito la sua ombra”, è una metafora che sta a indicare che abbiamo perso l’opacità, e in fondo l’essere stesso, lo spessore dell’essere, la sua profondità. Al contempo si è perduto anche il significato che l’ombra aveva un tempo, vale a dire la negatività, la morte. Del resto è vero che di fatto ci troviamo dentro a un sistema che si prefigge di eliminare la morte, nel quale non ci dovrà più essere nulla di negativo, come la fine dell’esistenza e l’ombra. Un sistema totalmente operativo e positivo al cui interno noi saremo tutti trasparenti, comunicativi, interattivi. In questo ambito, perciò, non credo ci sia una scena in cui compaiono queste ombre platoniche.

Forse il problema di oggi diffuso tra i giovani è cosa sia davvero la realtà, se esista una realtà o se non sia realtà proprio la loro, semplicemente rivista perché segue il mondo che diviene.

Tutto è, come vedete, compromesso. Non riusciamo più a credere a nulla e pretendiamo lo facciano i giovani che sono nati durante la globalizzazione e l’accelerazione dello sviluppo tecnologico.

Eppure, in tutto questo caos, una cosa è sicura: la relazione, quale rapporto occhi contro occhi, pelle sopra pelle, fatto di voce, di sguardi, di guance rosse, mani che asciugano lacrime, gambe che si intrecciano e capelli che si muovono al vento si è smarrita nel labirinto di codici html.

Note:

¹-  Intervista a Jean Baudrillard, Il virtuale ha assorbito il reale, Parigi, 1999

²- Ibidem

Valeria Genova

[Immagine tratta da Google Immagini]