Contro la cementificazione della Memoria

Ogni 27 gennaio ricorre il Giorno della Memoria, una data istituita in Italia per ricordare:

«la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
Legge 211, 20 luglio 2000

Da questo momento, ogni 27 gennaio, le sale cinematografiche proiettano un film sul tema − quest’anno è la volta di Nebbia in agosto di Kai Wessel −, le biblioteche o le istituzioni culturali promuovono conferenze o spettacoli teatrali − solitamente su Hannah Arendt − e le scuole concedono il permesso a fugaci visite ai musei della Memoria, solo per obblighi istituzionali. Ed io, scrivendo un articolo sul giorno della memoria, mi cimento nel ruolo ricoperto da altri milioni di autori, che ogni anno dedicano 800 parole al 27 gennaio.
Tutto ben organizzato per trovare il tempo di ricordare. Alla fine occupa solo un giorno, o al massimo una settimana. Da domani ci si può finalmente sentire meno in colpa perché il nostro dovere di buon cittadino è stato eseguito. Anche da casa con Facebook. Da domani finalmente potremo condividere e postare a piacimento notizie riguardanti le terribili malattie portate dagli immigrati o quelle sui cani bisognosi di cura. I sommersi (nel vero senso della parola) e i salvati dei nostri tempi.

Il Giorno della Memoria è una memoria abitudinaria, ferma e passiva che sbiadisce con il tempo. Per quale motivo, allora, ci si ostina a fissarla − la memoria − in un preciso istante, quando è essa stessa un meccanismo in movimento che conserva e riformula le tracce di ciò che vediamo, sentiamo, guardiamo e tocchiamo?
Perché tendiamo a istituzionalizzarla e a monumentalizzarla in modo tale da isolarla e allontanarla dalle persone, rischiando che quest’ultime nel corso degli anni perdano la sensibilità nei confronti di ciò che è stato? Insomma, perché vogliamo mummificare la memoria delle stragi naziste?

Credo fermamente che occorra pensare a un qualcosa di permanente, al quale si possa aderire volontariamente senza l’incombenza di “dover” ricordare. Serve, dunque, un progetto che si riappropri del tempo e dello spazio, individuale e sociale, in maniera riservata e silenziosa, ma costante.
Un esempio, a mio parere, estremamente positivo è rappresentato dall’iniziativa Pietre d’inciampo1 partita da Colonia, una cittadina tedesca, grazie al genio dell’artista Gunter Demnig. Di cosa si tratta? Di un’idea semplice ed efficace: un sampietrino ricoperto da una piastra di ottone posto davanti alle abitazioni di chi venne deportato nei campi nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Una piccola targa quadrata sopra la quale è riportato il nome della vittima, l’anno di nascita, la data e il luogo di deportazione. Se conosciuta, anche la data di morte.
Ad oggi di questi sampietrini ne son stati depositati circa 60 mila in quasi tutta Europa. Anche a Venezia se ne possono trovare alcuni2. Occorre fare attenzione però, perché le pietre d’inciampo non son semplici targhe dall’importanza irrilevante, bensì vere e proprie tracce in grado di relazionarsi con la quotidianità delle persone. In breve, le pietre d’inciampo sono vulnerabili: è possibile calpestarle inavvertitamente, o magari levarle volontariamente per negare ciò che è stato e ancora sono inermi di fronte alle intemperie e all’inquinamento urbano. Senza alcun tipo di timore reverenziale, come spesso accade davanti ai grandi monumenti ottocenteschi, si avrà qualche incontro con queste presenze permanenti e integrate nella città. Magari casualmente, ma in ogni caso si dovrà fare i conti  con questi quadratini dorati che pazientemente ricorderanno le storie delle “possibilità negate” dal nazismo.
La memoria, d’altronde, non deve essere astratta dalla vita, ma deve avere il coraggio di confrontarsi e scontrarsi con essa per tornare ad essere viva.

Marco Donadon

NOTE:
1. Per approfondire, si veda il sito dell’iniziativa.
2. Qui trovate una mappa aggiornata delle Pietre d’inciampo poste a Venezia.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Gennaio in Cultura!

Il nuovo anno apre le sue porte ai buoni propositi e ai nuovi inizi; in essi riponiamo le nostre speranze e i nostri desideri, fiduciosi di ricevere gratificazioni e soddisfazioni. È forse il momento per lasciare al passato i brutti ricordi, le delusioni e ciò che più ci ha fatto star male, e con grinta e grande entusiasmo ripartire con ciò ci aspetterà per questo 2017.

Tra i buoni propositi non può mancare la curiosità, il desiderio e bisogno di partecipare alla Cultura del nostro Paese, con spirito di partecipazione e collaborazione.

Anche per questo mese vogliamo segnalarvi alcuni appuntamenti a nostro avviso meritevoli della nostra attenzione.

 

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VENETO | Ascari e Schiavoni. Il razzismo coloniale e Venezia – Venezia

In occasione del Giorno della Memoria, “Ascari e Schiavoni, il razzismo coloniale e Venezia” nasce da una collaborazione tra studenti veneziani con l’intento di aprire uno spazio di riflessione, di ricerca e di dialogo in occasione di una scomoda ricorrenza: l’ottantesimo anniversario della prima legge sulla «tutela della razza», varata per impedire rapporti «d’indole coniugale» tra uomini italiani e donne africane.
 
La mostra ripercorre alcuni dei momenti cardine del razzismo coloniale italiano per fare emergere come esso non si sia dimostrato di minore efferatezza e violenza rispetto a quello degli altri Paesi coinvolti nella corsa alla conquista coloniale. Ascari e Schiavoni: due figure emblematiche, due costruzioni retoriche che ci hanno permesso di accostare le due aree geografiche maggiormente coinvolte nel progetto espansionistico italiano, ovvero l’Africa e i Balcani. Ascari e Schiavoni, anche se appartenenti a momenti storici diversi, condividono un’identità di ruolo, entrambi membri di truppe straniere poste al servizio dell’esercito della potenza dominante: gli ascari erano soldati africani mercenari, inquadrati nelle truppe coloniali; gli s-ciavoni, invece, erano un gruppo di soldati slavi appartenenti a un reparto speciale della Serenissima. Entrambi i termini permangono nell’uso del parlato locale o nella toponomastica urbana, riproducendo l’eco dell’espansione coloniale passata.
 
Programma incontri: qui
 
Evento: qui
 

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VENETO | La mia arma contro l’atomica è un filo d’erba. Tancredi. Una retrospettiva – Peggy Guggenheim Collection, Venezia

Fino al 13 marzo. A cura di Luca Massimo Barbero

La fondazione Peggy Guggenheim ospita un’interessante retrospettiva che sancisce il grande ritorno a Venezia di Tancredi Parmeggiani (Feltre 1927 – Roma 1964), tra gli interpreti più originali e intensi della scena artistica italiana della seconda metà del Novecento.

Un artista dal percorso geniale, sregolato, complesso, e dalla grande capacità di rielaborazione estetica delle emozioni, in un tono sempre equilibrato e armonico.

La sua arte sembra scolpita dalla luce soffusa di un risveglio, anche se la realtà su cui apriamo gli occhi spesso è violenta e cruda. Un’opera quella di Tancredi che quindi mantiene un profondo legame con il mondo attuale.

Il titolo di questa retrospettiva riprende la frase del pittore in risposta agli innumerevoli conflitti degli anni Sessanta: dal Vietnam alla guerra in Algeria, alla tensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, un periodo anche di crisi e di revisione della propria opera da parte dell’artista. Il percorso espositivo tuttavia comprende anche un’esaustiva selezione della prima produzione degli anni Cinquanta, caratterizzata da una ricerca prettamente astratta e di frammentazione del segno.

Per maggiori informazioni: qui

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FRIULI VENEZIA GIULIA | Lorenzo Mattotti – Sconfini – Codroipo

Fino al 17 marzo. Villa Manin, a cura di David Rosenberg

Tonalità accese, sature e acide sono le protagoniste assolute dell’opera di Lorenzo Mattotti, mentre la linea si fa fluida e contorta, quasi sfuggente, scivola in secondo piano, a rappresentare la mutevolezza e la fragilità dell’animo umano.

Mattotti ci comunica un’immaginazione difficilmente contenibile, espressa dall’esplosione del colore e dalle linee morbide: emerge la versatilità della mente in tutte le sue sfumature attraverso emozioni, archetipi, sogni e incubi.

Per maggiori informazioni: qui

 

bc3d17_0adb7379a7754f33b53353ffb8542453mv2_d_1240_1754_s_2LAZIO | Mente e macchina – CNR  p.zza A. Moro – h 16.30

Conferenza con il filosofo Remo Bodei che affronterà nello specifico il problema dell’origine delle calcolatrici meccaniche e dei ‘pensieri ciechi’ – che rappresentano una premessa alla nascita dell’informatica nel più ampio quadro dell’idea di macchina e della sua storia.

In origine il termine mechané significa “astuzia”, “inganno”, “artificio”. Soltanto più tardi viene a designare le macchine semplici (leva, carrucola, cuneo, piano inclinato, vite), le macchine da guerra e gli automi, ma perché la macchina eredita i significati dell’astuzia e dell’inganno, di ciò che è “contro natura”. Perché per lungo tempo, non si riesce a spiegare il ‘miracolo’ del suo funzionamento, ad esempio il fatto che la leva, con piccolo sforzo, permette di sollevare grandi pesi?

Solo con Galileo ci si comincia a rendere conto che per padroneggiare la natura bisogna invece servirla, piegarsi alle sue leggi e alle sue ingiunzioni, traendo profitto dalla loro conoscenza. La meccanica diventa una scienza esatta, “razionale”,  perché si scoprono le leggi precise che descrivono i suoi fenomeni. Per la prima volta le macchine possono essere progettate attraverso calcoli esatti mentre l’uomo si serve delle energie naturali (vento, acqua, vapore, elettricità, atomo) per i suoi scopi.

Maggiori informazioni: qui

Elena Casagrande & Claudia Carbonari

[Immagini tratte da Google Immagini]

 

 

Lezioni di storia internate

Ci sono lezioni memorabili e altre, invece, totalmente inutili.

Ci sono lezioni che ti procurano ripetuti crampi alle mani, per i troppi appunti scritti; ma frequenti sono anche le lezioni scialbe, dove non succede mai nulla.

Ci sono lezioni dove si dialoga; altre ancora dove a discutere è solo il professore.

Ci sono, però, anche lezioni inascoltate, e non per la pigrizia degli studenti.

Ci sono lezioni represse, e non per divergenze ideologiche.

Ci sono lezioni emarginate perché internate. Come quelle tenute da Ruth, una professoressa di Storia di origini austriache.

 

Nome: Ruth

Anno, luogo di nascita: 1880, Vienna

Caratteristiche: persona colta, agiata, intelligenza buona, piagnucolosa, cattolica.

Data di ricovero: maggio 1943

Sintomi: esaltazione, allucinazioni, capacità affettiva troppo esagerata, tendenza marcata al suicidio

Data di rilascio: ritirata il 1 agosto 1944 da militari delle SS

Annotazione: di “razza ebrea”

Ruth era stata ricoverata nel maggio del 1943 al Sant’Artemio, l’Ospedale psichiatrico di Treviso nato nel 1904 dopo i gravissimi scandali riscontrati nella gestione dei manicomi veneziani di San Clemente e, in particolar modo, di San Servolo. Assistita in un Istituto di Cura di Treviso, la degenza di Ruth fu proposta al Sant’Artemio in seguito al manifestarsi di alcuni comportamenti ritenuti clinici: sbalzi umorali frequenti, una capacità affettiva esagerata e il desiderio violento di farsi del male. Un elenco che ci consegna l’immagine di una donna afflitta da numerosi traumi, ricordi infernali sedimentati nella sua memoria insieme a quelle nozioni apprese, con notevole fatica, sui i libri di storia durante la sua carriera universitaria. Rimembranze disordinate, piene d’angoscia e disperazione. Tra queste, sicuramente, c’era la fuga da Spalato dell’autunno del 1941, insieme ad altri 2.000 ebrei, quando l’avanzata nazista, oramai inarrestabile, era giunta nei Balcani per imporre le sue ideologie. Altri sprazzi di memoria agitavano la quotidianità di Ruth, come i reticolati di filo spinato del campo di internamento di Cison di Valmarino che non le permettevano di fuggire ancora più lontano, ancora più distante da quelle logiche belliche colpevoli di averle tolto l’amore del marito, morto durante delle incursioni, e quello del figlio, ucciso a causa delle sue origini ebraiche.

Ecco perché aveva voglia di farla finita; ecco perché a momenti di estrema lucidità alternava istanti di rabbia e di profondo rancore. Era sta depredata di tutto: la terra, la casa e gli affetti. Non possedeva più radici, punti di riferimento ai quali aggrapparsi. Non possedeva più una storia.

Nonostante il mondo le fosse crollato addosso, Ruth, dal Sant’Artemio, scriveva delle lettere che, a sua insaputa, non saranno mai inviate poiché erano considerate documenti clinici e come tali dovevano essere inseriti nel fascicolo personale del paziente. In ogni modo, in alcune di queste missive Ruth chiedeva che le fossero spediti alcuni libri in tedesco, quella lingua che oramai da tanto tempo non ascoltava; in altre, invece, raccontava i rapporti interpersonali che intratteneva, nelle eterne giornate trascorse nell’Ospedale psichiatrico di Treviso, con il Direttore, i medici e gli infermieri, con i quali le relazioni non erano sempre idilliache: qualcuno la trattava male perché era straniera o forse perché era tedesca, un’appartenenza mal sopportata nel 1944 da ampi strati della popolazione italiana via a via che la guerra procedeva.

Chissà quali altri ricordi sarebbero trapelati, chissà quali altre lettere sarebbero state inviate se non ci fosse stata quella piccola postilla “razza ebrea”. Il primo agosto del 1944, l’ufficiale delle SS Franz Stangl, ex capo dei campi di sterminio di Sobibor e Treblinka, prelevava la signora Ruth dal Sant’Artemio insieme ad altri due uomini e una donna, secondo quanto disponeva il piano Aktion T4.1 Il programma nazista di eutanasia degli adulti disabili, iniziato nel 1939 in Germania, arrivava così in Italia: oltre a Treviso, anche gli ospedali psichiatrici di Trieste, Pergine e Venezia vennero epurati con la collaborazione dei funzionari repubblichini. I prescelti? Tutti disabili di “razza ebrea”, come annotato scrupolosamente nei fascicoli personali dei ricoverati.

Qui finisce la storia di Ruth. Da qui inizia la sua lezione.

Ci sono lezioni che ti ritornano in mente.

Ci sono lezioni di dignità e di rivalsa, anche a distanza di anni:

“sono un essere umano, non una bestia”

cit. Ruth

Marco Donadon

Note:

1 Con Aktion T4 si intende il programma nazista di eutanasia attuato in Germania tra l’ottobre 1939 e l’estate 1941, che prevedeva la soppressione di tutte le persone adulte affette da malattie ereditarie considerate inguaribili o da malformazioni fisiche tali da pregiudicare l’inserimento nel mondo lavorativo. Dopo l’estate 1941, il programma continuò ufficiosamente negli ospedali psichiatrici, ma anche all’interno dei campi di concentramento sotto la sigla “Aktion 14f13”.

Bibliografia:

– Taccuino di lavoro, a cura di M. Paolini e M. Signori, Einaudi, Torino 2012.

Immagine:

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Il genocidio della memoria

Gennaio è, generalmente, il mese in cui si costruisce l’anno nuovo, si disegnano promesse che forse manterremo a metà, si scrive un copione che verrà disatteso perché ci si lascerà coinvolgere dall’imprevisto affrontando battaglie sconosciute.
Ma Gennaio è anche il mese in cui si celebra la memoria.
Esiste un giorno particolare, il 27, in cui i Paesi Occidentali si uniscono simbolicamente in un raccoglimento che attraversa la Storia e abbatte i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz, ascoltando in silenzio le parole degli ultimi sopravvissuti alla Shoah ebraica, perpetrata dalla follia nazista durante la II^ guerra mondiale.

Nelle scuole le tracce dei temi convergono in questa tematica, puntuali giungono le dichiarazioni dei più importanti esponenti politici, l’Organizzazione delle Nazioni Unite si prodiga, nel 2005, con la risoluzione 60/7 proclama il 27 Gennaio: data ufficiale per le commemorazioni, l’Italia la anticipa di cinque anni ( articolo 1 e 2 della legge n°211 del 20 Luglio 2000 ).
Vengono proiettati film, si leggono libri sull’argomento… celebrazioni di rito e poi arriva Febbraio.

Durante i successivi undici mesi, si provvede tranquillamente a demolire lo spirito di concordia che si era venuto a creare con frasi che invocano ad un ritorno dello sterminio, mentre altre lo negano.
In certi casi le stesse persone che lo negano, chiedono allo spirito del suo principale fautore, di tornare per completare l’opera, generando una contraddizione in essere troppo complicata da analizzare.

Tralasciando la mera polemica sul negazionismo, volevo porre l’accento sul significato di questo Giorno della Memoria.
Abbiamo detto che si ricorda il genocidio ebraico, lo si approfondisce, lo si discute… ma quanti genocidi si sono compiuti durante gli ultimi secoli?
Chi li ha compiuti, e perché?

In passato abbiamo posto le basi del nostro europeismo, inteso come cultura occidentale apparentemente elevata, in tre continenti su cinque ( escludendo l’Antartide… non me ne vogliano i pinguini imperatore ).

Nelle Americhe scomparvero circa 100 milioni di individui, sia a causa delle malattie portate dall’uomo bianco, sia dalle sue guerre di conquista e sottomissione.
I campi di concentramento erano le riserve, territori delimitati e sorvegliati dai nuovi padroni, esperti in recinzioni e confini.
In Oceania ( Australia e isole circostanti ) la popolazione nativa crollò del 90%.
In Africa invece contiamo circa 20 milioni di vittime.

Non fraintendetemi, non è mia intenzione screditare la Shoah per porre tutti gli altri genocidi su una scala dell’orrore che ha come unità di misura, l’intensità, l’efferatezza e il numero dei morti.
Il mio obiettivo è – come al solito – quello di far conoscere a chi ne è all’oscuro, avvenimenti che riguardano da vicino anche chi lega ad un solo colore ideologico, determinati atti.

Quelli elencati precedentemente sono tutti genocidi avvenuti in ambito coloniale, ma ce ne sono altri legati alla politica, alle personalità singole ed eccentriche in tutta la loro brutalità.
Tanti stermini condotti tra l’indifferenza di molti.

Genocidio degli Armeni, un milione e mezzo di morti; Genocidio dei contadini ucraini, sette milioni di morti; Genocidio dei Tutsi in Ruanda, un milione di morti; Genocidio degli oppositori politici in Cambogia, Unione Sovietica, Cina, decine di milioni di morti.

Davanti a tutto questo, si può ancora parlare di colori politici? Si può ancora attribuire ad un unico uomo tutti i mali del mondo?
Certo, si può – e si fa continuamente – ma, prendendo coscienza appunto, si può andare oltre le classiche barriere fatte di convinzioni comuni, e ci si può interrogare sulla necessità di ricordare anche le tristi pagine scritte da noi, non solo dagli altri.
E per citare una di queste tristi pagine vi lascio una testimonianza letteraria tratta dal romanzo ‘Cuore di Tenebra’ di Joseph Conrad.

Siamo nel Congo belga di fine ‘800, gli europei hanno investito numerosi fondi nelle imprese della gomma, del legname e dell’avorio.

Marlow, il protagonista della storia, sta navigando il fiume con un battello per raggiungere un emporio commerciale situato nella foresta equatoriale, quando vengono attaccati dai nativi.

“Con una mano cercai a tastoni sopra la testa il cordone della sirena, e lanciai un fischio dopo l’altro, precipitosamente.
Il tumulto di grida rabbiose e bellicose, cessò all’istante; e poi dalle profondità della foresta si levò un lamento tremulo e prolungato di paura lugubre e di disperazione estrema, quale si potrebbe immaginare che seguisse la fuga dell’ultima speranza della terra.”

A voi ogni libera interpretazione.

Non sarà certamente uno sforzo sovrumano tirare le somme del nostro passato, aprire le porte al Gennaio di una nuova consapevolezza sociale e stabilire sani obiettivi futuri.
Ricominciare fa parte della nostra natura, e per farlo occorre sapere cosa siamo stati, in modo da non compiere l’ennesimo genocidio, quello della memoria, che spesso copre con uno strato di indifferenza il lume della ragione.

Buon 2016.

Alessandro Basso

é immagine tratta da Google Immagini]