Intervista Ferruccio De Bortoli: preservare e accrescere il pensiero critico

<p>Roma 11/05/2010 Trasmissione Ballaro' in onda su Raitre nella foto Ferruccio De Bortoli</p>

Il giornalismo molto ha a che fare con la filosofia, sopratutto se pensiamo alla loro relazione con la verità: entrambi agiscono ricercando la verità dei fatti, comprendendo cause ed effetti, inquadrando lo stato delle cose nel flusso della storia e fornendo così all’uomo-lettore una chiave interpretativa e una prospettiva di senso sul mondo. Il filosofo e il giornalista hanno una grande responsabilità, quella di promuovere, preservare e partecipare allo sviluppo del pensiero critico, di fare in modo che il cittadino, accompagnato all’origine dal dubbio, maturi una capacità forte di pensare in profondità e ricercando il confronto e il dialogo. Così il cittadino-lettore, oggi più che mai nell’era degli users generated contents ha a sua volta un’importante responsabilità, quella di informarsi bene e non superficialmente, essendo egli stesso, attraverso i social network e il web, capace di influenzare e orientare la percezione dei fatti. 

Su queste questione abbiamo avuto il piacere di conversare con il prof. Ferruccio De Bortoli, giornalista professionista dal 1975; direttore del Corriere della Sera dal 1997 al 2003 e dal 2009 al 2015, ha matura un’esperienza pluriennale come caporeadattore e come commentatore di economia e attualità politca. Ha anche diretto “Il Sole 24 Ore” ed è stato amministratore delegato di Rcs libri fino al 2005. Dal 2015 è presidente della casa editrice Longanesi e dell’associazione Vidas, collaborando tutt’ora come editorialista al Corriere della Sera e al Corriere del Ticino. Nel 2017 firma Poteri forti (o quasi), un libro in cui ricostruisce quarant’anni di storia del nostro paese e del giornalismo, fornendo un’inedita e preziosa testimonianza. Dal terrorismo alla crisi economica, dal declino dell’editoria fino alla comparsa di comunicatori improvvisati e agevolati dalle moderne tecnologie: De Bortoli a ricostruisce incontri e scontri, scambi di opinioni e fughe di notizie, sostenendo che oggi in Italia i poteri sono trasversali ma deboli e che una società evoluta non deve avere paura delle “verità scomode”. Un libro a metà tra il saggio e l’autobiografica, il cui filo rosso è una profonda dichiarazione d’amore per la propria professione di giornalista e per la passione che ha accompagnato e accompagna tutt’ora questo mestiere.

 

Lei è stato per diversi anni (dal 1997 al 2003 e dal 2009 al 2015) direttore del Corriere della Sera nonché direttore del Sole 24 ore dal 2005 al 2009, per cui ci sembra una persona più che adeguata a cui porre questa domanda: quali sono gli elementi che contraddistinguono e identificano il buon giornalismo?

Gli elementi sono sempre gli stessi, cioè non cambiano con il mutare delle tecnologie. Un buon giornalismo è per sua natura scomodo, irriverente, imprevedibile, non controllabile. Ci sono due termini del giornalismo anglosassone che credo possano essere assolutamente applicati anche nell’era dei social network e delle comunicazioni digitali: accurancy e fairness, dunque correttezza, credibilità e responsabilità dell’usare la libertà di cui si dispone.

Se il buon giornalismo non è cambiato, sicuramente possiamo affermare che gli strumenti e gli atteggiamenti del giornalismo (senza accezioni) sono mutati, soprattutto nel suo rapporto con il web e con i social network. Quali sono i punti fondamentali su cui riflettere in proposito, sia dalla parte dei giornalisti che dei lettori?

Stiamo vivendo una fase di progressiva riflessione sul tema dell’accesso ai social network. Nessuno mette in dubbio la grande libertà di poter avere contatti e di poter assumere informazioni di vario tipo; stiamo passando diciamo il primo periodo di entusiasmo pioneristico e ci domandiamo se la grande massa (in termini di quantità) di informazioni che abbiamo a disposizione sia di per sé utile o al contrario non sia dispersiva e qualche volta ponga una serie di interrogativi su una censura più subdola, che è quella dell’abbondanza di cose irrilevanti che rendono di per sé l’informazione rilevante trascurata oppure non messa nella giusta attenzione e nella giusta prospettiva di spazio. Quindi ci stiamo ponendo in questa fase di progressiva maturazione della nostra capacità di usare i social network di fronte al tema: tutto quello che abbiamo è utile e necessario o dobbiamo metterci nella condizione di selezionare in maniera più rigorosa le informazioni che abbiamo? Il fatto di avere un sistema che è fornito dall’informazione professionale anche dalle tante testate storiche di poter selezionare gli avvenimenti e i fatti e le opinioni sulla base della loro importanza mette il cittadino navigatore nella condizione di difendersi e nella prospettiva di non diventare, cullandosi in questo mare di informazione disordinata, un naufrago o un suddito passivo.

In questo contesto mediatico appena descritto, soprattutto in riferimento a internet, non crede che ci sia il rischio di compromissione dell’eticità del giornalista che dovrebbe in qualche modo “difendere” o comunque tener sempre conto dei diritti all’informazione dei lettori?

Il web smaschera molto più facilmente i cattivi giornalisti e naturalmente pone il giornalista di qualità nella condizione di essere per prima cosa in possesso degli strumenti tecnologici dell’informazione digitali, in secondo luogo lo pone di fronte a nuovi compiti di correttezza e di affidabilità, lo toglie da un piedistallo che storicamente aveva, perché comunque nell’informazione digitale non c’è più una grande differenza tra chi fa e chi riceve l’informazione e lo mette di fronte a dei doveri morali di chiedere scusa e di non essere così presuntuoso da ritenere di possedere, magari in esclusiva, la verità.

Abbiamo parlato e in effetti parliamo molto spesso del dovere e della responsabilità dei giornalisti a fornire la verità e del loro dovere nel rispettare un’etica giornalistica forte; molto meno spesso parliamo invece dell’etica e delle responsabilità dei lettori, oggi messe a dura prova dai numerosi strumenti forniti dalle rete. A suo parere a quali responsabilità e dovere deve rispondere il lettore-cittadino?

I lettori nell’era degli users generated contents hanno una certa responsabilità, perché sono testimoni degli avvenimenti, partecipano sui social, commentano in diretta opinioni, interventi, fanno atti pubblici, quindi sono in grado di orientare la percezione degli avvenimenti perché comunque insomma interpretano il polso della gente, del popolo che sta attorno ad alcuni fatti  e che segue alcuni personaggi, però hanno anche la responsabilità di informarsi bene, cioè uno degli aspetti secondari degli effetti laterali dell’era del digitale nell’informazione è la comodità con la quale possiamo accedere ad ogni possibile fonte di informazione; questa comodità spesso di trasforma in passività e in accidia. Per informarsi bene bisogna fare comunque un po’ di fatica, non possiamo essere utenti passivi, dobbiamo sviluppare una capacità critica, una coltivazione del dubbio, in modo da poter confrontare in maniera corretta ciò che è rilevante da ciò che non lo è, e distinguere meglio ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è effimero da ciò che è sostanziale, ciò che è lecito da ciò che è illecito.

Tutto ciò riguarda qualsiasi tipo di giornalismo. Siamo in un’era nella quale non si può più ingannare il prossimo, si paga un prezzo elevato per la scarsa affidabilità, ma si è tenuti anche a riconoscere gli errori perché lavorando specialmente in un sistema che a volte privilegia la tempestività all’accuratezza si incorre ad una quantità di errori decisamente superiore rispetto a quelli che si potevano commettere in altre ere tecnologiche dove si poteva naturalmente decantare, aspettare, dove il tempo era più in possesso di chi faceva informazione. Adesso il tempo è in possesso dei lettori, il pendolo del potere si è spostato verso l’utenza rispetto a coloro che forniscono e fanno informazione, quindi questo è un elemento di cui vale la pena sottolinearne l’importanza, un tema di maggiore responsabilità di chi fa l’informazione e un controllo molto più stretto da parte degli utenti e del pubblico. La considerazione che comunque se si chiede scusa per gli errori commessi e la rete riconosce la buona fede, è comunque un tema di credibilità, di correttezza, di autenticità del proprio essere giornalista.

debortoli-poteri-fortiNel suo libro Poteri forti (o quasi) (La nave di Teseo, 2017) lei sostiene come i grandi paesi abbiano dei poteri forti, cioè dei poteri che sono però responsabili perché sono all’interno di un quadro di regole, rispettano l’ordinamento democratico. A differenza però di paesi come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia i cui poteri non sfuggono alle regole democratiche ma fanno parte di una società che ha un senso di responsabilità nazionale condivisa, il dramma del nostro Paese è di non avere più poteri forti. Perché a suo parere l’Italia non è più in grado di avere poteri riconoscibili?

Nel libro cerco di sfatare un mito che è ricorrente tutte le volte che accade qualche fatto importante nel nostro Paese: si evocano secondo me a volte in maniera del tutto impropria i poteri forti del Paese che interverrebbero nel mutare il corso della democrazia o delle istituzioni privando quelle che sono le rappresentanze del popolo del loro potere e della loro capacità di agire. Io invece penso che se ci sono poteri forti che possono essere da un lato della politica (i partiti) e dall’altro dell’economia/finanza (grandi gruppi industriali o finanziari), se sono poteri forti con una storia, un’anima, un senso di responsabilità, una capacità di sentirsi responsabili per i destini del Paese come avviene diciamo nei Paesi  più evoluti che hanno una classe dirigente coesa, e comunque dei poteri  forti ma responsabili – beh, penso che questo non sia un guaio ma uno degli elementi costitutivi della grandezza identitaria di un Paese. Quando mancano questi poteri forti nella politica, nell’economia e nella finanza si lascia lo spazio ai rider, e i rider possono essere da Berlusconi a Grillo, nell’economia e nella finanza possono essere i furbetti del quartierino o gli speculatori stranieri o anche le grandi banche d’affari americane, cioè poteri assolutamente svincolati da un rapporto con il Paese e quindi privi di un controllo democratico. Penso che il problema vero sia questo: la mancanza di poteri forti naturalmente allinea e accresce poteri trasversali e occulti, deboli, cordate amicali che sono ancora per certi versi più pericolosi di poteri forti che noi identifichiamo. Nel nostro Paese abbiamo paura delle dimensioni, invece dovremmo coltivare un accrescere dimensionale delle imprese e ritornare a riscoprire secondo me l’importanza dei partiti senza i quali non c’è democrazia.

Entrando nello specifico all’interno dell’ambito giornalistico italiano, quali sono le influenze dei poteri “quasi” forti? Mi riferisco per esempio a grandi gruppi editoriali come per esempio Mondadori.

Nel libro spiego molto quali sono i rapporti tra azionisti e informazione; distinguo tra azionisti che hanno rispetto dell’autonomia, dell’indipendenza e del valore delle loro partecipazioni, nel senso che riconoscono e danno fiducia a redazioni o direzioni (poi gliela possono sempre togliere) ma naturalmente che si comportano con rispetto per quello che è il valore intrinseco dei giornali, e poi ci sono dei padroni, delle diverse tipologie di proprietari che magari usano il giornale come strumento di pressione o di potere per inseguire i propri interessi.

Noi de La Chiave di Sophia riteniamo che la filosofia sia la spinta, il motore di ogni nostra azione e quindi di ogni professione, essendo riflessione e ricerca di senso. Nel suo mestiere ritiene che la filosofia possa avere un ruolo importante? Che cos’è per lei Filosofia?

Io penso che sia importante, soprattutto nel dibattito riguardante i grandi maestri del passato e naturalmente guardando con grande attenzione allo sviluppo del pensiero contemporaneo, cioè viviamo una fase di grande tecnologia ma di scarso pensiero, esattamente l’opposto rispetto alla Grecia classica, che aveva molto pensiero e scarsa tecnologia. Noi abbiamo il compito di preservare e accrescere il pensiero critico, di fare in modo che il dubbio accompagni la vita dei cittadini responsabili, attenti e curiosi, e in questo la capacità di pensare in profondità, in larghezza e nella disponibilità a mettersi nella parte dell’altro – prendo molto Levinas da questo punto di vista cioè nel riconoscere nell’altro il prossimo – io penso che sia una delle chiavi di volta della vita contemporanea.

 

Elena Casagrande

Intervista rilasciata in occasione di Pordenonelegge 2017

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Dal tentato golpe alla vittoria al referendum: l’ascesa di Erdoğan

Nell’articolo «Turchia: un golpe fallito e il fallimento dei diritti» eravamo rimasti con l’immagine di una realtà caratterizzata da una violenza a due facce. Una violenza che appariva come ultima risorsa per mantenere inalterati gli equilibri di potere.

Nei mesi a seguire la condotta di Recep Tayyip Erdoğan non è cambiata. Il presidente turco ha perdurato nella sua linea intransigente: estreme misure di repressione ed epurazione hanno continuato a coinvolgere a ondate università, redazioni giornalistiche, ONG1. Inoltre, distruzione, assedio ed uccisioni hanno compromesso il sud-est curdo.

Queste sono state le condizioni che hanno preceduto e accompagnato il referendum del 16 aprile.

Tale referendum poneva il dilemma “repubblica parlamentare o repubblica presidenziale?”. Il 51,4% dei votanti si è dichiarato a favore del programma presidenzialista.

Le due principali forze di opposizione, il partito socialdemocratico (Chp) e quello liberale procurdo (Hdp), hanno successivamente denunciato brogli e irregolarità. L’OSCE ha dichiarato 2,5 milioni di schede manipolate, quindi il mancato rispetto degli standard internazionali. Queste, pertanto, si dimostrano essere ragioni sufficienti a porre in discussione il risultato referendario.

Eppure i segnali vi erano tutti. Le continue repressioni citate poc’anzi, come l’assenza di libertà di stampa, erano sufficienti a dimostrare pregiudicato l’appuntamento al fatidico giorno.

Negli ultimi tempi, è stata chiesta la condanna all’ergastolo per 30 giornalisti ed ex dipendenti del gruppo editoriale Zaman, principale quotidiano di opposizione turco. I media chiusi sono stati 158 e circa 150 giornalisti sono tuttora detenuti e sotto processo.

«Chi uccide un uomo – scriveva Milton – uccide una creatura ragionevole, immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa, uccide l’immagine di Dio nella sua stessa essenza»2.

Ricordando, dunque, che ancora prima di una libertà di stampa vi è la libertà di pensiero: «Cogito, ergo sum». Il pensiero apporta in nuce i requisiti per l’esercizio della libertà, come legittimazione della manifestazione della possibilità di contrapposizione non cruenta fra differenti principi politici. Una libera circolazione di idee come fondamento della conoscenza e dell’emancipazione dell’uomo. Tale espressione può essere adattata a tutti quei giornalisti oggi rinchiusi nelle carceri turche, rei di aver espresso un pensiero scomodo.

Dalla censura della libertà di stampa è conseguito un debole fronte del #Hayɪr.

Una situazione che non ha allarmato la comunità internazionale, o forse non abbastanza. Inoltre, la presa di decisione drastica del governo olandese riguardo al respingimento di membri del governo turco ha funzionato in pro di Erdoğan, sopratutto per quanto riguarda il voto degli elettori turchi espatriati.

Il risultato del 16 aprile, tuttavia, è quello di una maggioranza risicata, oltre che contestata. La Turchia si ritrova ad essere un paese spaccato. È riemersa una società in parte attratta da un autoritarismo nazionalista, ma dall’altra appare una Turchia tutt’altro che sedotta dal potere di Erdoğan.

Così possiamo domandarci se sia davvero la conclusione della Turchia moderna di Mustafa Kemal Atatürk e il coronamento del sogno neo-ottomano di Erdoğan, oppure se avremo ancora una speranza.

Jessica Genova

NOTE:

1. Il decreto emesso il 22 novembre 2016 ai sensi dello stato di emergenza ordinò la chiusura definitiva di 375 organizzazioni non governative.

2. J.Milton, Areopagitica. Discorso per la libertà di stampa

[Immagine tratta da Google Immagini]

Su certe incursioni intellettualistiche nella filosofia

Essendo un archivista, conservando cioè oggetti, libri, articoli di vario genere per interesse o un’eventuale utilità futura, mi capita di imbattermi in qualcosa che avevo deciso di mettere da parte per qualche motivo, ma che avevo momentaneamente dimenticato.

L’ultimo di questi oggetti ritrovati sui miei scaffali è secondo me estremamente interessante e infatti ho subito ricordato perché l’avessi messo via: si tratta di un articolo di Eugenio Scalfari tratto dalla sua rubrica bisettimanale su L’Espresso datato 3 ottobre 2013, intitolato I non credenti e la loro coscienza.

Premettiamo una cosa: Scalfari ha avuto modo di crearsi un’importante identità culturale nel corso dei decenni che né qui né altrove intendo discutere. Ma si nota anche, addentrandosi un po’ negli scritti e nelle parole di Scalfari, che i suoi successi professionali e intellettuali sembrano legittimargli la qualifica di filosofo, titolo che in qualche occasione ha rivelato di voler possedere. Ma si sa (o forse in fondo no?) che ciò che rende il filosofo tale è ‘semplicemente’ il contenuto di ciò che asserisce e non la carriera, i libri, la veneranda età. Tantomeno, probabilmente, la semplice appartenenza all’ambito giornalistico, che rimanda a un rapporto con le parole e con il pensiero tutto peculiare (e sugli attacchi ai giornali da parte dei filosofi si potrebbe scrivere un’enciclopedia).

Il genere dell’articolo in questione è un classico del giornalismo laico contemporaneo: un confronto con i credenti, cosa fin troppo frequente e posta in termini abbastanza superficiali, la gran parte delle volte. Ma l’interesse per questo pezzo nasce per un dettaglio che alla lettura non può che saltare agli occhi di chiunque: in un articolo di due colonne e mezzo che si estende a stento per una paginetta, Scalfari riesce a citare ben venticinque tra filosofi, poeti o scienziati diversi (se volete sapere quali: Voltaire, Descartes, Leibniz, Kant, Hegel, Schelling, Diderot, d’Holbac, Marx, Feuerbach, Hobbes, Darwin, Democrito, Lucrezio, Copernico, Galileo, Esiodo, Parmenide, Eraclito, Empedocle, Heidegger, Schopenhauer, Nietzsche, Einstein, Spinoza) senza contare quelli che cita più volte (il numero sale così a trentatre) e senza contare le citazioni sommarie di movimenti culturali come «l’idealismo», «la storia delle idee», «le filosofie orientali» e molti altri (il numero sale ancora e raggiunge le quaranta citazioni in una pagina!).

Assistiamo così allo scomodamento di schiere di pensatori di ogni tempo, citati uno dietro l’altro senza nient’altro che il loro nome, evocati tutti a mo’ di percorso storico-filosofico in cui la tesi di Scalfari rappresenterebbe il dignitoso e sudato punto di arrivo.

Eppure se il filosofo Scalfari avesse avuto davvero presente l’opera di qualche personaggio citato in precedenza, avrebbe notato magari con un certo divertimento che l’intera Critica della ragion pura di Kant, che nelle moderne edizioni si aggira intorno alle settecento pagine, conta in tutto solo trentaquattro filosofi citati; Essere e tempo di Heidegger, anch’essa intorno alle seicento pagine, ne conta sessantasette; la Fenomenologia dello Spirito di Hegel – stessa lunghezza delle precedenti – conta circa dodici filosofi citati!

Ma allora: quale sarà l’illuminante tesi di fondo che ha reso legittimo tanto citazionismo? La tesi, che forse riesce a qualificarsi dignitosamente per un certo tipo di giornalismo o di intellettualismo, ma sicuramente non per un aspirante filosofo è: «Io credo nel caos, non solo originario ma permanente e in perenne divenire» e ancora «Si può chiamare Dio l’energia? Certo si può con l’avvertenza che l’energia è immanente [e] sta dentro tutte le forme e anima la vita e il caos che sta dentro di loro».

Forse l’autore avrebbe dovuto dedicare più spazio alla spiegazione di tali riflessioni, anziché occupare tanta carta bianca per sfoggiare una conoscenza filosofica probabilmente poco approfondita. Ma in un simile tripudio di pseudo-cultura, un risultato certo c’è: per il lettore medio, non può che svilupparsi disinteresse, allontanamento e qualche risatina oltre alla pericolosissima illusione che basti poco, in fondo, per poter parlare competentemente di certi argomenti.

Insomma, se i filosofi fossero coloro che vivono, pensano, si arrovellano intorno a massime del genere i nostri manuali di storia della filosofia dovrebbero includere i nomi di metà popolazione mondiale. Oppure di nessuno.

Luca Mauceri

[Immagine tratta da Google Immagini]