Il ritrattista – Carlo Buccheri

Una Milano alla vigilia dell’Expo, Alfio Cafiero stagista al Corriere della Sera, un serial killer enigmatico; questi sono gli ingredienti principali del romanzo d’esordio di Carlo Buccheri.
Romanzo semplice, essenziale, che allo stesso tempo non rinuncia al particolare, alla descrizione dei personaggi, soprattutto del loro lato interiore.

Alfio Cafiero, il protagonista della storia, appare come un giovane giornalista promettente, più per la sua schiettezza e intraprendenza che per gli articoli, un po’ troppo ironici e poco professionali che tuttavia rispecchiano il suo carattere, i suoi modi di fare, talvolta irriverenti nei confronti di chi gli sta davanti: il direttore, due importanti registi italiani trapiantati negli ‘States‘, il commissario Battistella, l’assassino seriale che sconvolge la sua vita privata e professionale…
Solamente verso il suo tutor, il dottor Teruzzi, prova una sorta di rispetto e soggezione.
Un ragazzo alla ricerca del successo improvviso, dei sogni modellati sui film americani, a metà tra l’eroico e l’impacciato che tuttavia strappa sempre un sorriso.

Da semplice stagista, emarginato da colleghi ben più celebri, si ritrova al centro del caso mediatico che infiamma la cronaca locale e nazionale, viene scelto personalmente dall’assassino come interlocutore a cui affidare l’esclusiva degli omicidi, o ‘opere d’arte’ come le chiama lui.
Ma perché?
Perché “il dottor Cafiero” è tagliente, sincero, non tralascia nulla; un perfetto ritrattista per un uomo in cerca di macabra attenzione.

copertina-ritrattista1-378x537Attorno ad Alfio gravitano personaggi altrettanto caratteristici: Mauro, un professore di religione in pensione; Rosita, la ragazza ispano-abruzzese con la quale condivide l’appartamento e Pantaleo Frontino detto Diogene, ‘filosofo contemporaneo’ con la sua inseparabile fisarmonica.

Lo stile di scrittura è calzante, coinvolgente, il classico romanzo giallo che ‘prende’ e porta via le ore come se fossero minuti.
I riferimenti alla Filosofia sono filtrati attraverso gli occhi del protagonista e dei suoi amici, a loro volta pensatori eccentrici, quasi estranei al 2012, anno in cui sono ambientati i fatti.
Sono presenti salti temporali, brevi ma necessari per seminare indizi che il lettore è portato a raccogliere, conscio che verso le ultime pagine tutti i nodi verranno al pettine e i puntini saranno uniti da una linea che renderà definitivo il disegno dell’autore.
I sospetti ricadranno inevitabilmente su numero imprecisato di persone, ma il colpo di scena è garantito.

Alessandro Basso

[immagine tratte da Google Immagini]

 

Giornalismo e Filosofia: interazione o rivoluzione?

Per Foucault, che considerava il proprio lavoro più affine a quello del giornalista che a quello del filosofo, giornalismo e filosofia si intrecciano e modellano a vicenda, dando vita, alla fine, alla soluzione della problematica sull’oggi e il rapporto tra l’evento del momento e l’attualità. Proprio Foucault è il punto di partenza (già alla fine del XVIII secolo) per analizzare il fatto che “non ci sono molte filosofie che non ruotino attorno alla domanda: Chi siamo noi adesso? Ma penso che tale domanda sia il fondamento di chi, forte della sua etica e deontologia professionale, dedica la sua vita al giornalismo”. Ecco che, al momento, la domanda da porsi, sia esso un filosofo o un giornalista è quale significato acquista, oggi per noi, il cosiddetto “giornalismo filosofico”.

La risposta va ricercata su entrambi i fronti, ascoltando la voce del “filosofo” e quella del “giornalista”, analizzando il tutto da entrambe le prospettive. L’obiettivo è proprio quello di capire in cosa consista la differente angolatura tra le due e dove risieda la loro specificità. In altri termini: cosa significa praticare giornalismo filosofico dal punto di vista di un giornalista e da quello di un filosofo. Ruolo importante, in entrambi i casi, lo svolge la pratica del dire la verità all’interno del giornalismo filosofico e di che tipo di verità eventualmente si tratta. Insomma, il “giornalismo filosofico” consiste in una sorta di “battaglia a colpi di verità” contro il potere o produce piuttosto uno slittamento della posizione, della funzione e anche del significato di “verità” (spostando il problema sul piano della visibilità, ovvero, in termini prettamente e squisitamente filosofici, rendendo visibile ciò che non lo è (tornando indietro nell’antichità la sostanziale differenza tra noumenon e phenoumenon)? In questo caso diventa fondamentale, per produrre un certo effetto politico, il fatto in sé di dire la verità. La verità intesa in senso oggettivo, senza giudizi personali, secca, così come è realmente accaduta. Entra, solo dopo, in gioco il rapporto tra “giornalismo filosofico” da un lato e critica dall’altro, e in che modo la critica può aprire concretamente nuovi spazi di resistenza. Partendo dall’Illuminismo, Foucault utilizzava l’espressione “ontologia critica di noi stessi“ per indicare un atteggiamento in cui “la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei nostri limiti e prova del loro superamento possibile“.

Un pensiero che sottintende al fatto che la pratica del “giornalismo filosofico” vada inserita all’interno di un processo di trasformazione e cambiamento rispetto al contesto, sempre specifico e politicamente determinato, in cui agisce. Questo non vuol dire alterare la verità piegandola al “volere” della politica trasformandola quindi in una “non verità”, ma analizzarla con oggettività e obiettività come base per una discussione finemente politica che faccia emergere problemi e conseguenti soluzioni. Diventa, se etica e deontologia vengono rispettate come dovrebbe un giornalista, inutile parlare o discutere di “militanza” nel caso della pratica del “giornalismo filosofico”, non additando, dunque, il “giornalismo filosofico” come modalità di “engagement” politico o di resistenza. La posta in gioco principale consiste, concludendo, nella capacità di superare definitivamente l’opposizione tra lavoro teorico ed “engagement” individuale, introducendo nuove possibilità per colui che pratica il giornalismo filosofico di essere coinvolto in prima persona rispetto al proprio presente. In parole più semplici, la verità inconfutabile come base per la discussione politica/filosofica su basi concrete e non su voli pindarici. Compito, quest’ultimo, che ritroviamo proprio nel pensiero di Foucault. “Ho tentato di fare delle cose che implichino un engagement personale, fisico e reale – diceva il filosofo – e che pongano i problemi in termini concreti, precisi, definiti all’interno di una situazione data”. All’interno di questa prospettiva di indagine, diventa fondamentale allora chiedersi, concretamente, quali siano le connessioni più efficaci e realizzabili che il giornalismo filosofico può intessere con gli specifici contesti sociali: in quali campi, oggi, la pratica del giornalismo filosofico abbia maggiori margini di manovra e possa dare luogo a trasformazioni significative al livello dei rapporti di forza esistenti.

La risposta sta nel giornalismo di indagine e nel lavoro di ufficio stampa e portavoce nel quale (se svolto con correttezza, etica e professionalità) l’indagine conclusa o l movimento politico (inteso anche come persona fisica che “vive” di politica) siano solo lo specchio pulito di una realtà oggettiva che, a quel punto, viene comunicata solo con un messaggio meno tecnico e accessibile a tutti. Per chi lavora nel capo della filosofia come nel campo del giornalismo, dunque, bisogna sempre tenere presente il detto che narra che “se tu non ti occupi di politica, prima o poi sarà la politica a occuparsi di te”. E se dunque, di necessità virtù, l’argomento va affrontato, questo avvenga senza alcuna negazione o mistificazione di una realtà oggettiva e narrata in modo cronistico.

Gian Nicola Pittalis

Nella testa di una jihadista – Anna Erelle

“Fratelli del mondo intero, lancio la fatwa contro questo essere impuro che si è preso gioco dell’Onnipotente. Se la vedete, ovunque siate, rispettate le leggi islamiche e uccidetela. A condizione che la sua morte sia lenta e dolorosa. Chi si fa beffe dell’Islam ne pagherà le conseguenze col sangue. Essa è più impura di un cane, violentatela, lapidatela, finitela. Insciallah”.

Leggo la fatwa lanciata da Abu Bilel verso Anne Erelle nel luglio 2014 e sento pervadere il mio corpo da brividi di orrore e al tempo stesso da una repulsione che contengo a fatica.

Famosa giornalista d’inchiesta francese, Anne Erelle si è sempre definita interessata all’indagine sui comportamenti devianti; poco importava quale ne fosse l’origine, la sua ricerca è sempre andata ben oltre i fatti, cercando di cogliere i motivi per cui i destini di moltissime giovani fossero fatalmente caduti in trappola. E’ fenomeno estremamente attuale quello che vede protagoniste le adolescenti europee: vengono reclutate tramite internet per scappare dai loro paesi d’origine e dirigersi in Siria ed affrontare la guerra santa per lo Stato Islamico. E’ molto forte il proselitismo jihadista, non ha nulla a che fare coi metodi più vecchi: la “Jihad 2.0” è efficace, moderna, accattivante.

La vicenda riportata in “Nella testa di una jihadista” ha inizio nel marzo 2014. La giornalista d’inchiesta francese Anne Erelle, durante una delle sue indagini, entra in contatto attraverso un profilo fake in cui si fa chiamare Melanie con Abu Bilel, importante mujahiddin di origine europea. L’uomo si invaghisce della ragazza già dai primi scambi di messaggi, ritrovando in lei un bersaglio ideale per il reclutamento di giovani convertite, e in meno di ventiquattro ore le chiede già di incontrarsi su Skype, offrendole un matrimonio e un futuro in cui poter combattere per uccidere gli infedeli, per contribuire alla trasformazione dell’Islam in unico sovrano mondiale.

Un uomo che chiede a Melanie del profumo che porta e al tempo stesso esalta i suoi luoghi di battaglia in cui si vede ancora il sangue dei corpi uccisi.

E’ un lavoro duro quello di uccidere gli infedeli, mica sono in un villaggio turistico“: così afferma con fierezza, rimarcando tratti di fanatismo che non rendono giustizia all’umanità, che offendono il concetto stesso di vita per qualsiasi religione o culto che meriti di chiamarsi tale.

Dopo settimane di chat, Anne Erelle e la sua sete di indagine la portano ad accettare la proposta di matrimonio di Abu Libel e a dirigersi in Siria: al confine viene però scoperta e costretta a tornare immediatamente in Francia. Su di lei viene lanciata la fatwa mortale, un esito che la porta ad essere costretta a vivere sotto copertura e falso nome, nascosta per sopravvivere.

E’ una storia di coraggio ed indagine, è un diario di lotta e determinazione. Una donna che lotta per comprendere un fenomeno che è ancora troppo distante dalle nostre concezioni, pur avvicinandosi a noi sempre più pericolosamente. Cosa affascina le giovani donne che lasciano famiglie, parenti e amici per una vita ad estremo contatto con la violenza in cui alternano continuamente gli status di vittime sottomesse e carnefici spietati?

E’ un meccanismo complicato ed avvincente quello degli jihadisti, che considerano più facile conquistare l’Occidente avvicinandosi alle donne, perché il sesso più debole ed influenzabile.

“Voi donne europee siete maltrattate e considerate oggetti. Gli uomini vi esibiscono al loro fianco come un trofeo. E’ necessario che l’IS raggiunga il maggior numero di persone, ma prima di tutto quelle più maltrattate, come le donne”.

Abu Libel offre a Melanie la salvezza, sembra volerla portare via da un mondo che non la considera abbastanza. Abbastanza importante. Abbastanza persona. Abbastanza donna. Le prospetta importanza, ma al tempo stesso il suo tono non è soltanto autorevole, ma piuttosto autoritario. Un’autorità che non lascia dubbi sulla differenza tra oggettività o soggettività di una donna. Un’autorità che affascina troppe donne indifese, perché alla ricerca di considerazione. Un’autorità che preoccupa le donne che lottano ogni giorno per essere considerati tali. Un’autorità sfrontata, che non conosce limiti e riserve.

L’esperienza di Anne Erelle è quella di una donna che lotta per le donne. E’ quella di una passione talmente forte da mettere a rischio la propria vita. E’ quella di chi ha talmente tanto coraggio da poter rinunciare alle paure più comuni e giustificate. Un diario d’inchiesta da leggere d’un fiato per aprire gli occhi su una realtà terribilmente in prospettiva e – ancor prima di tutto – per raccontare una storia di coraggio.

“La storia dell’Uomo è anzitutto e soprattutto una storia di coraggio: la prova che senza il coraggio non fai nulla, che se non hai coraggio nemmeno l’intelligenza ti serve”. Oriana Fallaci

Cecilia Coletta

[immagini tratte da Google Immagini]