Nuovi Eden, o di un’estetica dell’attesa

Da studenti di architettura una delle questioni che più si sente ripetere è quella del significato più proprio del progettare: l’architetto non è colui che costruisce ma è colui che indica come farlo. Per questo “progetta”, ovvero pro-iecta cose future (dal latino: pro-iectum, “gettare avanti”). A parer mio l’implicazione più importante del significato etimologico del pro-iectum è che l’architetto è colui il quale, innanzitutto, sa pazientare. In primo luogo, pro-gettare significa dare importanza all’attesa, e la variabile di cui troppo spesso ci si dimentica è il tempo. Difatti, se lancio qualcosa di fronte a me devo come minimo poi darmi il tempo di percorrere lo spazio che ora mi distanzia da essa. La vera implicazione del latinismo in questione è che il progetto è una questione temporale. Il progetto è tempo dell’attesa.

Una delle riflessioni recenti più interessanti a riguardo la fa Byung-Chul Han che, parlando di giardini, afferma: «Rifletto sulla mano del giardiniere. […] È una mano che […] attende, una mano paziente. […] Guarda in lontananza» (B.C. Han, Elogio della terra, 2022).
La mano del giardiniere non ci sembra quindi molto diversa da quella dell’architetto: entrambe sono mani che “guardano in lontananza” e, nel farlo, pazientano. O così dovrebbero. Invece, spesso al giorno d’oggi si guarda al progetto solamente con gli occhi del presente. Il “gettato avanti” del pro-iectum diventa così qualcosa che ci cade sui piedi. Il “tutto-e-subito” è un mantra all’interno dell’odierna società della prestazione, che Han definisce stanca (cfr. B.C. Han, La società della stanchezza, 2010). Siamo troppo stanchi per “gettare avanti”.
Una nuova tendenza si sta però delineando. Date le premesse del riscaldamento globale e dell’avvenuto salto qualitativo nelle sensibilità ambientale ed ecosistemica, l’architettura odierna cerca salvezza. Basti pensare ai progetti per il Porto Vecchio di Trieste di Alfonso Femia (2022), a quello di ingente piantumazione lungo il Boulevard Périphérique di Parigi (2022), alla Liuzhou Forest City di Stefano Boeri (2017). Qui ed ora, nuovi Eden vanno cercandosi – e costruendosi.

Una delle profetiche voci di questa generale riforestazione è quella di Gilles Clément. Agronomo e paesaggista, si autodefinisce “giardiniere” ed è diventato famoso con il suo Manifesto del Terzo paesaggio (2004), oltre che con progetti come il Parc André Citroën di Parigi (1985) [che è foto di copertina di questo articolo]. Più che questo primo testo però, ne ritorna qui utile un altro, il suo Giardini, paesaggio e genio naturale (2012), nel quale ci rende consci dell’importante variazione di paradigma estetico che stiamo attraversando:

«Dobbiamo […] liberarci dell’assurdo contratto […] per cui il paesaggista (o il giardiniere) sareb-
be garante d’un paesaggio definitivo […]. Alla consegna del suo lavoro, il paesaggista sa che il giardino comincia» (G. Clément, Giardino, paesaggio e genio naturale, 2013).

Infine, si chiede: «Nel corso del tempo, cosa diventa la sua forma?» (ibidem).
La domanda che si pone Clément è significativa: nell’odierna inversione gerarchica tra natura e costruito è in corso anche un cambiamento di tipo estetico. Il palcoscenico ruota, e con il litico che passa in secondo piano si prende ora la scena il naturale: viene cioè in primo piano il cangiante, il vivente. Ma che forma possiede questo vivente? Per l’architetto, ciò significa accettare la «natura quale coautrice della sua opera» (ibidem). Attenderla, ed accettare la sua non-staticità ed il suo costante variare.
Clément battezza poi il concetto di “giardino planetario”, un giardino che ha allargato i suoi confini fino a farli coincidere con la superficie del pianeta: ognuno di noi diventa, in questa visione, “giardiniere planetario”, (più) responsabile della nostra comune casa. Architetti inclusi.

***

La mano dell’architetto-a-venire è quindi, molte più volte di quanto non lo sia ora, ferma. Non è un rifiuto del progettare. Invece, è un nuovo approccio al progetto, un nuovo approccio estetico che, più che disciplinare, accetta.
L’architetto-artista del Novecento, che si pone come scaturigine unica del progetto, cede il pennello al nuovo architetto-giardiniere, che lo prende, lo posa, e indugia. Fermo, attende e contempla – il gioco sapiente, a suo modo rigoroso e magnifico della natura nella luce.

 

Tommaso Antiga

 

[Immagine tratta da Google]

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Dietro a ogni giardino c’è un’utopia

Nel libro intitolato Giardinosofia. Una storia filosofica del giardino, pubblicato nel 2018, Santiago Beruete, antropologo e filosofo spagnolo, si interroga attraverso una lunga e approfondita analisi sul perché gli uomini nella storia hanno sentito la necessità di costruire e coltivare giardini. Beruete avanza l’ipotesi che riflettere sull’essenza dei giardini e del giardinaggio sia anche un modo per comprendere come gli individui abitino i luoghi e diano significato ai loro spazi di vita. Per questo motivo, le oltre quattrocento pagine del testo non si limitano solo a riportare una cronaca di come, in diverse epoche, siano stati costruiti e pensati gli spazi verdi artificiali, ma scavano e vangano l’impervio terreno attorno ai concetti che rappresentano i semi da cui si generano le visioni del mondo e si progettano gli ambienti di vita.

Seguendo questo punto di vista, uno dei passaggi fondamentali nel libro è costituito dal saldo legame che Beruete pone tra giardino e utopia, tra giardinaggio e pensiero utopico, tra «costruzione materiale e esercizio mentale». L’autore insiste più volte sulla simmetria tra l’esperimento intellettuale di immaginare un buon-luogo e l’attività di cura e di gestione del verde attorno a noi, suggerendo che entrambe affondano le radici nel desiderio di pensare, rappresentare e vivere un mondo migliore. Propriamente l’autore afferma che il giardino
gode di una dimensione utopica, realizzando gli ideali e idealizzando la realtà: come in ogni epoca esiste una città ideale, ogni società dà alla luce un’idea di giardino che le è confacente.

Durante questo lungo periodo di sospensione dei rapporti sociali, chi ha avuto la fortuna di abitare in una casa con un orto o con un giardino ha potuto trascorrere la giornata all’aria aperta dedicandosi alla cura delle piante e all’abbellimento degli spazi. Strappare le erbacce, dissodare il terreno, sistemare i vasi, piantare gli ortaggi e innaffiare i fiori sono lavori impegnativi che richiedono un’intensa attività manuale e non concedono molto tempo per grandi riflessioni filosofiche. Eppure la motivazione che spinge a faticare sotto il sole e a sporcarsi le mani con la terra deriva da come le persone vorrebbero idealmente che fosse il luogo in cui allontanarsi dal resto del mondo e dove trascorrere parte del loro tempo libero. In altre parole nella testa di ogni giardiniere esiste un giardino ideale frutto di un esercizio mentale attraverso il quale viene proiettata una serie di valori legati al senso estetico, al benessere e al modo di intendere il rapporto con la natura.

Ad esempio, si può scegliere di ricreare uno spazio verde dominato dalla misura e dal rispetto delle simmetrie in cui le aiuole, le singole piante, i fiori, i vasi e le decorazioni vengono posizionati formando rapporti costanti e regolari tra loro. Oppure si può cedere al desiderio di ricreare un ambiente primitivo e selvaggio in cui regna la natura incontaminata, lasciando che i vegetali prendano il sopravvento sui laterizi. Anche la scelta di quali concimi e di quali diserbanti utilizzare può essere dettata da una visione etica ed ecologica dell’ambiente che si vuole realizzare all’interno della recinzione. I tipi di ortaggi seminati, invece, possono derivare dal gusto o dal desiderio di sfruttare la naturale fertilità del suolo promuovendo la biodiversità delle specie domestiche.

Pertanto il giardinaggio, anche se a un primo sguardo appare come un’attività principalmente manuale, mostra degli aspetti che si prestano a riflessioni e ad alcuni ragionamenti che permettono di cogliere come, in generale, gli uomini diano significato e valore ai propri spazi di vita, partendo da visioni e da proiezioni del pensiero che vorrebbero realizzare concretamente. Si può affermare quindi che ogni giardino tende a un’utopia nel duplice senso di un non-luogo (οὐ τόπος, u topos), che non si trova da nessuna altra parte, e di un buon luogo (εὖ τόπος, eu topos) in cui vivere.

Se dietro a ogni giardino si nasconde un’utopia, ossia un modello ideale da realizzare, allora nella cura degli spazi verdi possiamo ritrovare una ricerca della qualità della vita e dell’ambiente in cui vorremmo abitare. Quando questa ricerca oltrepassa i confini del giardino, non riguarda più solo il singolo ma l’intera comunità e il suo territorio.

 

Umberto Anesi

 

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Let’s take care

Qualche tempo fa, una persona cara che ho avuto modo di conoscere meglio qui a Parigi mi ha detto di prendermi cura di me. Di lottare e di impedire al dover essere di avere la meglio sul mio corpo e il mio spirito perché non ci dovrebbe essere davvero nulla che che ognuno di noi deve a tutti i costi fare.

Tutte le mie scelte dovrebbero essere frutto di una volontà deliberata, senza obblighi né costrizioni, ogni desiderio rincorso, ogni piccolo piacere assaporato, senza il peso di un dovere che mi sovrasta e che e che soffoca di insicurezze.

Può sembrare strano, ma davvero a volte ho bisogno di qualcuno che me lo ricordi, che mi ricordi che prendermi cura di me stessa, questo sì dovrebbe essere un dovere e una priorità.

Più il tempo passa, più mi sto rendendo conto che affidarsi all’altro non è possibile se prima di tutto non si ha fatto i conti con se stessi.

Con ciò non voglio realizzare l’elogio dell’individualismo, negando il valore che un’alterità che ci accompagna nella nostra vita potrebbe avere, quanto più riscrivere i fondamenti necessari del vivere insieme, a partire dalla cura che ognuno dovrebbe avere per il proprio orticello.

Care. Take care of you!

Quanti si sono sentiti dire questa frase, almeno una volta della vita?

Quanti però hanno anche fatto scivolare via queste parole come se in realtà fossero vuote di senso?In quanti abbiamo pensato che for taking care of ourselves avevamo davvero molto tempo e che ci avremmo pensato in un altro momento perché nel qui e ora eravamo troppo indaffarati a fare altro?

Ci nascondiamo dietro a piacevoli illusioni, preferiamo rimanere imprigionati nella nostra routine mentre è proprio la cura, di noi stessi e di ogni singolo gesto, a venire meno.

Quasi scomparsa. Eppure presente nelle parole di tutti. Ricercata.

Lucien Sfez, in Critica della comunicazione, allo scopo di descrivere la dipendenza che lega l’uomo all’oggetto tecnico, utilizza una metafora molto efficace: il tautismo, ovvero un neologismo nato dall’unione della parola “tautologia” e “autismo”.

Apparentemente secondo Sfez, siamo sordi a tutto ciò che ci circonda, siamo immersi in un mondo gestito dai mezzi tecnologici dove tutto sembra equivalersi e ripetiamo in esso funzioni che oramai sembrano essere meccaniche ed automatiche a tal punto che sono più i mezzi a guidarci, che viceversa.

Eppure, sostiene Sféz, è proprio in un mondo come questo che sentiamo il bisogno di utilizzare le parole per colmare quella sorta di vuoto che la frenesia giornaliera porta con sé.

Parole per ritrovare quel senso che le giornate perdono. Parole per nominare una sofferenza che dobbiamo nascondere, perché dobbiamo essere forti, dobbiamo farcela.

Parole perfino per nominare l’amore, perché c’è chi trova la scusa che non si ha nemmeno più il tempo per quello e che la solitudine, in fondo, è la soluzione migliore e protegge da qualsiasi problema..

Parole per nominare il bisogno di cura e riconoscimento.

Dalla filosofia, alla psicologia e la sociologia non si fa altro che parlare della necessità di ricominciare a prendersi cura di sé e dell’altro al fine di poter ricostruire un mondo socializzante, eppure sembra tutto così faticoso.

Quando in realtà, a volte, si tratterebbe di piccoli gesti, piccole attenzioni, piccoli passi in avanti.

Piccoli “sì” che ci permetterebbero di uscire dalle sabbie mobili.

E allora capisco bene cosa intende Sféz quando sostiene che siamo soliti utilizzare le parole quando l’oggetto a cui esse si riferiscono non esiste più, oppure non è mai esistito.

È in assenza di parole che ci sentiamo persi, abbandonati in un bosco buio e freddo.

Ma anche utilizzare le parole, spesso, non è sufficiente e non basta nominare il bisogno di cura e di riconoscimento per rimettere in ordine i pezzi che il sistema sociale ha sparso qui e lì.

Non è abbastanza constatare una mancanza, per riuscire a viverne senza.

Al contrario, c’è bisogno di metabolizzare il lutto dentro di sé, viverlo giorno dopo giorno.

Ma per realizzare ciò, è necessario un grado di consapevolezza che ci permetta di svegliarci e di distogliere lo sguardo da quelle che sono le ombre della caverna, come suggerirebbe Platone, per rivolgerlo verso il sole, verso la luce autentica che esiste dentro di noi e dare ascolto a quella voce che chiama, chiedendoci aiuto.

Fermarsi, non essere ingranaggi di un meccanismo perverso.

Ascoltare e ascoltarci.

Come scrisse William Shakespeare infatti, “ I nostri corpi sono i nostri giardini dei quali le nostre volontà sono i giardinieri.”

Sara Roggi

[Immagini tratte de Google Immagini]