L’urgenza del vivere da Paul Valéry a Hayao Miyazaki

Ho sempre avuto un certo feeling con il Giappone e tutte le sue follie, dai Kit-Kat al tè macha alla loro incapacità di dirsi “ti amo”, e sebbene in questo ultimo periodo io mi sia appassionata alle teorie dello zen e alla loro estetica precisa ed essenziale, credo che nulla mi abbia ancora affascinato quanto i mondi creati da uno dei più importanti autori di film d’animazione del mondo: il maestro Hayao Miyazaki.

Se non è così difficile farsi trascinare nel mondo fatato degli spiriti de La città incantata né rimanere affascinati dalla porta magica di Howl o desiderare di poter abbracciare il morbido orso/gatto Totoro, meno immediato è forse cogliere la critica di Miyazaki nei confronti di ogni forma di guerra e avvertire le ombre scure da lui gettate sul tema della tecnica e del progresso. Sono tuttavia temi che attraversano tutta la filmografia del maestro, a partire da Conan il ragazzo del futuro (1978) fino all’ultimo capolavoro, del 2013, Si alza il vento. Miyazaki, che in gioventù aveva partecipato attivamente ai movimenti pacifisti e alle proteste che attraversarono il Giappone dagli anni Cinquanta fino almeno al Sessantotto, si interroga senza lasciare vera risposta sugli effetti del progresso tecnologico sul corso della storia e dunque sull’umanità. Le ambientazioni futuristiche di opere come Nausicaä della Valle del Vento e Laputa – Castello nel cielo puntano il dito contro un uomo del presente (ma anche dell’immediato passato) incapace di resistere all’avidità di denaro e potere, che si traduce in maniera immediata in un totale disinteresse per l’ambiente e la Natura. L’uomo insomma, come spiega chiaramente Marco Casolino, «non sarebbe in grado di gestire i cambiamenti sociali e culturali che […] porta con sé»1 e quello che Miyazaki si auspica è un’educazione che sappia pensare insieme la Storia e la tecnica.

Questa ambiguità della tecnica è mirabilmente espressa anche nella storia di Jirō, ingegnere aeronautico protagonista di Si alza il vento, un sognatore che cerca nelle spine di sgombro la curva perfetta per le sue ali, costruttore di un aereo che verrà poi tristemente utilizzato dall’aviazione giapponese nelle missioni cosiddette “kamikaze” della seconda guerra mondiale. La purezza delle intenzioni di Jirō, la sua dedizione sincera verso i suoi ideali e i suoi sogni, incontrano una Storia che invece soffia in modo furibondo verso un’altra direzione. Il vento e l’aria, la leggerezza e gli aeroplani che attraversano con minore o maggiore discrezione tutta la filmografia di Miyazaki, si traducono qui nell’afflato esistenziale dell’individuo (in particolare dei protagonisti Jirō e Nahoko) e nel vento della Storia che avanza e che lo ostacola: l’unica risposta a questo vento contrario, per il maestro giapponese, è esistere. Mentre qualcosa di spaventoso, enorme e impellente domina la Storia, qualcosa di ancora più urgente guida i protagonisti – un po’ come avveniva, secondo Deleuze, ad alcuni personaggi di Dostoevskij: un’urgenza interiore ancora più impellente costituita dall’adesione, sempre e comunque, al proprio progetto di vita. Quel soffio personale del nostro esistere non può sottrarsi al tifone della storia, ma può continuare ad esistervi all’interno se si agisce con dedizione e purezza, senza rischiare di smarrirsi.

È qui che arriviamo a Paul Valéry e a quel verso de Il cimitero marino (1920) che dà senso al titolo del film: «Le vent se lève!… Il faut tenter de vivre», “si alza il vento, bisogna sforzarsi di vivere” (“kaze tachinu, iza ikimeyamo”, se volete scoprire come suona in giapponese). Nel fluire del vento, ovvero il tempo della Storia, bisogna trovare il proprio spazio esistenziale, come Jirō e Nahoko, «testimonianze vibranti di un impegno etico a vivere appieno il presente, ad essere nel proprio tempo fino in fondo senza però identificarsi del tutto con esso, senza appiattirsi su di esso»2. La lunga poesia di Valéry, ricca di analogie non sempre comprensibili e lasciate alla sensibilità di ciascun lettore, termina con questo grido di adesione alla vita, questo tentativo del poeta di non farsi vincere dal cupo Nulla e dalla Morte e di adagiarsi invece al fluire (a volte turbinoso ma naturale) del mondo, della natura che sta ammirando dalla cima della collina affacciata sul mare. La volontà di parteciparvi in qualche modo, di esistere, è anticipato da quell’ ek- che dà il senso della spinta verso l’esterno, verso quel mondo che è in grado di ferirci ma anche di regalarci doni preziosi, bellezza, scoperta.

Trovare il proprio respiro sul soffio del vento.

 

Giorgia Favero

 

NOTE
1. M. Casolino, Scienza, tecnologia e natura in Miyazaki, in M. Boscariol (a cura d), I mondi di Miyazaki. Percorsi filosofici negli universi dell’artista giapponese, Mimesis Edizioni, Milano 2016, p. 58.
2. M. Ghilardi, Tempo, tecnica, esistenza nell’ultimo Miyazaki, in M. Boscariol (a cura di), op.cit., p. 38.

[Photo Credit: Andrea Junqueira]

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Marcello Ghilardi racconta il rapporto arte-natura in Giappone

Per me che ho approcciato la filosofia in un secondo momento rispetto agli anni dell’università, affrontare un tema senza mettere a confronto pensieri e schemi di pensiero differenti non può che impoverire gli orizzonti di significato che lo riguardano. Ecco perché nelle nostre riviste cartacee faccio il possibile affinché la tematica prescelta abbia anche interlocutori “altri” rispetto a quelli formatisi e “rimasti” entro una cultura di pensiero occidentale.

Nelle pagine della rivista #12 dedicata al tema del corpo ho avuto il piacere di confrontarmi con Marcello Ghilardi, professore associato di Estetica presso l’Università di Padova, i cui ambiti principali di ricerca sono l’alterità, il pensiero interculturale e l’estetica giapponese. In questo breve estratto dell’intervista viene trattato il tema dell’arte, naturalmente legato a quello della natura fino a quel momento discusso.

 

Marcello Ghilardi – Arte è un termine che noi usiamo per tradurre un binomio giapponese che è geijutsu 芸術 o geidō 芸道 , in quanto “Via (spirituale) delle arti” –  esso ha nel suo “radicale” (in questo caso, la parte in alto del primo carattere) della scrittura calligrafica il senso delle piante che crescono, come a dire che anche in questo caso nella sua costituzione fondamentale l’arte è qualcosa che cresce spontaneamente. Una volta ancora l’uomo è il mezzo con cui un dipinto si fa, una composizione floreale si fa, una poesia si compone e così via. Non c’è né uno sforzo mimetico-rappresentativo, né tradizionalmente (e qui intendiamo prima dell’incontro con l’Occidente) un’espressione dell’animo umano e della soggettività. Certo, ci sono esempi di componimenti e dipinti del paesaggio che sembrerebbero alludere a una interiorità che noi chiameremmo “soggettiva”, per esempio è vero che un bosco scosso dal vento ci può richiamare lo stato d’animo del pittore, tuttavia non è quella l’idea di fondo. L’arte raggiunge il suo apice quando l’artista, il pittore, il poeta, il danzatore e così via si fa luogo vuoto per l’accadimento di qualcosa che lo supera; si dispone alla ricezione di questa energia vitale, del soffio che prende forma in musica, in poesia, in pittura. È lo stesso ki [o qi in cinese è il soffio, l’energia vitale, ndR] che permea il paesaggio che diventa anche paesaggio dipinto, tanto che in cinese classico uno stesso carattere, xiang, può significare sia “fenomeno” che “immagine”. Il fenomeno e l’immagine del paesaggio dipinto quindi è xiang, mentre per noi occidentali c’è sempre stato il dibattito tra “cosa” e “immagine”, distinguendo nettamente l’immagine di qualcosa dalla cosa in sé. Il carattere cinese che noi traduciamo come “creazione” infatti sarebbe piuttosto “trasformazione” o “modificazione”, perché l’artista non è tanto un “creatore” ma un “modificatore” dell’energia, del ki.

Anche lo spettatore fa parte del flusso, è compreso nel sistema di circolazione energetica: quando leggo una poesia o ascolto una musica, nella mia interiorità, nel mio cuore/mente (xin), ricreo quell’energia, le do spazio. In entrambi i modi la circuitazione energetica continua a prodursi ed è così raggiunto l’apice dell’arte, ovvero la naturalità, ciò che accade in quanto assoluta spontaneità. Non la perfezione imitativa, dunque, e nemmeno la creazione di qualcosa di bello, tanto che proprio il termine “bello” come lo intendiamo noi nella lingua giapponese manca. Attraverso il gesto artistico del corpo l’uomo rinnova il flusso costante di energia e può incontrare l’accadere del mondo, sia facendola sia godendone.

 

L’intervista a Marcello Ghilardi continua nella rivista La chiave di Sophia #12 – I sentieri del corpo, in uscita il 22 giugno 2020.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credits su unsplash.com]

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Dalle spezie al sushi, dalla porcellana agli anime: il fascino dell’Oriente ieri e oggi

Non è una semplice moda passeggera, destinata a svanire in poco tempo, e nemmeno una passione di nicchia alimentata da un piccolo gruppo di fanatici dell’esotico; il fascino che le culture orientali esercitano su moltissimi europei è qualcosa di molto più profondo e duraturo di quanto si possa immaginare, e non è certo riassumibile in termini di fenomeno di breve durata temporale o di mero effetto della globalizzazione.

Negli anni più recenti la cultura orientale, in particolar modo quella giapponese, è entrata a pieno titolo nei gusti e nelle abitudini della società europea, specialmente in alcuni specifici ambiti, quali quello culinario e quello dell’intrattenimento. Manga e anime, per esempio, sono ormai da alcuni decenni diventati parte integrante e solida della cultura occidentale, non solo tra i giovanissimi ma molto spesso anche nel mondo adulto. Allo stesso modo, il sushi rappresenta in modo sempre più marcato e radicato un pezzo di cultura giapponese trapiantato in Europa, talmente ben inserito da essere diventato parte ormai irrinunciabile dello stile di vita di moltissimi. 

Ma come si può giungere alla conclusione che questo grande successo delle culture cinese e giapponese nel nostro continente non sia una semplice moda? Per rispondere adeguatamente, a mio parere, sarà sufficiente guardare con attenzione al passato e ai cambiamenti avvenuti nello stile di vita dell’uomo europeo in seguito all’importazione di prodotti “esotici” e all’ibridazione di questi ultimi con quelli già esistenti (“tradizionali”). 

Non vi sono dubbi che mescolanze e appropriazioni di culture diverse nascano non soltanto da una necessità, ma molto più frequentemente dalla curiosità e dalla volontà quasi morbosa di conoscere le “stranezze” di popoli dalle tradizioni differenti, stranezze che permettono di estraniarsi momentaneamente dalla routine quotidiana e viaggiare idealmente in un altro mondo, simile al proprio ma pieno di meraviglie da scoprire, da assaporare, da vedere e collezionare. Ecco che proprio in questo modo, a partire dal Cinquecento, molti esponenti delle casate reali e granducali hanno iniziato a raccogliere oggetti esotici di ogni tipo, provenienti per la maggior parte dall’Asia Orientale e dall’America Meridionale. A questa passione per gli oggetti esotici si affiancò sin da subito l’apprezzamento per pietanze dal gusto nuovo e intrigante, che nel corso del Settecento conobbero un successo vastissimo anche presso le classi borghesi: il caffè, la cioccolata e il tè non facevano parte della tradizione culinaria europea ed erano inizialmente bevande di lusso importate da paesi lontanissimi, ma ben presto divennero un piacere di molti, al punto che oggigiorno vengono considerati parte fondamentale della nostra cucina. 

Anche per quel che riguarda l’arte, in passato molto è stato acquisito dalle culture dell’estremo Oriente. Basti pensare alla produzione della porcellana e delle lacche per comprendere come in Europa siano stati rielaborati modelli cinesi per creare una propria corrente artistica di grande successo, quella delle cosiddette chinoiserie, oggetti, arredi e dipinti di soggetto o gusto orientale rivisto in chiave europea. Se è anche vero che durante l’Ottocento la passione per le cineserie è andata ad affievolirsi, non si è tuttavia spento il fenomeno che ne sta alla base, ovvero l’attrazione per l’esotico, che nel XIX secolo ha prediletto il mondo arabo, in particolare Egitto, Palestina e Persia, a quello del sol levante. Spedizioni archeologiche e geografiche si sono spinte in queste regioni durante l’intero corso del secolo, molto spesso con pittori e fotografi al seguito che hanno poi trasmesso in occidente immagini inedite di affollatissimi mercati, minareti e lussureggianti giardini. 

Cosa è rimasto oggi di questa forte tendenza orientalista dei secoli scorsi? Non ce ne accorgiamo nemmeno, ma quelle che sembravano meraviglie bizzarre e pratiche inusuali sono entrate ormai nelle nostre abitudini in modo talmente profondo da fare fatica a isolarle e distinguerle. Banalmente, servizi in porcellana e molti altri oggetti ispirati all’Oriente o provenienti direttamente dalle sue culture sono diventati parte del nostro arredo, così come cibi, spezie e bevande di origine esotica sono parte fondamentale della nostra dieta. Anche il nostro gusto estetico risente oggi di queste tendenze orientaliste: l’enorme apprezzamento per l’archeologia egizia o mesopotamica, per esempio, derivano da quel fascino per l’esotico sviluppatosi soprattutto nell’Ottocento, e non concepito ai tempi di Michelangelo, per il quale, probabilmente, le statue di Ramesse II sarebbero apparse come opere primitive senza alcun valore. 

Alla luce di queste pur brevissime riflessioni, credo sia possibile delineare un po’ meglio ciò che sta accadendo nel presente, con l’invasione di oggetti e pratiche tipici della Cina e del Giappone nel vecchio continente. Non si tratta certo di una moda temporanea, ma di una penetrazione incisiva e duratura di abitudini estranee nel nostro stile di vita, esattamente come è successo per la cioccolata o la porcellana. Sono pienamente convinto che tra 100 o 150 anni il sushi sarà ben radicato nella cultura europea al punto da farne parte a tutti gli effetti, così come lo yoga sarà ancora ampiamente praticato e gli anime costantemente presenti in televisione. Questo perché mescolanze così massicce di culture e tradizioni, peraltro del tutto intenzionali, non sono e non possono essere soltanto meri momenti di passaggio, ma fanno parte della naturale evoluzione dell’uomo, che tende sempre al prestito, all’appropriazione e allo scambio di conoscenze e abitudini per progredire costantemente verso il benessere e la felicità. 

 

Luca Sperandio

 

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Lo Stato perfetto in Psycho-Pass

Rispetto ad opere di ingegno come i romanzi, o d’arte come i film, gli anime talvolta possono far storcere alquanto il naso, considerati come sono dai più (in Occidente) come “cose da bambini”, quasi non possano avere la stessa “dignità” dei romanzi o dei film. A ben considerare, questo giudizio non è però del tutto errato: gli anime, le trasposizioni animate dei manga (ossia dei fumetti nipponici) sono effettivamente anche “cose da bambini”, nella misura in cui i contenuti in essi espressi possono avere come target di riferimento i fanciulli – come non citare in proposito, ad esempio, Captain Tsubasa (1983-1986), noto in Italia con il titolo di Holly & Benji, i due fuoriclasse, oppure Sailor Moon (1993-1997)? Ma, appunto, quel giudizio è anche erroneo, perché gli anime possono veicolare messaggi “da bambini”, oppure “da adulti”. E quest’ultimo è appunto il caso di Psycho-Pass (2012-2014).

Psycho-Pass: in questa sede non ci si occuperà di evidenziare tutti i temi “adulti” (pure, molteplici) affrontati dalla serie ma di analizzare il concetto di Stato che essa mostra, un’analisi che culminerà con la questione concernente la perfezione o l’imperfezione di quell’ordinamento giuridico che pur, e sin dal primo episodio dell’anime, pretende di essere senza criticità di sorta.

L’anno è il 2112. La tecnologia ha raggiunto vette sì remote da permettere agli esseri umani di delegare totalmente alle macchine attività fondamentali per la sopravvivenza come l’agricoltura – ciò che ha permesso al Giappone di raggiungere l’autosufficienza alimentare, che a sua volta ha condotto a una politica estera isolazionista. La tecnologia, ancora, ha raggiunto vette sì remote da permettere agli esseri umani di delegare alle macchine la salvaguardia della propria specie – mediante il cosiddetto Sybil System. Il nome è evocativo e niente affatto “casuale”: così come, nell’età classica, la Sibilla Cumana tentava di predire gli eventi interpretando la volontà del dio Apollo, allo stesso modo molti secoli dopo un sistema neurale predice se il carattere di un individuo sia tale da condurlo a compiere crimini che possano infrangere l’equilibrio sociale.

Questo insomma il Giappone del futuro raccontato dall’anime: una società perfetta nella quale vi è completo ordine sociale grazie al totale controllo esercitato dal Sybil System, che, attraverso la polizia, provvede a reprimere i cittadini il cui carattere presenti un coefficiente di criminalità oltre i limiti consentiti, e a reprimerli in due modi, o rinchiudendoli in centri di terapie comportamentali dai quali solo difficilmente potranno uscire, oppure, se il loro coefficiente di criminalità è troppo alto, uccidendoli.

È davvero una società perfetta, questa? Sembra piuttosto discutibile. Discutibile perché perfezione non è sinonimo soltanto di ordine, in primo luogo. Uno stato totalitario è, ad esempio, totalmente ordinato, ma forse che per questo si possa dire sia anche perfetto? No, certo che no. Un ordinamento giuridico può essere pensato come ideale se, in esso, ai cittadini è garantita la libertà di essere pienamente fini-a-sé, e se ad ognuno di essi le politiche statuali garantiscono le medesime possibilità di essere scopi in se stessi, in piena giustizia – l’assenza di conflitti che da ciò consegue è dunque solo uno degli elementi che contraddistinguono una società perfetta, che primariamente è tale perché è etica. Ma, e nonostante tutta la sua avanzatezza tecnologica, quest’ultima è una considerazione che non è sviluppata dal Sybil System, da tale elaboratore dati che sfrutta la sinergia simultanea di cervelli umani per agire – in effetti, è una sorta di biocomputer. Che, al contrario, ritiene di aver dato i natali ad una società perfetta – secondo la tesi, tanto logicamente corretta quanto moralmente riduttiva, che uno Stato sia ideale se nessun cittadino infrange la legge. Quando in realtà la Tokyo del 2112 da esso retta è solo una società perfettamente disumana.

 

Riccardo Coppola

 

[Immagine tratta da Unsplash]

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Si dice famiglia se… Riflessioni su “Shoplifters” di Kore-Eda

«Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo»: questo il celebre incipit di Anna Karenina di Lev Tolstoj. E famiglia e felicità sono i due cardini della pellicola premiata con la Palma d’Oro al Festival di Cannes 2018, Shoplifters, in italiano Un affare di famiglia, del regista e sceneggiatore nipponico Hirokazu Kore-Eda.

Un film contraddittorio che lascia lo spettatore inchiodato alla poltrona in balìa di personali analisi freudiane e dilemmi da contratto sociale, un film pervaso dalla grazia, filtrata anche, a tratti, da un disgustoso realismo ‒ come le scene conviviali durante le quali “la nonna” si taglia le unghie e i commensali succhiano rumorosamente forchettate di spaghetti di soia – un film amaro che analizza le disuguaglianze sociali e il conflitto tra legge e natura.

Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia? Il nido pascoliano forse, intrecciato di legami viscerali e indissolubili? O la famiglia delineata da Hegel come relazione etica fondata sul matrimonio, la nascita e l’educazione dei figli? Oppure siamo un po’ come L’Étranger di Camus e di Baudelaire e abbiamo altri points de repères, senza padre, madre, sorella, fratello, né amici né patria, amiamo le nuvole che passano, meravigliose, là-bas?

Kore-Eda non sceglie, Kore-Eda mette tutto in discussione giocando con le sfumature e i dettagli – come le bruciature delle braccia della piccola Yuri e di Nobuyo che creano un legame di maternità, come segni del destino – Kore-Eda non propone il conflitto tra leggi della società e leggi di natura in termini manichei ma sconvolge lo spettatore, regala bellezza – come le inquadrature di una giornata trascorsa al mare e la voce di Yuri che chiama “fratellone” Shota che a sua volta sussurra “papà” guardando indietro, verso Osamu, con la mano appoggiata al finestrino dell’autobus diretto verso la famiglia adottiva – e lascia interrogativi: quanto contano i legami di sangue e quelli acquisiti? Come superare un trauma? Che cos’è la genitorialità?

Quello di Kore-Eda non è il Giappone sofisticato dei ciliegi in fiore: come il grande regista Ozu, anche Kore-Eda gira prevalentemente in interno, proponendo, in tal caso, un delicatissimo affresco di una sorta di baracca con del verde attorno circondata dai nuovi e confortevoli complessi residenziali. Centrale, inevitabilmente, l’intimità corporea tra le persone che condividono uno spazio minuscolo dove vivono, mangiano, giocano, fanno l’amore: in un misero tugurio troviamo Osamu, che lavora come operaio a cottimo in un’impresa edile, Nobuyo, dipendente di una lavanderia, l’anziana nonna, che ha la pensione del marito e un provento più o meno lecito, Aki, studentessa e prostituta in un peep-show, Shota, un ragazzino abbandonato in un’auto in un parcheggio e la dolce Yuri, una bimba di cinque anni, denutrita e maltrattata dai veri genitori. Kore-Eda sembra bypassare la dicotomia di Malick, che in The Tree of Life afferma «ci sono due modi di affrontare la vita: lo stato di natura e lo stato di grazia», sperimentando un perfetto e precario equilibrio tra coesione affettiva e devianza dalla norma – almeno comunemente e legalmente ritenuta tale. Dopo il disperato tentativo di seppellire “la nonna” in giardino e un furto commesso da Shota volutamente finito male, è il momento di scontrarsi con la crudele e ferale società. «I figli devono crescere con le mamme»: esclama l’assistente sociale durante l’interrogatorio a Nobuyo, arrestata per sequestro di minore e forse anche per omicidio, insinuando maligna che la giovane donna sia invidiosa perché non può avere figli. E Nobuyo, che ha insegnato l’abbraccio alla piccola Yuri sottraendola ai legittimi genitori violenti e perfidi, risponde sarcastica: «È proprio quello che vogliono credere le mamme». Parallelamente Osamu, che non ha iscritto a scuola e lo ha cresciuto con un amore naturale e istintivo sgravato da obblighi di discendenza, dice che gli ha insegnato a rubare perché non aveva altro da insegnargli. È questo l’acme tragico di un film spiazzante e delicato, come la piccola Yuri, che abbandonata a se stessa, lo sguardo nel vuoto, canticchia una filastrocca insegnatele da Aki, sognando di avere di nuovo una famiglia.

 

Rossella Farnese

 

[Scena tratta dal film]

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Una parola per voi: morte. Novembre 2018

Il due novembre vengono commemorati i defunti. «Per tutti la morte ha uno sguardo», scrive Cesare Pavese, magari quello di un caro estinto che rivediamo riflesso in uno specchio, mentre comunica con noi tacitamente (ascoltiamo «un labbro chiuso» dalla morte). Tutti sappiamo che la morte verrà, non quando o sotto quale veste, ma a volte, nel corso della nostra vita, alcune prove a cui siamo sottoposti sono così dure da portare con sé una visione mortifera. «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi»: la morte può, come per Pavese, assumere le sembianze di un amato che ci ha lasciati. Essa può, tristemente, essere desiderata durante un cupo periodo depressivo, quando pare che la vitale speranza sia vana.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

La “parola per voi” di questo mese è morte, o meglio, lo sguardo che essa può avere per noi: cerchiamo, sulla scia di questa poesia di Pavese, gli occhi della morte in un film, in una canzone, in un libro, in un’opera artistica. Morte voluta, combattuta e sconfitta, morte che è sempre con noi, impalpabile ma percepibile, in ogni gesto quotidiano – in quanto memento del nostro essere vivi. A voi la nostra selezione:

LIBRI

chiave-di-sophia-intermittenze-della-morteLe intermittenze della morte  José Saramago

E se la macchina della morte smettesse di funzionare? Così accade allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre: le persone smettono di morire. Fatto che, lungi dal far acquisire all’uomo la bramata immortalità, porta il Paese al collasso economico, civile e sociale. Tuttavia, la Morte, con la sua falce, non tarderà a tornare con delle lettere per avvertire i predestinati della loro imminente dipartita di lì a sette giorni. Eppure, il meccanismo si inceppa ancora ed una lettera non viene recapitata al destinatario, cosa che obbligherà la Morte a prendere misure straordinarie.

chiave-di-sophia-cento-poesie-damoreCento poesie d’amore a Ladyhawke – Michele Mari

«Verrà la morte e avrà i miei occhi/ ma dentro/ ci troverà i tuoi»: si legge così sulla copertina di Cento poesie d’amore a Ladyhawke, esordio poetico colto, citazionistico e sentimentale di Michele Mari, «l’ultimo dei romantici» che, riscrivendo il celebre verso di Cesare Pavese, travolge il lettore tra le strazianti e frizzanti pagine di un amore edenico e remotissimo, «in un tempo/ così lontano che non sembra stato» quando il poeta e la sua musa si dondolavano «su un’altalena sola». Un amore platonico iniziato tra i banchi di scuola, «in un punto della Death Valley/chiamato liceo», rimasto sul fragile punto di equilibrio tra potenzialità e realtà, rilegato al limbo delle cose sospese per non esporlo al rischio di un fallimento o della felicità. Un amore stendhalianamente cristallizzato e tacitamente vissuto come «un trapano tremendo» e custodito segretamente per trent’anni, poi esternato, mai consumato, e svanito: «fedeli al duro accordo/ non ci cerchiamo più».

FILM

departures la chiave di sophiaDepartures  Yojiro Takita
Sono pochi i film che negli ultimi anni hanno messo in scena il tema della morte con l’eleganza e l’umanità di Departures, opera che nel 2009 è valsa al regista giapponese Yojiro Takita l’Oscar per il Miglior lungometraggio in lingua straniera. Il titolo originale del film ne spiega in gran parte il senso: Okuribito, in giapponese, è infatti la persona che accompagna qualcuno alla partenza. La morte viene qui riletta come un viaggio che simboleggia il capolinea di un’esistenza terrena ma al tempo stesso segna l’inizio di un nuovo percorso spirituale inaugurato dal rituale del nokanshi, tradizione nipponica che serve a dare l’estremo saluto alla persona defunta. La pulizia del corpo, il trucco sul viso e la vestizione sono le ultime simboliche carezze fatte alla persona cara prima di lasciarla andar via per sempre. A compiere questo delicato rituale è la figura del tantocosmeta. Un lavoro in cui si imbatterà Daigo, ex violoncellista in cerca di un nuovo posto nel mondo. Pensando di venire assunto in un’agenzia di viaggi, finirà per scoprire la struggente umanità insita nel lavoro a contatto con i defunti, arrivando a trovare un nuovo modo per affrontare la vita.

UNA CANZONE

vecchioni la chiave di sophiaVerrà la morte e avrà i tuoi occhi – Roberto Vecchioni

Per anni professore di lettere, Roberto Vecchioni non manca di riconoscere dietro l’immagine della morte cantata da Cesare Pavese il volto del suo ultimo amore, Constance Dowling, l’attrice da lui amata e perduta in America. Come il poeta, anche Vecchioni dà alla morte un volto di donna, un’amante liricizzata che arriva a racchiudere in sé la vita stessa di chi la ama, la canta, la piange. La notte, e la morte che questa rappresenta, viene invocata come rimedio alla fine di un amore, una liberazione che potrà giungere solo quando l’amante abbandonato potrà dimenticare l’amata, rinunciando alle proprie memorie, al proprio amore, e quindi alla propria vita. Proprio per questo, però, seppellire un dolore a lungo cullato è in sé sia morte che rinascita: “Sarò ‘io’, quel giorno che non sarai più niente.”

OPERE D’ARTE

1024px-gustav_klimt la chiave di sophia morte parola per voiVita e morte  Gustav Klimt

La morte, raffigurata sotto forma di uno scheletro avvolto in un lungo mantello di colore scuro, si staglia minacciosa sulla sinistra del dipinto. Essa è sveglia e attenta e, con il suo terribile sguardo rivolto verso un gruppo di persone dormienti, sembra incedere verso di loro con passo lento e funereo. I vivi, avvolti nel sonno e dunque ignari della morte che li sta osservando, sono nudi e indifesi: ciascuno di loro può caderne vittima in qualsiasi momento, indifferentemente dall’età o dal vigore fisico. In quest’opera il grande artista austriaco riesce a condensare l’essenza principale della morte, ovvero la sua costante presenza al nostro fianco, rimarcando nell’immagine la sua netta contrapposizione alla vita, della quale, però, è non solo la fine inevitabile e necessaria, ma anzi un suo momento imprescindibile.

death-dancing-chiave-di-sophiaDeath Dancing – Simberg

Enigmatica, altra, e simbolista, Death Dancing di Hugo Simberg, sembra riecheggiare a colori il verso campiano del Diario Bizantino «Due mondi – e io vengo dall’altro». Se il simbolo a differenza dell’allegoria procede dal concreto all’astratto, quest’opera non è poi così connessa alla tematica della morte, almeno non in senso funebre: a me pare piuttosto un’allegoria della vita, una sorta di danza in maschera, di passo a due sull’altalena della vita, come si nota dal trasporto con cui il mantello rosso vivo della morte – tradizionalmente rappresentata in nero ‒ abbraccia la giovane fanciulla sgambettante e dalla chioma fluttuante nel vento. La danza è in sintonia cromatica con lo sfondo sebbene vi sia un separé che può essere inteso in modo più forte, come l’impossibilità di vivere materialmente in eterno, oppure in modo poetico, come una sorta di tango puerile in riva al mare.

 

Al prossimo mese, con la prossima parola.

 

Francesca Plesnizer, Sonia Cominassi, Rossella Farnese, Alvise Wollner, Giacomo Mininni, Luca Sperandio

[Photo credit Jerry Kiesewetter su Unsplash.com]

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Libri selezionati per voi: settembre 2018!

Con l’arrivo del mese di settembre l’estate sta ufficialmente andando incontro al rettilineo finale della sua corsa 2018. Se vi siete persi i nostri consigli estivi non vi resta che tornare in carreggiata e riprendere a leggere insieme a noi!

Puntuali come sempre, ecco allora a voi le nostre proposte di lettura!

 

ROMANZI CONTEMPORANEI

chiave-di-sophia-neve-di-primaveraLa neve di primavera – Yukio Mishima

Primo lavoro della “quadrilogia della fertilità”, Neve di primavera rappresenta a detta di molti critici il romanzo più maturo e ricercato dello scrittore giapponese. La delicatezza della sua penna fa in modo che ad ogni riga il lettore si senta parte della veneranda tradizione giapponese e dei suoi rituali, i quali rappresentano lo sfondo su cui le due storie d’amore e di amicizia si dischiudono. Accanto a una profonda analisi introspettiva, l’autore delinea il lento incedere dell’amore tra Kiyoaki e Satoko, l’acerba capacità del primo di guardare oltre l’amore verso di sé e l’amicizia con il giovane razionale Honda.

 

chiave-di-sophia-palazzo-della-mezzanotteIl palazzo della mezzanotte – Carlos Ruiz Zafón

Zafón, da narratore di storie qual è, rivisita un consueto tòpos letterario indagando come l’animo infantile si riversi e risorga nella coscienza adulta con il suo bagaglio di ricordi, enigmi, interrogativi esistenziali sull’essere umano, sulle scelte e sulla contrapposizione manichea tra bene e male. Tra questi interrogativi si snoda una vicenda ambientata nella Calcutta dei primi anni del Novecento, dove un ufficiale inglese riesce a salvare due gemelli dal loro persecutore e ad affidarli alla nonna materna. Sarà quest’ultima a separare i nipoti per salvaguardarne l’identità. Tuttavia, essi dovranno ben presto raccogliere le ceneri del passato.

 

UN CLASSICO

chiave-di-sophia-mastro-don-gesualdoMastro-don Gesualdo –  Giovanni Verga (1889)

Secondo romanzo del Ciclo dei Vinti, dopo il capolavoro di I Malavoglia, Il Mastro don Gesualdo verghiano affronta tematiche care all’autore quali il contrasto tra borghesia e aristocrazia, la contrapposizione tra buoni sentimenti e attaccamento al denaro e il tentativo di riscatto sociale, convogliati nella figura di Gesualdo Motta, unico vero protagonista dell’opera. Già come nei Malavoglia Verga dipinge l’ambiente che lo circonda, approfondendo le debolezze e le aspirazioni di chi si è fatto da sé, effettuando una vera e propria scalata sociale che ha del miracoloso. Ma non tutta la felicità può ruotare attorno all’aspetto economico… Consigliato a tutti coloro che amano riflettere sulla contrapposizione tra affetti e denaro, sugli elementi che ci rendono umani e a cui, spesso, diamo un significato maggiore di quello reale.

 

 

SAGGISTICA

chiave-di-sophia-democrazia-in-trenta-lezioniLa democrazia in trenta lezioni – Giovanni Sartori

Professore emerito all’Università di Firenze e alla Columbia University, Giovanni Sartori propone trenta brevi lezioni volte a offrire delle risposte ai maggiori interrogativi che la Filosofia Politica si pone ormai da decenni. Che cosa significa la parola “democrazia”? Qual è la natura di tale forma politica? Quali sono le condizioni necessarie affinché essa funzioni? Come si può oliare la macchina della democrazia? Perché preferire la democrazia? La democrazia è esportabile? Quali differenze e somiglianze tra la democrazia degli antichi e quella dei moderni? Qual è il futuro che l’attende?

 

JUNIOR

chiave-di-sophia-quasi-signorinaQuasi signorina – Cristina Portolano

Questo fumetto racconta la storia della sua autrice, nata a Napoli sul finire degli anni Ottanta. Cristina racconta e disegna gli anni dell’asilo e le sculacciate delle suore; le prese in giro degli anni delle elementari a causa dei suoi occhiali; le villeggiature estive a Riccione; infine, il giorno in cui diventò (per fortuna e purtroppo) signorina. Un testo particolarmente adatto a tutte le ragazzine delle scuole medie, che leggendolo acquisiranno un po’ più di fiducia in loro stesse; e a tutti gli adulti che vogliono ritagliarsi una mezz’oretta di lettura per tornare indietro con la memoria agli anni della loro infanzia.

 

 

Sonia Cominassi, Anna Tieppo, Federica Bonisiol

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Film selezionati per voi: maggio 2018!

Se la cinematografia è riconosciuta come la settima arte un motivo deve ben esserci! Ne conoscono sicuramente più di uno i nostri esperti in materia, che anche questo mese ci regalano un’ampia e variegata lista di titoli dai quali lasciarci tentare.

Buona visione a tutti!

FILM IN USCITA

chiave-di-sophia-isola-dei-cani-1L’isola dei cani – Wes Anderson
Il ritorno alla regia di uno degli autori più amati del cinema statunitense è un originalissimo omaggio animato alla cultura orientale e giapponese. Nove anni dopo lo strepitoso Fantastic Mr. Fox, Wes Anderson torna a cimentarsi con un altro film in stop-motion dove i protagonisti sono, ancora una volta, gli animali. Ambientato nel Giappone del 2037, L’isola dei cani è un originalissimo appello ad andare sempre oltre le diversità di genere, ad amare gli animali e a non smettere mai di ribellarci a ciò che ci sembra ingiusto. Un piccolo gioiellino visivo che riesce a intrattenere lo spettatore, offrendogli una serie di importanti spunti di riflessione. USCITA PREVISTA: 1 maggio 2018.

chiave-di-sophia-loro-dueLoro 2 – Paolo Sorrentino
Seconda e ultima parte del dittico cinematografico dedicato alla figura di Silvio Berlusconi, “Loro 2” promette un finale interamente dominato dalla controversa figura dell’ex premier italiano. Dopo una prima parte in cui Berlusconi è rimasto quasi sempre fuori campo, questo secondo film sembra destinato ad approfondire la figura del Cavaliere, preferendo sempre una visione onirica e introspettiva dei personaggi alla mera cronaca dei fatti. Un tripudio visivo e stilistico per raccontare una delle pagine più controverse della politica italiana di questo secolo. USCITA PREVISTA: 10 maggio 2018.

chiave-di-sophia-mektoub-my-love-canto-unoMektoub, My Love (Canto Uno) – Abdellatif Kechiche
Torna al cinema il regista del controverso La vita di Adele, con una rilettura estremamente fisica e carnale del romanzo “La blessure, la vraie” di François Bégaudeau. Presentato in concorso alla settantaquattresima Mostra del cinema di Venezia, questa prima parte di un’ideale trilogia cinematografica, racconta il ritorno, nella sua città natale, del giovane Amin, studente desideroso di vivere i piaceri e le passioni dell’adolescenza, senza rinunciare a inseguire i suoi sogni. Un viaggio coloratissimo e spregiudicato nella gioventù d’oggi. Un baccanale cinematografico che ha diviso in due la critica mondiale tra chi l’ha vissuto come un’esperienza visiva estremamente appagante e chi ne è invece rimasto altamente perplesso. Un titolo imperdibile per gli amanti del cinema d’autore. USCITA PREVISTA: 24 maggio 2018.

chiave-di-sophia-meraviglie-del-mare-minLe meraviglie del mare – Jean-Michel Cousteau

Un viaggio dalle Isole Fuji alle Bahamas: questa la straordinaria esperienza intrapresa dal regista Jean-Michel Cousteau con i figli Celine e Fabien e con la sua troupe. Le meraviglie del mare è un documentario che esplora oceani sconosciuti e indaga ciò che li minaccia, diretto da Cousteau e raccontato da Arnold Schwarzenegger, un omaggio al mare e un invito a salvaguardarlo. USCITA PREVISTA: 17 maggio 2018

chiave-di-sophia-manon-royal-opera-houseRoyal Opera House: Manon

Dal racconto di Kenenth MacMilan sul tragico amore tra Manon e Des Grieux un capolavoro del balletto moderno. La settecentesca Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut è un pilastro del Royal Ballet: la prima si svolse il 7 marzo 1974 interpretata da Antoinette Sibley e Anthony Dowell. Appassionati pas de deux, che ricordano l’intensità del Romeo e Giulietta, e spettacolari scene corali, che creano ritratti vividi e complessi delle società di Parigi e di New Orleans, caratterizzano una delle più coinvolgenti danze drammatiche. USCITA PREVISTA: 3 maggio 2018

 

UN FILM SUL PASSATO

In occasione del cinquantenario degli avvenimenti del “Maggio ’68”

chiave-di-sophia-qualcosa-nell-ariaQualcosa nell’aria (Après mai) – Olivier Assayas

Parigi, primi anni Settanta. Gilles è un liceale che vive la contraddizione tra l’impegno politico nei collettivi studenteschi e la volontà di intraprendere un percorso individuale. Lasciato da Laure, Gilles va in Italia con alcuni amici e con la nuova fidanzata Christine, fuggendo così alle indagini sul ferimento di un vigilante. Iscritto all’Accademia di Belle Arti, in lui si fa strada l’idea di dedicarsi al cinema. Premio per la migliore sceneggiatura nel 2012 alla 69° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Something in the air – titolo inglese – racconta le contraddizioni di Assayas e il suo percorso di uomo e di cineasta in una pellicola intrisa di malinconia e della vivacità culturale degli anni Settanta.

 

UN FILM PER RAGAZZI

chiave-di-sophia-dumaDuma – Carroll Ballard

L’amicizia per i nostri bambini e ragazzi è un’esperienza speciale, imprescindibile per la loro crescita emotiva ed affettiva. In questo film l’amico di Xan, il ragazzo protagonista, è un amico d’eccezione: è simpatico, peloso e viaggia a quattro zampe..è un cucciolo di ghepardo! Se siete amanti degli animali e se vi piace l’avventura, non perdete l’occasione di rispolverare questo film del 2005, visione ideale per un party di compleanno tra amici o per un pomeriggio in famiglia!

 

Alvise Wollner, Rossella Farnese, Federica Bonisiol

 

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Nel regno della fantasia: Monica Monachesi sulla mostra di Sarmede

Anche quest’anno Sarmede, piccolo, piccolissimo comune della marca trevigiana, diventa per i mesi autunnali polo della fantasia, dell’illustrazione e dell’immaginazione, popolandosi di artisti internazionali, autori, poeti, atelieristi e narratori, ma anche di visitatori sognatori. Tutto questo grazie alla Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia Le immagini della Fantasia, giunta alla sua 35esima edizione.

Questa annuale magia è resa possibile dalla Fondazione Štěpán Zavřel e oggi chiediamo alla sua curatrice, la dottoressa Monica Monachesi, di condividere con noi alcune riflessioni da cui è scaturita questa mostra e tutte le attività che nei prossimi mesi coloreranno l’iniziativa.

 

La fantasia e l’immaginazione superano ogni confine geografico e storico, ma vanno anche oltre l’età anagrafica. Se questo ci unisce alle persone del presente, passato e futuro e di tutti i popoli, si riscontrano delle diversità culturali nella grammatica dell’illustrazione e del racconto nei vari paesi?

Le rispondo subito così: imprevedibile e stupefacente è l’esito dell’osservazione che ogni anno si conduce sul mondo dell’illustrazione. Questo mondo bellissimo, che ogni volta ci sorprende, è fatto di racconti, è fatto di parole che ci avvicinano, ci dispongono all’ascolto e fanno bene all’anima di grandi e piccoli, qualcosa di cui oggi abbiamo bisogno più che mai. Parole per stare bene dentro e con gli altri. Parole pacificatrici, anche quando generano piccole necessarie rivoluzioni. Io credo che sia proprio questa la chiave di tutto il lavoro che la Fondazione svolge ogni anno attraverso la Mostra: diffondere con gioia racconti dal mondo e per il mondo.
Dare spazio, dare voce a belle storie, far sapere e condividere che la bellezza esiste e fa bene, condividere la consapevolezza rasserenante che, su un foglio prima bianco, su un pezzetto di carta, l’uomo sa creare universi meravigliosi che prima non esistevano, l’uomo sa fare l’impossibile, sa realizzare anche l’utopia; questo si fa attraverso la Mostra.

Poi ognuno può leggerla a modo suo, e questo è l’altro aspetto che dà un risvolto universale e di grande libertà a questo lavoro. Come ogni volta capita per qualsiasi libro, anche la Mostra vive pienamente e in modo sempre diverso in relazione al suo lettore/visitatore. Si tratta di una passeggiata attraverso il libro illustrato, immancabilmente completata dall’interiorità di chi, passo dopo passo, osserva e legge.
Bellissimo, no?

Per questo motivo ogni scelta è fatta con grande attenzione, mettendosi in ascolto del lavoro sviluppato da autori e editori di tanti Paesi. Ascoltiamo e poi organizziamo i contenuti che riguardano l’illustrazione in tre modi diversi: una mostra personale per raccontare il lavoro di un ospite d’onore con cui lavoriamo per quasi un anno, una mostra collettiva per portare lo sguardo sull’editoria internazionale attraverso 30 libri, una mostra tematica, sulla cultura particolare di un Paese o di un’area geografica vista attraverso l’albo illustrato.

 

In particolare quest’anno proponete un’ “immersione” nel mondo un po’ strano ed estremamente interessante del Giappone. Che cosa ci può raccontare in proposito?

Al ritmo di parole come Mukashi Mukashi che vuol dire c’era una volta, nella musicale lingua giapponese e attraverso tre progetti  – anzi quattro – concepiti appositamente per la Mostra, Le immagini della fantasia apre percorsi dedicati all’immaginario di questa straordinaria cultura che ci ha investiti con tutto il suo fascino millenario.
Alla poesia Haiku, fiore della poesia giapponese è dedicata un’antologia di Bashō e Issa, illustrata dagli allievi della Scuola Internazionale di Illustrazione (con le docenti Mara Cozzolino e Linda Wolfsgruber);
alle fiabe tradizionali giapponesi è dedicato il 13° albo della collana Le immagini della fantasia che si intitola appunto Mukashi Mukashi, c’era una volta, in Giappone; alle più terrificanti figure dell’immaginario è infine dedicato un gioco, il Memory Yōkai, mostri e spiriti giapponesi.
Tutti questi progetti sono stati ideati e curati in modo da creare un dialogo genuino con la cultura giapponese, per sillabare assieme a Bashō e Issa immagini del trascendente percepito in attimi di contemplazione del mondo terreno; per rinarrare, attraverso la scrittura di una grande autrice come Giusi Quarenghi, le fiabe più amate dai bambini giapponesi, con piccoli eroi che cambiano il mondo; e per giocare a conoscere quali forme sono state date a paure ancestrali e recenti, disegnate per noi da sei artisti giapponesi, stampate in serigrafia in Italia, confezionate con grande cura e raccontate in un libriccino cucito a mano.

img-intervista-monica-monachesi_la-chiave-di-sophiaPerò ho scritto sopra: – anzi quattro – , perché raggiungiamo il Giappone anche passando attraverso uno specialissimo Torii (portale che si trova davanti ai tempi shintoisti) preparato dall’ospite d’onore Philip Giordano, che ha vissuto sette anni a Tokyo e anni fa passò da Sàrmede per frequentare i corsi estivi come allievo molto emergente. Varcata la soglia che separa il mondo reale da quello immaginario, nella sua mostra Storie dall’Arcipelago sottosopra, l’illustratore si racconta con testi inediti che collegano il bambino Philip al disegnatore/autore di oggi e che ci fanno conoscere alcune delle più belle fiabe giapponesi, come Oshirasama, Urashima Taro, La principessa splendente, confermandoci la passione di Giordano per i lungomentraggi di Miyazake (Nausicaa nella valle del vento, Principessa Mononoke e altri) e dando forti motivazioni alla presenza dell’elemento del viaggio nei suoi ultimi albi illustrati da lui firmati come autore unico.

Riguardo al Giappone c’è anche un quinto punto, anche se non nato appositamente per noi, ma presente nel Panorama dell’albo illustrato: sono presenti in Mostra, nella sezione collettiva, anche cinque illustratori a rappresentare questo ricchissimo mondo con albi tra di loro molto differenti: dagli esilaranti e deliziosi  menu di Yocci a due libri nati in Francia grazie ad un ‘crogiolo italo-nipponico’, come lo ha chiamato l’autore italiano Gabriele Rebagliati che ha visto pubblicati in Francia due suoi racconti illustrati di giapponesi Susumu Fujimoto e Michico Watanabe (Le panier à pique-nique e Tout une vie pour apprendre), fino ad un silent molto giapponese in cui il confine tra mondo animale/naturale e quello umano fluttua o neppure esiste: La visite di Junko Nakamura; e infine altro libro in cui si coglie tutta la speciale relazione con gli oggetti d’uso quotidiano sentita in Giappone: il delicatissimo e toccante  Botan –chan  di Chiaki Okada – lo sapete che per i giapponesi dopo 100 anni gli oggetti d’uso acquistano un’anima? Meglio trattarli bene!

 

In quale senso intendete il libro illustrato, che è uno dei protagonisti della vostra mostra, come “strumento di conoscenza e veicolo di bellezza”?

Forse in parte ho già risposto, ma bene riprendere questo punto. La letteratura è forma di meravigliosa conoscenza dell’umano, e un libro illustrato, nel suo specifico di piccolo grande spazio letterario con immagini rivolto soprattutto ai bambini, ha una valenza pedagogica che Stepan Zavrel vide chiaramente 35 anni fa e coinvolse altri entusiasti estimatori dell’illustrazione, oggi strutturati nella Fondazione Štěpán Zavřel, a costruire un appuntamento che sembrava impossibile, all’insegna della meraviglia. Che cosa voglio dire? Un libro illustrato ha molto a che fare con altre arti, ha molte similitudini con uno spettacolo teatrale, è in qualche modo come uno spazio scenico: davanti ai nostri occhi si muovono personaggi, entriamo in mondi anche lontanissimi lì raffigurati. Mentre guardiamo tutto è possibile e in quel momento siamo ben predisposti alla conoscenza, desideriamo ascoltare ancora e ancora, sono attimi bellissimi che spesso si svolgono anche consolidando relazioni preziose: tra genitori e figli, con altre persone care, a scuola, tra amici. E si diventa più capaci di esprimersi a propria volta frequentando il libro illustrato che ci offre linguaggi su linguaggi, e che cosa c’è di più importante al mondo della capacità di esprimere pienamente se stessi?  Si potrebbe rispondere: “ascoltare gli altri!” e leggendo avviene proprio tutto questo!

 

Altro tema indagato e che da sempre è un filo conduttore delle attività della Fondazione Štĕpán Zavřel e della mostra Le immagini della fantasia è quello della migrazione, un fenomeno quanto mai attuale e generatore di riflessioni. In che modo il vostro festival riflette su tale argomento?

L’immagine del viaggio è usata spesso per raccontare la mostra e a volte rischia di divenire scontata, un semplice ‘volo della fantasia’ di Paese in Paese.
Prendiamo però molto sul serio la fantasia, come risorsa irrinunciabile dell’essere umano, e l’immaginazione da tenere sempre allenata, per aprire strade inattese, e crediamo che nella conoscenza reciproca ci sia molta speranza. Ogni anno raccontiamo ai più piccoli le fiabe dal mondo, per la vocazione di scambio culturale che la mostra ha da sempre e sempre più cerchiamo il dialogo genuino con il Paese ospite, con la sua cultura e con chi la racconta.
Mai come quest’anno in questa edizione il viaggio è esperienza di vita che la letteratura e l’arte visiva trasformano e mettono a disposizione come esperienza estetica e, di conseguenza, etica. Anche nella personale dedicata a Philip Giordano, ospite d’onore dell’anno – di madre filippina che lasciò il suo Paese e padre svizzero – si può leggere il medesimo tema. Questo autore nato e cresciuto in Italia si muove tra Occidente e Oriente e pone nei suoi picture book una tensione serena, piena di speranza e il suo disegno è un mezzo per stare al mondo, per resistere, per rispecchiarsi.

img2-intervista-monica-monachesi_la-chiave-di-sophiaInoltre, in questa 35esima edizione, c’è un gruppo di cinque libri più una piccola esposizione che arriva dal Cile, un punto in cui fare una sosta di riflessione: Pianeta Migrante.
Il fenomeno della migrazione è planetario, non esiste un luogo della Terra che non ne sia interessato. Le illustrazioni di Amélie Fontaine raffigurano persone, cose, strade, recinzioni, muri, ma soprattutto il libro comincia con una domanda: Che cos’è un migrante?

In mostra questo sfaccettato argomento prende luce in modi diversi per raggiungere lettori delle età più varie. Dal ritratto spietato di ciò che accade in mare, e in terra, dipinto da Armin Greder in Mediterraneo, alla rivisitazione moderna del classico di De Amicis Dagli Appennini alle Ande (illustrato da Francesco Chiacchio) che cambia la rotta e diventa Dall’Atlante agli Appennini, fino a Guridi che dall’Andalusia fa nascere un vero e proprio libro dalla suggestione del tema propostogli dalla Mostra e racconta la storia di un bambino che dovendo partire, non si rassegna a lasciare la sua balena rossa, vuole metterla in valigia (Como meter una ballena en la malleta). Il libro parla della forza delle risorse interiori, della creatività che diventa vitale, nella crisi, per la sopravvivenza.

E poi dal Cile arriva una processione di figurine in viaggio, anche loro in valigia, di Francisca Yañez. La parete è brulicante di piccole figure di carta, che sembrano volare, sono in cammino incessante, si muovono piedi, valigie, pensieri, ricordi. Ci sono sguardi da incrociare, vite da immaginare, occhi da ascoltare nel silenzio di un flusso che, mentre osserviamo la mostra, esiste davvero, in più di un luogo, nel nostro pianeta. Al centro ci sono pagine di passaporto che raccontano una storia: quella di Francisca esule dal Cile dittatoriale che con la sua famiglia scappa in Europa negli anni Settanta. Un racconto di chi al viaggio è costretto, di chi cerca di portare con sé un pezzetto di qualcosa, il sapore di un cibo, il profumo di un fiore, la gioia di un gioco.
Figurine di carta che, fatte quasi di niente, nella loro vulnerabilità insistono a raccontare le loro storie per creare empatia e consapevolezza, per cominciare a immaginare un pianeta solidale. Assieme ai Bambini Francisca parla e riflette e poi crea altre figurine: un laboratorio fatto di materiali semplici, ripetibile ovunque, con poco, come la mostra stessa, fatta per poter viaggiare più possibile.

 

Delle proposte culturali del festival ammiro molto i laboratori, che sono aperti a tutte le età: calligrafia, xilografia, acquerello. Quale valore hanno per voi questi laboratori? Per quale motivo la sola contemplazione di un’opera d’arte non è sufficiente?

La sola contemplazione è molto importante e non è affatto messa in discussione, ma semmai confermata da attività didattiche che creano esperienze attorno ai contenuti della mostra. 
Quest’anno abbiamo per esempio proposto la xilografia giapponese e credo che il corso abbia dato la possibilità di un’esperienza molto profonda, un vero viaggio nel tempo assieme a Mara Cozzolino che si reca continuamente in Giappone per specializzarsi sempre di più e per conoscere strumenti e materiali di antichissima tradizione che ancora oggi sopravvivono e danno nuovi frutti.

La parola contemplare che lei ha usato ci porta poi in qualche modo nella sfera dello spazio interiore, e questo mi piace molto. Si contempla per concentrarsi, per raggiungere… i bambini sanno farlo molto meglio di noi adulti ed è una forma di ascolto attento che va stimolata è una forma anche di nutrimento, nel nostro caso di contenuti visuali e narrativi, bene farne scorpacciate perché coltivare la bellezza nella vita è fondamentale non solo per il singolo ma per l’intera comunità.
Inoltre il disegno è strettamente collegato alla contemplazione, nel senso che le immagini che si possono contemplare in mostra derivano certamente a loro volta da numerose e attente contemplazioni da cui discende il fare artistico. Un collegamento necessario tra fare e vedere che mette in circolo energia creativa e fa anche incontrare tante persona che condividono passioni e desideri che a volte possono sembrare folli, visti uno ad uno, invece insieme si ritrova anche maggior determinazione a perseverare. I corsi possono essere vere fonti di nuove progettualità.

 

Che cosa sperate si portino a casa i bambini dall’esperienza delle vostre mostre, incontri, letture e laboratori? E gli adulti invece?

Curiosità, entusiasmo, immaginazione stuzzicata, pensiero portato lontano, la voglia incessante di scoprire che cosa c’è da ascoltare tra le pagine, la consapevolezza che ognuno di noi è speciale e può, con impegno, saper dire gran belle cose.
Amore per l’impegno, per l’applicarsi, per il riuscire a fare capolavori.
Amore per la poesia, per l’arte, per cose che se perdessero il loro valore, sarebbe perduto il mondo.
Vorremmo contagiare tutti, riempire le teste di bei pensieri, di sogni, di speranza, perché al mondo ci sono davvero molte belle umanità.

 

L’inaugurazione ha avuto luogo sabato 21 ottobre alla Casa della Fantasia a Sarmede e le attività arriveranno a conclusione il 28 gennaio 2018. Vi rimandiamo al sito della Mostra per maggiori informazioni, invitandovi caldamente a prendere parte a questa meravigliosa manifestazione.

Buona fantasia!

 

Giorgia Favero

Film selezionati per voi: novembre 2017!

Se non ve ne foste accorti è iniziato anche novembre. Lo scorso week end le lancette dei nostri orologi (non tutto il mondo è digitale!) sono retrocesse di un’ora e in questa prima settimana di ora solare fatichiamo ad abituarci all’andarsene della luce troppo presto. Inizia ufficialmente la stagione delle serate al cinema, per ritrovarci in compagnia e lasciarci andare a qualche ora di svago di fronte al maxi schermo. Ecco a voi i consigli dei nostri esperti Alvise e Lorenzo!

 

FILM IN USCITA

finche-ce-prosecco la chiave di sophiaFinché c’è Prosecco c’è speranza – Antonio Padovan
Dal romanzo dello scrittore veneziano Fulvio Ervas, arriva nelle sale l’atteso adattamento cinematografico di “Finché c’è Prosecco c’è speranza”, thriller enologico che ha per protagonista l’inconfondibile Giuseppe Battiston nel ruolo dell’investigatore Stucky. Con il pretesto di scovare il responsabile di una serie di morti misteriose, il regista Antonio Padovan (al suo primo lungometraggio in carriera) confeziona un film molto riuscito, capace di raccontare con grande veridicità la natura intrinseca del popolo veneto. Menzione speciale per la fotografia e per l’ottima prova corale del cast. Un film imperdibile per scoprire la bellezza dei paesaggi della Marca trevigiana e, al tempo stesso, appassionarsi a un mistero ad alto tasso alcolico. USCITA PREVISTA: 31 OTTOBRE 2017
 
the-square la chiave di sophiaThe Square – Ruben Östlund
Con l’inizio di novembre sbarca finalmente nelle sale italiane anche il film vincitore della Palma d’oro all’ultima edizione del Festival di Cannes. Un’opera visionaria e coinvolgente, diretta dal regista dell’apprezzatissimo “Forza Maggiore”. Ambientato nel mondo dell’arte, “The Square” è una grande riflessione sul valore dell’estetica e sulla centralità che la figura dell’artista meriterebbe di ricoprire all’interno della società contemporanea. Ricco di ironia e momenti onirici, “The Square” si presenta come un film per palati raffinati, freddo e misurato a livello estetico. Debordante e difficile da dimenticare a livello contenutistico. Da non perdere. USCITA PREVISTA: 9 NOVEMBRE 2017

 

Seven sisters – Tommy Wirkolaseven-sisters la chiave di sophia
In un futuro distopico sette sorelle gemelle lottano per vivere un’esistenza normale fingendo di essere tutte la stessa persona. Le cose finiranno per complicarsi quando una di loro (Lunedì) sparirà nel nulla. Inizierà così una ricerca disperata da parte delle altre sei in un mondo pieno di pericoli e minacce. Adrenalinico thriller fantascientifico, “Seven sisters” è uno dei pochi film artisticamente validi prodotti quest’anno dal colosso dello streaming Netflix. Gli elevati costi di produzione e i grandi attori presenti nel cast, hanno però convinto i produttori a distribuire il film anche nei cinema di tutto il mondo. Un piacevole prodotto di intrattenimento per trascorrere una serata al cinema in compagnia degli amici. I livelli di “Stranger Things” sono ancora molto distanti ma le emozioni sono assicurate. USCITA PREVISTA: 30 NOVEMBRE 2017

 
UN DOCUMENTARIO
never ending man la chiave di sophiaNever ending man – Hayao Miyazaki
Miyazaki è senza dubbio uno dei più grandi geni dell’animazione mondiale. La sua carriera inizia quando viene assunto come animatore alla Toei Animation. Da allora, una serie di grandi capolavori ne hanno segnato gloria e fama negli anni. In questo documentario di Kaku Arakawa si raccontano le fasi più importanti della carriera di questo grande visionario. Immagini inedite, segreti sulla realizzazione dei film che l’hanno reso celebre e molte interviste esclusive fanno di questo documentario una testimonianza preziosa per tutti i suoi estimatori italiani che potranno conoscere da metà novembre tutti i segreti del maestro nipponico. USCITA PREVISTA: 14 NOVEMBRE 201
 
 
UNA SERIE TV

fargo-la-chiave-di-sophiaFargo

Non potete fare a meno dell’ironia macabra dei fratelli Coen? Allora non perdetevi questa serie, articolata in 3 stagioni, che Joel ed Ethan Coen hanno prodotto. «Fargo non è un luogo, è uno stato mentale. È una vera storia criminale dove la realtà è più strana della finzione e i buoni devono affrontare qualcosa di orribile»; dice lo sceneggiatore Noah Hawley. Fargo è un mondo popolato da cattivi senza pietà, da buoni che per occasione diventano cattivi e da un’esigua percentuale di buoni autentici, con valori saldi, che guardano con stupore la crudeltà che li circonda. Se vi piacciono le serie tv che in un’unica stagione articolano e concludono una storia (su modello di True Detective tanto per capirsi), allora Fargo è davvero un prodotto di qualità che fa per voi.

 

Alvise Wollner & Lorenzo Gineprini

 

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