IL CORVO È IL MIGLIOR NEMICO DELL’UOMO

“Signore, “dissi” o Signora, vi prego,

perdonatemi,

Ma ero un po’ assopito ed

Il vostro lieve tocco,

Il vostro così debole

bussare mi ha fatto

dubitare

Di avervi veramente

udito”. Qui spalancai la

porta:

C’erano solo tenebre e

nulla più”

Il Corvo, Edgar Allan Poe, 1845

In “Il Corvo” di Edgar Allan Poe il rendersi presente dell’oscura presenza del corvo stesso è preceduta dal flebile bussare di qualcosa, l’oscurità e nulla più, una oscurità che rappresenta una paura antica dell’umanità, le tenebre, lo sconosciuto, il nulla. Nell’asimmetria informativa si genera l’ansia e la paura che sono emozioni umane che tutti abbiamo più o meno sperimentato e sperimentiamo. Una insostenibile leggerezza dell’essere ci attanaglia mentre un brivido freddo ci attraversa la schiena perché l’uomo, come ci racconta bene Heidegger, vive la dimensione della sua stessa esistenza nell’essere e tempo, anzi leviamo direttamente di mezzo questa “e” perché l’essere sta nel tempo ed è quindi strutturalmente esposto al non essere, l’essere nulla. L’illusione dell’umanità per sopravvivere al meglio alla perenne esposizione al nulla è quella di provare a enfatizzare e a vivere il presente che per sua stessa natura è una dimensione eternamente esposta e oscillante tra un passato e un futuro, e quindi al suo stesso non essere. Il tentativo insomma è di eludere la nostra strutturale esposizione alla morte, il nostro “essere per la morte”, è quello di inventarci un esserci qui e “ora”, un “ora” che già mentre lo pronuncio non esiste più, l’adesso mentre lo evoco nella dimensione del linguaggio è già un passato che non è più.

Disse il Corvo, “Mai più”

“Nevermore”

“Nevermore”

“Nevermore”

La sentenza del Corvo è spietata e non lascia scampo. L’illusione di vivere è costituita dalla produzione di senso e di progettualità, ma la morte, il non essere costituisce l’implosione di ogni senso e questa consapevolezza è insita in noi, da qui il bisogno della religione come ben individua Nietzsche come gigantesco dispositivo di controllo sociale dell’ansia.

L’effetto placebo della religione, dei nostri progetti e delle nostre illusioni è quello di farci dimenticare la transitorietà e quanto la nostra esistenza sia in fondo effimera, come il tentativo di calcare la mano sulla memoria. In fondo ci consola pensare che i nostri cari ci ricorderanno senza tener conto che in quattro generazioni anche quel ricordo scomparirà. Ammesso poi che il nostro nome finisca in qualche libro di storia in fondo tale storicizzazione della nostra biografia non farà che restituire solo una parte di noi, saremo spettri nella storia dell’umanità, ma la storia non racconta ciò che siamo, racconta la dimensione di come ci vedono gli altri, siamo un racconto pronunciato e scritto dalle labbra di terzi e quindi in sostanza qualcosa di alieno rispetto alla nostra essenza.

Rispetto a” Il gatto nero” e “Il cuore rivelatore” il Corvo non parte da omicidi, non ha nessuna connotazione morale, il corvo in fondo non è altro una grottesca proiezione del male di vivere, l’umana sete di auto-tortura come la chiama lo stesso Poe. Il narratore ha perso la sua amata Lenore, il narratore della storia la evoca poco prima della comparsa del corvo nella stanza.

In Poe non c’è nessuna “colpa” del personaggio, nessuno ha compiuto azioni malvagie, il racconto non vuole insegnarci nulla, ma solo mettere a nudo quanto l’esistenza sia effimera. Emerge forte e lampante solo il desiderio di autodistruzione, siamo oltre il giusto e lo sbagliato, al di là del bene e del male come scriverà poi bene Nietzsche. La nostra paura rievoca inevitabilmente la pulsione umana inspiegabile e inesorabile di distruggere.

“Inconterò Lenore nell’Ade?”

“Mai più” risponde il Corvo.

Il lettore viene sovrastato da tutta la sensazione di masochismo, è ovvio che il Corvo risponderà a qualsiasi domanda ripetendo la sua ardua sentenza eppure il lettore continua a leggere, la voce narrante del racconto a fare domande.

La struggente sofferenza del narratore fa parte della vita di tutti noi sottesi tra il desiderio di ricordare e di dimenticare un passato che non passa eppure non tornerà appunto “mai più”.

La bellezza, l’amore femminile muore senza spiegazione e aggrapparsi al ricordo di ciò che è stato è anche la stessa causa dello sprofondare nell’ansia, nell’angoscia e alla fine comporta l’essere inghiottiti a propria volta nell’oblio. Il narratore, che poi siamo tutti noi, l’umanità intera continua a interrogare il Corvo come l’umanità continua a interrogare l’esistenza, la sua stessa esistenza, sperando che questa risponda “sì” pur sapendo che ad attenderci ci sarà invece un altro “no” o meglio, nessuna risposta salvo un “mai più”.

Il corvo è il miglior nemico dell’uomo che per sua natura produce senso per vivere ed è anche la componente distruttiva che ci portiamo dentro, il corvo è il nostro oscuro passeggero che scivola nelle nostre stanze buie nel cuore della notte, noi siamo, come genere umano, affascinati dalla risposta ripetitiva del corvo, la desolazione che ci pervade dell’animale che è in noi. La natura continua a sottrarsi ai nostri giochi di senso, la nostra vita ci sfugge ogni istante che passa. Possiamo illuderci che conti il viaggio e non il punto di approdo, ma quel punto di approdo come il corvo sta sempre dinnanzi a noi a ricordarci che siamo vissuti dalla vita, siamo soggetti passivi della natura stessa che ci sovrasta al di là di ogni nostro tentativo di dominare le cose.

“Nevermore”

“Nevermore”

“Nevermore”

Combattete quel Corvo che è in voi! Provate a scacciarlo con tutte le vostre forze! Rifuggitelo! Non ascoltatelo! Eppure una notte scivolerà comunque nel cuore dei vostri sogni più profondi per sussurrarvi con tenacia che ogni senso è destinato a scivolare nel non senso, come ogni tentativo dell’essere è destinato ad abbracciare il nulla.

[Scherzavo, è solo noir]

Matteo Montagner

Il romanzo giallo: intervista a Giuliano Pasini

Per scrivere bene, in versi come in prosa, niente eguaglia l’avere davvero qualcosa da dire.

Paul Brulat

Giuliano Pasini, nato a Zocca, nel cuore dell’Appennino emiliano, da quasi quindici anni vive a Treviso, dove si occupa di comunicazione e scrive.

Il suo primo romanzo è Venti corpi nella neve, ambientato a Case Rosse, un minuscolo borgo nell’Appennino tosco-emiliano e sede del commissariato più piccolo d’Italia, diretto da Roberto Serra. Non succede mai nulla fino alla notte del Capodanno del 1995, quando una telefonata sveglia l’agente Manzini in piena notte: ci sono tre cadaveri al Prà grand, uccisi senza pietà. Per il commissario comincerà un’indagine che lo porterà a rivivere il passato del luogo in cui si è rifugiato e ad affrontare i demoni che albergano in lui.

Nel 2013 torna Roberto Serra con Io sono lo straniero. Il commissario ha lasciato Case Rosse per rifugiarsi sulle colline del prosecco, a Termine: quattro case, tre strade, una chiesa, un cimitero e intorno solo vigneti. La vita di Roberto scorre lenta fino a quando, un giorno d’inverno dove incontra Francesca, una ragazza eccentrica e disperata che vuole convincerlo ad indagare su una giovane sparita nel nulla. Inizialmente il commissario non ne vuole sapere, godendosi la serenità ritrovata fra i vigneti, ma davanti a lui si delinea una scia di scomparse misteriose: tutte donne, tutte giovanissime, tutte straniere. Invisibili per la procura, per la polizia, per la gente. Roberto non può più scappare ed è costretto ad affrontare un’indagine che lo porterà a scrutare le acque nere dei laghi nascosti tra i vigneti, a scoprire che un passato irrisolto può allungare le sue dita fatali fino al nostro presente…

Il prossimo romanzo di Giuliano Pasini, terza avventura di Roberto Serra, vedrà la luce nel 2015.

Dal 2013 Pasini è presidente della giuria del Premio Letterario Massarosa, sommelier AIS per giustificare il suo amore per il vino ed ex maratoneta.

copertine

Il suo lavoro principale non è quello dello scrittore, giusto? Come ha iniziato a dedicarsi alla scrittura?

A me scrivere è sempre piaciuto moltissimo, ero uno di quei ragazzini che se dovevano dichiararsi ad una ragazza mandava una lettera, con esiti disastrosi. Nonostante quello ho continuato a scrivere, senza però trovare mai la costanza di mettere in fila le cose che scrivevo. Ho assistito qualche anno fa ad una presentazione di Loriano Macchiavelli, il padre di tutti noi che proviamo a fare i giallisti in Italia. Lui diceva che lo scrittore è un lavoro di ufficio: ci alza, alle 9 ci si siede alla scrivania fino alle 13, pausa pranzo e poi scrive di nuovo. Quando mi sono trasferito a Treviso, che per me è stata decisiva, avevo più tempo, non ero nella mia città di origine, non avevo il mio gruppo di amici. Allora mi sono chiesto come investo il tempo? Finalmente mi sono messo a scrivere una storia in fila. Dopo parecchio tempo sono arrivato a quello che poi è diventato Venti corpi nella neve, l’ho fatto leggere alla donna che nel frattempo è diventata mia moglie, mi ha detto che faceva schifo, io me la sono presa ma non ho divorziato perché mi sono reso conto che aveva ragione lei e c’ho lavorato ancora per molto tempo, fino a quando ho trovato il concorso IoScrittore del Gruppo editoriale Mauri Spagnol. Un concorso interessante perché si poteva inviare il proprio dattiloscritto con uno pseudonimo: gli altri concorrenti leggevano il tuo scritto e ricevevi giudizi senza che nessuno sapesse chi eri veramente. Io mi sono iscritto appunto per questo, ma sono arrivato alla fine del concorso e mi hanno pubblicato il libro in e-book con il titolo Giustizia dei martiri. La vendita, per quanto nel 2010 si parlasse ancora di numeri piccolissimi per gli e-book, è andata bene ma nessuna delle case editrici del Gruppo ha voluto pubblicare il cartaceo. Ho cercato io stesso un editore trovando Fanucci Editore che, nonostante abbia molto fiuto nel trovare talenti, nel gennaio 2012 mi ha pubblicato Venti corpi nella neve. Il libro è entrato in classifica la prima settimana ed è andato benissimo. Da questo punto c’è stata un’accelerazione enorme: Mondadori ha letto il libro, gli è piaciuto e mi ha chiesto di lavorare ad un progetto su due romanzi con lo stesso protagonista. A marzo del 2013 è uscito Io sono lo straniero e a marzo 2015 uscirà quello nuovo.

Si aspettava così tanto successo?

No, assolutamente. Soprattutto nel periodo in cui è uscito Venti corpi nella neve quando era stata pubblicata una recensione molto positiva sul Corriere della Sera, avevo preso il quotidiano e leggendo l’articolo pensavo parlasse di un mio omonimo. Amo moltissimo la lettura, quindi dall’altra parte mi sentivo completamente spaesato. È anche difficile pensarlo perché non faccio lo scrittore di mestiere: dal lunedì al venerdì svolgo il lavoro di ufficio e negli altri momenti cerco di immedesimarmi nel mio mondo. Per riuscire a completare gli altri romanzi dovevo scrivere tutti i giorni alle 5 del mattino e a volte è veramente difficile, quando sono le 7, uscire dal mondo finto dei personaggi (in particolare lo è stato per il terzo romanzo perché è un mondo che non ho mai vissuto, al contrario del primo e del secondo ambientati in luoghi in cui sono nato e vivo) per mettermi giacca e cravatta e andare in ufficio.

Le piacerebbe che la scrittura diventasse il suo unico lavoro?

Allo stesso modo in cui mi piacerebbe fare sei al SuperEnalotto!

Vuole parlare dei suoi romanzi?

Sono tutti gialli con un forte radicamento nella storia. A me piace moltissimo il giallo perché è un genere contenitore, ci puoi mettere qualsiasi cosa. L’importante è che si costruisca questo contenitore nel modo giusto, con tutti gli elementi, perché il lettore si deve ritrovare e se manca un elemento. O sei bravissimo, ma ne conosco pochi di autori in grado di togliere ad esempio la scoperta del colpevole lasciando un finale aperto, o la storia non funziona. Quindi all’interno del giallo si può inserire una storia cupa o leggera, con cattivi o meno, con riscatto o senza riscatto; davvero qualsiasi cosa. Il mio obiettivo è quello di scrivere dei libri che, oltre a far divertire con 200 pagine, dopo averli chiusi facciano pensare alla storia che c’è sotto, anche solo per un minuto. Nel mio primo romanzo parlo della storia della Resistenza, dell’assurdità della guerra, in quello che comporta e delle ferite che lascia aperte dopo cinquant’anni; nel secondo, invece, di quanto sia pericoloso instillare nella gente l’idea che ci siano delle persone superiori ad altre per puro diritto di nascita, perché nella storia dalle parole poi si passa ai fatti, com’è successo davvero e continua a succedere; nel terzo romanzo il tema forte sarà quello della malattia mentale, del chi è matto. In un mondo di matti, c’è qualcuno di sano? I malati mentali sono stati considerati per molti secoli messaggeri degli Dei, perché riuscivano a vedere cose che noi non vedevamo e che l’uomo normale non capiva. Invece successivamente da un certo punto molto recente della storia sono stati rinchiusi in uno spazio ben definito.

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Ha qualche consiglio da dare ai giovani che aspirano a diventare scrittori?

Ho visto cos’è stato utile per me: la costanza. Avevo un’idea della scrittura che fosse la folgorazione sulla via di Damasco: ti viene un’idea e l’impulso irrefrenabile di metterlo sulla carta in quel momento e modo precisi altrimenti scappa, delle volte succede. Invece adesso è metodo, mestiere; avere la costanza ogni giorno di andare avanti. Io ho fatto tutti gli errori che un esordiente poteva fare. Per scrivere il primo romanzo ho impiegato cinque anni, per il secondo e il terzo due, perché inizialmente non avevo metodo, non facevo la scheda dei personaggi e non avevo nemmeno un’idea della trama, convinto che la scrittura fosse qualcosa di molto istintivo quando in realtà coinvolge molto di più la testa. Il mio consiglio è di prepararsi ad usare la testa per fare una cosa che comunque è tanto cuore. Ma testa, metodo e costanza sono essenziali. Il talento, credo, sia solo sudore e fatica.

Nella tradizione antica era l’oralità il mezzo di comunicazione preminente rispetto alla scrittura, oggi sembra che si abbia più ‘coraggio’ con la parola scritta. Secondo lei perché c’è stata questa lenta ma incessante inversione di marcia?

Sinceramente, come direbbe la mia professoressa di matematica delle superiori, è come paragonare mele e pere. Impossibile “pesare” scritto e orale paragonando civiltà in cui la capacità di scrittura era dominio di una ristrettissima élite e civiltà in cui è diventata la più popolare e democratica delle arti. Questo per tacere dell’impatto della tecnologia sulla vita dell’uomo. Siamo sicuri che se gli antichi greci avessero avuto Internet si sarebbero comportati diversamente da noi? Se invece ragioniamo in termini di funzione, mi spingerei a dire che la funzione dell’oralità della tradizione antica non era molto diversa dall’attuale funzione della parola scritta: portare notizie e conoscenze al pubblico più vasto possibile. Cambia solo il mezzo.

Uno dei limiti dello ‘scritto’ è quello che da solo non può scegliere i suoi interlocutori, non può difendersi da chi lo attacca e quindi ha sempre bisogno del soccorso del suo autore: è così anche per gli scrittori di gialli?

Diciamo che nei romanzi c’è abbastanza segmentazione: difficilmente un lettore acquista un giallo senza sapere che è un giallo, a meno che l’editore non abbia giocato sporco con titolo e copertina. Detto questo, l’autore non dovrebbe mai andare in soccorso della sua opera, è come spiegare una barzelletta: se dopo che l’hai raccontata, serve che tu fornisca l’interpretazione, significa che è venuta male. Così le storie che si scrivono.

Cosa pensa della Filosofia oggi? Per lei può essere uno strumento utile di riflessione per le nuove generazioni nel campo lavorativo e nella vita di tutti i giorni?

Ho fatto studi classici, per cui trovo utile tutto ciò che “apre la mente” delle persone. Per la vita di tutti i giorni, quindi, è uno strumento formidabile, ed appassionante per chi lo studia. Per ciò che concerne l’ambito lavorativo, però, la sfida dei laureati in filosofia è particolarmente difficile. Ovviamente oggi sono molto più richieste competenze tecniche e specializzate.

Con molte probabilità la nascita del genere giallo si può far coincidere con la pubblicazione, nel 1841, de I delitti di via Morgue di Edgar Allan Poe, in cui compare Auguste Dupin, la cui deduzione è talmente elevata da riuscire a risolvere i casi leggendo solamente i resoconti giornalistici. È sicuramente questo il personaggio a cui si rifà Arthur Conan Doyle nel creare il ben più famoso Sherlock Holmes, protagonista di Uno studio in rosso (1887), presumibilmente il primo romanzo giallo pubblicato. Da allora il genere ha conosciuto sempre più fortuna, numerosi sono gli autori che con esso hanno raggiunto fama mondiale: Agatha Christie, Georges Simenon, Raymond Chandler e Dashiell Hammett, fino ai giorni nostri e alle opere di James Ellroy, Ken Follett, Andrea Camilleri, per citarne solo alcuni. Ma la definizione giallo si utilizza solamente nella lingua italiana e ciò si deve alla collana Il Giallo Mondadori, ideata da Lorenzo Montano e pubblicata da Arnoldo Mondadori a partire dal 1929. Caratteristica di questa edizione sono, appunto, la copertina di colore giallo, che è diventata simbolo del genere stesso.

Il romanzo poliziesco ha prodotto peggiore letteratura che ogni altro genere di narrativa, salvo il romanzo d’amore, e probabilmente migliore letteratura che qualsiasi altra forma letteraria largamente accettata e apprezzata.

Così una volta scrisse Raymond Chandler e queste sue parole fanno pensare a quelle che spesso Giuliano Pasini si sente dire:

Tu, per essere un autore di gialli, non scrivi male.

Chandler morì nel 1959, ma questa frase fa capire come ancora oggi permangano gli stessi pregiudizi. Non tutta la letteratura ha ancora accettato il fatto che il giallo non sia un genere letterario subalterno, ma un filone più vivo che mai. Come ogni altro genere il poliziesco ha al suo interno opere eccellenti come pessimi esemplari. Ma poche correnti narrative hanno mostrato una vitalità pari a quella del racconto giallo. Un’inesauribile disponibilità a contaminarsi con altri generi, anche i più “alti”. E chi non è convinto di ciò dovrebbe pensare a due esempi del nostro recente passato: Sciascia e Gadda, che scelsero la forma del romanzo poliziesco per partorire dei capolavori della letteratura italiana.

La verità profonda, per fare qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta nella semplicità. La vita è profonda nella sua semplicità.

Charles Bukowski

La verità profonda per fare qualunque cosa sta nella passione per quella determinata cosa che si intende realizzare: la passione muove la nostra vita e tutto permette di realizzare, come diceva Hegel

Niente nel mondo è stato fatto senza passione;

come ci ha dimostrato in questa intervista Giuliano Pasini che con costanza, determinazione e appunto passione ha realizzato il sogno di una vita.

Grazie Giuliano, è sempre un piacere parlare con lei!

Potete seguire i pensieri dell’autore sul suo blog personale www.giulianopasini.it.

Ilaria Berto

[Immagini a cura di Monica Conserotti]

Il legal thriller, tra cinema e letteratura

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Quando arte e giurisprudenza si incontrano, il connubioche ne nasce è sempre di grande effetto. Una formula che vale anche per “The Judge” il film con Robert Downey Jr. che in questi giorni sta riscuotendo ottimi successi al botteghino. Vi portiamo alla scoperta di un genere che sa essere sempre attuale e coinvolgente, sia in letteratura che sul grande schermo: il legal thriller.

Sapete qual è la trasmissione più longeva di un’emittente televisiva come Rai 3? La risposta è “Un giorno in pretura.” Dal Gennaio del 1988 infatti, gli italiani si sono appassionati a un format che proponeva un focus su alcuni dei fatti più rilevanti della storia del nostro Paese, in cui venivano esaminati processi riguardanti scandali politici e finanziari, famosi casi di cronaca nera, la criminalità organizzata, il terrorismo, le stragi naziste e così via. Le telecamere trasformarono l’aula giudiziaria in uno studio televisivo. L’iper-realtà superava di gran lunga la finzione e migliaia di persone anche non esperte di giurisprudenza si interessarono agli eventi giudiziari del nostro Paese. C’è in effetti nell’atto processuale una ritualità che ricorda vagamente gli schemi di una funzione religiosa, di una messa in scena studiata a puntino. Un rito che cattura la nostra attenzione perché carico di imprevedibile suspance, ed incerto fino al suo verdetto finale. L’industria cinematografica ha visto in questa struttura un enorme potenziale scenico e l’ha subito sfruttato fin dai suoi albori.

Come ci fa notare giustamente Mario Sesti in una sua riflessione: “Prima che il cinema facesse dell’amministrazione della giustizia una scena considerevolmente prolifica per la sua produzione, la storia, la politica e la letteratura ne avevano fatto l’oggetto di un’ampia narrazione e tematizzazione. La rappresentazione cinematografica delle dinamiche sociali, giudiziarie e psicologiche annodate intorno allo spettacolo pubblico di un processo, più che dare vita a un genere a sé stante, si è diffusa nelle forme diversificate dei generi più popolari. Pur nell’ambito di tale varietà, a prevalere è stato il dominio sull’immagine della parola e del discorso, attraverso cui il conflitto drammatico viene infaticabilmente esplorato, narrato e analizzato, trasformando lo spettatore stesso in una sorta di giurato, vulnerabile alla retorica di tutte le voci in campo.”

Canoni e concetti che ritroviamo benissimo anche in “The Judge” di David Dobkin. Film ben studiato e parecchio gigione nel momento in cui si affida a una serie di schemi e situazioni già collaudate per far colpo sullo spettatore. La storia è quella dell’avvocato senza scrupoli quando si tratta di entrare in aula, ma con un sacco di scheletri nell’armadio nel momento in cui si affronta il suo passato. Il classico protagonista a due facce, che da una parte ispira affezione e fiducia, mentre dall’altra ci solleva un contemporaneo istinto di repulsione. Un buono-cattivo, fin troppo visto al cinema e soprattutto in tv (sì, mi riferisco a “Dexter” e “Breaking Bad”) in questi anni recenti. A fargli da spalla c’è il grande e vecchio padre. Leggenda fin troppo ingombrante, a cui bisogna venire in soccorso. Nel mezzo c’è il dilemma eterno sul problema di difendere o meno una persona chiaramente colpevole di un reato gravissimo, la moralità, i conti con il passato e i legami familiari andati in frantumi. Tutto costruito intorno alla figura di Robert Downey Jr. che quando vuole sa benissimo come togliersi la maschera di Iron Man, essendo forse il più gran paraculo della sua generazione. Robert Duvall è invece il valido comprimario, anche se si vede chiaramente la prova di un attore avviato già da un pezzo sul viale del tramonto. “The Judge” è un film che sarebbe sbagliato definire brutto o banale. Resta però un lavoro studiato e calcolato in maniera eccessiva all’interno dei canoni del cinema commerciale, ed è proprio questa sua ricerca del successo e della storia convincente ad allontanarlo da quella magica e coinvolgente imprevedibilità che ha da sempre caratterizzato l’atto processuale.

Alvise Wollner

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“In un’altra epoca forse il processo è stato veramente una pratica per la presentazione dei fatti, la ricerca della verità e l’imposizione della giustizia.
Adesso un processo è una competizione, con un vincitore e uno sconfitto. Ognuna delle parti si aspetta che l’altra pieghi le regole o imbrogli, per cui nessuna delle due gioca lealmente. E la verità si perde nella confusione”.
L’ex avvocato – John Grisham

Inutile dirlo, quasi potrebbe essere scontato. Il legal thriller affascina; il legal thriller cattura il lettore dalla prima all’ultima pagina.
La ricerca di una verità che ogni cittadino vorrebbe aspettarsi dalla Legge, quella legge che tanto affascina quanto spesso delude. Nasce nello scenario del common law il legal thriller; il sistema giudiziario di cui ci rende attenti testimoni il grande Grisham meglio si presta all’atto scenico che rappresenta il processo.
John Grisham è il padre del giallo giudiziario: ha fatto storia, scuola, oltre duecentosettantacinque milioni di copie vendute.
Da avvocato di periferia e geniale scrittore: qual è la prospettiva con cui si guarda la propria professione quando si riesce a distaccarsene?

Lavorava dieci ore al giorno e scriveva nelle restanti in cui non dormiva. Determinato, fermo, efficace. Come uno dei suoi best seller: semplice, crudo, alla ricerca della verità, che dovrebbe essere – in un mondo migliore – sinonimo di giustizia.
Ogni individuo assimila in maniera diversa ciò che subisce: ogni crimine commesso corrisponde ad un’ingiustizia accusata da un altro. Se il criminale delinque per le più svariate ragioni, le vittime – dirette o indirette – ricercano un solo obiettivo: l’occasione di rivalsa.

Cosa può provare un padre a seguito dello stupro della propria figlia?

Gli si offrono due possibilità: confidare nella giustizia oppure scegliere di essere il vero giustiziere.

Non facile il compito di John Grisham, che nel suo primo lavoro, del 1989, racconta proprio la storia di un avvocato chiamato alla difesa di un padre assassino degli stupratori della figlia. “Il momento di uccidere” è il primo tra i suoi lavori; eppure cattura lettori, cattura la gente. Affascina fino al momento del verdetto finale: la giustizia è quello che non ti aspetti, nei gialli giudiziari.

Siamo affascinati dal diritto di avere una giustizia, dal diritto di conquistarcela a tutti i costi, nonostante potrebbe esserci un prezzo alto da pagare. In un’intervista di qualche tempo fa, il padre del legal thriller ha sostenuto il fascino di ogni individuo verso il “diritto alla giustizia”: perché di questo si parla nella Carta dei diritti americana, così come se ne parla nelle carte costituzionali degli altri paesi.
Un lettore comune rilegge i suoi desideri di rivalsa in ogni riga di questi scritti, un lettore comune diventa capace di valutare come sia più indicato ottenere la propria giustizia. Non è soltanto un fatto personale, nel legal thriller: si sposta dal rituale scenico del processo alla necessità di toccare con mano la verità e lasciare che quest’ultima domi l’intero intreccio.

Epicuro, in tempi non sospetti, sosteneva che “La giustizia non esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci, e in quei luoghi nei quali si sia stretto un patto circa il non recare né ricevere danno”: poco applicabile alla società odierna, poiché lo scontro nel causarsi danni è la prassi. Nessun patto di correttezza o codice di condotta ci insegnerà mai come si prevengono le ingiustizie. Si è talmente abituati ad osservarle nella vita di tutti i giorni che si riesce a pensare soltanto a come esserne ripagati.

Spettatori di ingiustizie di ogni giorno, vogliamo cogliere l’unione di giustizia e verità: il legal thriller ce lo permette svelandoci i retroscena, il legal thriller ci rende consci di una morale che ci sembrava di aver dimenticato. Vivere, in ogni momento del processo, insieme ai protagonisti. Che sia l’avvocato difensore, che sia l’imputato, che sia la vittima. Il verdetto lo aspettiamo amalgamati a loro, condividendo aspettative e ferite che il processo ha portato con sé.

“Affrontare un processo importante è come tuffarsi in uno stagno d’acqua scura piena di alghe con una cintura zavorrata. Riesci a riemergere per una boccata d’aria, ma tutto il resto del mondo non ha più importanza. E hai sempre l’impressione di essere sul punto di annegare”. John Grisham

Cecilia Coletta