Come vestirsi a un Vip party intellettuale: il rapporto tra parola e immagini

Che abiti indossano i nostri pensieri? E quali sono dunque le nostre abitudini mentali più radicate? Nel Filebo platonico (38e-39c), Socrate rispondeva: la nostra anima assomiglia a una tavoletta grafica (il foglio di ieri, il tablet di oggi), dove uno scrivàno e un pittore annotano rispettivamente parole e immagini. Platone non è invecchiato male: tuttora prevale l’idea che le rappresentazioni sfilino sulla nostra passerella mentale rivestite appunto o proposizionalmente o pittorialmente – al più, qualcuno inserisce la variante intermedia dei modelli (diagrammi, schemi, ecc.), più astratti delle immagini ma più concreti delle parole.

Però, tradizionalmente, se vuoi mettere la mente in tiro per un vip party intellettuale, dal tuo guardaroba mentale tra i due abiti scegli l’indumento verbale-scritto: se ti rivelassi di star progettando un saggio filosofico a fumetti, facilmente crederesti che è un’opera meramente divulgativa. Ma perché? E dev’essere necessariamente così? Poiché nemmeno la nostra mente esiste senza supporti esterni, le risposte stanno anche in come ci siamo storicamente interfacciati con le diverse tecnologie della parola e dell’immagine, il cui compito è esternalizzare, installare e fissare, materializzandolo, il prodotto del parlare e quello del vedere. Chiamiamole rispettivamente MaCheT’’oDicoAfà e DajeFammeVedè: grazie a esse, ciò che usiamo dentro la testa e ciò che maneggiamo fuori dalla testa si riecheggiano. Ecco allora una super-sintesi del tira e molla tra parola e immagine1.

  1. L’innamoramento. Parola e immagine vivono simbioticamente come Adamo ed Eva nell’Eden: un idillio fatto di condivisione in compresenza spaziotemporale senza nemmeno il bisogno di MaCheT’’oDicoAfà e DajeFammeVedè, in cui la parola trasporta informazioni che richiamano una sfera sensomotoria comune ed è essa stessa una semplice immagine sonora. Che pace!
  2. La crisi. Nasce DajeFammeVedè: rende percepibile a piacere e senza limiti di tempo – ma non di spazio, perché non esistevano grotte-mobili – uno scenario anche non più immediatamente presente. È l’invenzione preistorica del disegno – le iscrizioni proto-artistiche. L’immagine si fa segno e scopre così il problema cognitivo del rapporto con la realtà, mentre la parola resta al palo – capace di lasciare il segno solo nell’aria.
  3. La ricomposizione. La parola si ridà un tono grazie a MaCheT’’oDicoAfà, che rende percepibile a piacere e senza limiti di tempo un discorso anche non più immediatamente presente: ci si può parlare anche senza aprire bocca. È l’invenzione della scrittura alfabetica. Parola e immagine provano così a coesistere senza calpestarsi troppo i piedi, intervenendo a colmare i reciproci limiti; ma la prima – ora ringalluzzita – comincia a svilire la seconda, considerandola uno strumento illustrativo utile soprattutto per incolti e illetterati: “non capisci?! serve mica un disegnino?!”.
  4. Il divorzio. La parola si ribella definitivamente tramite MaCheT’’oDicoAfà Print, che rende la scrittura replicabile infinitamente, velocemente ed economicamente, regalandole il primato nella trasmissione della conoscenza, dalle informazioni e contenuti più semplici ai ragionamenti e pensieri più sofisticati. È l’invenzione del prodotto culturale per eccellenza della nostra tradizione: il libro. Stavolta è l’immagine a restare al palo, relegata a semplice supporto di emozioni e a strumento per raffigurare artisticamente la realtà, mescolando fedeltà e illusione.
  5. Il ritorno di fiamma. Mentre la parola si gode la propria supremazia, DajeFammeVedè Mechanics dà un ritocco all’immagine che si è intanto rimessa in piazza, facendole riguadagnare un certo appeal. Fu la volta prima della fotografia, capace di produrre e far circolare le immagini in serie, privandole di quell’aura artistico-sacrale che intanto avevano cercato di ritagliarsi, e poi del cinema (culminante nella televisione), il cui teatro on demand può finalmente riprodurre non solo le immagini in movimento, ma anche la parola parlata e potenzialmente persino scritta. La parola si ritrova così a vacillare, trascinata in una nuova possibile convivenza ravvicinata.
  6. I piaceri del sesso virtuale. La parola finisce per restare (re)incantata da DajeFammeVedè’ Animation, che rende la finzione teatrale-cinematografica reale e interattiva, trasformando ogni spettatore in attore: è la messa in scena del videogame, che consegna all’immagine il potere di trasmettere il sapere non più soltanto mostrando, bensì facendo (inter)agire. I mondi possibili diventano manipolabili, la realtà diventa laboratorio, l’esperienza diventa esperimento, la riflessione diventa partecipazione, l’analisi diventa immersione, e così via: perché limitarsi a leggere un testo come I promessi sposi, anziché riviverlo? Perché limitarsi a studiare un’opera come La Repubblica, anziché simularla?

Ecco perché la convinzione che la veste più elegante per i nostri pensieri sia quella verbale-scritta comincia oggi a traballare: le immagini reclamano anch’esse un vip pass intellettuale! E chissà, forse un Platone reloaded direbbe che la nostra mente è uno schermo su cui un game designer annota il codice che fa girare un videogame…

 

Giacomo Pezzano

NOTE
1. Per la versione non sintetizzata cfr. F. Antinucci, Parola e immagine. Storia di due tecnologie, Laterza, Roma-Bari 2011.

 

[Photo credit Keagan Henman via Unsplash]

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Juventus VS Fortnite: prendere l’arte dei videogiochi sul serio

“Uno spettro si aggira per il mondo – lo spettro degli e-sport”. Forse sei tra chi pensa che se già non bisogna prendere il gioco troppo sul serio, figuriamoci un e-gioco, ancor più lontano da qualsiasi vera realtà. Com’è allora che gli sport “veri” stanno cominciando a rincorrere quelli “falsi”, con l’intento apparente di voler riprodurre nella “realtà vera” la variabilità e la partecipabilità in real time tipiche della “realtà finta”? Prendi la Formula E, dove si assegnano bonus di potenza ai piloti sulla base dei voti ricevuti dagli “spettatori” durante la gara e ci sono corsie che danno il turbo passandoci sopra (stile TrackMania&C.). O prendi il progetto della controversa Superlega di calcio: «creare una competizione che simuli ciò che i più giovani fanno sulle piattaforme digitali», per «fronteggiare la competizione di Fortnite o Call of Duty».

Roba seria solo per i classici nerd e chi vuole catturarne soldi e attenzione? Segno di una dilagante gamification di ogni aspetto della vita che ci allontana inesorabilmente dalla realtà? Indice di quanto ah-signora-mia-ma-dove-stiamo-andando-a-finire? Vallo a dire per esempio agli artisti svizzeri del collettivo “Etoy” (nato nel 1994): trascinati in tribunale dall’azienda eToys.com (nata nel 1997), che lamentava un’eccessiva somiglianza nei nomi, risposero producendo e diffondendo il gioco multiplayer online Toywar a fine 1999, con l’esito di rendere volatile la quotazione in borsa della multinazionale. Conclusione? eToys fa marcia indietro l’anno successivo, scusandosi e pagando le spese legali. Alla faccia del gioco e della finzione!

È ora di essere seri: gli atti videoludici nei videogiochi non mettono semplicemente tra parentesi la realtà, anzi offrono l’opportunità di agire realmente e persino di trasformare il nostro senso dell’agire (nel bene e nel male, come sempre). Il gaming porta persino agli estremi la serietà tipica del gioco: i videogiochi possono cambiare il nostro atteggiamento e le nostre convinzioni rispetto al mondo, aprendoci con la simulazione scenari “fittizi” che interrogano il modo in cui le cose vanno o dovrebbero andare in una maniera radicalmente nuova e più incisiva rispetto a quanto finora sperimentato. In questo, i videogiochi sono un’arte a tutti gli effetti: offrono uno spazio dove esercitare liberamente la nostra naturale attitudine alla sperimentazione fine a se stessa e a prendere seriamente l’illusione in quanto tale.

Chi tuttora crede che i videogiochi non siano arte, non li conosce abbastanza e/o non ha mai ben compreso come funzioni l’arte: nessuna colpa, semplici fatti. Né, ovviamente, siamo tutti tenuti allo stesso modo a conoscere e apprezzare ogni forma d’arte; ma va guardata in faccia la realtà: se ogni epoca ha una o più arti caratteristiche, i videogiochi sono la forma d’arte tipica dell’era digitale, sia per la materia (sono puri artefatti computazionali) sia per la forma (sono strutturalmente interattivi). Partiamo dalla materia: il David materializza i processi di simulazione intra-mentali di Michelangelo, mentre Dark Souls dà corso a vere e proprie simulazioni extra-mentali dotate di significato intrinseco e vita propria. Passiamo alla forma: La Gioconda senza spettatore un senso lo ha, ma Uncharted senza giocatore no; lo storytelling di Harry Potter è altra cosa dallo storydoing di The Last of Us. ll videogame è insomma pura animazione.

Tutta roba irreale dunque? Per nulla! Non solo i videogiochi possono potenziare e sviluppare le facoltà mentali: estendono e raffinano il senso di possibilità; sollecitano la capacità di porre e risolvere problemi; esercitano a scoprire significati e usi nascosti; insegnano a muoversi entro un set di vincoli; riorganizzano la percezione; ristrutturano l’emotività; rinvigoriscono lo spirito critico; stimolano la riflessione; ecc. Il punto è che con i videogame tutto ciò dipende dal fatto che essi generano una sorta di “archivio delle azioni” in costante aggiornamento. Come un dipinto conserva sguardi, una canzone ascolti, una novella storie, e via discorrendo, facendoci rivivere immagini visive, sonore, narrative, ecc. provenienti originariamente da altre menti, così un videogame registra possibili attività, facendoci scoprire, condividere, valutare, e così via modi di decidere, comportarci, porsi, ecc. disegnati e/o agiti da altri, diversi da quelli testabili nella vita quotidiana, ma potenzialmente “ritrasferibili” in essa. Come nel caso di Naska, passato dalle gare motoristiche su simulatore a quelle su strada, o di Verstappen che dichiara di preparare i sorpassi di F1 ai videogiochi.

Che dici, ne abbiamo abbastanza per prendere l’arte videoludica sul serio?

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE

1. Tre testi per approfondire: I. Bogost, Persuasive Games: The Expressive Power of Videogames, MIT Press, Cambridge 2007; A.R. Galloway, Gaming. Saggi sulla cultura algoritmica, Sossella, Roma 2022; C. Thi Nguyen, Games: Agency as Art, Oxford University Press, Oxford 2020.

 

[immagine tratta da Unsplash]

 

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Neurath: una start-up filosofica?

Il terzo profeta filosofico dopo Socrate e Nozick è qualcuno che, oltre a vederci lungo, aveva cominciato direttamente a mettersi in proprio, dando vita a quella che oggi sarebbe verosimilmente pubblicizzata come una startup filosofica: Otto Neurath.

In tempi in cui la serietà dell’intelletto e il rigore della parola andavano per la maggiore, egli ebbe un’intuizione tanto nitida quanto divisiva: in una società di massa, piaccia o meno attraversata da pubblicità, propaganda e affini – la comunicazione della conoscenza sarebbe stata destinata a diventare intrattenimento o, quantomeno, a intrecciarsi con esso. È quanto oggi abbiamo cominciato a chiamare edutainment, sfidando l’idea millenaria secondo cui imparare e divertirsi sono persino opposti, perché – i tragici ammonivano – «apprendimento attraverso sofferenza». Neurath invece (correva l’anno 1945) afferma:

«La formazione deve competere con l’intrattenimento – questo è ciò che riteniamo necessario per la nostra epoca. Sarebbe pericoloso se l’educazione dovesse trasformarsi in un’incombenza puramente lavorativa e in qualcosa di noioso» (O. Neurath, From Hieroglyphics to Isotype, 2010).

Con buona pace di chi inversamente ritiene pericoloso contaminare l’istruzione con un ingrediente di spettacolarità: viene facile pensare che Neurath sarebbe stato tra i primi partecipanti in eventi stile TEDx, se non direttamente tra i loro fondatori.
Infatti, egli era talmente convinto del bisogno di alleggerire e al contempo estendere il nostro accesso alla conoscenza da rimboccarsi le maniche in prima persona per dar vita a un’impresa tutta sua. Così, già dalla metà degli anni ‘20, insieme a un team di collaboratori viennesi di prim’ordine, cominciò a elaborare un sistema di comunicazione visiva che fosse in grado di rappresentare visualmente quantità, misure, statistiche, traiettorie spazio-temporali, tendenze sociali, e via discorrendo: il cosiddetto Isotype. L’idea-base di questa start-up filosofica – animata da un forte spirito democratico – era quella di trasporre concetti astratti, afferrabili soltanto dai canonici addetti ai lavori, in rappresentazioni grafiche e visive che fossero comprensibili alla massa: inizialmente il sistema venne sperimentato nei musei, ma via via cominciò a trovare applicazione anche nei libri più vari.

In poche parole, Neurath è stato l’inventore di quanto oggi sta diventando pane quotidiano per le nostre menti: l’infografica, che si dedica alla trasformazione di dati di ogni tipo in un linguaggio visivo accessibile potenzialmente a tutti e capace di integrare le dimensioni informativa, formativa ed estetica. Per lui, il principio secondo cui anche l’occhio vuole la sua parte andava preso alla lettera, perché le immagini sono a tutti gli effetti iconiche: pongono i fatti di fronte alla mente in modo semplice e facile, tale da imprimersi direttamente nella memoria. Se tu avessi una chat con Neurath su WhatsApp o Telegram, puoi scommettere che sarebbe costellata di messaggi composti esclusivamente o quasi da emoji.

Non a caso, il motto del team era «le parole separano, le immagini uniscono»: se il linguaggio verbale richiede elaborazione, mediazione, riflessione e padronanza di un codice culturale specifico, il linguaggio visivo sarebbe piuttosto universale, immediato e limpido, capace così di garantire una comprensione diretta e libera dai filtri della cultura di origine o del grado di educazione e persino di alfabetizzazione. Visualmente, tutti concepiscono nello stesso modo: le infografiche sarebbero dunque il veicolo ideale per pensare e comunicare in maniera forse meno sofisticata e articolata (meno cerebrale e faticosa), ma sicuramente più limpida e chiara (più istruttiva ed efficace). Indubbiamente, oggi possiamo dire che questa ferma fiducia nel carattere non ambiguo e transculturale delle immagini trapela una certa ingenuità: stiamo cominciando a prendere familiarità con il fatto che, poiché il visuale è un codice espressivo umano, allora anch’esso si presenta quei tratti di varietà, mutevolezza e contestualità tipici di ogni cosa umana. Tuttavia, dobbiamo ugualmente riconoscere la lucidità nell’avvertire che la società stava andando in una direzione tale per cui occorreva riconoscere che le immagini non sono di per sé meno serie e formative delle parole e anzi possiedono un surplus di potenza espressivo-comunicativa rispetto a esse – virtù e vizio allo stesso tempo. Senza dimenticare la rilevanza di simili convinzioni per l’insieme di quella che viene oggi chiamata “didattica inclusiva” – peraltro anch’essa preconizzata da Neurath.

Chissà che cosa sarebbe saltato fuori se avesse potuto interagire con i graphic designer di oggi e se più in generale avesse potuto avere a che fare con la facilità odierna nella produzione di videoimmagini! Forse esagero, ma me lo vedo figurare tra i principali finanziatori di una start-up intenta a esplorare se e come in filosofia si possa pensare visualmente.

Ma, questa, è un’altra storia.

 

Giacomo Pezzano

 

[Photo credit Jr Korpa via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Nozick: una meta-proposta irrinunciabile?

La serie sulla preveggenza filosofica inaugurata con Socrate prosegue con Robert Nozick, diventato famoso in filosofia soprattutto per il suo concetto di «Stato minimo», che – forse – ha già di suo del profetico.

Ma Nozick ha saputo immaginare persino di più: nel 1974, elaborò un esperimento mentale che prevedeva l’esistenza di una macchina in grado di far avere qualsiasi tipo di esperienza desiderata, attraverso stimolazioni cerebrali particolarmente raffinate e mirate. Ecco il suo funzionamento: con il corpo immerso comodo in una vasca, puoi pensare e sentire realmente di star scrivendo un romanzo capolavoro, di star facendo amicizia, di star leggendo un testo filosofico, e così via all’infinito. E come te chiunque altro: più persone possono infatti collegarsi alla macchina contemporaneamente. Per restare aggiornati sulle ultime novità e rinnovare l’assortimento dei desideri, Nozick ipotizzava la possibilità di usufruire ogni due anni di una pausa dall’immersione, anche soltanto per dieci minuti: in quel frangente, si consulta un catalogo di esperienze, che brand e imprese di vario tipo hanno stilato su misura dopo aver analizzato e aggregato le scelte di altri individui, e così si pre-programmano al meglio le esperienze dei successivi due anni – e via di seguito, potenzialmente all’infinito.

Infatti, la domanda che Nozick si e ci poneva a questo punto era: ti collegheresti a una simile macchina? E nel caso, lo faresti per tutta la vita? La sua risposta, anzi la risposta che egli attribuiva ipoteticamente alla maggior parte dei suoi lettori, era “no grazie”: a suo giudizio pochi sarebbero davvero disposti a rinunciare a una vita genuinamente reale, autentica e profonda. Addirittura, egli reputava che «collegarsi alla macchina è una specie di suicidio». E rilanciava: siccome a noi importa essere e agire bene più che “vivere esperienze”, se esistesse una «macchina di trasformazione» in grado di trasformarti nella persona che desideri essere, essa renderebbe inutile qualsiasi macchina dell’esperienza (cfr. R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, 2008).

Insomma, vita reale batte vita virtuale – soprattutto se la seconda viene chiamata a sostituire integralmente la prima. Alcuni esperimenti hanno provato a smentire questa convinzione di Nozick, perché il fatto sarebbe non tanto che siamo attaccati ai valori autentici della vita, quanto piuttosto che non amiamo cambiare rispetto a una situazione ormai consolidata: infatti, di fronte a uno scenario inverso, nel quale si scopre di aver da sempre vissuto attaccati alla macchina e la proposta è disconnettersi da essa per tornare alla “vita vera”, la risposta prevalente resta anche in quel caso “no grazie”. Ma se, invece, il fatto fosse che le persone desiderano addirittura mettere da parte la vita reale, autentica e profonda, per entrare in un meraviglioso universo più o meno parallelo di esperienze, e non solo, a portata di mano? Come nel caso di Socrate, abbiamo a che fare con qualcuno che ci ha visto giusto, ma è rimasto come intimorito dalla propria stessa visione.

Sicuramente, c’è almeno una persona convinta che la “vita vera” non sia in realtà la nostra massima aspirazione, tanto da aver puntato tutte le fiches sul fatto che molti accetterebbero eccome un simile plug-in: è Mark Zuckerberg, che sembra aver preso talmente sul serio Nozick da dar vita (reale? virtuale?) a un ardito incrocio tra macchina dell’esperienza e macchina della trasformazione, battezzato Metaverso. Stando alle parole del suo uomo-immagine, o se preferite Dio Creatore, il Metaverso promette di realizzare in maniera definitiva «un senso realistico della presenza» e di mettere completamente al centro dell’informatica «il modo in cui le persone vogliono vivere il mondo». Con il corpo in una poltrona, mediante sensori, visori e dispositivi vari di realtà virtuali e aumentate, si apre una miriade di esperienze che già oggi vanno dal mercato immobiliare alle Fashion Week, dai concerti alle sfide a ping-pong, dalla pratica chirurgica alle chiacchierate e così via, lungo le quali è possibile costruirsi su misura i panni dell’avatar desiderato. Inoltre, per gestire il timore della FOMO, la paura di essere tagliati fuori dalle novità, non servirà nemmeno disconnettersi: basterà accedere ai cataloghi che il Metaverso stesso genererà e immetterà nel sistema in tempo reale, raccogliendo ed elaborando i dati delle esperienze e degli avatar di tutti gli utenti.

Che ne dici: accetterai il plug-in, nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non vi separi, o la vedi come Nozick e non c’è proprio (Meta)verso? Ah, se fosse la morte a spaventarti ancora, abbi fede: i tecnici lavorano incessantemente per implementare il Metaverso affinché possa ospitare anche l’esperienza dell’immortalità.

 

Giacomo Pezzano

[Photo credit Lux Interaction via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Socrate è stato il primo boomer?

Con questo pezzo si inaugura una piccola rassegna di profezie filosofiche. Sì, perché i filosofi sanno essere profetici, a modo loro: talora di sventure, talora di avventure, ma più spesso dell’ambigua tensione tra entrambe che caratterizza le grandi svolte storiche.

Questo è per esempio il caso di Socrate, che – diciamocelo! – oggi figurerebbe come il prototipo del boomer. Infatti, circa 2500 anni or sono, questo borghese figlio di un’ostetrica e di uno scultore puntava il dito contro le nuove ICT1 di massa che sconvolgevano la vita dell’amata Atene, della Grecia stessa e persino dell’intera umanità. Aveva dunque captato la potenziale disruption a cui l’umanità stava andando incontro a causa dell’interazione con una tecnologia digitale innovativa come non mai. Le perplessità di Socrate erano grossomodo di questa natura2:
1) appoggiarsi a server esterni di informazioni avrebbe rappresentato una ricetta per la smemoratezza: se la macchina ricorda al posto tuo, tu smetterai farlo;
2) permettere di riprodurre e avere accesso alle informazioni in maniera universale e immediata avrebbe favorito la fruizione superficiale dei contenuti, piuttosto che una loro genuina interiorizzazione: se la macchina sa al posto tuo, tu smetterai di apprendere, concentrarti e andare in profondità;
3) la circolazione indiscriminata e libera di masse di informazioni decontestualizzate e impersonali avrebbe sancito la fine del genuino dialogo faccia a faccia e dei processi di verifica in prima persona: se la macchina risponde al posto tuo, tu smetterai di interrogar(ti), dunque non ti renderai più conto di quello che non sai – non saprai più di non sapere e finirai in una bolla.

Ora, il fatto rilevante è che Socrate si riferiva non a GoogleMaps, Wikipedia, Alexa, ecc., ma a quella che potremmo definire come la prima forma di AI nella storia umana, grazie al cui codice il flusso analogico dell’esperienza veniva spezzettato e compresso in unità variamente combinabili e interscambiabili, ossia veniva trasformato in un algoritmo potenzialmente universale: si tratta della scrittura alfabetica. Proprio così! Infatti, secondo Socrate, con l’alfabeto la «parola viva» diventava «morto discorso» che «si diffonde ovunque», composto da elementi che «sembra che siano intelligenti»: «fidandosi della scrittura», finirà che essa «impianterà la dimenticanza» nelle menti e le persone diventeranno come «rotoli da papiro» incapaci di «rispondere e a loro volta porre domande», ossia di apprendere e pensare.

Oggi viene da sorridere, ma non semplicemente perché l’alfabeto è diventato ovvio, normale, banale, e così via; c’è qualcosa di più radicale: oggi l’atto stesso del pensare logicamente, criticamente, riflessivamente e autonomamente consiste anche nel saper leggere, analizzare, comprendere e interpretare testi e sottotesti. Ma non solo: l’esistenza della democrazia, della consapevolezza di sé e degli altri e persino della consapevolezza della consapevolezza stessa sono frutto dell’interazione con la scrittura alfabetica, della sua letterale incorporazione. In poche parole, la scrittura alfabetica non solo non ha ucciso la nostra “anima”, ma le ha anzi dato forma – la ha informata: grazie a essa, sappiamo di non sapere.

Ciò è vero al punto che, nella nostra epoca, il problema diventa che le nuove ICT starebbero minacciando l’insieme dei processi cognitivi tipici dell’attitudine da «lettura profonda», fatta di tempi dilatati, di abilità ricorsive, di capacità di coniugare divisione e connessione e di prontezza nel fare inferenze e trarre conclusioni: analisi, sintesi, riflessione, immaginazione, astrazione, empatia, contemplazione, concentrazione, giudizio, organizzazione, codificazione, documentazione, classificazione, interiorizzazione, e così via. Ci ritroveremmo quindi a sviluppare una vera e propria «mente da cavalletta», che saltella e svolazza senza una vera direzione – senza un senso vero e proprio. C’è davvero dell’ironia in tutto ciò: Socrate si lamentava che l’alfabeto avrebbe rovinato la nostra mente (orale), mentre oggi ci si lamenta che la rete starebbe rovinando la nostra mente (scrivente).

Siamo quindi passati dal timore o convinzione che la scrittura ci renderà stupidi (perché ormai incapaci di ascoltare/parlare) al timore o convinzione che il web ci renderà stupidi (perché ormai incapaci di leggere/scrivere). Ieri i “professori” si lamentavano che i giovani non dialogavano più perché distratti dalla carta; oggi invece si lamentano che i giovani non riflettono più perché distratti dallo schermo. Che cosa capiterà con le AI odierne è difficile saperlo e ancor di più ipotizzarlo in poche parole; ma una cosa potrebbe sembrare certa: nel bene e nel male, ogni epoca ha i suoi boomer. E tu, quanto ti senti socratico?

 

Giacomo Pezzano

NOTE
1. Information and Communication Technologies.
2. Espresse principalmente in Platone, Fedro, 274d-275d e Protagora, 329a, una cui eccellente rilettura contemporanea è in M. Wolf, Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge, Vita e Pensiero, Milano 2009, soprattutto pp. 59-87. Le citazioni successive sono tratte da queste opere.

[Photo credit Milan Fakurian]

la chiave di sophia 2022

Parole, parole, parole… la filosofia ha ancora qualcosa da dire?

«La filosofia è fatta pressoché interamente in parole. Un diagramma occasionale può aiutare, e alcuni dicono (in parole!) che la musica, la danza, la pittura o la scultura senza parole possono esprimere idee filosofiche; ma per discutere propriamente il valore di quelle idee dobbiamo usare parole. Il linguaggio è il medium essenziale della filosofia»1.

Quest’affermazione suona banale: se conosci un filosofo o sei in prima persona della cricca, sai bene che il tuo lavoro consiste – fermandosi alla superficie – nel leggere e scrivere testi. Da qui sorgono le varie immagini della postura fondamentale del filosofo come uno stare “a tavolino”, “alla scrivania” o “sulla poltrona”. Andando invece più in profondità, le cose non cambiano: sin dai tempi di Platone, pensare filosoficamente significa intrattenere un dialogo mentale, ossia parlare con sé stessi, mettendo in ordine lineare e sequenziale concetti e riflessioni, come se ci si scrivesse un libro interiore. D’altronde, sin dall’infanzia insegnano: per capire che cosa ti frulla in testa, devi saper articolare sulla carta fuori dalla testa. Struttura mentale e struttura scritta fanno tutt’uno: vale per il dilettante come per il professionista del pensiero. Sembra persino scontato sottolinearlo.

Non a caso, simili idee sono condivise da filosofi di tradizioni, approcci e orientamenti assai diversi, quando non contrastanti e incompatibili: tutti si trovano comunque concordi nell’intrecciare indissolubilmente l’attività filosofica con la parola in generale e quella scritta in particolare. Anche i filosofi devono avere i propri punti fermi, no?! Eppure, se vogliamo fare i filosofi sul serio e fino in fondo, l’acqua calda non può essere una scoperta: deve diventare un problema. Dove c’è ovvietà, lì c’è dubbio: è uno dei mantra filosofici. Non può non valere anche per il rapporto monogamo tra filosofia e linguaggio verbale: perché bisogna prenderlo per buono? Forse perché si pensa soltanto a parole? O, perlomeno, perché si pensa filosoficamente solo a parole? Se è davvero così, significa allora che le persone sorde, quelle nello spettro autistico che ragionano visivamente e quelle con forme di afasia non pensano o non sono in grado di filosofare? In questo caso, servirebbe almeno il coraggio di dirselo esplicitamente: la filosofia è sotto questo riguardo radicalmente non inclusiva.

Ma non credo che debba essere questa l’ultima parola (scritta). Soprattutto se teniamo conto di un’invenzione epocale come il web. Epocale perché, tra le altre cose, ha cominciato a ristrutturare anche le nostre modalità espressive: oggi, chiunque ha tra le mani un aggeggio che permette certo di scrivere, ma anche di scattare foto, fare video, creare grafiche, ecc. Dalla penna allo smartphone: siamo nel cuore della cosiddetta cultura visuale, intrisa di multimedialità anzi transmedialità, di ibridazione tra tocchi, suoni, (video)immagini e testi – mancano soltanto gusto e olfatto, per ora. In breve, sta succedendo che atti come ideare, scriptare, girare e montare un video equivalgono a pensare, a dar forma alla propria mente. Non ti sembra un po’ strano che la filosofia resti tagliata fuori da tutto ciò? Non stride che laurearsi in filosofia voglia dire ancora soltanto (leggere testi per) scrivere una tesi? Ma dove sta scritto che si possa pensare filosoficamente soltanto per iscritto?

Fortunatamente, diversi studiosi stanno cominciando a denunciare la peculiare forma di xenofobia che attraversa il lavoro filosofico: una resistenza sistematica per tutto ciò che sconfina dai territori del concetto, ossia della parola scritta. Ma lo denunciano ancora a parole. Nel mentre, però, anche grazie al lavoro di vari content creator filosofici, dai video ai podcast, dai fumetti alle performance, qualcosa sta effettivamente cominciando a cambiare, non solo a parole – forse. Bisogna allora sperare che la scossa arrivi definitivamente anche ai piani alti delle “torri d’avorio”, perché è tempo di riconoscere che limitarsi a fare filosofia su immagini, disegni, grafiche, video, nuovi media, dispositivi di realtà aumentate e virtuali, ecc., non basta più: occorre iniziare a fare filosofia con tutto ciò – tanto “mediante” quanto “insieme”. Non è semplice, ma non è impossibile: esattamente come, all’epoca, accadde con la scoperta delle potenzialità espressive e antropologiche della scrittura. Perché oggi dovremmo fermarci di fronte ai videogame? L’alternativa alla parola (scritta) non è il silenzio; non avere più nulla da dire non significa non aver più niente da esprimere: ci sono più cose nel cielo e nella terra espressivi di quante ne abbiano finora sognate i filosofi.

(Ma questo è un testo scritto! Sì, ma funziona come un purgante: va espulso con le sostanze tossiche. Parole per (cominciare a) salutare le parole)

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. T. Williamson, Philosophical Method: A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2021, p. 103.

[immagine tratta da Pixabay]

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Tre platonici e una gamba. Vero Amore™ e poliamore

In una celebre scena di Tre uomini e una gamba, veniva raccontata abbastanza fedelmente una parte della concezione dell’amore che compare nel Simposio platonico: ciascuno di noi è come la metà di una mela alla ricerca della sua altra metà, per potersi poi completare e conquistare la più perfetta felicità. Ancora oggi, la nostra società vive le conseguenze di questo settaggio: sicuramente, conosci almeno una persona convinta che il Vero Amore è quello monogamo, esclusivo e unico (magari esclusivamente tra un uomo e una donna). Amare significherebbe trovare finalmente “la persona giusta”: o stai in coppia o non stai davvero con qualcuno – anzi, nemmeno esisti fino in fondo, dato che resti incompiuto. Si definisce così non soltanto un Amore Ideale, ma anche un Ideale d’Amore.

Forse oggi Platone verrebbe per questo facilmente collocato – a torto o a ragione, non posso qui esprimermi – tra i sostenitori della mononormatività, un’estrema versione dell’amatonormatività: la convinzione – esplicita o implicita – che non solo esiste un unico modo di amare davvero, ma anche che – stringi stringi – le relazioni d’amore rappresentano il culmine dei rapporti umani, come se le altre non fossero Vere Relazioni. Questo perché le relazioni d’amore sono concepite secondo una rigida “scala mobile”, finalizzata al macro-obiettivo di accasarsi e riprodursi e strutturata secondo step ben precisi:

approccio → corteggiamento → coppia ufficiale → progetti comuni → fidanzamento → convivenza → matrimonio → figli → acquisto di beni famigliari (→ Felicità).

 I “mononormativi”  difendono la clausola per cui tutto ciò deve essere fatto esclusivamente con un’unica persona: la propria “dolce metà”1.

A questo punto, Aristotele potrebbe forse candidarsi a diventare l’idolo filosofico dell’insieme di creator, attivisti e influencer che sta cercando di far aprire gli occhi sul fatto che amare si dice e – soprattutto – si fa in molti modi: non esiste un solo modo di stare insieme. Niente Vero Amore. È questa l’idea fondamentale di chi per esempio difende le ragioni e – prima ancora – l’esistenza del poliamore: uno stile relazionale per cui è possibile – con il desiderio e il consenso di tutte le persone coinvolte – avere più relazioni sentimentali e sessuali (o romantiche, asessuali, ecc.) in contemporanea e alla luce del sole. Si può insomma amare più di una persona, non solo nelle proprie fantasie, ma nella propria vita quotidiana: per esempio, si può convivere anche con più di un partner.

Quali che siano le tue preferenze e tradizioni amorose di riferimento, il poliamore va preso sul serio, anche in chiave strettamente filosofica: non solo perché esso sollecita la decostruzione prima e la ricostruzione poi di valori e principii dati per scontati (già non è poco!), ma anche perché esprime tanto 1) una diversa visione della realtà delle relazioni quanto 2) un rinnovato inventario dei beni relazionali.

1) Nel “poliuniverso”, le relazioni hanno una consistenza propria, irriducibile alla stoffa delle “cose”, sostanze prestabilite e fisse: conta quel particolare campo di interazioni, non un modello di rapporto dato (stile “moglie + marito”), ossia una Super-Cosa rispetto a cui ogni volta doversi commisurare – facendo inevitabilmente brutta figura e mortificandosi. Scompare così l’idea che se non trovi l’altra metà della mela, o nemmeno desideri niente di simile, allora sei difettoso e colpevole: la realtà delle relazioni amorose dipende dalle dinamiche interne di quei rapporti stessi, in cui le persone stesse vengono (tras)formate, non da un termine di confronto esteriore, magari idealizzato, tale che gli individui sono chiamati a occupare un ruolo predefinito.

2) Il menu del “polimondo” è molto più ricco del mondo cosiddetto normale e riconosce l’esistenza di entità come (un piccolo assaggio):
• la compersione: la sensazione di gioia per la felicità che i propri partner provano anche con altri partner;
• la polecola: una “molecola” relazionale tra persone che possono intrattenere rapporti reciproci di diversi tipi;
• il metapartner: il partner del proprio partner.

Sia chiaro: nemmeno nel poliamore è tutto rose e fiori. Intanto perché sono i rapporti umani a non esserlo; poi perché una società mono-impostata non agevola certo le poli-cose; infine perché ogni specifico orientamento o stile di vita ha comunque i suoi “lati oscuri”. Inoltre, non è che il poliamore diventa la nuova normalità e sanità al posto della monogamia: il punto è piuttosto decidere liberamente e consapevolmente, senza considerare scelte diverse come immature, promiscue, aberranti e minacciose, se non patologiche.

Insomma, non c’è l’obbligo di vivere l’amore pluralisticamente, ma forse è ora quantomeno di chiedersi: pensare l’amore universalisticamente è l’unica via percorribile, o la migliore? Io credo di no: e tu? Chissà che cosa racconterebbe una web-serie intitolata Tre aristotelici e una gamba

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE
1. Il punto di partenza migliore in lingua italiana per cominciare a esplorare è la guida ebook di D. Piras, Oltre la coppia monogama: poliamore e fluidità relazionale, 2021, inserita nel progetto https://www.miosessuologo.it/.

[Photo credit Tim Marshall via Unsplash]

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Test rapido (filosofico): quattro pregiudizi sul merito

Meritocrazia: è tra le parole che oggi più polarizzano menti e cuori. Per alcuni, il termine è sinonimo di giustizia: il merito dà “a ciascuno il suo”, limitando i vantaggi ereditati alla nascita e offrendo l’opportunità di veder riconosciuto il proprio valore1. Per altri, il termine è sinonimo di tirannia: il merito dilania la società, contrapponendo i superbi vincenti ai rancorosi perdenti e generando nuovi privilegi2. Effettivamente, in una cultura sempre più votata al “controllare e valutare”, il tradizionale Giudizio Finale di Dio sembra quasi poca cosa rispetto alle continue valutazioni di umani e/o mercato e/o algoritmi. Eppure, rinunceresti all’idea che veder misurati i tuoi meriti è addirittura un tuo diritto fondamentale in quanto essere umano?

Secondo te, il merito è democratico o dittatoriale? La domanda è ostica, perché sul merito tutti nutriamo almeno un pregiudizio inconsapevole (un cosiddetto bias). I filosofi amano introdurre distinzioni “di ragione”, separando o “scollando” concetti che normalmente sono inavvertitamente sovrapposti – per poi magari “reincollarli” ad altri: questo lavoro analitico consente di smascherare un sacco di pregiudizi! Proviamo dunque a farlo anche con il merito: ti propongo un test rapido, per scoprire i tuoi bias sul merito. Ogni pregiudizio che scopri di avere vale 1 punto!

Bias n. 1 (1 punto). “Merito” non coincide con “merito morale”. Meritare non significa necessariamente essere nel giusto, essere giusti. La differenza è rilevante: il merito è valutabile, ancorché non per forza facilmente; ma esiste qualcuno che davvero può stabilire chi è virtuoso-DOC? Il merito consiste nell’essere buoni-a, ossia persone capaci, non nell’essere buoni-ebbasta, ossia persone giuste: meritare vuol dire che tra azioni e cosa, tra abilità della persona ed esigenze di un compito, c’è una qualche relazione di “appropriatezza”. Insomma: bisogna demoralizzare il merito.

Bias n. 2 (1 punto). “Merito” non coincide con “meriti”. Meritare si dice in molti modi: la nozione di merito è relativa e non assoluta. Ci sono tanti tipi di meriti quanti tipi di attività umane si possono immaginare – forse persino quante persone possono esistere. Non esiste “Il Merito”; esistono invece meriti settoriali, circoscritti e specifici, determinabili ogni volta sulla base di criteri diversi: diversamente, bisognerebbe concedere che – poniamo – una scienziata è più meritoria in termini assoluti di un facchino, o una camionista di un giardiniere, e così via. Sospetti che in realtà sia così? Prova ad assegnare alla scienziata i compiti della camionista – e viceversa.

Bias n. 3 (vale doppio!). “Merito” non coincide con “ricchezza”. In primo luogo (1 punto), meritare un premio non equivale a meritare soldi: desiderare che un merito venga riconosciuto e apprezzato non significa aspirare soltanto ad arricchirsi. Altrimenti, perché esisterebbero premi come onorificenze civili, medaglie al valore, lauree ad honorem, ecc? In secondo luogo (1 punto), soltanto se esistesse “Il Merito” sarebbe possibile commisurare tutti i vari meriti in un’unica grande competizione utilizzando il denaro come unico parametro generale: a quel punto, Il Vincitore sarebbe persino autorizzato a sentirsi non soltanto buono-a, e nemmeno soltanto il migliore in X, ma addirittura Il Migliore in tutto e per tutto. Magari questo articolo merita una lettura, ma non perciò richiede un pagamento (né lo merita, penso) o è la cosa migliore sulla faccia della Terra (dubito lo pensassi).

Bias n. 4 (1 punto). “Merito” non coincide con “competizione”. In una gara, la mia posizione è determinata dalla posizione degli altri concorrenti e viceversa: non si arriva primi se non c’è chi arriva secondo. Ma quella del merito non è una gara, o – al limite – è una corsa contro se stessi: è la cosa in questione che determina se merito o no, indipendentemente dalla presenza di altri che meriterebbero “più” o “meno”. Purtroppo potrebbe esserti capitato: sei l’unico candidato per un posto di lavoro, ma – bisogna essere onesti – comunque non meriti quell’impiego, perché non rispondi del tutto ai requisiti necessari. O, meno drammaticamente: una tua battuta può meritare una risata senza dover essere più o meno divertente della battuta di qualcun altro.

Il test rapido si ferma qui. Calcola ora i risultati in base al punteggio totale:
• 0: hai barato?!
• 1: conquisti il MeritPass!
• 2-3: tutto sommato, non hai demeritato!
• 4-5: il problema non sei tu: meriti una società migliore!

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1- È la tesi difesa da M. Santambrogio, Il complotto contro il merito, Laterza, Roma-Bari 2021, il mio riferimento principale nella formulazione dei quattro bias.
2- 
Il caso più noto è M. Sandel, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, Feltrinelli, Milano 2020.

[Photo credit Pixabay]

la chiave di sophia

C’è un medico in seggio? Elezioni in stato di emergenza

In diversi comuni italiani, è tempo di elezioni. Se è il caso anche del posto in cui vivi, puoi provare a partecipare al seguente piccolo esperimento: quando sei in giro, presta attenzione ai vari manifesti elettorali di chi si candida a sindaco o a consigliere. Bene, noti qualcosa in Comune?

A me ha colpito in particolare un aspetto: nelle immagini, più di un candidato indossa un camice da medico o farmacista, spesso brandendo uno stetoscopio, accompagnato da frasi come “la mia ricetta per città-X” o “con me sei al sicuro”. Evidentemente, non è un caso e la ragione di tutto ciò è facilmente comprensibile: effetto-pandemia, in almeno due sensi.

Il primo senso è più politico-politicante: i vari esponenti di partiti e movimenti hanno annusato l’aria e cercano di cavalcare il trend del momento. “La gente” comincia ad avere come riferimento personale sanitario di varia natura? Allora servono candidati provenienti da quelle file! “Il popolo” comincia a fidarsi di chi ha a che fare con la salute? Allora sotto con l’arruolamento di (pseudo)esperti del settore!

Il secondo senso è più politico-sociale, direi filosoficamente più interessante: che cosa significa il fatto che le persone iniziano a ritenere affidabili i “professionisti della salute”? Senza chiamare ora in causa la biopolitica (ne ho parlato qui), si può dire che stiamo assistendo alla politicizzazione di una parte della società che prima di oggi non aveva (una simile) rilevanza politica. Tra i primi sintomi abbiamo avuto la presenza e il séguito in crescita esponenziale di virologi, epidemiologi e annessi in talk-show e social: la loro diventava una voce in capitolo, se non La Voce per eccellenza – per la gioia dei neo-followers e la frustrazione dei neo-haters.

Così, quando si tratterebbe di fare politicamente sul serio (almeno in teoria), ecco che oltre alle voci servono anche “anima e corpo”: professionisti della salute di ogni tipo assumono un valore politico tutto nuovo e peculiare, come fossero in grado di agire in maniera politicamente buone ed efficace per il solo fatto di essere medici, infermieri, farmacisti, nutrizionisti e via dicendo (già, ma fin dove arriva l’elenco?). In passato, nei manifesti elettorali campeggiavano scritte come “Presidente operaio”: leggeremo presto in giro “Presidente medico”? Insomma, oggi chi si occupa di salute è investibile di un ruolo pubblico, di una funzione politica: manifesta un valore immediatamente comune.

Provo adesso a leggerti nel pensiero: “ok, ma questa cosa è un bene o un male?”. Sarò onesto: non lo so con precisione, perché mi sembra ci sia del bene e del male nella faccenda. Per capirlo, facciamoci aiutare da un’intuizione di Platone ancora significativa dopo oltre 2500 anni 1che influencer!

Una società si compone di diversi ambiti, “tecniche” per Platone e “professionalità” per noi: ciascun ambito è importante e contribuisce alla società, ma il bene sociale generale non coincide con il bene di nessun ambito preso singolarmente. Per un gommista è un bene avere gomme che si bucano ogni 5km; per un produttore di gomme, un guidatore e il traffico stesso no. Inoltre, nessuno specifico “professionista” è competente intorno al Bene complessivo della propria società, essendo preso – giustamente – dal proprio lavoro e dai propri affari. Beh, quasi nessuno, perché Platone aveva un coniglio nel cilindro, che gli è valso persino l’accusa di essere il fondatore di ogni forma di ingegneria sociale o totalitarismo tecnocratico: esiste un tecnico strano q.b., specializzato nella generalità, in grado di cogliere Il Bene DOP, dunque anche Il Bene Sociale. Perciò, tale professionista rappresenta il Candidato Ideale per agire come Politico in senso pieno: vota quindi… il filosofo, curerà l’anima tua e della società!

Possiamo ora tornare alla tua legittima domanda. È un bene che i riflettori sociali comincino a essere puntati su una categoria data per scontata, come ora i virologi (o pensa ai pompieri USA dopo l’11/09), o su una addirittura ostracizzata, come magari in futuro i sex-worker: anche loro fanno la propria parte! Eppure, è un male se si perde di vista quell’“anche”: ok, prendersela con i filosofi è più facile, perché si fatica a capire cosa davvero facciano; ma nemmeno un medico, per quanto si sappia meglio cosa faccia, incarna Il Bene Sociale o possiede una qualche Super-Competenza in merito. Insomma, vota pure il tuo medico di fiducia, ma non sperare che basterà a sconfiggere il nemico più temuto in comune: le buche stradali.

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. Un ottimo testo che discute tutti i seguenti aspetti è G. Cambiano, Platone e le tecniche, Laterza, Roma-Bari 
1971.

[Immagine tratta da Unsplash]

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Vivi e fai vivere: la biopolitica spiegata in sei sorsi

#biopolitica: prima della pandemia, l’hashtag era di tendenza solo per filosofi &Co.; con la pandemia, le cose sono alquanto cambiate. Se vorrai fare bella figura al prossimo aperitivo mascherato e se hai amici sufficientemente strani, potrai dire che hai seguito un mini-corso per spiegare di che cosa si tratta mentre bevete un cocktail in sei sorsi1. Se la cosa funziona, potrai chiedere in cambio che il cocktail ti venga offerto. Che la bevuta abbia inizio!

Sorso1. L’idea-base è che il potere sovrano regnava e comandava, cioè dettava legge e decideva chi vive/muore, mentre il potere biopolitico regola e mobilita, cioè norma le condizioni di vita e fa vivere. Disclaimer fondamentale: non si parla semplicemente del potere centrale statale, ma del modo in cui il campo sociale si organizza e articola i rapporti di forza. Il potere riguarda quindi non soltanto politici, sacerdoti e militari, ma anche genitori, famigliari e insegnanti, e poi ancora medici, tecnici ed esperti: sono figure con ruoli e pesi diversi, ma tutte rappresentano forme di potere!

Sorso2. Siamo al cuore della faccenda: abbiamo biopolitica quando la preoccupazione pubblica diventa l’amministrazione e la gestione della salute, cioè il modo in cui i cittadini vivono. Se un Re era un Padre Padrone assoluto, che teneva a bada i sudditi brandendo il diritto di ucciderli a piacimento, un governante biopolitico è un amministratore delegato, incaricato della governance della sanità del corpo sociale in senso ampio, cioè delle varie dimensioni del benessere e della salute pubblici. Bisogna innanzitutto ringraziare la medicina, che ha migliorato le condizioni di vita, e la statistica, che ha reso le popolazioni l’oggetto di un sapere. Il tocco finale arriva oggi con la combo “biotecnologie + digitale”: la sorveglianza diventa capillare e quasi penetra le menti, la vita viene (ri)prodotta in laboratorio e l’estrazione di dati di ogni tipo si fa al contempo massiva e personalizzata. Si apre la possibilità di monitorare costantemente le condizioni di vita – con annessi problemi, perplessità e reazioni.

Sorso3. Insomma, biopolitico è il governo (nonché il cittadino) che si premura tanto di permettere quanto di regolare un’azione come il bere alcolici, in pubblico e in privato: a un Re, questi sorsi sarebbero interessati ben poco, paradossalmente. Ecco il motto del biopotere: vivere e far vivere – a certe condizioni. La vita va prodotta, gestita, alimentata e regolata; le sue prestazioni vanno protette, potenziate e arricchite: come sempre, questo ha un lato positivo e uno negativo. Il bright side è l’opportunità di coltivare e sfruttare la vita, cioè di renderla il più possibile lunga, ricca e salutare; il dark side è che mantenere e curare la vita diventano una preoccupazione primaria, perché prima di vivere bisogna innanzitutto sopravvivere. Da qui il rischio: sacrificare il ben-vivere per il mero sopra-vivere, ritrovandosi in una condizione invivibile.

Sorso4. La domanda sorge allora spontanea: il biopotere è meglio o peggio del potere sovrano? I filosofi direbbero che la domanda è mal posta: in realtà essi sono diversi – banale ma vero. No, non farti distrarre dal sogno di una radicale abolizione di ogni forma di potere: dove ci sono esseri umani, là c’è anche un qualche potere. Ma non disperare, perché se il modo in cui funziona il potere si trasforma, cambiano anche i modi in cui resistere a esso: dove c’è potere, là c’è anche resistenza. Come posso dunque bioresistere? Risposta: almeno in due modi, uno più contenitivo e uno più opportunista. Sotto con gli ultimi sorsi!

Sorso5. Il primo modo prevede una radicale opposizione al potere: non accettare che altri decidano che cosa è giusto per la tua salute, che esista davvero una generica salute collettiva, che «biosicurezza» e «nuda vita» diventino i valori sociali per eccellenza a discapito per esempio di privacy, libertà, uguaglianza e prossimità. Oppure, si può proprio rifiutare l’invito al continuo lavoro su di sé, perché esso è una violenza mascherata da vantaggiosa offerta.

Sorso6. Il secondo modo prevede di fare libero uso del potere: mettersi a dieta, fare self-building, nel senso ampio di auto-regolarsi, curando la salute e il benessere del sé, anche a prezzo di una certa ansia e stanchezza da prestazione. Oppure, si può allargare il raggio d’azione, spendendosi anche nella cura del mondo: nella salvaguardia e promozione della vita delle generazioni presenti e future, come anche dell’intero globo e della vita stessa – Biopolitics for Future. Sembra impegnativo, ma per fortuna dopo sei sorsi nulla è impossibile!

Che dici, basterà per riuscire a scroccare il prossimo cocktail?

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. Per avere un’idea della copiosa letteratura sul concetto, basta consultare un motore di ricerca. Posso qui almeno celebrare il “peccatore originale”: il M. Foucault di Storia della sessualità 1. La volontà di sapere e Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976) (Feltrinelli, Milano 2013 e 2020).

[Photo credit unsplash.com]

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