Guida allo studio della filosofia tra l’Italia e la Germania

Per molti studenti italiani di filosofia la Germania è un pensiero, magari anche solo per un Erasmus, visto che molti dei grandi filosofi dal ‘700 ad oggi hanno scritto in tedesco. Per quanto leggere Kant e Heidegger in lingua originale e camminare nelle aule in cui Adorno e Hegel facevano lezione eserciti un indubbio fascino, va precisato che tra Italia e Germania il modo di studiare la materia, e probabilmente di intenderla, è piuttosto diverso. Da studente italiano emigrato a Berlino per la magistrale cercherò di offrire una breve guida, che possa far capire se lo studio in terra tedesca faccia per voi o meno.

Prima di tutto in Germania le Vorlesungen, le classiche lezioni frontali italiane, sono poche e concentrate soprattutto nei primi anni di triennale. In seguito prevale la forma del Seminar, in cui gli studenti devono leggere di settimana in settimana dei testi per poi discuterli in classe. I professori possono organizzare i seminari in modo differente: alcuni si limitano a moderare il dibattito, altri lo integrano con spiegazioni e approfondimenti. In ogni caso allo studente è richiesto non solo di seguire la lezione, ma di parteciparvi attivamente con domande, interventi, relazioni e proposte di nuovi testi da affrontare.

Anche la modalità di esame è diversa: se in Italia prevalgono le prove orali o al massimo scritti dove rispondere a delle domande aperte, in Germania la quasi unica forma d’esame è l’Hausarbeit, ovvero un saggio (di solito dalle 15 alle 25 pagine) in cui approfondire un argomento del corso.

Lo studente tedesco termina di conseguenza gli studi con la capacità sia di dibattere (grazie ai seminari) sia di scrivere (grazie agli Hausarbeiten) ed è inoltre abituato a muoversi all’interno di un tema dato per ricercare fonti e sviluppare l’argomento autonomamente. Dal momento però che le lezioni di storia della filosofia sono poche e in Germania filosofia non è studiata al liceo, capita che gli studenti tedeschi arrivino con dei buchi enormi in certi ambiti (mi è capitato ad esempio che in una lezione nessun allievo sapesse spiegare la differenza tra res cogitans e res extensa in Cartesio). In generale, le lezioni prevedono uno scarso inquadramento storico e teorico, preferendo partire direttamente dai testi. Può quindi capitare che gli studenti tedeschi affrontino Platone iniziando direttamente a leggere La Repubblica, facendo seguire una discussione su cosa sia la giustizia e come oggi venga intesa nel governo piuttosto che confrontare le posizioni platoniche con quelle dei sofisti.

Lo studente italiano arriva dunque alla fine del suo percorso universitario con una conoscenza di base più ampia e solida, che talvolta però rischia di diventare sterilmente enciclopedica poiché egli non è stato abituato a rielaborarla criticamente. Il modo in cui il sistema è strutturato conduce poi spesso alla paradossale situazione per cui la tesi di laurea risulta essere il primo, e forse unico, momento in cui lo studente italiano di filosofia si trova a dover scrivere un saggio sugli argomenti studiati.

Credo che questa differenza si basi su un modo piuttosto diverso di concepire la filosofia, o quantomeno la sua funzione attuale nel mondo. La mia impressione è che in Italia sia percepita come un sapere specialistico, sistematizzato a scuola e approfondito all’università; una materia autonoma con regole proprie, a cui approcciarsi è difficile per un non specialista proprio perché non conosce la terminologia adeguata e lo sfondo teorico in cui inserire un certo concetto.

In Germania invece la filosofia viene maggiormente intesa come uno strumento per imparare a pensare e di conseguenza per capire il mondo; come un modo di ragionare utile a comprendere le grandi domande del presente. Una delle prime prove in tal senso l’ho avuta proprio durante la mia prima lezione a Berlino. Introducendo il corso su Kierkegaard la professoressa aveva subito specificato di non essere interessata a capire cosa esattamente abbia pensato l’autore, a discutere ore sullo slittamento di significato di un certo termine da Hegel a Kierkegaard. Anche perché l’unico a poter fornire una risposta certa su elucubrazioni di questo tipo sarebbe lo stesso filosofo danese, che è però ahimè morto. La preoccupazione principale per lei era capire cosa i testi di Kierkegaard hanno da dirci oggi e come interrogano ciascuno di noi.

Trovare una mediazione tra due metodi tanto diversi non è semplice ma sarebbe auspicabile, in modo che le aule di filosofia si trasformino in palestre democratiche dove poter discutere attivamente i testi e non solo sentirli spiegati in una lezione frontale. Una discussione però che necessita di base teoriche forti per poter imparare dai pensatori del passato e costruirsi un’opinione fondata.

 

Lorenzo Gineprini

 

[Credit Sharon McCutcheon]

banner-pubblicitario7

La Polonia tenta di cancellare la storia?

«Imporre un bavaglio ai fatti storici è una questione molto seria. Un tentativo di falsificare la verità. Che a mio giudizio implicitamente ammette che parte della popolazione polacca fu complice del processo di eliminazione dei loro compatrioti ebrei durante la seconda guerra mondiale»1. Così si esprime Jan Gross, storico di Varsavia e professore emerito a Princeton, uno dei più importanti studiosi in merito alle complicità polacche nello sterminio degli ebrei. Le sue parole si riferiscono alla nuova legge della Polonia, definitivamente approvata in Senato l’1 febbraio, che proibisce ogni menzione di dirette responsabilità polacche nella Shoah. Chi lo fa, rischia fino a tre anni di carcere. Ora si attende solamente la firma istituzionale di di Andrzej Duda, il capo di Stato.

Ma quali sono i motivi di questa nuova legge?
Il primo, sicuramente, è uno dei discorsi più sentiti dalla popolazione: la questione dei “campi di sterminio polacchi”. «la nuova legge serve contro la menzogna su Auschwitz campo polacco» ha affermato il premier Morawiecki2. Su questo si può concordare. Fu il Reich ad introdurli in territorio polacco dopo averne preso il controllo e − almeno ufficialmente − non ci fu un governo collaborazionista (come ad esempio quello francese).
Ci si potrebbe allora chiedere perché questa legge ha generato indignazione e dure critiche da parte di Europa, Usa e Israele. È la risposta a questa domanda il nodo centrale della questione: il secondo motivo è di cancellare ogni collegamento dei polacchi con l’Olocausto, e quindi anche i casi di collaborazionismo.
In che misura i polacchi contribuirono all’eliminazione degli ebrei?
«Non esiste una risposta univoca. […] tantissimi polacchi (molto più dei collaborazionisti) difesero e vennero uccisi per aver protetto ebrei»3. Il problema è che, comunque, collaborarono «diverse migliaia di cittadini polacchi. Ma anche qui c’è dibattito tra gli storici: quanti lo fecero volontariamente? […] Il più grande eccidio commesso materialmente dai polacchi è il pogrom di Jedwabne: il 10 luglio 1941, quaranta polacchi (scelti dai nazisti) bruciarono vivi 340 ebrei rinchiusi in un pagliaio»4.
Inoltre potremmo indagare i perché più profondi di questa nuova disposizione: il clima politico attuale e ciò che lo ha preceduto. Negli ultimi tempi, la politica di destra al governo «si è fatta forte di uno slogan che è un’ossessione nazionale: “ridare dignità alla Polonia”. Che da una parte prende di mira l’Europa, accusata di limitare la sovranità nazionale all’interno dei confini. Dall’altro attacca gli sforzi per svelare la storia»5 è sempre Gross a parlare, che continua: «una nazione non può crescere e progredire senza fare i conti con il passato»6.
Attualmente Jaroslaw Kaczynski, presidente del Pis (Diritto e Giustizia), controlla il governo ed il Parlamento. L’ideale, sin dall’insediamento, era di promuovere una “politica storica”, quindi esaltando le virtù nazionali ma anche controllando direttamente la narrazione storica.
«Il fatto è che da quando il paese ha conquistato la libertà il principale tema della discussione pubblica sono i crimini perpetrati dai polacchi ai danni degli ebrei sotto l’occupazione tedesca. […] Era ed è una discussione che portava e porta alla messa in questione dell’identità polacca, intesa come appartenenza alla nazione cattolica, etnicamente omogenea, generosa con le minoranze (ebrei) e vittima dei vicini (russi e tedeschi)»7 è Wlodek Goldkorn a parlare, con una riflessione che può indicarci chiaramente come e perché questa legge sia stata promossa.
Infatti negli ultimi tempi il potere polacco sta scatenando una campagna d’odio verso l’Europa, la Germania ed i traditori interni. È proprio attraverso quest’ottica bisogna leggere la nuova disposizione che «per chi conosce le regole (non tanto) segrete della retorica polacca è ovvio che si tratta di un provvedimento in fin dei conti xenofobo e che si richiama all’immaginario antisemita»8 sempre parole di Goldkorn.

La scrittrice Halina Birenbaum − ebrea polacca sopravvissuta all’Olocausto − è rimasta sconcertata: «c’erano polacchi che segnalavano gli ebrei ai nazisti, ora potrebbero arrestarmi per averlo detto, ho un biglietto aereo per Varsavia ma ho paura. […] I tedeschi occupanti non sapevano sempre chi era ebreo, ma i polacchi sì. C’erano vicini coraggiosi che ci nascondevano, ma anche altri che denunciavano. Mi sento malissimo, questa legge ferisce i sopravvissuti e i milioni di cui non rimasero che numeri»9.

Non si può nascondere la storia sotto un tappeto, men che meno se si sta parlando di implicazioni con la tragedia ebraica. È certamente scorretto affidare colpe che non hanno ai polacchi, ma non si può negare che almeno qualcuno abbia favorito, aiutato ed in qualche caso sostenuto il massacro nazista. Il clima antisemita preesisteva già, in Polonia come in molti altri Paesi europei, e fare finta che così non fosse, minacciando con il carcere chi voglia fare ricerca e pubblicare le proprie scoperte in questo ambito è semplicemente controproducente.
Di sicuro le cause che hanno portato all’imposizione nazista in Germania sono sfaccettate, ma altrettanto certo è che due di queste siano state la sottovalutazione di eventi di questo genere e il non voler ammettere che la follia nazista dava voce ad un sentimento, se non condiviso, almeno già in parte esistente.

Pensiamo alla Germania ed al suo enorme sforzo di fare i conti con la propria storia. Il risultato? L’acquisizione dell’accettazione dell’altro. Non a caso quando c’è stato bisogno d’aiuto con la crisi migratoria, le porte tedesche si sono subito aperte.

 

Massimiliano Mattiuzzo

NOTE
1. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 3
2. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 2
3. Ibidem
4. Ibidem
5. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 3
6. Ibidem
7. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 28
8. Ibidem
9. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 3

[Immagine tratta da Google immagini]

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

Cos’è l’AfD, chi l’ha votata e come sta reagendo la Germania

<p>immagine da google immagini</p>

Uno studente italiano migrato in Germania cerca di spiegare meglio l’AfD, il partito tedesco di estrema destra protagonista del momento.

 

La stampa italiana, sull’onda di quella tedesca, ha dato una narrazione quasi unilaterale di queste elezioni in Germania, sottolineando il grande risultato dell’AfD (Alternative für Deutschland), che ha ottenuto il 12,6% ed è quindi cresciuta dell’8% rispetto alle ultime elezioni. Per una sorta di tacito accordo poi tutti i giornali italiani hanno iniziato a connotare l’AfD come “ultradestra”. Suppongo che il termine dovrebbe evocare qualcosa di enorme e mostruoso, ma in realtà non significa quasi niente. Se ve li immaginate come dei cloni della Lega di Matteo Salvini vi sbagliate. Il leader del partito Alice Weidel ha un dottorato in economia, è lesbica con una compagna di colore e due bambini; non proprio un ritratto simile a Salvini insomma. Tuttavia lo stesso partito ha come figura di spicco anche Alexander Gauland (che invece ricorda Salvini anche fisicamente, solo un po’ più anziano e avvinazzato), il quale subito dopo la vittoria ha aizzato la folla al poco rassicurante grido di “Wir werden sie jaggen” ovvero “le (alla Merkel) daremo la caccia”.

Due figure che rappresentano bene le due anime del partito. Da un lato il volto più arrabbiato e popolare, che raccoglie i voti delle classi povere ad Est, dall’altra la faccia più rassicurante che intercetta l’insoddisfatta borghesia del Sud. Per capire meglio la Germania e il suo voto forse occorre comprendere meglio queste due classi. L’Est è stato il più grosso bacino di voti dell’AfD, con una media del 22,5% dei voti. Se lo si somma al 17,4% della Linke, partito di sinistra radicale, si nota che quasi il 40% della popolazione ha dato un voto di protesta contro il governo: evidentemente quell’immagine della Germania ricca e felice che ci viene proposta non è vera ovunque.

Diversa è la situazione a Sud, dove i voti sono stati meno (intorno al 12%) e sono arrivati per lo più da ex elettori della CDU. La borghesia benestante (e non troppo colta) delle cittadine della Bavaria e del Baden-Württemberg non ha digerito la politica migratoria della Merkel, che ha fatto entrare troppe persone senza imporre sufficienti controlli e regole di integrazione. In realtà in questi paesini l’immigrazione si è vista più alla tv che sentita sulla propria pelle, ma notizie come quelle delle violenze di Colonia la notte di Capodanno sono state sufficienti. Se la Lega in Italia tende ad indicare nell’immigrazione la causa della povertà e della mancanza di aiuto dello Stato, l’AfD, agendo in un paese più ricco, usa una strategia diversa, mirata a difendere i valori tradizionali (qua potete vedere un esempio di una loro pubblicità, che fa abbastanza ridere se non si pensasse che ha avuto così successo).

afd-manifesti_la-chiave-di-sophiaNell’ordine i manifesti recitano: “Nuovi tedeschi? Facciamoceli da soli”, “Burka? Io preferisco il Burgunder” (vino tedesco, ndr), “L’Islam?” Non si adatta alla nostra cucina”.

La vera vittoria dell’AfD comunque non è nei numeri; perché il 12,6% consente di essere un’opposizione con una voce forte, ma non di cambiare gli equilibri del paese. La vera vittoria è la completa monopolizzazione del dibattito pubblico. Giornali e tv parlano solo più di come affrontare in parlamento l’AfD. Un settimanale serio e di qualità come die Zeit su internet fa ironia da terza media sulla notizia che il Guardian indica nei suoi grafici l’AfD con il colore marrone invece dell’abituale blu. La Merkel nel suo primo discorso dopo il voto ha già subito annunciato che bisogna riconquistare i voti dell’AfD e imporre controlli più forti sull’immigrazione. Insomma la Germania è confusa e impaurita e questo non potrà che portarla più a destra, là dove l’AfD vuole. Peccato perché in realtà di queste elezioni si potrebbero fare anche delle letture alternative a quella che incorona l’AfD: il quarto mandato di fila di Angela Merkel, che cala ma si conferma in un momento di crisi mondiale in cui una flessione era inevitabile, il voto degli under 25, che è andato molto più ai Verdi che all’AfD…

Lorenzo Gineprini

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

banner-pubblicitario_abbonamento-rivista_la-chiave-di-sophia_-filosofia

 

Un viaggio circolare per la storia?

Er ist wieder da (in inglese Look who is back) è una novella satirica tedesca scritta da Timur Vermes del 2012 e adattata poi al grande schermo nel 2015. La storia immagina un viaggio nel tempo di un inconsapevole Adolf Hitler, che confuso si risveglia nel 2011 a Berlino. Sia la commedia che il film hanno diviso la critica e suscitato un acceso dibattito in Germania, dove l’argomento è ancora un tabù in termini di satira. Senza entrare nel merito, è indubbio che la novella abbia una sua morale. Infatti nell’ultima scena rivolgendosi al co-protagonista, che tenta di ucciderlo, Hitler dice che «la storia si ripete». Quando, dopo avergli sparato e credendo di averlo ucciso, Hitler riappare alle spalle del co-protagonista, il dittatore gli spiega che «non riuscirà a liberarsi di lui».

Quest’ultima frase è un chiaro invito al lettore-spettatore a riflettere: le idee non si possono uccidere. Che rilevanza ha dunque nel 2022, a qualche anno di distanza dall’uscita del film e del libro, questa morale?

Abbiamo lasciato il Novecento promettendoci “mai più”: mai più guerre, mai più orrori, mai più genocidi. Abbiamo istituito le ‘giornate della memoria’: la Giornata della Memoria per le Vittime dell’Olocausto (27 Gennaio), Giornata della Memoria per il Genocidio Armeno (24 Aprile) e Giornata della Memoria per il massacro delle Foibe (10 Febbraio), tra le più note. Il secondo decennio degli anni duemila però sembra volerci ricordare che la memoria e il ricordo non bastano a mantenere la promessa.

Guardando impotente l’evoluzione politica delle nostre società, mi sono chiesta spesso se effettivamente la storia si ripeta, se non sia altro che un viaggio circolare dell’umanità. Non ho una risposta definitiva, ma quello che è certo è che certi eventi accadono come reazione ad altri eventi e, per quanto scontato possa sembrare, non sempre ce ne accorgiamo.

Moltissimi articoli sono stati scritti di recente sul ritorno del populismo in Europa. Il termine populismo identifica un atteggiamento ideologico attraverso il quale principi e programmi politici vengono trasmessi, che esalta in maniera demagogica il ruolo del popolo1. Dunque è il populismo il problema? In parte. Quello sui cui si dovrebbe riflettere di più è un fenomeno definito come polarizzazione sociale. Polarizzazione è un termine della fisica che identifica un processo per il quale si vengono a creare due polarità contrapposte, ovvero la concentrazione separata di due forze di valore opposto in uno stesso corpo. Se estendiamo il termine alla sociologia, polarizzazione identifica la concentrazione di valori ed idee opposti in seno alla società, dunque la tendenza della popolazione a schierarsi per uno dei due poli. In questo senso, il populismo a sostegno delle estremità degli schieramenti favorisce ed alimenta la polarizzazione delle società.

Come è successo? Siamo entrati nel secondo decennio degli anni Duemila in piena crisi economica, con conseguenze già evidenti sui consumatori e dunque un clima di insicurezza generalizzato. Le cose non sono migliorate negli anni successivi: tra fine 2010 e inizio 2011 prende avvio la Primavera Araba, una serie di proteste che ha interessato i paesi del Medio Oriente e Nord Africa. Le proteste non sono riuscite nel loro intento democratico e in Siria la protesta si è trasformata in una vera e propria guerra civile: ciò ha avuto una conseguenza significativa sui flussi migratori. Migliaia di persone sono entrate in Europa per fuggire a guerra e persecuzioni, aggiungendosi ai migranti economici che almeno dagli anni ’90 del Novecento attraversano il Mediterraneo in fuga dalla povertà. In un clima di sofferenza già esistente, questi flussi hanno inasprito le tensioni all’interno della società. Il colpo finale l’hanno dato gli attacchi terroristici su suolo europeo a partire dal 2015: la paura costante nella vita quotidiana di prendere i mezzi pubblici, viaggiare, recarsi in qualsiasi luogo affollato, ha sancito lo spostamento definitivo di intere porzioni di votanti verso retoriche semplicistiche, ma che promettono di recuperare la sicurezza perduta. Abbiamo così una polarizzazione a tutto tondo: cittadini europei che cadono nella propaganda del reclutamento jihadista (e in misura minore di altri terrorismi) da un lato, e tendenze populistiche di estrema destra dall’altro. Due polarità contrapposte che non solo si alimentano a vicenda, ma hanno anche le stesse radici.

La sfida che attende noi cittadini è capire veramente questi meccanismi di polarizzazione; la sfida che attende i nostri policy-makers è quella di fermarla, tenendo bene a mente che le idee non si uccidono e dunque la regola vincente è dotare le persone degli strumenti critici necessari per non cadere nella propaganda terrorista da un lato e nel populismo di destra dall’altro. La speranza è che fra dieci anni potremo dire che alla fine il viaggio non è stato circolare e che ad un passo dal chiudere il cerchio, la storia ha invece deviato il suo corso verso un nuovo inizio.

 

Francesca Capano

Laureata in Relazioni Internazionali in Italia, ha successivamente approfondito il suo interesse per la sicurezza internazionale con un Master a Londra. Attualmente vive a Bruxelles, dove si occupa principalmente di prevenzione della radicalizzazione e migrazione in ambito europeo. Segue principalmente la politica internazionale, senza perdere di vista le sue ripercussioni interne a cui affianca spesso una prospettiva sociologica.

NOTE:
1. Populismo, Enciclopedia Treccani Online.

[L’immagine in copertina è un fotogramma del film]

copertina-abbonamento2021-ott

“Orizzonti di gloria”

Agli inizi della sua carriera, che lo vedrà poi consacrarsi come uno dei più grandi registi del XX secolo, nel 1957 Kubrick gira Orizzonti di gloria, il suo quarto lungometraggio e la seconda pellicola delle tre totali in cui si misurò con scenari di guerra e con il mondo militare. Ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, nelle retrovie francesi, questo film è una pietra miliare del cinema antimilitarista, un ritratto duro e feroce della vita in trincea. La produzione incontrò non poche difficoltà in quanto il governo francese non ne autorizzò le riprese, che vennero poi effettuate in Germania; anche dopo la sua uscita Orizzonti di gloria fu lungamente censurato in Francia, apparendo solo dopo il 1975, per protesta verso la rappresentazione di Kubrick degli ufficiali francesi.

La vicenda si svolge sul fronte conteso tra francesi e tedeschi. Dopo il disastroso fallimento di un grande attacco francese, un generale ordina come punizione l’uccisione di tre uomini, scelti a caso, per dare l’esempio alle truppe. Vengono accusati di viltà e codardia dal generale, nel tentativo di coprire le proprie colpe e responsabilità di un attacco suicida e senza senso. Saranno inutili i tentativi di un colonnello (interpretato da Kirk Douglas alla sua prima collaborazione con Kubrick) per salvare i tre condannati a morte, in quanto interpretati dall’alto comando come desiderio di prendere il posto del generale.

Siamo ancora lontani dalla rappresentazione dell’uomo nei confronti della guerra che farà Kubrick trent’anni più avanti in Full Metal Jacket: non c’è ancora quella lucida e spietata analisi dell’assurdità della guerra, che spegne l’essere umano, svuotandolo completamente per riempirlo poi di odio e distruzione. Qui invece siamo di fronte alla casualità che il potere pretende di gestire; all’assoluta pazzia di chi, in nome di qualche mostrina in più sull’uniforme, si erge a dio, scegliendo chi deve vivere e chi invece morire.
I fatti raccontanti in questa pellicola prendono spunto da eventi realmente accaduti; i libri di storia parlano di vicende analoghe o, a volte, peggiori. Ma forse nessuno prima di Kubrick era riuscito a rappresentarle in modo così diretto, sincero, ad analizzare la guerra in quanto tale, senza dietrologie, senza inutili retoriche. Gli uomini sono solo pedine di una grande scacchiera e come tali possono essere sacrificati. Non c’è logica, non c’è umanità; solo un unico grande “gioco” che è la guerra, che deve essere finito e vinto, non importa come e non importa a che prezzo.

Orizzonti di gloria è il primo capolavoro di questo grande regista. Girato con la maestria che ha caratterizzato tutta la sua carriera, il grande uso della fotografia, qui in bianco e nero per accentuare ancor più la tragicità della storia. Di particolare impatto il piano sequenza lungo la trincea francese all’inizio del film, che riprende lo sfinimento e la paura sui volti dei soldati francesi; o la scena finale, struggente, in cui una giovane donna tedesca canta per i soldati che l’avevano accolta schernendola, finendo invece per commuoverli nel profondo. Passando con la cinepresa da un volto all’altro, Kubrick dà un ultimo schiaffo allo spettatore, mostrando la sua visione dell’uomo, lacerato e conteso tra bene e male.

Lorenzo Gardellin

[Immagine tratta da Google Immagini]

Mein Bavarese

Oggi vi mostreremo come il Bavarese (non il biondone in bretelle che state immaginando) sia il dolce della riconciliazione. In esso trova finalmente pace il conflitto tra Kultur e Zivilisation che tanto ha scosso i pensatori agli albori della prima guerra mondiale.
Non è difficile riconoscere alla cucina il suo valore di custode della cultura: dalla cucchiaiata di un dolce non riceviamo solo il mero nutrimento, bensì anche il testimone di una tradizione che per generazioni si è mantenuta attraverso gli stomaci dei nostri avi. Mangiando introiettiamo – nella maniera più naturale possibile – un sapere radicato nel territorio che è frutto di un rapporto ancestrale tra l’uomo e la terra che abita. E questa è la Kultur. Lo spirito ineffabile di una comunità, il legame viscerale tra noi e l’ambiente in cui siamo stati gettati.
Da qui al nazismo culinario il passo è breve. La Kultur, infatti, accende in noi la vena battagliera, il bisogno di purezza e, soprattutto, il senso di appartenenza; fa forza sulle centinaia di cucchiaiate inconsce che hanno formato la nostra identità, sui profumi della cucina natale, sul rigore filologico delle ricette della nonna, e produce la xenofobia: “nel mio sangue e in quello di chi mi ha preceduto è scorso quel cibo, fatto di quegli ingredienti, di quelle precise dosi imponderabili alla mente straniera, e tu vuoi viziare quel sangue con i tuoi miscugli, con quei prodotti di terre lontane, quegli incroci improvvisati?”.
La Kultur si oppone alla riflessione logica, al pensiero retorico, al calcolo astratto, alla politica, alla società, all’universalità… In breve, a tutto ciò che pone l’uomo al di fuori della sua comunità e lo innalza oltre il legame con la propria terra (oltre il Blut und Boden). E tutto questo è, appunto, la Zivilisation.

«Tedesco vuol dire abisso», scriveva Thomas Mann, per il quale la Germania, aristocratica e musicale, era la patria della Kultur in contrapposizione alla Francia, simbolo democratico della Zivilisation, dei «moralisti da boulevard», degli «urlatori dei diritti dell’uomo». Anima contro società, libertà contro diritto di voto, arte contro letteratura: è in questo scontro che risiede l’origine spirituale della prima guerra mondiale. Abbiamo già accennato a cosa significa Kultur in cucina, vediamo cosa può significare il suo opposto. Zivilisation è approcciarsi al dolce da preparare in maniera scientifico-democratica, ossia ponendo tutti gli ingredienti – a prescindere dalla loro provenienza e dall’essere o meno di stagione – sullo stesso piano, tendendo a una continua sperimentazione, sfruttando le nuove tecnologie e privilegiando gli ibridi in nome di una cucina universale e senza confini.

Ma una simile mentalità non può portare che a un prodotto senz’anima, a un impasto anodino, a una crema astratta, a una gelatina apatica, insomma, a un dolce figlio di nessuno, insulso quanto un trattato sull’amore cosmico! D’altro canto un dolce all’insegna della Kultur fomenta l’odio, la chiusura, la ricerca infinita della purezza e, peggio di tutto, l’immobilità: la perfezione è già qui nella nostra comunità e ha radici in una lontana e passata Età dell’oro, a noi non resta che venerarla e riprodurla, senza accettare alcuna contaminazione.
Allora – per far sì che questo conflitto non sfoci in un’altra guerra mondiale – vi proponiamo il nostro Mein Bavarese, che riconcilia in sé l’inconciliabile. Il bavarese originario – maschile, anche se molti erroneamente lo vogliono femminile – nasce infatti da cuochi francesi alla corte del re di Baviera e, cosa ancora più emblematica, poggia su una base di crema inglese (chissà se lo sapeva Hitler quando si ingozzava dei bavaresi che gli preparava Eva Braun…).
Il Mein Bavarese va preparato col fervore e l’animo della propria Kultur, ma anche col piglio innovativo e multiculturale della Zivilisation. In essa l’ariano e puro cioccolato bianco s’incontra con quello straniero degenerato del kiwi.
Quando assaggerete il Mein Bavarese, non fatelo da soli. Vi accorgerete di come sappia riconciliare i conflitti spirituali – ben più violenti e dolorosi di quelli fisici – ed evitare che in cucina si arrivi a sparare all’arciduca Francesco Ferdinando.

Mein Bavarese, Aristortele - La chiave di SophiaMEIN BAVARESE AL KIWI DEGENERATO E CIOCCOLATO ARIANO

Persone: 10 monoporzioni
Tempo di preparazione: 30 min. + 6 ore in frigorifero

Ingredienti

250 ml di latte
90 g di tuorlo d’uovo
90 g di zucchero semolato
1 bacca di vaniglia
10 g di gelatina alimentare in fogli (per la versione vegetariana 3 g di Agar agar)
375 g di panna fresca
200 g di cioccolato bianco
4 kiwi maturi
zucchero a velo
granella di mandorle

Preparazione

Inizia preparando la crema inglese: appoggia la pipa e metti sul fuoco un pentolino con il latte; incidi longitudinalmente la bacca di vaniglia e immergila nel latte. In una boule frusta i tuorli con lo zucchero. Quando il latte sobbolle, stempera nel pentolino il composto di uova e zucchero. Mescolando continuamente (non frustare, sennò schiuma!) porta la crema inglese a 83° C – se non hai il termometro, prendi un po’ di crema con un cucchiaio, rovesciala e verifica se ne rimane un leggero velo sul cucchiaio. Speriamo tu non abbia macchiato la bombetta.

Ora è il turno della Kultur: taglia grezzamente, come un vero teutone, il cioccolato ariano. Ammorbidisci la gelatina in acqua fredda; quando è abbastanza molle, strizzala e inseriscila nella crema inglese ancora calda mescolando fino al suo completo scioglimento. Filtra la crema direttamente sul cioccolato caucasico e amalgama delicatamente finché il cioccolato non si sarà completamente sciolto. Metti a raffreddare. Nel frattempo semi-monta la panna (sii padrone della tua volontà di potenza: fermati quando la panna inizia a montarsi!). Quando il composto si è raffreddato e inizia a raddensarsi, aggiungici la panna mescolando dal basso verso l’alto per non far smontare il composto. Dividi il bavarese nelle monodosi e metti a raffreddare per almeno 6 ore.

Infine la Zivilisation: distogli gli occhi dalla Dichiarazione internazionale dei diritti della frutta, sbuccia e taglia i kiwi (“un solo mondo, una sola patria”) a cubetti. Crea la salsa frullandoli insieme a due cucchiai di banausico zucchero a velo.

Sforma le monoporzioni e decorale con la salsa ai kiwi e la granella di mandorle.

«La pasticceria non è mai un atto isolato», C. von Clausewitz.

Aristortele

Sito web qui

Giornata della Memoria: per una memoria non fine a se stessa

Se una volta il calendario cartaceo era solito riportare con massima attenzione i nomi dei Santi religiosi e le ricorrenze della cultura popolare, ad oggi il nostro calendario social-mediatico ci informa quotidianamente su tutt’altro genere di notizie. Alcune ricorrenze attirano con forza la nostra attenzione e la nostra sensibilità, altre sembrano invece essere decise a tavolino per fini strettamente pubblicitari e/o commerciali finendo per apparirci come totalmente irrilevanti.

Una delle ricorrenze più importanti, non soltanto dal punto di vista storico, ma anche e soprattutto dal punto di vista civico è la Giornata della Memoria. Ogni anno possiamo assistere a numerose e svariate iniziative ad essa dedicate, in tutti gli ambiti culturali. Essa è stata stabilita al 27 Gennaio, data che nel 1945 ha visto l’apertura dei cancelli di Auschwitz; la sua portata commemorativa però va e deve poter andare ben oltre questa semplice data.

Ciò che deve stimolare in noi la curiosità e la riflessione è l’intitolazione ufficiale della ricorrenza: “Giornata della Memoria“. Qualsiasi tipo di anniversario, per definizione, si propone di ricordarci un particolare avvenimento. La Giornata della Memoria, invece, in quanto tale, sembra volerci ricordare di ricordare. Sembra che essa non voglia semplicemente ricordarci quanto è stato, ma che voglia imporci il ricordo stesso! Da questo punto di vista il 27 Gennaio sarebbe allora la giornata della memoria per antonomasia, la quale da sola si fa carico, e quale altra ricorrenza potrebbe riuscirci meglio, di farci volgere per un attimo lo sguardo verso tutte quelle pagine che la storia vorrebbe strappare dal suo libro infinito.

Da un punto di vista più filosofico, però, l’imposizione del ricordo fa si che l’esercizio della memoria e l’appello ad essa siano un dovere! Si può davvero imporre la memoria? E’ auspicabile che il ricordo assuma la forma di un imperativo?

Per rispondere a queste domande ci viene in aiuto il testo “Se Auschwitz è nulla – Contro il negazionismo”, scritto da Donatella Di Cesare. In queste pagine è affrontata la delicata questione del negazionismo, quel filone di pensiero storicamente revisionista che mira a negare dei particolari avvenimenti storici. Nel caso della Shoah l’atteggiamento negazionista si fa impressionantemente radicale in quanto la negazione di ciò che è stato è funzionale al proseguimento dello sterminio. Per dirla con parole forti, che la stessa autrice non manca di sferrare: gli Ebrei saranno sconfitti definitivamente soltanto se si riuscirà a cancellare dai resoconti storici la stessa attestazione del loro annientamento. Il negare, dunque, per queste organizzazioni, è un atteggiamento intenzionale, volto all’annientamento complessivo dell’intera vicenda che ha coinvolto il popolo ebraico.

Date queste premesse, l’esercizio della memoria e del ricordo dovrebbe allora essere considerato come una sfaccettatura della formazione da incoraggiare e una consuetudine civica da promuovere. Con ciò però si intende un sano dovere della memoria: “sano” poiché è necessario badare bene a non storpiarlo o snaturarlo. In molti, infatti, hanno posto l’attenzione su questo aspetto: il rischio a cui storici e intellettuali si riferiscono si identifica con la conversione della memoria in culto, della commemorazione in celebrazione.

L’esercizio della memoria non può essere fine a se stesso, non deve semplicemente fare luce sul passato per ricordarci di non ripetere gli sbagli di quanti sono vissuti prima di noi. L’eterno ritorno alla Nietzsche è soltanto un’affascinante fantasia, perché il passato, lo sappiamo tutti, non ritorna tale e quale! L’esercizio della memoria, a mio parere, deve essere un terreno fertile sul quale seminare e coltivare sguardi onesti ed accorti, che possano essere in grado di scovare, nelle vicende attuali, non le somiglianze fattuali con quelle del passato, ma piuttosto le loro somiglianze motivazionali, al fine di smascherarne le tendenze corrotte e distorte.

Federica Bonisiol

I calvinisti inconsapevoli

I calvinisti inconsapevoli sono tanti, alcuni credono di essere Cattolici Apostolici Romani perché vanno in Chiesa la domenica, altri credono di essere Buddisti perché credono nella reincarnazione, altri ancora si credono atei convinti, invece in tanti, troppi sono dei calvinisti inconsapevoli. Laicamente sono in tanti ad aver abbracciato il calvinismo inserendosi perfettamente nella dottrina protestante anche se ormai laicizzata. Quante volte abbiamo sentito persone fare spallucce o peggio davanti a barconi pieni di esseri umani che si inabissavano alla ricerca di nuova fortuna? Quante volte abbiamo sentito dire “se l’era cercata”? Quante volte abbiamo sentito dire qualcuno, anche vicino a noi, “ma ‘sti qua non potevano stare a casa loro?”?.

Uno dei presupposti fondamentali del calvinismo è che

“Dio ha predestinato dall’eternità chi sarebbe stato oggetto della grazia salvifica indipendentemente da qualsiasi loro merito, per solo Suo insindacabile e giusto beneplacido.”

In questo modo si sancisce che chi ha fortuna è con Dio, chi non ha fortuna in qualche modo si accolla una sorta di “colpa” originaria per cui era inevitabile che fosse così, senza speranza. Consapevoli o meno quando diamo per scontata la sofferenza del prossimo o in qualche modo pensiamo che non ci riguardi in fondo pensiamo che noi abbiamo una qualche sorta di diritto di sentirci superiori, cosa che capita spesso anche rispetto all’orgoglio di essere nati in un posto e non in un altro, una mera questione di longitudine insomma! Che lo sappiate o meno quando pensiamo così siamo tutti d’accordo con il buon Jean Cauvin, Giovanni Calvino un teologo francese scomparso nel 1564

In un articolo del 1864 Charles Dickens, lo straordinario scrittore che raccontò i costi umani del progresso industriale avanzato, lanciò anche questa domanda ai difensori dell’arricchimento a qualunque costo: “L’umanità in genere, la carità più piccola, è sensazionale?” Oggi molti definirebbero Dickens “buonista”, ed è una parola che non vale nemmeno più la pena commentare tanto è insopportabile.

Nell’autunno che sta cambiando l’Europa, con la presa d’atto che le migrazioni enormi ci riguardano ed è meglio governarle che farcene travolgere, abbiamo visto immagini che ci hanno rassicurato sull’esistenza di tante persone buone: i cittadini che in Austria e Germania hanno accolto profughi stanchissimi con applausi, cibo e giocattoli, le centinaia di auto che si sono dirette verso l’Ungheria per accelerare il viaggio di molte famiglie allo stremo, partite dalla Siria o dall’Afghanistan e, in ogni caso, da luoghi dove non si può vivere, l’ex premier socialista dell’Ungheria Ferenc Gyurcsany, che ha accolto in casa famiglie di rifugiati, sfidando l’accusa di anti-patriottismo contenuto in leggi volute dall’attuale primo ministro Viktor Orban.

Non pretendo di dare ricette su come valutare e gestire i fenomeni enormi delle migrazioni sulla Terra, su questo faticano persino quei politici che sono davvero d’alto livello. Nel mio piccolo mi basta la commozione provata nel vedere in azione i buoni sconosciuti. Un termine che ormai si usa poco è “brave persone”. Evidentemente “bravo” sarà meno glamour di “bello”, eppure, tra i miliardi di parole che si scrivono ogni giorno, ci piacerebbe che qualcuno componesse un “elogio alle brave persone”.

Fedor Dostoevskij diceva che la bellezza salverà il mondo, e noi possiamo solo sperare che avesse ragione. Di certo c’è bellezza nella sensibilità verso il dolore degli altri e nella quotidiana, sommessa difesa della bontà. Si pagano prezzi per questo, ma esiste sempre qualcuno che capisce una “sonata per le persone buone”.

Matteo Montagner

Nietzsche e Mann: una rottura tra epoche, una rottura dell’artista

La florida stagione del Romanticismo tedesco, da Goethe in poi, aveva visto formarsi un’unità tra pubblico letterato e borghesia. Alla metà dell’Ottocento l’arrivo della modernità e il tramonto dei vecchi movimenti artistici portrono alla fine di questa armonica unicità. In Germania lo stacco fu particolarmente sentito, e s’individuò come punto di rottura la fondazione dell’Impero Tedesco nel 1871, cui seguì un grande sviluppo economico ed una cultura di massa.

Il filosofo tedesco Friederich Nietzsche (1844-1900) fu autore di una delle più influenti critiche al mondo culturale a lui contemporaneo. Egli descrisse la cultura moderna come una décadence in cui l’arte si è separata dalla vita e il pubblico dallo scrittore. La modernità ha portato all’eclettismo, al predominio dei principi di utilità e di guadagno, al legame tra opera d’arte e pubblico di massa. L’arte era stata una più che degna occupazione degli spiriti elevati, ora diventava uno svago cui potevano dedicarsi solo gli uomini laboriosi con l’energia rimasta dal lavoro vero e proprio o individui pigri e oziosi senza scrupoli di coscienza per l’improduttività della loro vita. Per sopravvivere, la grande arte dovette camuffarsi da mezzo consumo e di intrattenimento: l’artista si trovò trasformato in demagogo, l’arte in strumento di seduzione delle masse. Nietzsche individuò come elementi chiave di questo nuovo corso il ruolo di spicco che ricoprivano gli attori, le cui pretese artistiche erano considerate vanesie e infantili dal filosofo tedesco, e l’enorme successo del compositore Richard Wagner (1813-1883), precedentemente ammirato dal giovane Nietzsche e poi ridimensionato a presuntuoso affabulatore di masse. Questa era la visione nietzschiana della società moderna: artisti sviliti e masse bisognose di piccola arte per evadere dal malessere della vita come un drogato in cerca di droga.

Thomas Mann (1875-1955), premio Nobel per la letteratura nel 1929, fu uno degli infiniti eredi del pensiero di Nietzsche, elaborandolo in maniera originale nella sua opera giovanile. Scrittore di estrazione borghese, Mann si vedeva come un artista che non concedeva nulla alla demagogia ma che allo stesso tempo aveva la consapevolezza di essere, come lo era stato Wagner, sedotto dal bisogno di attrarre a sé anche “la grande massa dei semplici” e non solo un ristretto pubblico colto. Mann si sentiva dunque diviso tra due mondi senza appartenere intimamente a nessuno di essi. Se nel suo monumentale romanzo I Buddenbrook (1901) la figura del borghese veniva utilizzata in un’ottica realistica e critica, nel breve (ma non meno importante) racconto Tonio Kröger (1903) il protagonista, dai forti connotati autobiografici, a partire dall’estrazione sociale, ammira una figura ideale e utopica di borghesia. Egli avrà sempre ammirazione per Hans Hansen, amico d’infanzia appassionato di libri illustrati sui cavalli e indifferente di fronte al Don Carlos di Schiller, e per la bionda Ingeborg Holm, amore di gioventù che si era accorta dell’esistenza di Tonio solo nel momento in cui il ragazzo, presente controvoglia a una lezione di danza, commise un ridicolo errore di fronte a tutta la classe. Il Kröger di Mann è nell’animo un escluso, ma egli ama coloro cui sente di non appartenere. Mann e il suo Kröger infatti non sono artisti decadenti attirati dall’eccezionale e dallo straordinario come poteva esserlo un D’Annunzio: essi amano la vita normale e le cose semplici. Il poeta Tonio Kröger è la figura di artista con scrupoli di coscienza per la propria vita improduttiva di cui parlava Nietzsche, la persona che “non ha bisogno dello spirito”, non viene additata altezzosamente come mente semplice bensì rimpianto come un “paradiso perduto”.

Tonio Kröger non è solo un racconto struggente, è anche l’istantanea di un periodo storico di cui siamo tutti figli.

Umberto Mistruzzi

Chi siamo per parlare di giustizia morale? L’immigrazione ci svela i nostri limiti

Tutti parlano di migranti. Tutti vogliono esprimere il loro giudizio a riguardo. Oggi provo anch’io a dire la mia, e ad organizzare in qualche riga i miei ingarbugliati pensieri.

Come prima cosa vorrei mettere al bando ogni tipo di giudizio di valore che è stato formulato in merito a questa vasta e complicata questione. Io credo che affrontare il dibattito a suon di “è giusto accogliere”, “è giusto rimandare a casa” non sia affatto efficace. In particolare, ciò che mi sembra fallace è lo stesso coinvolgimento della sfera della Giustizia. Perché non limitarci ai soli dati di fatto? Perché deve esserci per forza una Verità a riguardo?

L’intero processo storico è stato marcato da fenomeni di emblematica rilevanza; credo che possa essere elevata a tale anche l’ondata immigratoria che negli ultimi tempi si è posta con così tanta determinazione al cospetto della nostra attenzione e delle nostre sensibilità. È banale affermare che una migrazione di una così vasta portata (che coinvolge persone provenienti da svariati paesi, e spinte a partire da svariate motivazioni) sia una delle sfide più imponenti che finora si siano mai presentate nella lista delle cose da fare dei cosiddetti paesi “avanzati”. Una sfida che però li coglie (e forse, ci coglie) impreparati. Ma d’altronde, come si può essere pronti a gestire una tale emergenza? Forse arrabbiarsi con i vari organismi statali e con l’Europa tutta è superfluo: chi ha mai immaginato una situazione come questa?

La Storia, inoltre, non insegna! La Storia offre chiavi di lettura, parametri di confronto, strumenti; ma non fornisce alcuna soluzione. Ecco perché non mi piace, in quanto anacronistico e dunque totalmente inutile, associare il fenomeno immigratorio attuale con altri avvenuti in passato. L’unico punto in comune tre i migranti di oggi e quelli di ieri è il ritrovarsi costretti a partire, a lasciare il proprio luogo di origine. Indipendentemente dagli ideali politici, questo fattore dovrebbe toccarci tutti, in quanto cittadini e in quanto uomini. Mi auguro (e voglio sperare) che nessuno sia capace di rimanere indifferente di fronte alle notizie e alle immagini che quotidianamente fuoriescono dalle pagine dei giornali, dagli schermi televisivi, o addirittura dagli stessi telefoni che con costanza ed ossessione stringiamo in mano. Ma ciò che veramente fa la differenza, tra ieri ed oggi, sono le congiunture sociali, politiche e soprattutto economiche. Ed è questo il vero punto decisivo, in quanto influisce non solo sull’elaborazione delle strategie politiche volte a regolare il grande flusso umano, ma anche sulla nostra percezione di quanto sta accadendo. Questo punto, a mio parere, è tanto decisivo quanto spaventoso: il migrante, letto alla luce delle sovrastrutture che inevitabilmente condizionano il nostro pensare, viene scorporato della sua dignità e viene percepito come minaccia. Minaccia alla nostra “perfetta” e “pacifica” società; minaccia alla nostra economia; minaccia al nostro già travagliato mondo del lavoro. L’empatia, l’elogio dell’interculturalità, lo spirito di fratellanza, l’altruismo, talvolta vengono messi in ombra e soffocati. Ma infondo, è davvero legittimo condannare del tutto un tale atteggiamento, seppur di chiusura si tratta?

Io non ho risposte, e con queste righe non ho voluto esprimere alcun giudizio di parte. Ho cercato di descrivere la situazione così come appare ai miei occhi forse inesperti; ma soprattutto ho cercato di evidenziare la problematicità intrinseca ad ogni ragionamento in materia di immigrazione. Mi premeva il desiderio di stimolare la riflessione al dubbio e all’ignoto, perché troppo spesso riscontro un abuso delle etichette “moralmente giusto e quindi buono”, “moralmente sbagliato e quindi da denigrare”. Chi siamo noi per parlare autenticamente di giustizia morale?

Federica Bonisiol

[immagine di proprietà de La Chiave di Sophia]