Natalia Ginzburg e le piccole grandi virtù che ci permettono di essere

 

Le virtù sono, secondo Aristotele, delle disposizioni d’animo che si trovano in noi esseri umani in potenza, e vanno sviluppate mediante abitudini ed esempi. Esse sono come abiti che impariamo a indossare correttamente grazie all’esercizio, ci permettono di vivere e di comportarci in maniera razionale – poiché, naturalmente, siamo “animali razionali”, che si realizzano e raggiungono la felicità solo esercitando la propria ragione.
Lo Stagirita distingueva tra due tipi di virtù: quelle etiche, che permettono alla ragione di dominare gli istinti e di scegliere, fra due estremi, il “giusto mezzo”, e quelle dianoetiche, che consistono invece nell’esercizio stesso della ragione. Queste ultime finiscono senza dubbio per avere un’importanza maggiore: sono la saggezza, che ha una connotazione pratica, e la sapienza, ossia quella conoscenza senza fine alcuno che eleva l’individuo.

Ma facciamo un grande balzo in avanti fino a Natalia Ginzburg, scrittrice imprescindibile per la letteratura contemporanea italiana e mondiale – osannata e citata, di recente, anche dalla scrittrice irlandese Sally Rooney.
Quali legami (e differenze) ci sono tra l’etica aristotelica e quella di Natalia Ginzburg?
Se conoscete l’autrice in questione anche solo un po’, non può non venirvi in mente Le picco le virtù (Einaudi, 1962): una raccolta di undici saggi autobiografici, un po’ racconti e un po’ memoirs; per lo più brevi, incisivi, che arrivano dritti al cuore e lo bucano, metaforicamente parlando. In essi Ginzburg racconta esperienze estremamente personali, dolorose, tenere, disincantate, che riescono a offrire uno sguardo universale, puntuale e compassionevole, su tutto ciò che più conta nelle nostre piccole grandi esistenze di esseri umani. Parla anche di relazioni e affetti, e, ripercorrendo le tappe del libro, riusciamo a capire quante e quanto importanti siano per lei le virtù che ne emergono: amicizia, affetto incondizionato, fedeltà ai nostri cari, resilienza, umiltà.
Virtù “grandi”, anzi monumentali. E quali sono, allora, le piccole virtù cui fa riferimento?

Nell’ultimo memoir che dà il titolo all’opera, Ginzburg, con stile scarno e grezzo, a tratti brusco, non sempre uniforme ma caldo, veritiero, accogliente, racconta quali sono le virtù che andrebbero insegnate ai propri figli. Delle buone disposizioni d’animo che andrebbero trasmesse e tramandate, cucite su di loro e con loro, usando soprattutto un filo invisibile e lunghissimo, facendo attenzione a non farlo divenire mai e poi mai guinzaglio, strumento di controllo. Un filo leggero ma solido per imbastire quell’abito di cui parlava anche Aristotele, tanti secoli prima di lei.
Un genitore, dice la Ginzburg, dovrebbe insegnare non le piccole, bensì le grandi virtù: perché le grandi possono contenere le piccole, perché le piccole sono più comuni e completano le grandi, esistono e giovano se insegnate insieme alle grandi. Una grande virtù è, ad esempio, l’indifferenza nei confronti del denaro, che alimenta la generosità e rende più indolore la separazione dal denaro stesso. E ancora, sempre sulle grandi virtù: «non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità; […] non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere» (N: Ginzburg, Le piccole virtù, 1962). Non proprio un giusto mezzo aristotelico, a quanto pare, ma anzi dei moniti che scaturiscono da un impeto, perché, secondo la scrittrice, mentre le piccole virtù provengono da un istinto difensivo, le grandi invece «sgorgano da un istinto in cui la ragione non parla, […] a cui mi sarebbe difficile dare un nome. E il meglio di noi è in quel muto istinto: e non nel nostro istinto di difesa, che […] disserta con la voce della ragione» (ibidem). Ancora una volta, pare esserci distanza, tra la sua etica e quella aristotelica.

E allora che cosa lega questi due pensatori? L’idea che le virtù vadano imparate gradualmente, procedendo a tentoni, attraverso una costante imitazione. I nostri figli dovrebbero guardarci, prenderci a esempio – ma non si tratta, secondo Ginzburg, di un’imitazione “a nostra immagine e somiglianza”. Ogni figlio va lasciato essere, non va indirizzato, né va accelerato o forzato quel naturale processo che gli permette di trovare la sua vocazione, che è poi espressione del suo amore per la vita. Anche il figlio che appare come il più pigro e intorpidito, potrebbe invece essere «semplicemente in stato di attesa» (ibidem).
L’etica di Ginzburg non segue tanto la ragione quanto la praticità e la schiettezza sentimentale: i primi virtuosi dobbiamo essere noi, predisponendoci ad amare i nostri figli in quanto esseri singoli e separati da noi: «essi debbono sapere che non ci appartengono, ma noi sì apparteniamo a loro, sempre disponibili, presenti» (ibidem).
La virtù del lasciarli essere presuppone un nostro lasciarci essere: avere noi stessi una nostra vocazione, coltivarla senza mai abbandonarla, o finiremo per aggrapparci «ai nostri figli come un naufrago al tronco dell’albero» (ibidem), pretendendo da loro ciò che solo la nostra vocazione può darci. Ecco l’esempio virtuoso per eccellenza, che i nostri figli dovrebbero imparare a indossare: che il legame affettivo tra noi e loro è imprescindibile e fondamentale, ma non è l’unica cosa che c’è, né deve esserlo mai.

 

Francesca Plesnizer

[immagine in copertina tratta da Pixabay]

 

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Il significato del “bene” nella pratica clinica. Casi clinici di fine vita

Non ci dimenticheremo mai di Alfie. Così come non ci dimenticheremo mai di Charlie.

Bambini così piccoli per essere strappati via dalla vita. Guancette porpora, occhi stanchi, spesso chiusi. L’abbraccio commovente di un padre al proprio figlio. Un orsacchiotto di peluche disteso accanto a quel corpicino esile, una compagnia familiare su un letto estraneo, quello di un ospedale. Macchine accese a scandire la vita che passa, che scivola, che scorre senza “se e senza ma”.  Senza concessioni, né tregue. Il tempo passa − da quanto tempo, forse troppo? Ma chi siamo noi, in fin dei conti, per giudicare il troppo e il troppo poco, il giusto e lo sbagliato? −, e quei corpicini sono ancora lì, la ventilazione meccanica li aiuta a respirare, il sondino nasogastrico ad alimentarsi e idratarsi.

Come potremmo mai dimenticarci di Dj Fabo, Eluana e Piergiorgio Welby? Corpi sofferenti, talvolta coscienti, ancora in grado discernere il loro bene, di ascoltare il proprio desiderio, di affrontare la morte anche laddove questa rappresenta la sola alternativa ad una condizione irreversibile, irreparabile.

Ci ricordiamo questi volti, le notizie trasmesse giorno dopo giorno dai telegiornali, le dispute tra chi sostiene che la vita debba essere protetta e difesa e che dunque i trattamenti siano necessari e imprescindibili per tale fine, opponendosi all’interruzione dei presidi vitali da un lato, e coloro i quali, dall’altro, difendono il diritto alla vita nei termini di una finitudine umana mortale cui non ci è permesso di sottrarci e contro la quale, prima o poi, veniamo a  chiamati a fare i conti.

Certo, quando si parla di bambini e di minori è sempre più complicato. Lo è poiché ci esponiamo alla vulnerabilità estrema di una relazione che deborda quella medico-paziente: i terzi sono dei genitori, direttamente implicati nella cura giornaliera del proprio bambino, personalmente coinvolti in una sofferenza senza fine che vede il loro figlio sospeso tra la vita e la morte.

Ce lo ricordiamo tutti il recente caso Alfie, la sua storia ha commosso il mondo intero; fino alla fine, la sua mamma e il suo papà hanno lottato contro tutto e contro tutti − perfino contro i giudici e i medici che si prendevano cura di lui. Volevano salvarlo, salvarlo da quella vita già segnata; salvarlo da un destino che, forse, avrebbero voluto cambiare con tutti i mezzi a loro disposizione. Ma di quali mezzi disponevano effettivamente? Una tracheotomia e una PEG per allungare il numero dei giorni da vivere e capire se, in un modo o nell’altro, ci sarebbe stata la possibilità di cambiare il decorso di una malattia neurodegenerativa, purtroppo inguaribile?

Vero è che Alfie per un po’, una volta interrotta la respirazione artificiale, è riuscito respirare in completa autonomia. Giorni che facevano credere che il piccolo guerriero fosse riuscito a dimostrare di potercela fare anche da solo, senza l’aiuto della tecnica medica. Eppure, se questo è ciò che molte notizie volevano far trasparire con la comunicazione “Il piccolo Alfie respira da solo!”, è giusto porre l’attenzione sulla sofferenza nascosta di ogni suo singolo respiro. Una sofferenza indecifrabile, determinata da uno stato fisico molto fragile. Respirare autonomamente significava riuscire a sopravvivere, certo; riuscire a sopravvivere fin tanto che ce l’avrebbe fatta con le proprie forze, le energie di un piccolo guerriero. Ecco perché i presidi vitali sembravano necessari: il bambino aveva dimostrato di essere forte e un giorno, avrebbe potuto farcela di nuovo. Il desiderio dei due genitori, infatti, era nutrito dal bisogno di dare al piccolo Alfie non una possibilità di mera sopravvivenza, ma di vita. Sarebbe però stato davvero concretizzabile? Fino a che punto il giudizio clinico può essere scavalcato? Poteva il prolungamento quantitativo della vita del piccolo paziente corrispondere ad un progresso qualitativo?

La decisione di sospendere i presidi vitali, dettata dai medici in funzione di una tutela della vita, ha rappresentato l’estremo gesto di cura, inteso come un to care e non come un semplice to cure. Laddove guarire non è possibile e utilizzare trattamenti salvavita diventa sproporzionato, il ruolo dei medici continua ad essere quello di prendersi cura del paziente, traducendosi nei termini di un giudizio di proporzionalità rispetto al trattamento previsto. È questo l’aspetto più ignorato quando la bioetica emerge dai casi clinici degni di nota. “Il medico deve fare il bene del paziente, non procurarne la morte”: questo si dice quando i trattamenti vengono interrotti. Ma di quale bene stiamo parlando? Qual è la vera intenzione dei clinici di fronte a casi irreversibili? In quali circostanze le cure sono appropriate e non rientrano nella medical futility?

Quando i clinici hanno riferito ai genitori di Alfie la necessità di sospendere i presidi vitali, è stato perché proseguirli non avrebbe costituito un atto medico volto al raggiungimento del bene dello stesso paziente. Al contrario, sarebbe equivalso al prolungamento di sofferenze intollerabili cui il bambino non avrebbe potuto nemmeno dare voce. L’intenzionalità sottostante alla pratica clinica non è quella di causare la morte − in quanto la sospensione ne costituirebbe unicamente la condizione clinica − ma rispettare la vita, accettando i limiti di una scienza che, come la medicina, non può fare tutto, non può prolungare indefinitamente l’esistenza procurando, in taluni casi, unicamente una stasi, un’immobilità, e in altri, una diminuzione della qualità di vita del paziente.

Il dolore della perdita è qualcosa di inenarrabile. Indescrivibile. Silenzioso.

Il piccolo Alfie, il piccolo Charlie, Eluana, Piergiorgio, Dj Fabo. Tanti nomi. Tante storie che ci hanno trasmesso il valore della vita e del coraggio. Contesti culturali diversi, dall’Italia all’Inghilterra. Ogni racconto ci parla di una finitudine incontestabile, che si impone prepotentemente. Tanti nomi che hanno chiamato in causa le nostre vite, interrogandoci sulle paure profonde che ci attraversano. Certo è che, nella pratica clinica, la fine della vita è una questione inevitabile ed è necessario ascoltare quell’universo di relazioni che, ben oltre la clinica, è impastato di sofferenza, fragilità profonde e causa di molti conflitti, incomprensioni. Ciò affinché sia possibile, un giorno, parlare un linguaggio comune in cui la barriera tra medici e pazienti, tra medici e genitori, possa essere abbattuta, trasformando quel muro di calce che li separa in uno spazio comune di comunicazione e riconoscimento reciproco.

 

Sara Roggi

 

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Libri selezionati per voi: maggio 2018!

Puntuali come la primavera che ha dato nuova vita alle nostre campagne, ecco le nostre proposte di lettura per il mese di maggio. Se il caldo inaspettato dell’ultimo periodo vi fa fremere per la gita della domenica o addirittura per le vacanze estive, noi vi consigliamo di darvi alla lettura perché con una storia nei pensieri l’attesa sarà indubbiamente più lieta!

 

ROMANZI CONTEMPORANEI

chiave-di-sophia-auto-da-feAuto da fé – Elias Canetti

Si tratta del primo ed unico romanzo mai scritto dal Premio Nobel per la Letteratura Canetti. Anno 1935. Bandito dai nazisti, venne riscoperto e apprezzato solo negli anni Sessanta. Nelle due parti in cui si compone troviamo il sinologo Peter Kien che vive in una condizione di isolamento e di apparente sicurezza con miriadi di libri a formare una vera e propria fortezza. Ha così in odio la vita che solo la convinzione di essere un “carattere” lo sostiene. Ma un “carattere” è anche la sua governante Therese, la cui bassezza è rigorosa. Nell’essere agli antipodi, sono accumunati dal rifiuto di ammettere l’esistenza di qualcos’altro nel mondo.

chiave di sophia il-mondo-nuovo-ritorno-al-mondo-nuovo-libro-79433Il mondo nuovo – Aldous Huxley

Uno dei più famosi romanzi distopici esistenti, il libro più bello ed inquietante uscito dalla penna di Huxley che anticipa temi quali l’eugenetica, lo sviluppo delle tecnologie di riproduzione ed il controllo mentale. Ambientato nell’anno di Ford 632, corrispondente all’anno 2540 della nostra era, il romanzo descrive una società strettamente classista il cui motto è “Comunità, Identità, Stabilità” e dove la vita è un’esistenza in serie. Una società tecnologicamente avanzata, priva di povertà e guerra, che ha però sacrificato in un’ironia negativa ciò che rende umano l’umano.

 

UN CLASSICO

chiave-di-sophia-svevo-senilitaSenilità – Italo Svevo (1898)

La figura dell’inetto, sempre al centro del linguaggio sveviano, ritorna in un classico poco conosciuto che, all’epoca della pubblicazione, suscitò non pochi malumori. Emilio Brentani, alter-ego di Zeno Cosini,  è un giovane impiegato di una compagnia assicurativa, incapace di vivere un’esistenza piena, adagiato su una quotidianità mediocre e grigia. La scoperta di una relazione avventurosa sembra poter salvare il “giovane impiegatuccio”, ma ben presto si scopre vecchio dentro, privato dell’energia vitale e della forza di sperimentare il vero amore. Un romanzo dall’acuta caratterizzazione psicologica, focalizzato sul protagonista e sulle menzogne che egli si crea per non dover affrontare le difficoltà del reale. Consigliato a tutti coloro che amano lo sguardo introspettivo, ricco di auto-critica e auto-ironia, nei confronti di un presente e di una condizione a volte poco soddisfacente.

 

SAGGISTICA

chiave-di-sophia-sono-puri-i-loro-sogni_bussolaSono puri i loro sogni – Matteo Bussola

Una lettera semplice e diretta scritta da Matteo Bussola, padre di tre bambine, diretta agli altri suoi “colleghi” genitori. La sua testimonianza ed esperienza personale fanno luce sui cambiamenti e i disagi tipici di questo tempo per quanto riguarda il sistema educativo e chi ne è coinvolto. Alunni, insegnanti, genitori. Una triade che fin dal primo giorno di scuola porta una buona dose di difficoltà da affrontare con una consapevolezza nuova e con uno spirito da costruire secondo valori e priorità da riscoprire.

 

JUNIOR

chiave-di-sophia-da-mary-taglio-e-piegaDa Mary taglio e piega – Eoin Colfer

Il rapporto delle ragazze con i loro capelli non è sempre roseo. La povera Mary ce li ha un po’ ricci, un po’ lisci, un po’ neri, un po’ marroni. Così decide di prendere provvedimenti, trasformandosi nella parrucchiera di se stessa. Vi lascio immaginare i malanni che farà! Se siete curiosi non perdetevi questo libricino adatto tanto alle femminucce quanto ai maschietti, di sei e sette anni circa. Il piccolo formato del libro lo rende ideale per essere tenuto in mano proprio dai lettori più piccoli. Inoltre, questo libro è un testo ad alta leggibilità: lo possono leggere tutti i bambini, anche quelli che con la lettura hanno qualche difficoltà!

 

Sonia Cominassi, Anna Tieppo, Alvise Gasparini, Federica Bonisiol

 

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Selezionati per voi: aprile 2017!

1° aprile, pesce d’aprile! Nessuno scherzo: la nostra selezione di libri e film è puntuale come un orologio svizzero. Nelle belle giornate che hanno caratterizzato il mese appena finito, ritagliarsi un po’ di tempo per leggere all’aria aperta è stato un vero piacere. Nella speranza che anche aprile ci regali temperature miti, aria leggera e cieli sereni, abbiamo selezionato per voi alcuni libri per immergerci insieme nella riflessione sulle grandi questioni della vita. Se invece le prime piogge stagionali dovessero fare presto capolino, traete spunto dai nostri suggerimenti e rifugiatevi al cinema, non ve ne pentirete. Buona lettura e buona visione!

LIBRI

marzano-la-chiave-di-sophiaMichela Marzano − L’amore che mi resta (2017)

Dalla notte in cui Giada ha deciso di togliersi la vita, l’esistenza di Daria sembra non avere più alcun senso. Un vuoto immenso e incolmabile le si è spalancato davanti.
Da quando la sua bambina se n’è andata, si trova a dover fare i conti con quel passato che ha intrecciato le loro vite. Con i non-detti e i silenzi. E quella certezza mista a paura di aver sbagliato ogni cosa.
Com’è possibile superare la perdita di un figlio? Come poter convivere con quel vuoto che talvolta ci inghiotte?
L’amore che mi resta è una storia fatta di assenze onnipresenti. Di distanze impastate di prossimità. Ma anche della forza che sorge dalla luce della speranza, nel momento in cui, attraversando le tenebre della sofferenza, si ritrova il coraggio per ricominciare a vivere e amare.

moravia-chiave-di-sophiaAlberto Moravia − Gli indifferenti (1929)

Romanzo giovanile, trampolino di lancio per una fortunata carriera da scrittore, Gli indifferenti di Moravia mostrano con disincantata lucidità un mondo in declino, ricco di inganno e menzogna, privato della sua moralità e dei suoi valori. I personaggi che popolano il libro esprimono perfettamente lo sfacelo morale che li circonda; l’unico a salvarsi, a condannare questa realtà ormai in rovina, è il protagonista Michele, il quale osserva con disprezzo ciò che lo circonda senza riuscire tuttavia a trovare una valida alternativa. Ciò lo porta a dichiarare insistentemente la propria “indifferenza”, come unico baluardo di protezione verso un mondo in cui non è più possibile riconoscersi e da cui tuttavia si viene inghiottiti.
Lucida e cruda descrizione della contemporaneità, Gli Indifferenti rappresentano una valida lettura per coloro che amano riflettere sulla perdita di valori, sui sentimenti di apatia e noia che troppo spesso caratterizzano il nostro presente.

mola-massoneria-recensione_la-chiave-di-sophiaAldo Alessandro Mola − Massoneria (2012)

Si sa, gli italiani sono esperti complottisti, abili dietrologi. Si scagliano su ciò che è ambiguo in nome di limpidi principi, ma al contempo sono attratti da ciò che si sottrae. Tra gli argomenti mai passati di moda in questo senso c’è indubbiamente quello della massoneria, che in questo agile libretto vede ripercorsa la sua storia in Italia, il suo confronto con la società, le sue lotte, le sue ragioni. Un buon inizio per chi vuole iniziare a capire e scoprire qualcosa di nuovo al di là dei preconcetti e forse cercare energie fresche per se stesso e il proprio tempo.

Sara Roggi, Anna Tieppo e Luca Mauceri

 

JUNIOR

130616_papabis2-chiave-di-sophiaCharles Berbérian, Philippe Dupuy, Joseph Jacquet − I papà bis (2013)

Nella vita dei due bambini protagonisti di questa storia è entrato da qualche tempo un nuovo personaggio: “papà bis”. Chi sarà mai quest’uomo? Sarà gentile e divertente o noioso ed antipatico? Farà felice la mamma? Litigherà con papà o i due riusciranno ad andare d’accordo? Se queste domande non vi sono nuove e se avete la necessità di affrontare con i vostri bambini l’argomento della separazione vi consiglio la lettura di questo album illustrato, particolarmente adatto per la fascia d’età 4-7 anni.

Federica Bonisiol

 

FILM

libere_locandina chiave di sophiaMaysaloun Hamoud  Libere, disobbedienti, innamorate
L’hanno definito come il nuovo Sex and the city in salsa israeliana. In realtà il nuovo film di Maysaloun Hamoud è molto più di questa semplicistica definizione. E’ un dramma coinvolgente e appassionante che segue le vite di tre ragazze arabe nella caotica Tel Aviv. Un affresco generazionale molto convincente su una realtà spesso lasciata in secondo piano dall’industria cinematografica e dai media internazionali. Rivalutando e analizzando da un nuovo punto di vista il ruolo della donna nell’attuale cultura araba, Liberi, disobbedienti, innamorate è uno dei titoli più interessanti di questa prima parte dell’anno. Un viaggio tutto al femminile da cui ogni spettatore potrà trarre un insegnamento importante. USCITA PREVISTA: 6 APRILE 2017

Olivier Assayas −Personal Shopperpersonal_shopper_ver2 chiave di sophia
Dopo lo straordinario Sils Maria, il regista Olivier Assayas e l’attrice Kristen Stewart tornano sul grande schermo con una storia ancora più audace e sorprendente. Il titolo dell’opera potrebbe trarre in inganno: qui la moda è solo una cornice che serve a contestualizzare una magnetica storia di fantasmi e introspezione. Semplice ma, allo stesso tempo, molto convincente. La Stewart si conferma come una delle migliori attrici della sua generazione, mentre la regia intelligente di Assayas rende Personal Shopper uno dei titoli imperdibili di quest’annata cinematografica. USCITA PREVISTA: 13 APRILE 2017

 

Gianni Amelio − La Tenerezza chiave-di-sophia
Sono tantissimi i film italiani che ad aprile arriveranno nei cinema del Paese. Tra tutti questi c’è da segnalare l’atteso ritorno dietro la macchina da presa del regista Gianni Amelio. La tenerezza racconta la storia di due famiglie molto particolari in una Napoli inedita, lontana dalle periferie, una città borghese dove il benessere può mutarsi in tragedia, nonostante la speranza resti sempre a portata di mano. Notevole il cast di attori tra cui spiccano le prove eccellenti di Elio Germano, Giovanna Mezzogiorno e Micaela Ramazzotti. USCITA PREVISTA: 24 APRILE 2017

Alvise Wollner

[Immagini tratte da Google Immagini]

Il caldo amore di un genitore, asfissiante

A un certo punto ci siamo svegliati la mattina del 25 dicembre senza attesa per i regali, senza quel senso di curiosità straripante che ci faceva volare giù dal letto. Non ci siamo più fiondati dai regali che un misterioso Babbo Natale ci aveva lasciato di notte.

Non è più accaduto perché quei due che di solito si prendevano cura di noi ci hanno dato una delusione straziante.
Non esiste alcun simpatico signore che vola con le renne di casa in casa.

Li abbiamo odiati, probabilmente, se ci ricordiamo il momento della scoperta.

Quella forse è stata la prima volta in cui abbiamo messo in discussione i nostri genitori. D’un tratto non erano più il riferimento massimo per la nostra vita, ma una minaccia, una fonte di delusione.

Da allora è stato un susseguirsi di litigi, lotte per ottenere un gioco, un motorino, un’uscita con la compagnia.

I figli sono sempre scontenti, sembra che ogni comportamento non sia quello giusto, che si sbagli sempre qualcosa.

Eppure i genitori fanno sempre tutto per amore dei figli. Non c’è momento in cui non siano davanti a ogni cosa, nel gradino più alto del podio. Ogni atto è un modo per dar loro qualcosa di buono: un’istruzione, un’educazione che li supporti. Un sostegno e una struttura per affrontare il resto della vita nel migliore dei modi.

Dall’altra parte però non tutto viene visto allo stesso modo. Spesso si crea un solco e da una parte e dall’altra schierate due visioni opposte di una realtà impossibile da valutare in modo unilaterale.

L’unico punto di contatto sta nell’intenzione ultima: entrambe le parti vogliono il benessere e la realizzazione del figlio, a qualunque età. Ma in modi diversi.

Il modo, appunto, fa la differenza. Non basta l’aiuto economico, non bastano le scuole migliori, il cibo e i regali. Tutto molto interessante, direbbero gli adolescenti. Ma sterile.

Il rapporto poi non decolla, i figli cercano altro e i genitori si perdono a distribuire beni di qualunque tipo, come fossero un’Ikea di articoli di sussistenza.

Ma in fondo il figlio di che ha bisogno? La maggior parte dei tentavi dei genitori finisce per soddisfare bisogni del genitore stesso, per placare paure e timori di mamme e papà.

Eppure l’articolo 315 bis del Codice Civile è piuttosto chiaro sulla modalità con cui un figlio dovrebbe essere cresciuto. Per una volta la legge non è fredda e sterile, ma ci indica la via di un comportamento che cambierebbe le sorti dell’educazione.

«Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. (…)
Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano».

Ai ragazzi interessa questo, ai bambini ancora di più. Non è tanto il regalo da scartare, l’entusiasmo dei figli è legato alla presenza. Alla condivisione del tempo. L’affetto che percepiscono sapendo che i genitori sono lì da qualche parte pronti ad avvolgerli.

Se non ci fidiamo della legge, chiediamo alla natura, che non sbaglia mai.

L’esperimento di Harry Harlow (psicologo statunitense del Novecento) ci illumina su quello che un cucciolo di scimmia può provare rispetto alla presenza di un genitore. Harlow ha preso delle scimmie e con un gesto di temporanea crudeltà le ha separate dalla mamma. Questi cuccioli di scimmia sono stati poi lasciati in una gabbia: da una parte una “mamma metallica”, cioè un fantoccio in metallo con un biberon annesso, e dall’altra una “mamma morbida” fatta di panni di stoffa su cui appoggiarsi.

Niente, non è il cibo la cosa che le scimmie hanno voluto.

Non è la sopravvivenza fisiologica che istintivamente viene cercata da una piccola scimmia. Questi esemplari si stringevano al fantoccio di stoffa per trovare conforto.

Una coccola non vale un sorso di latte.

Le scimmie al massimo correvano a bere per pochi secondi, e poi tornavano a cercare affetto da quella cosa morbida, calda, accogliente.

Insomma, che sia Babbo Natale o un genitore a portare regali o biberon di latte, la cosa importante è assecondare i bisogni e le inclinazioni dei figli, o, mal che vada, ricoprirsi di stoffa.

 

Giacomo Dall’Ava

[Immagine tratta da Google immagini]

Un dolore senza voce

La vita, ma ancor di più la morte, per gli esseri umani di ogni etnia, cultura e confessione religiosa, rimane un mistero insondabile. Molto spesso c’è un modo sbagliato di guardare la morte. Questa realtà riguarda tutti noi e ci interroga in modo profondo, specialmente quando ci tocca da vicino, o quando colpisce i piccoli, gli indifesi, in una maniera che ci risulta scandalosa. Come rispondere alla domanda: “perché soffrono i bambini? Perché muoiono?”. Se la morte viene intesa come la fine di tutto, questo spaventa, atterrisce, si trasforma in minaccia che infrange ogni sogno, ogni prospettiva, che spezza ogni relazione e interrompe ogni cammino. Questa concezione della morte è tipica del pensiero ateo e nichilista, che interpreta l’esistenza come un trovarsi casualmente nel mondo, per camminare verso il nulla. Dichiara Papa Francesco: «Molti non credono in un orizzonte che va oltre la vita presente e vivono come se Dio non esistesse». Quando ci lasciamo prendere da questa visione sbagliata della morte, non abbiamo altra scelta che quella di occultarla, di negarla, o di banalizzarla, perché non ci faccia paura.  Ma il cuore dell’uomo e soprattutto quello di donna e madre, si ribella a questa soluzione. L’uomo ha desiderio d’infinito e nostalgia dell’eterno. Qual è, allora, il senso cristiano della morte?
Se guardiamo i momenti più dolorosi della nostra vita, quelli in cui abbiamo perso una persona cara, ci accorgiamo che, anche nel dramma della perdita, anche lacerati dal distacco, sale dal cuore la convinzione che non può essere tutto finito, che il bene dato e ricevuto non è inutile. C’è un istinto potente dentro di noi, che ci dice che la nostra vita non finisce con la morte. La morte è, purtroppo, un’esperienza che riguarda tutte le famiglie, senza eccezione alcuna. Fa parte della vita. Eppure, quando tocca agli affetti familiari, la morte non riesce mai ad apparirci naturale. Per i genitori, sopravvivere ai propri figli è qualcosa di particolarmente straziante, che contraddice la natura elementare dei rapporti che danno senso alla famiglia stessa. La perdita di un figlio o di una figlia sembra fermare il tempo: una voragine inghiotte passato e futuro. La morte che porta via il bambino è uno schiaffo alle promesse, ai doni e ai sacrifici d’amore. In questi casi la morte è come un buco nero che si apre nella vita delle famiglie e a cui non sappiamo dare alcuna spiegazione.

Come comprendere un’esperienza che appare evidentemente contro natura, devastante, come il lutto nel periodo pre- e perinatale1?

Per comprendere il lutto perinatale e conoscere meglio il vissuto dei genitori colpiti dalla perdita del proprio figlio, sono necessarie alcune premesse:

  1. L’idea di avere un figlio ha origini molto remote nella persona dei genitori: la genitorialità, infatti, ha inizio ben prima del concepimento;
  2. Il percorso genitoriale è irreversibile. Quando si realizza la gravidanza, prende vita il primo legame di attaccamento dettato dalla relazione con quel bambino portato in grembo. La gioia dell’attesa proietta i genitori nel progettare lo spazio dove accogliere il nascituro. I genitori sono proiettati in un futuro dove la nascita è già avvenuta2;
  3. Non si diventa madre o padre al momento del parto, ma molto prima, durante tutto il percorso della genitorialità.

Il lutto in gravidanza o dopo il parto ed anche le nascite di bambini terminali chiamano i genitori ad affrontare un difficile percorso, in cui l’amore per il bambino e il dolore della perdita si intrecciano con il proprio personale vissuto, lasciando gli stessi attoniti. L’evento “morte” spezza il legame fisico col bambino, ma non il legame psichico che resta dolorosamente saldo, indipendentemente dall’età gestionale in cui la morte interviene. Il cordone ombelicale, da un punto di vista mentale e spirituale, non viene mai reciso.

La nascita, che coincide con la morte, rappresenta sempre un evento molto triste. È difficile accettare il fatto che il bambino, cresciuto in grembo, possa cessare di vivere improvvisamente senza una ragione evidente. Nessuno è mai preparato ad affrontare una morte del genere.

La morte all’inizio della vita è concettualmente difficile da capire e da accettare sia da parte di chi ne è colpito direttamente, e che inevitabilmente con essa deve fare i conti, sia da parte della società. Infatti, la nostra cultura occidentale non trova parole che possano spiegare ciò che è di fatto innaturale: come si può morire prima di nascere? Un dolore cui non si dà voce è destinato a restare privato. Questo tipo di morte non ha uno spazio sociale ben definito e, per certi versi, rimane ancora un tabù: non se ne parla, si tende ad evitare l’argomento ed il confronto. Una spiegazione a tale atteggiamento può essere data dalla volontà di dimenticare rapidamente l’insuccesso e il fallimento: un bambino desiderato e cercato non può morire! L’aborto spontaneo, il bambino nato morto, il neonato terminale non trovano spazio nell’ideale di maternità. Il bambino che muore prima di nascere è una cosa inimmaginabile, inaudita e inaccettabile.

Cosa fare?

La situazione va affrontata con lealtà, sincerità e trasparenza da parte degli operatori sanitari – e non solo – condividendo con i genitori il dramma, la tristezza, il dolore e l’impotenza: ben sappiamo che sentirsi soli, in un momento così drammatico, non fa altro che aumentare l’ansia e la depressione e consegna la persona, sofferente, a fantasmi e ossessioni di cui ci si può liberare; d’altro canto, soltanto facendo appello alla speranza che, per chi crede o semplicemente ha avvertenza del fatto che la vita non si esaurisce nella sua dimensione biologica, come con la vedova di Nain3, Dio restituisce ai propri cari chi li precede nel doloroso passo.

Rocco Colucci

Rocco Colucci è nato a Filiano, un piccolo comune della Lucania, in provincia di Potenza, nel 1962. Ordinato sacerdote nel 1987, ha sempre coltivato un profondo interesse per le tematiche della pedagogia e della bioetica; attulamente docente presso il Liceo Classico “Quinto Orazio Flacco” e presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Mons. Vairo” di Potenza, città in cui è anche parroco.

NOTE:
1. Tecnicamente si definisce morte “perinatale” la perdita di un figlio che avviene, indicativamente, tra l’ultimo periodo della gravidanza e i primi giorni di vita dopo il parto. Ma il lutto perinatale si può estendere anche all’aborto spontaneo, all’interruzione terapeutica di gravidanza, alla riduzione fetale in caso di gravidanze multiple o alla morte endouterina di uno dei gemelli; in caso limite, anche all’abbandono per adozione.
2. Tale proiezione si manifesta naturalmente già dalle prime settimane di gravidanza.
3. Cfr. Lc 7, 11-15.

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La maternità surrogata e il turismo procreativo dell’Occidente

Nove mesi di gestazione possono risultare impegnativi e poi c’è la fatica per rimettersi in forma e la conseguente discriminazione sul lavoro: se sei attrice o modella non vieni chiamata dai registi o dalle fashion house per il tuo stato. Oppure c’è la voglia di avere un figlio, senza avere un compagno. A volte un compagno ce l’hai, ma è del tuo stesso sesso. E allora? In voga tra i vips il ricorso all’ “utero in affitto”. Per diverse ragioni, hanno scelto questa pratica da Robert De Niro e Dennis Quaid, al cantante single Ricky Martin, all’attrice Sarah Jessica Parker che, all’età di 44 anni, sostenne di aver tentato invano di dare un fratellino o una sorellina al primogenito, ma senza risultati. Dato che l’orologio biologico avanza inesorabilmente, decise di ricorrere alla maternità surrogata o “utero in affitto”: una tecnica che permette di diventare genitore anche a chi, per svariati impedimenti fisiologici e non, non riesce a portare a termine una gravidanza, ciò è possibile grazie ad una donna che accetta di affrontare gestazione e parto per altri. In prossimità del parto verranno avviate le procedure legali per il riconoscimento formale dei genitori biologici (tale pratica è vietata in Italia).

Per ogni notizia relativa ai vips che inevitabilmente fa il giro del mondo, ci sono altrettante coppie comuni che, a riflettori spenti, ricorrono alle stesse tecniche pur di realizzare il sogno di diventare genitori. Sul web brulicano le organizzazioni che offrono, dietro cospicuo pagamento, la soluzione ai problemi di fertilità; tra i servizi erogati, oltre alla scelta della madre surrogata, anche l’assistenza legale per la stipula del contratto e le spese mediche. Una vera e propria compravendita, in questo caso di figli, perché di fatto la maternità surrogata è un grande business attorno al quale girano milioni di euro. Secondo il tariffario pubblicato dal New York Times, in Inghilterra affittare una madre surrogata costa circa 120 mila euro, in Thailandia il costo scende a 48 mila euro. Se poi si vuole risparmiare, con una tappa in Ucraina si ottiene un “utero in affitto” per 30 mila euro. Se si raggiunge il continente africano, in Nigeria, Algeria e Somalia il prezzo è molto competitivo, noleggiare una madre surrogata cosata poco meno di 10 mila euro, stessi prezzi si possono trovare nella vicina Creta o in India. Donazione di ovuli, egg freezing, mamme surrogate: tutte pratiche non esenti da riflessioni di ordine etico e a rischio di risvolti controversi. Tra tutti il caso estremo del piccolo Gammy, affetto da sindrome di Down e concepito insieme alla sua gemellina sana con un utero “preso in affitto” da una coppia australiana in Thailandia. Il neonato è stato lasciato dai genitori alla mamma surrogata a seguito della diagnosi. Altro caso nella Repubblica Ceca, da un utero in affitto nasce un bambino che soffre di gravi patologie ereditarie: sia i “genitori” che l’hanno commissionato, che la madre che lo ha partorito lo rifiutano. Nonostante l’evidente carenza di regolamentazione internazionale e il rischio di sfruttamento delle mamme surrogate provenienti da Paesi poveri, il ricorso a queste tecniche non si ferma.

Le testimonianze di coppie che riescono ad avere un bambino fra le braccia è in notevole aumento: in particolare donne con una carriera in ascesa che, trovato l’amore dopo i 40 anni, entrano nella spirale di cicli di fecondazione assistita falliti e approdano all’ultima possibilità, la maternità surrogata. Parto dal presupposto che il desiderio di avere un figlio non si basa su alcun diritto, ancor più se esso diventa “prodotto” di un mercato senza remore che utilizza il corpo di donne, approfittando delle loro gravi indigenze socio-economiche, per produrre su commissione un figlio, sottoponendo l’essere umano ad un processo di disumanizzazione e trasformandolo in uno strumento di business. Perché non scegliere la strada dell’adozione? Perché non offrirgli una vita migliore a tutti quei bambini che attendono una casa, che hanno bisogno dell’amore di una famiglia? E che dire della strumentalizzazione della donna? Come si sente la madre surrogata quando deve separarsi dal bambino che ha portato in grembo per nove mesi? Donne che diventano oggetto, per scelta, per soldi o per disperazione, che si adoperano a portare in grembo i figli che saranno di altri. In India, per l’estrema povertà, i giornali pullulano di annunci di “uteri in affitto”. Ma se poi colei che porta avanti la gestazione per conto di altri si pente della scelta effettuata? Un bimbo nato da una madre surrogata può essere conteso tra chi lo ha commissionato e chi ha accettato di portarlo in grembo?

Uno dei primi casi di tale contesa, in Italia, è quello di Jessica, oggi ventenne, nata perchè una coppia di coniugi, che non poteva avere figli, “affittò” l’utero di una donna algerina. La madre surrogata ricevette un milione di lire al mese e una casa a Rapallo per trascorrere i mesi di gestazione, ma, poco prima del parto, cambiò idea e decise di tenersi la bambina. L’uomo, padre biologico, le notificò un atto di citazione al tribunale di Monza, chiedendo che gli venisse riconosciuto il diritto ad avere per sè la figlia. La domanda venne respinta con sentenza del 30 maggio 1989. I giudici ritennero nullo il contratto per “l’utero in affitto” stabilendo che non si diventa figli per contratto e che una donna ha diritto di crescere la propria creatura, portata in grembo per nove mesi.

Silvia Pennisi

[immagine tratta da lanuovagiustiziacivile.com]