Dal caos all’ispirazione

In un attimo tutto ci appare più chiaro: ecco l’idea, ecco la svolta. È fulminea, istantanea e illumina la nostra mente. L’ispirazione1 è il tema di questo promemoria filosofico.
Che cosa sia l’ispirazione è un mistero, ma quando giunge la strada è spianata e la creatività si accende. È la spinta, l’intuizione che permette di dare vita, di creare qualcosa di straordinario. Si può parlare di intuizione ma che coinvolge mente, cuore e anima.

Etimologicamente il termine deriva dal tardo latino inspiratio – onis, che indica il respirare in alto. Tale significato simbolicamente si ricollega al respiro del divino creatore.
Nell’antichità si credeva che le divinità concedessero l’ispirazione alle Muse, guidate da Apollo, per rivelare loro profezie sul futuro, e agli artisti. In particolare l’ispirazione è stato un punto focale nell’arte e nella letteratura da sempre: l’uomo in un momento fugace viene in contatto con i pensieri divini al di fuori della sua mente, per poi discendere nella sua natura terrena e realizzare l’opera ispirata. Quel salto ultraterreno permette di accedere alla verità che gli viene rivelata per un brevissimo istante.
Sebbene oggi in psicologia si possa definire come un’alterazione mentale, un processo interamente interno della psiche, nei secoli sono state diverse le interpretazioni del fenomeno.

L’ispirazione è la base del pensiero romantico: il fuoco dell’ispirazione proveniva dal genio, il dio interiore del poeta che si faceva strada attraverso l’uomo per manifestarmi. Molto simile a quella della grecità antica, questa forza irrazionale è capace di oltrepassare la volontà dell’uomo e imporsi su di egli: sono molti gli scrittori come Samuel Taylor Coleridge e più avanti William Butler Yeats che raccontano del potere dell’ispirazione e il fluire ininterrotto delle parole, come si trattasse di un atto automatico.

Freud colloca l’ispirazione direttamente nel subconscio dell’artista, quale momento in cui i conflitti psichici irrisolti dell’infanzia ritornavano a galla per poterli poi risolvere.
Diversamente dal maestro, Jung vede nell’ispirazione artistica la traccia della memoria razziale propria del corredo genetico: solo l’artista sente con maggior forza il conflitto tra l’anima primitiva e l’ego civilizzato e sociale e attraverso l’arte può realizzarlo in concreto.

L’ispirazione non lascia alcun dubbio in ogni caso, toccati dalla sua verità ci permette di cogliere quell’idea che era per noi irraggiungibile e celata. L’ultima parola allora ora tocca a noi: tu cosa e come realizzerai grazie a questa scintilla divina?

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto
NOTE
1. Concetti tratti da N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari di filosofia, vol. 1-2-3, Edizione Paravia

 

banner-pubblicita-rivista2_la-chiave-di-sophia

L’artista: esecutore o creatore? Il caso di Canova

Nell’arte contemporanea la sempre più diffusa pratica, da parte degli artisti, di creare grandi installazioni che talvolta modificano persino la percezione di un paesaggio (si pensi, per esempio, ai Floating Piers di Christo) implica automaticamente che l’artista sia via via diventato, in tempi recenti, il progettista di un’opera d’arte, il suo creatore concettuale, che dà il compito ad esecutori specializzati (a seconda dei materiali e del funzionamento) di realizzare ciò che lui ha pensato e disegnato.

Per molte persone questo fatto ha portato alla perdita, da parte dell’artista, del suo ruolo storico di esecutore e di vero e proprio creatore dell’opera, plasmata non solo dal suo ingegno ma anche dalle sue eccezionali abilità manuali. Tuttavia vi sono numerosi casi storici di grandi artisti, oggi ritenuti fautori di una bellezza ormai perduta nell’arte, che nella realizzazione dell’opera finita, sia un grande affresco o un gruppo scultoreo, non hanno nemmeno dato il loro contributo concreto, oppure sono intervenuti in prima persona in quantità ridottissime. D’altronde non si può pensare che un immenso affresco, come quelli che occupano soffitti di saloni o di chiese per decine di metri quadrati, venga completato da un solo artista: egli è il maestro, ha un ruolo guida nel cantiere e decide, sulla base dei suoi disegni preparatori, eventuali correzioni e modifiche, lavorando alle aree più delicate (le figure umane) e lasciando ad aiutanti e collaboratori l’esecuzione di elementi di minore impegno. Nel caso della scultura si ripete il medesimo discorso, specie se si parla di opere dalle dimensioni grandiose, come, ad esempio, la Fontana dei Fiumi in Piazza Navona a Roma, di Gian Lorenzo Bernini.

Ma proprio nella scultura c’è un caso eclatante che si distingue da tutti gli altri, vale a dire quello dell’artista veneto Antonio Canova, considerato il maggiore esponente del Neoclassicismo in Europa (insieme ai pittori David e Ingres) e il più grande interprete dell’estetica di età napoleonica. L’attività di Canova, infatti, si configura essenzialmente come quella di un imprenditore, il cui lavoro è vendere ai facoltosi clienti creazioni scultoree dal gusto anticheggiante, che richiamino i fasti dell’antica Roma (erano state da poco rinvenute Pompei ed Ercolano) e che diano lustro al loro committente. Il grandissimo successo dei suoi lavori (soprattutto dalla fine del Settecento) gli procurò una clientela vastissima ed esigente, che egli certo non avrebbe potuto soddisfare da solo. Il suo fare arte divenne perciò una specie di impresa, in cui l’opera era solo il risultato finale di un processo in cui egli si occupava quasi esclusivamente dell’ideazione: egli sviluppava uno o più modelli in terracotta che descrivessero l’opera nelle sue linee fondamentali; veniva poi costruito, sotto la sua direzione, un modello in gesso, che fungeva da prototipo dal quale ricavare poi l’opera finita; questa, infine, veniva scolpita su marmo (o bronzo, a seconda dei casi) da una serie di allievi e apprendisti, che avrebbero seguito scrupolosamente le proporzioni del gesso, non obbligando l’artista a intervenire se non nella definizione degli ultimi dettagli. Quando oggi vediamo un’opera di Canova, quindi, vediamo essenzialmente un prodotto delle mani dei suoi collaboratori. Tuttavia, ciò non cambia il valore dell’opera in sé e la sua autenticità: si tratta comunque del frutto della mente e dell’immaginazione creativa dell’artista, cui senza dubbio mancava più il tempo che l’abilità (ben evidente negli eccezionali modelli preparatori in terracotta). L’opera finita, fedelmente tradotta dal gesso (nella cui lavorazione Canova svolgeva una parte attiva ma non solitaria), mantiene tutte le caratteristiche e la qualità da lui desiderate, cosa che ne fa un suo prodotto a tutti gli effetti, non molto differentemente da quanto i Floating Piers sono in tutti i sensi un’opera di Christo, che ne ha sviluppato i progetti e seguito la produzione in prima persona.

 

Luca Sperandio

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

copertina-abbonamento-2020-promo-primavera

Il successo del genio

<p>Little Herr Albert</p>

Ciascun artista possiede un proprio spazio all’interno della storia, e così come nei film esistono protagonisti, attori secondari e semplici comparse, nella storia dell’arte esistono autori di maggior rilievo, cui oggi molto spesso viene associato il termine di “genio”, e artisti di via via minore spessore, fino alle centinaia di figure senza volto che lavorano dietro le quinte, nelle botteghe, all’ombra dei grandi maestri. Tuttavia, differentemente da un film, nella storia dell’arte i ruoli non sono mai costanti, e chi viene considerato un protagonista dagli occhi e dalle menti di un dato secolo viene poi, in numerosi casi, ridotto a figura secondaria dagli spettatori del secolo successivo, e così viceversa. Sono i cambiamenti storici, le rivoluzioni, la politica, la filosofia, la letteratura e molti altri fattori a determinare questi spostamenti degli artisti nella “scala gerarchica” che ne determina il peso storico e artistico.

Viene di conseguenza naturale domandarsi con quale occhio noi oggi guardiamo le opere di un pittore o uno scultore (o quant’altro), con quale metro le valutiamo e secondo quali criteri consideriamo un artista “geniale” o meno. Il concetto di “genio” emerge in età romantica e viene utilizzato ancor oggi per individuare, in ambito artistico, delle personalità in grado di trasferire la propria dirompente soggettività nell’opera, che diventa una estensione materiale della loro interiorità e pertanto, dal punto di vista dello spettatore, un “ricordo” di un’azione fortemente individuale. Basterà osservare attentamente il gusto attuale in materia artistica per rendersi conto che gli artisti più famosi e maggiormente tenuti in considerazione sono proprio coloro che più si avvicinano all’accezione romantica di “genio”, evidenziando così come la sensibilità odierna non sia di fatto molto distante da quella di circa due secoli fa.

Ovviamente l’ingresso irruento dei media nella vita quotidiana nei tempi più recenti non può banalizzare la questione a una così semplice affermazione, ma la posizione di grande instabilità e spaesamento del soggetto d’oggi si può a grandi linee accostare a quella che, tra Settecento e Ottocento, ha prodotto la concezione di arte come prodotto dell’azione di una ben definita individualità e non più, come accadeva nei secoli di Ancien Régime, come prodotto di un’intera società e della sua mentalità. Ciò non significa ovviamente che le figure geniali siano relegate alla sola contemporaneità: le caratteristiche del genio, ovvero soggettività e individualismo (molto spesso accompagnati da atteggiamenti anticonformisti e talvolta drasticamente critici), si ritrovano in numerosi artisti di qualsiasi epoca, anche ben prima del Romanticismo, e figurano sempre in coloro che oggi consideriamo unanimemente i maggiori artisti della storia. Michelangelo e Jackson Pollock, due artisti dalle caratteristiche stilistiche diametralmente opposte, condividono  alcuni tratti fondamentali del “genio”: forte personalità e grande capacità di trasferire nell’opera d’arte la propria visione del mondo, nonché una certa dose di spirito critico rispetto agli eventi epocali che segnano il loro percorso storico e artistico, dall’età del Concilio di Trento al secondo dopoguerra.

Partendo da questi presupposti, non è difficile comprendere perché alcuni artisti siano più conosciuti e più mitizzati rispetto ad altri a loro equivalenti per originalità e capacità tecnica. Perché Picasso è da tutti ritenuto il più geniale pittore contemporaneo e Kandinskij, altrettanto importante per la storia dell’arte, è molto meno conosciuto dalle masse? Evidentemente Picasso ha dato qualcosa di più: nonostante l’originalità e il forte tratto personale delle opere dell’artista russo, il suo collega spagnolo ha saputo raccontare il suo pensiero, il suo modo di vedere il mondo, le sue stesse debolezze attraverso le opere, portandole a un livello comunicativo che in Guernica raggiunge un’immediatezza e un impatto fortissimi. Il genio deve dunque comunicare la sua soggettività, deve saperla raccontare a tutti mediante le sue opere per essere capito e apprezzato, e Picasso, così come molti altri “geni”, ha sempre qualcosa di personale da raccontare nei suoi dipinti.

Forse l’esempio più emblematico di ciò è il successo globale e dirompente delle opere di Caravaggio, artista geniale per definizione, irruento tanto nella vita quanto nelle scelte artistiche. Egli rappresenta il genio per eccellenza, l’artista che da solo ha sfidato la società e pure se stesso, che ha saputo raccontare la sua storia in modo personalissimo, rappresentando la realtà attraverso le proprie esperienze e le proprie paure. Il suo successo tuttavia non poteva che giungere nei tempi più recenti: quasi sconosciuto per tre secoli, venne “riscoperto” solo a inizio Novecento, quando lo spettatore, sin dal secolo precedente affascinato da personalità titaniche, menti sublimi e storie romanzesche, ha deciso di “resuscitarlo”, dando la dignità di eroe all’antieroe e dimenticando inesorabilmente una delle più grandi muse della pittura per i secoli precedenti, il “divin Guido”, Guido Reni, artista contemporaneo del Caravaggio, accademico, “freddo” diremmo oggi, il quale, senza storie affascinanti da raccontare, non poteva che cadere sotto il trionfo del genio romantico, lume della sensibilità odierna.

Luca Sperandio

[Immagine tratta da Google Immagini]