La bellezza oggi, tra social e profondità dell’immagine

Nella frenetica epoca delle tecnoscienze, del digitale e dell’avvento dei social media, com’è possibile respirare l’integralità dell’esperienza della bellezza?

Il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, col suo lucido sguardo sul presente, nel suo libro La salvezza del bello propone una tesi alquanto angosciante: l’essere umano che nasce e cresce nell’era digitale fatica sempre più a dialogare con la profondità dell’esperienza della bellezza artistica. Condensando in poche pagine la lunga storia del bello, citando grandi capisaldi della filosofia come Platone, Nietzsche, Walter Benjamin, Gadamer e Adorno, Han ci invita a riflettere sulla deriva estrema della nostra esperienza estetica nell’epoca dei social media, di quelle immagini che lui definisce levigate. La prima riga del testo preso in questione recita proprio: «La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo» (B.C. Han, La salvezza del bello, 2019).  Il nostro tempo è prigioniero di immagini piatte, levigate, setose: aggettivi perfettamente calzanti per la superficie degli smartphone che tutti noi abbiamo in tasca e che sembrano essere divenuti parte integrante del nostro organismo. La levigatezza di tali immagini rappresenta la superficialità, la fatuità, la corrività di immagini che quotidianamente sottoponiamo ai nostri occhi, a partire dalle decine di stories di Instagram o i diversi TikTok che si susseguono senza fine secondo un algoritmo e che guardiamo attraverso un rapido movimento dell’indice.

Ma è questo l’unico modo d’incontrare l’immagine? Cosa accadrebbe se ciascuno di noi interrompesse tale vacuo ed irriflessivo flusso di figure per provare ad addentrarsi in un’esperienza del bello abissalmente profonda? L’incessante proliferazione di immagini ci spinge ad impigliarci sempre più nella rete del consumismo che genera una produttività spinta all’estremo, dannosa sia per i suoi effetti ansiogeni sulla vita degli individui sia per il sovrasfruttamento del pianeta che abitiamo. E questo sistema bulimicamente consumistico mostra la vita nel suo strato più superficiale: un andirivieni di frammenti lisci, levigati, come le sculture dell’americano Jeff Koons.

A questa visione che ristagna nella piattezza, è possibile contrapporre un nuovo metodo per affrontare l’immagine, senza relegarle il compito di puro intrattenimento: soffermarsi sull’esperienza del bello che non accarezza soltanto, bensì ferisce, trafigge. È la bellezza abissalmente profonda della teatro greco, che fa esclamare che «lì c’è qualcosa che mi scuote, mi sconcerta, mi mette in questione» (ibidem). Secondo il grande filosofo tedesco Gadamer, fare esperienza dell’arte (e quindi anche dell’immagine) significa riconoscere che essa ha un potere trasformativo sull’esistenza umana, essendo una scossa estetica ben diversa dalla riduttiva immagine digitale che s’incontra quotidianamente e con più facilità.

La potenza dell’immagine impigliata nella rete digitale viene spogliata delle proprie increspature, delle proprie ferite e viene così ridotta a un’eccitazione momentanea destinata a non riemergere dalla massa di ricordi che nel corso dell’esistenza si sedimentano e vengono sommersi da altri eventi più importanti. E tale operazione – come mostra Han in un altro suo testo, La società senza dolore – non è altro che il riflesso di un mondo terrorizzato dalla sofferenza, la quale viene sempre più mascherata e celata in una società, che potremmo definire digitale, che delega al dito indice di coloro che ne fanno parte il compito di muoversi in un’infinita costellazione di volti, luoghi ed immagini che, salvo alcune eccezioni, difficilmente restano impresse tanto quanto la vista coi propri occhi di un mare burrascoso, di un roseo tramonto o di una grande opera artistica. Per questo è importante promuovere e fare esperienze di reale ed autentica bellezza, togliendo la polvere da uno sguardo (ahimè) talvolta assuefatto dalla natura, dai paesaggi e dalla grande arte di cui il nostro mondo pullula. Sta a ciascuno di noi scegliere quotidianamente se accontentarci dell’acqua limpida e cristallina della superficie o sforzarci di scandagliare i fondali di quell’acqua profonda, intensa la cui bellezza non accarezza bensì colpisce, trasformandoci.

 

Elena Alberti

 

[immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia 2022

8(+1) elogi della bruttezza

Da bambina, recitavo sempre in bagno.
Forse per questo, poi, sono diventata un cesso di donna.
(Anna Mazzamauro)

 

  1. Bello e brutto non sono parole, ma la sostanza di cui è fatta (una buona) parte della nostra intelligentia mundi; non verba dunque, ma concepta, che modificano l’appercezione della mondità.
    Il giudizio estetico non è quindi un affermare, ma è un modificareper-noi il circum-stante con cui via via ci rapportiamo.
    Cosa sia en-soi la bellezza, è indicibile: per ovviare a questa non-comprensione, l’uomo ha calato il bello assoluto nella sua vita quotidiana, e ne ha fatto un costrutto sociale, ovverosia un factum che si modifica a seconda del piano ermeneutico in cui si cala (e delle mode cui è sottoposto e con cui s’allea, aggiungerei).

 

  1. La bellezza, così come viene intesa nel XXI secolo è, esistenzialmente parlando, meraomologazione alla folla: occorre esser-belli perché tutti lo sono; ma per esserlo occorre ugualizzarsi alla massa bella; ma per farlo occorre seguire regole stringenti e giungere a essere una-certa-cosa. E proprio in questa parola (cosa) sta la fregatura: l’uomo per esser bello, si reifica, nascondendosi dietro una ceretta, una dieta, una spazzola.
    In questo senso, ciò che noi chiamiamo brutto, è atipico o, con un sinonimo, straordinario, originale, perché è ciò che esula dalla cosalità.
  1. La sovrapposizione tra bruttezza e la moralità è in-malafede (Kierkegaard e Gadamer, credo, l’abbiano dimostrato abbondantemente, a dispetto della καλοκαγαθία: non esiste risvolto etico negli ästhetische Erlebnisse).
    Per esempio, il brutto è diverso dall’osceno.
    L’oscenità potremmo definirla un’ostentazione sguaiata, di sé o di una parte di sé. Ma se questa definizione è corretta, poco s’adatta al brutto. L’ostentazione pertiene generalmente di più a chi può permettersi di mostrare (o a chi ha la sicumera di poterlo fare). Il bello è più a suo agio nell’esibir-si, quindi rischia maggiormente l’oscenità rispetto al brutto. La naturale pudicizia di chi sa di non aver convenienza ad apparire (pena il giudizio negativo), è garanzia di buon gusto.
  1. Il brutto diverge dal volgare.
    Il volgare, parimenti all’osceno, pertiene al presentarsi quotidiano (in fondo, è questo il significato originario del termine vulgaris: ordinario). Ma l’apparire-quotidianamente pertiene molto di più al bello che, apparentandosi con la moda, è necessitato a replicarsi, pena l’oblio. Ed è questo il vero significato della volgarità, la riproposizione fine a sé stessa, il ripetersi cadenzato e stereotipato. Da questo punto di vista il brutto è raro, non aspira a reiterarsi, e quindi non è volgare.
  1. La frase: “Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace” è una falsità che ci siamo inventati noi brutti per poter dormire la notte senza abusare di Xanax.
    Ogni società ha propri costrutti-estetici (canoni): difficilmente un micronesiano dirà che una modella di Vogue è bella, né una donna papuana potrebbe mai trovare avvenente un maschio da sfilata parigina. Il che non toglie che, in ogni società, il concetto di bello puranco esiste: all’interno di una data Weltanschauung, l’immagine del bello è inestirpabile ed è equipollente al generalmente-riconosciuto-bello.
    Dunque la frase giusta è: “Non ovunque il bello è uguale” − e l’accetto.
    Ma non mi si venga a dire che, dentro una società definita la percezione del bello varia da persona a persona: il bello e il brutto sono concetti-oggettivi, benché gradati, garantiti dal modello sociale in cui siamo inseriti.
    Quindi, a meno che tu non prenda un aereo per Nuku’alofa, nella speranza di finire inserito in una civitas mentalis dove la tua bruttezza possa essere apprezzata e resti in Occidente, se fai cagare continuerai a farlo.
  1. La vita, già non fa sconti a nessuno, figurarsi ai brutti che, oltre alla loro normale dose di dolore che spetta loro in quanto umani, si pigliano pure fobia sociale, disgusto e ribrezzo che manco un monatto.
    Il carattere del brutto è stato forgiato da offese e difficoltà. Il bello, avendola avuta vinta più facilmente – essendosi quantomeno risparmiato le vessazioni e il ribrezzo del prossimo –, è più molle.
  1. La bruttezza è autoironica, e l’autoironia è l’unico vaccino possibile contro la malattia della vita.
  1. Il bello è tale sub speciem contingentiæ – il brutto, æternitatis.
    Se un brutto dovesse diventare bello (grazie all’acqua di Lourdes o al lavoro d’un maniscalco, poco importa) manterrà la mentalità precedente: non s’atteggerà, non avrà sicumera, e continuerà a guardare il mondo con gli occhi disincantati di chi nulla pretende.
    Un bello che, invece, dovesse sfiorire, si abbandonerà all’autocommiserazione, atteggiamento estraneo ai brutti, protetti come sono dalla loro innata capacità di ridere di sé.
  1. Ogni brutto è vittima della stessa canonizzazione estetica che l’affligge; conseguentemente, si fa un po’ schifo da solo. Dunque, quando ha la buona sorte di stare in relazione (e ciò potrebbe non accader sovente), avendo resistenze ad amare sé stesso, riversa tutto il suo sentimento sull’altro.
    Corteggerà eternamente la sua donna, che gli apparirà per sempre bella come una Madonna di Raffaello e buona come una − non a caso − Bella con la Bestia (anche quando lei dovesse mostrare la stessa amabile delicatezza di Uma Thurman alla Casa delle Foglie Blu in Kill Bill volume 1).
    Sarà infine un amante migliore. Per le ragioni di cui sopra, il brutto sacrificherà il suo piacere a quello della sua amata, accontentandola anche in … diciamo … pratiche che provocano godimento unilaterale.
    Non posso aggiungere altro o mi censurano, ma immagino che le signore abbiano inteso.

 

Da assumere con autoironia. Leggere attentamente il foglio illustrativo. In caso di ingestione accidentale, consultare un chirurgo estetico.

 

David Casagrande

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

 

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Considerazioni sulla dimensione ‘salute’: il contributo di Gadamer, tra verità e armonia.

«L’armonia nascosta è più forte di quella manifesta[1]». Citando questo aforisma di Eraclito, Gadamer si avvia all’analisi della dimensione della salute: di ciò che «consiste proprio nel prodigio di un’armonia salda, ma nascosta[2]».

La salute richiede armonia, tanto in riferimento all’ambito sociale, quanto all’ambiente naturale: solo ciò può permettere di inserirsi pienamente nel ciclo naturale della vita. Ciò che l’autore pare sostenere a chiare lettere è che non è la salute bensì la malattia a manifestarsi nei termini di ciò che si oggettiva da sé, ciò che invade un determinato organismo. E in questo contesto il sintomo sta ad indicare, nello specifico, quello che di una determinata malattia si manifesta: cosicché «[…] il vero mistero si trova nel carattere nascosto della salute. La salute non si dà a vedere[3]». Infatti «esiste anche una misura naturale insita nelle cose stesse. In verità non è possibile misurare la salute, proprio perché essa rappresenta uno stato di intrinseca adeguatezza e di accordo con se stessi, che non può essere superato da nessun altro tipo di controllo[4]».

La salute si propone come quell’ordine, quell’adeguato equilibrio dello svolgersi della vita, come assenza di gravità (in quanto i pesi dell’esistenza si elidono l’un l’altro): nella sua segretezza, essa si percepisce come senso di ben-essere e soprattutto nel momento in cui, essendone consci, si è aperti alla intraprendenza, alla conoscenza, nella dimenticanza di se stessi e degli sforzi, nella scogliera della vita.

Gadamer definisce la salute come un esserci, non un sentirsi, come un essere parte del mondo, nella comunicazione con le altre forme di vita, occupati con attività e gioia nei compiti particolari dell’esistenza; si manifesta come ritmo che la vita assume, in quel processo perpetuo in cui l’equilibrio permane adeguato: «L’armonia della salute dimostra la sua vera forza proprio in quanto essa non stordisce come il dolore penetrante o il delirio paralizzante dell’anestesia che in verità indicano o procurano disturbo[5]».

Alla luce di queste brevi riprese, si ci potrebbe chiedere come “tradurre” questi flussi di pensiero nella vita pratica. Prendendo ad esempio l’ambito del rapporto terapeuta-ammalato, si potrebbe allora ritenere che il compito del medico si identifichi con il ristabilire la salute del malato (in primo luogo), ma inducendo in lui il “riproporsi” di quell’unità che quest’ultimo aveva con se stesso, dandogli così modo di riappropriarsi delle sue capacità, facendogli riscoprire la possibilità di rientrare nell’esistenza. La salute, infatti, si caratterizza come quella totalità (hólon) che penetra nel mondo della natura «in virtù della propria vitalità, in sé compiuta che continuamente si autoriproduce[6]».

Il medico non potrà mai avere la completa illusione che caratterizza la capacità pratica e la produzione. Egli sa che nel migliore dei casi a trionfare non è lui stesso o la sua abilità, ma la natura sostenuta dal suo aiuto. […] La scienza medica è l’unica in fondo a non produrre nulla, ma a dover fare i conti espressamente con la prodigiosa capacità della vita di ristabilirsi ed equilibrarsi da sola. Il compito peculiare del medico consiste proprio nell’aiutare a conseguire il conseguimento della salute. […] Lo scopo principale è di riuscire infine a far trionfare nuovamente la verità anche sopra la falsità della malattia[7]

Riccardo Liguori

NOTE

[1] G. Colli, La sapienza greca, Eraclito, Adelphi, Milano, 1980, fr. 14 [a20], pag. 35.

[2]H. G. Gadamer, Über die Verborgenheit der Gesundheit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1993; tr. it. a cura di Marialuisa Donati e Maria Elena Ponzo, Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina, Milano 1994, pag. 140.

[3] Ivi, pag. 116.

[4] Ivi, pag. 117.

[5] Ivi, pag.225.

[6] Ivi, pag. 98.

[7] Ivi, pag.99.

La crisi della cultura: l’esempio di Pompei

La cultura non è morta, la cultura è in crisi nel nostro Paese.

Paradossale visti gli innumerevoli siti archeologici sparsi per l’Italia, vista la storia che ci contraddistingue, visti i popoli che hanno abitato il Bel Paese.

Pompei ne è l’esempio più eclatante: distrutta una prima volta dalla natura con l’eruzione del vulcano nel 79 dC e lasciata morire oggi, dalle Istituzioni, da uno Stato che non è mai riuscito a prendersene cura a dovere -o non ha mai voluto-.

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