Inconscio e arte in Hieronymus Bosch

Hieronymus Bosch, pittore olandese attivo tra fine 1400 e inizio 1500, è noto per la complessità delle sue opere. Il suo linguaggio artistico è sicuramente singolare, caratterizzato da figure oniriche e luoghi curiosi, popolati da creature fantastiche e mostruose. Questo artista eclettico è protagonista di una mostra a Palazzo Reale (Milano) in quanto emblema di un Rinascimento alternativo, contrapposto al Rinascimento che fa perno sul mito della classicità. L’altro Rinascimento di Bosch è composto da mondi onirici, composizioni affollate, in cui loci amoeni, ovvero luoghi incantevoli, sono dipinti vicino a città incendiate e sono popolati da mostriciattoli, uomini con volti spaventosi e ibridi animali. Nonostante ciò, da lontano le sue creazioni possono sembrare ordinari dipinti rinascimentali.

Bosch è un artista davvero enigmatico: la sua vita tranquilla di uomo religioso si contrappone a un’arte in cui vengono alla luce demoni con sembianze di uomini, animali e/o oggetti. Queste figure informi passano dalla mente dell’artista alla tavola, immersi in ambienti fantasiosi e inquietanti, e sono figure che ben si inseriscono nella cultura del tempo di Bosch: rappresentano speranze e timori che si respiravano in un Medioevo agli sgoccioli. Il pittore mette in scena un mondo la cui unica certezza era la miseria di ogni singolo individuo, dovuta a una morale sempre conflittuale. Questo conflitto interno non è, però, legato solamente agli uomini di quel periodo, ma è presente in ciascuno di noi come continua guerra tra bene e male. Quello di Bosch è un monito: il male non è qualcosa di relegato all’aldilà, bensì è presente nella nostra realtà. La follia dell’umanità ci ricorda e il peccato e il male sono abissi in cui chiunque può cadere. Bosch, dunque, rappresenta le conseguenze di una vita totalmente lasciva e dedita al male, come vediamo nel Trittico del Giardino delle delizie (1480-1490).

Al di là delle motivazioni razionali che legano Bosch alla sua arte, non possiamo non pensare che egli sia un perfetto esempio di alcune riflessioni della psicanalisi sull’arte. Freud, per esempio, dedica una serie di saggi all’arte come sublimazione e come terapia. Il processo di sublimazione consiste nel rendere i nostri impulsi, anche quelli più infimi, attraverso un veicolo socialmente accettato. Gli aspetti dei processi creativi non sono mai sotto controllo cosciente dell’artista proprio perché l’arte permette di rappresentare le proprie pulsioni, anche quelle più profonde, come afferma Dalton Peggy, psicoterapeuta contemporanea. L’artista prende sempre ispirazione dal suo inconscio creando un mondo di finzione, quasi fosse un gioco infantile. E quale esempio migliore di mondi di finzione creati dall’arte se non le opere boschiane?

L’arte è, dunque, una sorta di terapia, sia per l’artista che per noi spettatori, poiché possiamo interfacciarci con il nostro io, toccando corde nascoste ed emozioni spesso messe a tacere. Freud usa il termine perturbante per descrivere ciò che si prova fruendo un’opera d’arte. Si percepisce, cioè, qualcosa di spaventoso e familiare, per usare un ossimoro caro al fondatore della psicoanalisi: si vuole tenere lontana l’opera ma, allo stesso tempo, si è attratti da essa perché rappresenta il nostro io, più nascosto e più vero. Questa contraddizione spiega chiaramente le sensazioni provate di fronte a un’opera boschiana. Bosch, infatti, è – come ciascun artista o ciascuna persona che crei arte, anche solo per piacere – «uomo che si distacca dalla realtà poiché non riesce ad adattarsi alla rinuncia al soddisfacimento pulsionale che la realtà inizialmente esige, e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita della fantasia» (S. Freud, Precisazione sui due principi dell’accadere psichico, 1911). L’arte di Bosch ci ha lasciato, dunque, diverse eredità: il legame tra arte e sogno o incubo ha colpito i surrealisti, che si sono ispirati particolarmente alle opere boschiane, tanto che il pittore olandese viene considerato precursore del movimento. Inoltre, grazie al suo rappresentare vizi e conflitti interiori, Bosch ci permette di riflettere sulla funzione dell’arte, soprattutto in stretto legame con le nostre pulsioni.

 

Andreea Elena Gabara

 

[Photo credit Johannes Plenio via Unsplash]

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Arte e Psiche: come rappresentare la realtà?

La relazione tra un artista e la sua psiche è imprescindibile per ben comprendere le sue opere d’arte. Possiamo, e dobbiamo, pensare ad artisti, come Vincent Van Gogh, Joan Mirò e Paul Cézanne, che fecero della loro psiche, intesa come l’insieme di funzioni emotive, relazionali e cerebrali, l’anima della loro arte. Possiamo anche pensare alla psicoanalisi, tramite la quale il legame tra arte e psiche viene studiato in modo approfondito sin da Freud e Jung.

Cosa intendiamo precisamente con relazione tra artista e psiche? Patrick McGrath in Follia (1996) parla di questo legame e ce ne fornisce una lettura. Ci racconta di un artista che riflette i turbamenti e le alterazioni del suo carattere nelle sue sculture, in un’ottica diversa da quella che ci immagineremmo. Questo artista è Edgar, protagonista di una relazione molto complessa con Stella, moglie del vice direttore del manicomio, in cui lo stesso Edgar Stark è detenuto per uxoricidio. I turbamenti di Edgar e la sua malattia si riflettono nella relazione d’amore e nella sua arte, data la sua abitudine a scolpire i visi delle donne amate.

«Dopotutto era un artista, e in ogni artista si annida un bambino sperduto e indifeso» (P. McGrath, Follia, 1996).

Così viene descritto Edgar. In effetti, notiamo che il suo isolamento sociale è evidente, proprio come quello di Stella, e può essere ritenuto una delle cause della loro dipendenza affettiva. Un isolamento, il loro, in cui lei si lasciava ritrarre e lui dava sfogo alla sua psiche sotto forma di materia. Lui rappresentava Stella, ne scolpiva la testa ma lasciava trasparire dalle sue opere un animo mosso da sentimenti forti. «Succede abbastanza spesso agli artisti e credo che dipenda dalla natura del loro lavoro. Vivere per lunghi periodi in solitudine e poi esibirsi di fronte a un pubblico, col rischio di esserne respinti, porta a instaurare col partner una relazione di un’intensità abnorme» (ivi). L’arte di Edgar, dunque, scaturisce da un isolamento dal resto del mondo, da una relazione complessa e dai sentimenti che tutto ciò può portare. La sua arte è una valvola di sfogo e lui non può assolutamente rinunciarvi, perché è il suo modo di cercare la realtà. Cosa intendiamo con l’espressione ricercare la realtà? Edgar e Stella discutono proprio di quella che è, secondo lui, la funzione dell’arte.

Edgar, infatti, ritrae la testa di Stella ma ritiene di non riuscire a plasmare quello che si agita nella sua mente, ciò che lo tormenta. Stella gli chiede come mai la sua scultura non abbia i contorni e lo chiede perché l’assenza di contorni le sembra indicare una non conoscenza, come se lui non sapesse chi lei è. L’artista, però, le risponde che proprio ciò che non vuole è vedere Stella, vederla come si vede lei allo specchio o come la vedono gli altri. Vuole semplicemente cercare un’immagine realistica, la realtà. Stella non riesce a capire cosa intenda.
Lui, però, sa bene come definire la realtà: la realtà è ciò che meramente vede, liberata da ciò che sente. Questa è la realtà, e la verità. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel dialogo, visto che, dopo aver detto queste cose, Edgar scoppia a ridere, ma possiamo immaginare che l’artista voglia liberarsi da ciò che sente e dai tumultuosi istinti che ha, dalla sua paranoia e dalla sua malattia. Possiamo immaginare che la realtà per lui sia senza contorni, senza linee definite esattamente come lo è la sua psiche. La scultura indefinita, dunque, rappresenterebbe sia la realtà esterna, spoglia di sensazioni, sia quella interna, frammentata e indecifrabile.

Ecco che il cerchio si chiude e noi comprendiamo come l’arte sia riflesso della psiche: in questo caso l’artista non trasmette i contenuti della sua anima, i suoi turbamenti, ma piuttosto il modo in cui percepisce la sua psiche, caotica e sfocata, agitata e anche ambigua. La realtà, dunque, oggetto della sua arte, altro non è che la cornice in cui l’identità dell’oggetto della sua arte e l’entità delle sue emozioni sono sfocate e indecifrabili.

 

Andreea Elena Gabara

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Dal dolore al colore, da Frida Kahlo all’arteterapia

Tutti almeno una volta nella vita si saranno trovati in situazioni complicate da gestire a livello emotivo, arrivando a credere che non ce l’avrebbero fatta a superare quel determinato periodo nero. Quando si vive una situazione dolorosa è piuttosto comune pensare che non esista una via d’uscita; i traumi rappresentano delle vere e proprie ferite dell’anima che possono distruggerci dal punto di vista psicologico, se non affrontati nel modo corretto.  Per non rimanere imbrigliati nella morsa del dolore esistono varie strade, una tra queste è rappresentata dall’arte in ogni sua forma, attraverso cui è possibile entrare in profonda connessione con se stessi, veicolando il dolore e portandolo alla luce. 

L’arte rappresenta una via d’uscita privilegiata dalle difficoltà emotive, poiché facilita l’espressione di ciò che spesso a parole è molto più complicato da dire e comunica simbolicamente sentimenti profondi, emozioni e sensazioni. 

C’è stata un’artista in particolare, nel corso della storia, ad aver letteralmente rivoluzionato il modo di fare arte, che diventa il mezzo attraverso il quale si palesano anche i propri pensieri inconsci, regalando al fruitore opere, non solo di grande impatto iconico, ma anche estremamente crude e drammatiche.  Nella maggior parte dei casi, se non in tutti, l’opera d’arte è sempre autobiografica, racconta cioè totalmente o in parte qualcosa di chi la realizza, ma nel caso di Frida Kahlo tale caratteristica risulta accentuata: i soggetti dei suoi dipinti sono profondamente intrecciati alla sua vita, alle sue tristi vicende amorose, al Messico suo paese d’origine, ma soprattutto alle sue difficilissime condizioni di salute che, come tutti sappiamo, a causa di un gravissimo incidente in autobus e trentadue operazioni chirurgiche, la relegarono in un letto a riposo forzato con il busto totalmente ingessato.

Le opere della Kahlo sono interessanti, non solo dal punto di vista pittorico, ma soprattutto da quello psicologico: è notevole come questa artista sia riuscita a tramutare in bellezza la rappresentazione del suo corpo martoriato e traumatizzato dagli indelebili segni dell’incidente (si pensi ad esempio a opere come La colonna spezzata del 1944). Ancora più incredibile è come sia riuscita a rendere arte il dolore degli aborti spontanei che subì nel corso della sua vita, i tradimenti da parte di Diego Rivera, l’uomo che amò per tutta la sua esistenza; cicatrici non solo fisiche, ma anche psicologiche, come raccontano i famosi dipinti Henry Ford Hospital (1932) che la ritrae su un letto d’ospedale completamente ricoperta dal sangue dell’aborto e Qualche piccolo colpo di pugnale (1935) in cui è ritratta trafitta da numerosi colpi di arma da taglio, emblemi delle sue ferite emotive, inferti da suo marito Diego che l’aveva tradita con sua sorella. Ma ciò che è ancora più interessante notare è come lo spettatore, posto di fronte alle sue magnifiche produzioni, non scappi via per la crudezza delle immagini che gli si pongono allo sguardo, ma al contrario ne resti estasiato e attratto

Ho potuto sperimentare questa sensazione sulla mia pelle visitando, anni fa, una mostra di questa grande artista e ricordo di aver faticato a staccare gli occhi dai suoi dipinti, che indubbiamente catturano l’attenzione con i loro colori brillanti e vivi, che contrastano di proposito con le tematiche trattate e di aver provato una sensazione di vicinanza emotiva con lei.  Già Freud aveva compreso come la separazione tra conscio e inconscio fosse in qualche modo solo apparente, motivo per il quale l’arte viene considerata, anche dal padre della psicanalisi, come un ponte tra il mondo cosciente e il mondo inconscio, come uno dei principali mezzi per affrontare le vicissitudini della vita; un po’ come il sogno ma che, a differenza di questo, si serve della creatività e viene condiviso con gli spettatori che fruiscono dell’opera. 

Anche Melanie Klein ha dato la sua interpretazione della creatività artistica, definendola come una tendenza a riparare e ricreare oggetti d’amore. La Klein individua la radice della creatività proprio nel dolore, come accade nei dipinti di Frida Kahlo, in quanto l’espressione artistica porta a plasmare, modificare, riparare l’angoscia del dolore e non a fuggire da esso. 

Grazie agli studi inaugurati da Freud, proseguiti dalla Klein e da altri illustri psicanalisti sull’arte, nonché agli esempi di trasformazione del dolore in bellezza che hanno visto protagonista indiscussa Frida Kahlo, ma di cui non mancano certamente altri esempi nella storia dell’arte, si sono poste le basi per la nascita e lo sviluppo della cosiddetta arteterapia, che ha raggiunto un riconoscimento a livello internazionale, diventando un preciso strumento non solo terapeutico ma anche didattico nell’ottica dell’educazione alle emozioni, a partire dall’infanzia: un mezzo importante per riuscire a portare alla luce i nostri sentimenti profondi, per imparare ad auto-riparare le nostre emozioni negative e a liberarci dal punto di vista emotivo. 

 

Federica Parisi

[Photo credit Quino AI via Unsplash]

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Fanatismo ideologico e paradosso dell’ignoranza

Oggi più che mai, in un mondo dominato dalla supremazia dei social network e delle notizie a portata di click, siamo di fronte al dilagare del cosiddetto fenomeno del fanatismo ideologico, influenzati sempre più dalle idee che vanno per la maggiore e che corrono incessanti sulle Instagram stories o sulle bacheche Facebook dei nostri smartphone. Si pensi ad esempio al periodo pandemico che tutto il mondo sta vivendo e alle teorie sui vaccini tra favorevoli e contrari. In questo articolo non ci si addentrerà nel merito della validità o meno delle due posizioni, ma si cercherà di comprendere perché un’idea, qualsiasi essa sia, riesca ad imporsi con forza tra le masse.

In tempi non sospetti, Sigmund Freud aveva affermato che non fosse lecito ricavare un’affermazione della socialità a scapito dell’individualità, ma che la socializzazione e la massificazione fossero in un rapporto di dipendenza dall’individualità, ossia che la distinzione tra massa e individuo diventasse superflua. Per Freud la negatività della massa dipende, quindi, dalla negatività dell’individuo stesso, in quanto quest’ultimo è essenzialmente dominato dall’inconscio; tuttavia egli è di per sé predisposto alla socializzazione e l’esperienza della massa si limita a rendere esplicito ciò che in lui era solo implicito. L’individuo si trova posto nella condizione di sbarazzarsi delle rimozioni dei propri  moti pulsionali e nella massa egli esperisce ciò di cui per definizione non si dà esperienza, appunto l’inconscio, che si reifica nella massa, si oggettifica rendendosi tangibile. Inoltre, secondo la prospettiva freudiana, esiste un fenomeno per il quale la massa si compatta attorno alla figura di un coercitore e attinge da un lato alla sua essenza profonda e dall’altro patisce un processo di regressione:

«Le masse non hanno […] mai conosciuto la sete della verità. Hanno bisogno di illusioni e a queste non possono rinunciare […]. La massa è un gregge docile che non può vivere senza un padrone. È talmente assetata di obbedienza da sottoporsi istintivamente a chiunque se ne proclami il padrone» (S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 2011).

Ciò che lascia intendere Freud è come il fanatismo ideologico di massa vada, in qualche modo, a scongiurare una responsabilità etica individuale nell’assumersi l’onere dei propri pensieri, favorendo l’idea di una più comoda responsabilità collettiva.

L’essere umano è per natura portato a costruirsi una visione dogmatica della realtà, in particolare quando non possiede gli strumenti necessari da porre a fondamento di una determinata idea. Nel mondo contemporaneo la massa si uniforma spesso e volentieri attorno ad una sola “verità” idolatrata con adorazione quasi fideistica, verità che proviene nella maggior parte dei casi dal mondo virtuale, che rappresenta quel coercitore di cui si parlava prima.

Detto ciò, è possibile affermare che l’andar dietro a un pensiero comune faccia sì che vengano ignorate tutte le altre possibili verità. Accade questo, in particolare, quando si inizia a credere ciecamente a un’idea, facendola propria, senza beneficiare del dono prezioso del dubbio (il fanatismo appunto). Ciò apre ad una situazione paradossale nella quale l’ignoranza di qualcosa si pone a fondamento di una verità, o pseudo tale, attraverso la quale si ha la pretesa di essere padroni dell’unica verità assoluta. Tuttavia, chi ama concedersi sempre il beneficio del dubbio e ricerca costantemente la verità delle cose, sa benissimo che l’unica forma accettabile di ignoranza sia quella del famoso “so di non sapere” socratico.

È noto come coloro che sanno meno credano di essere quelli con la verità in tasca, avallando le loro idee sulla base della condivisione di queste con la massa. Si pensi a quanta gente cada nella trappola delle cosiddette fake news senza andare a verificarne le fonti, forte del fatto che i più condividano quella determinata notizia o idea.

Quando ci imbattiamo in tali persone, dovremmo ricordare il famoso mito della caverna nella Repubblica  di Platone, in cui gli uomini legati per mani, piedi e collo che osservano le ombre proiettate sul muro, credendo fermamente che esse siano l’assoluta verità, rappresentano proprio tale tendenza umana a fermarsi all’apparenza delle cose. Non a caso il potenziale filosofo Re – ossia colui che, nell’ottica platonica, se riuscisse a liberarsi dalle catene e ad uscire fuori dalla caverna sarebbe accecato dalla luce della vera realtà – verrebbe deriso e ucciso qualora, tornato dai suoi compagni, raccontasse loro che quella che hanno creduto essere la verità è solo l’ombra di essa. Seguendo l’insegnamento di Platone, allora, sarebbe auspicabile che i singoli riuscissero a uscire dalla metaforica caverna, cercando quantomeno di tendere alla costante ricerca della verità, emancipandosi dalle non sempre realistiche idee della massa.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Bruna van der Kraan via Unsplash]

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Lo straniamento tra Freud e Magritte

Teorizzato puntualmente da Freud ma già anticipato qualche decennio prima da altri studiosi (per esempio Meury e de Saint-Denis) l’inconscio e la sua scoperta hanno aperto un’intera e quasi inesplorata nuova dimensione a cui gli artisti hanno cominciato ad attingere, traducendo nel linguaggio artistico anche concetti ad esso connessi come quello di straniamento.

Particolarmente noto è il legame tra il Surrealismo e le teorie psicanalitiche freudiane, ma è interessante sottolineare che qualche movimento lo si può riscontrare anche nei decenni (forse persino nei secoli) precedenti. Ad una dimensione onirica inquietante ha fatto per esempio riferimento Francisco Goya (1746-1828), che può essere emblematicamente racchiusa nella sua famosissima acquaforte Il sonno della ragione genera mostri del 1799, a proposito della quale pare che Goya stesso abbia scritto che «la fantasia abbandonata dalla ragione genera mostri impossibili». Quella fantasia che dà sfogo agli orrori interiori è facilmente riscontrabile anche nelle “opere al nero” del pittore Odilon Redon (1840-1916), che traccia con carboncino o traduce nella stampa le impossibili e spesso mostruose creature che popolano il suo inconscio, fortemente suggestionato dalla sua infanzia solitaria e infelice.

Le opere di Redon tuttavia sono particolarmente interessanti perché anticipano, di quasi quarant’anni, il concetto freudiano di straniamento, Das Unheimliche, spesso tradotto come perturbante, da un saggio pubblicato nel 1919. Con questo termine Freud faceva riferimento a una sensazione di angoscia e paura generata da una situazione avvertita al contempo come familiare ed estranea. Così nelle opere di Redon cominciamo a trovare immagini che mescolano oggetti e situazioni reali calate in contesti e scenari impossibili, come in L’occhio come un pallone bizzarro si dirige verso l’infinito (litografia del 1882) scorgiamo un gigantesco occhio-mongolfiera che fluttua su una superficie marina. Per Freud il sogno è contaminato della realtà ma questa viene trasfigurata e da questo nasce il perturbante: la familiarità di ciò che conosciamo si mescola con qualcosa di totalmente altro, spesso fantasioso, mostruoso, impossibile. Proprio come questo occhio mongolfiera.

Il fascino dello straniamento è tale da ricorrere in un altro grande maestro del novecento, Giorgio de Chirico (1888-1978). Nelle sue visioni metafisiche, sospese nello spazio e nel tempo e dunque (forse) collocabili in una dimensione interiore, gli oggetti della vita diurna si combinano in modo assurdo: l’arte dunque non è altro che un gioco cosciente analogo all’involontaria attività onirica. Tante sono le opere che si potrebbero citare come spunto, per cui prendiamo un po’ casualmente come esempio Canto d’amore del 1914. Qui vi troviamo un guanto inchiodato, una testa statuaria, una sfera verde, un profilo cittadino sullo sfondo: elementi del tutto reali collocati in maniera del tutto innaturale, accostati in modo apparentemente casuale che, al primo impatto, non possono che farci aggrottare le sopracciglia.

Giungiamo dunque al Surrealismo citato in apertura, il cui Manifesto (1924) dichiaratamente esplicita il suo rifarsi alle teorie freudiane, anche se – come abbiamo ormai capito – il cammino dei surrealisti si colloca su un solco già segnato, o per lo meno abbozzato, da pittori precedenti. Tra i molteplici riferimenti a concetti freudiani tradotti in arte dai pittori surrealisti (Salvador Dalì e Max Ernst tanto per citarne due) torna inevitabilmente anche lo straniamento, il cui interprete più geniale è però a mio modesto parere il belga René Magritte (1898-1967). Ancora più che in de Chirico è evidente e impattante il perturbante, poiché le tele di Magritte si popolano di oggetti e paesaggi reali combinati in modo del tutto improbabile. L’artista ci costringe in una lotta corpo a corpo con gli automatismi della nostra mente, ci sfida ad immaginare una realtà totalmente altra. Si perde in parte la dimensione angosciosa freudiana (non a caso Magritte prende più volte le distanze dal Surrealismo) e i soggetti diventano quasi un puro gioco, un esercizio di domanda. Che ci fa una tromba in fiamme su una spiaggia? O tre giganteschi sonagli sospesi nel cielo? O un bicchiere in bilico su un ombrello aperto? O degli uomini in bombetta che piovono dal cielo? La nostra ragione è sotto scacco e dobbiamo sondare dei modi alternativi con cui “vincere” l’opera. Anche la tecnica iper realistica, quasi fotografica, adottata dall’artista cerca di strapparci dalla dimensione onirica ma al contempo anche dalla realtà, facendoci precipitare in una sur-realtà, una realtà diversa. Difficile dunque trovare una sorta di “morale” o di messaggio nelle tele di Magritte; certo è che anche il mondo a occhi aperti, oltre a quello onirico, è fatto di momenti e cose stranianti, che possono provocarci angosce, ma più la nostra mente è flessibile e allenata al bizzarro e all’imprevisto, più saremo in grado di sopravvivervi.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit: immagine quadro di Magritte da flickr]

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Viaggiando tra i sogni interiori: Myricae di Pascoli

Il sogno e la dimensione onirica sono, come afferma in un suo saggio Fernando Bandini1, elementi portanti della poesia pascoliana, spesso caratterizzata da atmosfere decadenti e rarefatte, che hanno il sapore “dell’altrove”Leggendo, infatti, i componimenti della raccolta Myricae (1891), capita di trovarsi all’interno di paesaggi misteriosi, perlopiù notturni, dove i sensi colgono elementi indefiniti, lontani, appartenenti ad una dimensione altra. Si tratta di percezioni perlopiù uditive o visive, che contribuiscono a creare un’atmosfera carica di elementi simbolici.

Ciò si può notare in L’assiuolo, dove l’io poetico afferma: «Le stelle lucevano rare/tra mezzo alla nebbia di latte:/sentivo il cullare del mare,/sentivo un fru fru tra le fratte;/sentivo nel cuore un sussulto/,com’eco d’un grido che fu/sonava lontano il singulto:/chiù…» (9-16). Il paesaggio riflette una realtà indistinta, dove il canto dell’assiuolo si confonde tra la vegetazione, così come la sua immagine; non è chiaro quanto ci sia di vero in ciò che il poeta percepisce: parte di ciò che sente potrebbe essere immaginato, o meglio sognato. La scelta di ambientare il componimento tra le tenebre della notte contribuisce infatti ad ampliare la sensazione di mistero che pervade l’intera scena.
Analogamente, nel componimento Sogno, Pascoli immagina di essere ritornato nel suo villaggio, nella sua casa e vede che «nulla era mutato» e «ai morti ero tornato». In qualche modo, dunque, l’aspetto del sogno, secondo il poeta, ci mette in contatto con un mondo sospeso, in parte interiore, dove riscopriamo legami antichi, che dentro di noi sono rimasti intatti.

Il sogno, sotto altri aspetti, diventa una porta di accesso che ci permette di viaggiare, forse addirittura nell’aldilà, dove possiamo ritrovare i nostri cari defunti. Sotto questo punto di vista, esso costituisce una sorta di medium, si carica di un ruolo fondamentale nella vita dell’individuo: quello di collegamento tra due mondi da sempre separati. Pascoli realizza dunque una rivalutazione del sogno, agli albori delle teorie psicanalitiche di Freud, che di lì a poco affronteranno le tematiche dell’inconscio.

Ciò non deve far pensare, tuttavia, che il ruolo cruciale attribuito al sogno elevi quest’ultimo ad una situazione di privilegio nell’immaginario pascoliano; esso, al contrario, è perlopiù un sogno di angoscia, di dolore, che viene rievocato da suoni o da visioni lugubri, come dal «pianto di morte» dell’assiuolo. Sembra quasi che l’io poetico tema questi incontri, come se il viaggio dentro di sé, attraverso l’onirico, desti paura, destabilizzazione.
In Paese Notturno, ad esempio, l’oscurità della notte suscita l’immaginazione del poeta, che non distingue le capanne attorno e si chiede se siano un «tempio dell’antico Anubi». La campagna circostante si veste di ombre che l’io non riesce a comprendere e perciò prova una certa paura, di fronte a qualcosa che è apparentemente sconosciuto. È come se il soggetto si fosse immerso in un mondo altro, interiore, dove esistono lati non noti nemmeno a sé e tutto ciò gli suscita timore. Si percepisce inevitabilmente, in questi componimenti, l’influenza freudiana, nello spazio che il poeta lascia all’espressione dei propri sentimenti, in questo caso costruttori dell’esterno, partendo dall’interno.

In definitiva, ciò che emerge dai componimenti della raccolta Myricae ci riporta ad una visione del sogno quale elemento centrale della nostra quotidianità: porta di accesso verso altri mondi o verso noi stessi, al contempo espressione profonda delle nostre paure e della nostra interiorità. In questo senso Pascoli ci ricorda che è importante ascoltarsi, anche nei momenti in cui sogniamo, perché tutto fa parte di noi, e la realtà non è altro che l’espressione di quello che siamo, anche quando non siamo coscienti.

 

Anna Tieppo

NOTE
1. Cfr. F. Bandini, Sogno e visione onirica nella poesia di Giovanni Pascoli, in V. Branca, C. Ossola, S. Resnik, I linguaggi del sogno, Sansoni Editore, Firenze, 1984.

 

[immagine tratta da pixabay]

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Ad occhi aperti o chiusi, l’importante è sognare

A volte ci dimentichiamo di sognare, e non perché non pensiamo più al futuro, ma perché siamo troppo occupati ad organizzarlo, programmarlo e scandirne le tempistiche. Sembra quasi che il tempo di fantasticare abbia una scadenza specifica nella vita di ognuno di noi: si smette perché “non c’è più tempo” e quindi gli unici sogni che ci permettiamo sono quelli che iniziano quando spegniamo la luce. Tuttavia, sarebbe davvero ingiusto declassare i sogni notturni a strane immagini caotiche dopo secoli di ricerche. Nel II secolo, i Greci manifestavano grandissimo interesse nei confronti dei sogni, ritenuti in grado di predire il futuro, se uniti alla simbologia. Proprio per questo, la figura dell’interprete dei sogni era considerata quasi sacra e godeva di grandissimo rispetto. Tra questi, uno dei più conosciuti fu Artemidoro di Daldi, scrittore e filosofo che dedicò la sua vita a studiare e riportare nella sua opera Onirocritica1 i sogni di centinaia di persone che si rivolgevano a lui per trovare spiegazioni. La curiosità umana di scoprire quale oscuro significato si celi dietro ai nostri sogni non si è mai spenta nel corso della storia e ancora oggi tutti noi, almeno una volta, abbiamo googlato appena svegli quei ricordi offuscati o consultato un libro, magari comprato qualche tempo fa sperando ci tornasse utile, prima o poi.

Parlando di libri e di sognare, non si può non citare L’interpretazione dei sogni2 di Freud. Secondo lo studioso, i sogni sono una sorta di pulsione che ci spinge verso l’appagamento del desiderio, la ricerca di qualcosa che non ci è concesso quando il Super Ego è vigile. Anche durante la fase REM, ossia quando il sonno è più profondo e quando i sogni si manifestano, continua il conflitto tra il principio primario (il piacere, l’inconscio) e il principio secondario (la realtà, la razionalità) che ci impedisce di fare sogni chiari e riconoscibili. Sembra quindi che la notte sia il momento che ci concediamo per lasciare che tutti i nostri istinti, desideri e segreti escano allo scoperto, o almeno in parte. Spesso ci capita di svegliarci pieni di domande: “perché ho sognato questa persona?” o “cosa ci facevo in quel posto?”; altre volte con un po’ di imbarazzo ci chiediamo se forse non abbiamo mangiato troppo pesante la sera prima; altre ancora siamo semplicemente molto confusi e dimentichiamo quelle immagini psichedeliche in un paio di minuti.

La corrente artistica che ha come nucleo «la fede nell’onnipotenza del sogno»3 è il Surrealismo. Nel Manifesto pubblicato nel 1924, lo scrittore Breton, oltre a fare esplicito riferimento a Freud e ai suoi studi, scrive: «perché allora non accordare al sogno ciò che a volte rifiuto alla realtà, ossia questo valore di certezza in se medesima che, nella sua temporalità, non è affatto esposta alla mia negazione? […] Non può anche il sogno essere utilizzato per la soluzione dei problemi della vita?». Il Surrealismo, definendosi «un mezzo di liberazione totale dello spirito e di tutto ciò che lo rassomiglia»5, aveva l’obiettivo di esprimere figurativamente l’inconscio e l’irrazionale automaticamente, senza mediazioni. Potremmo quasi dire che i pittori cercavano di rendere il sognare realtà.

Un altro modo, non sempre facile, per trasformare i sogni in realtà è quello di realizzarli nel corso della nostra esistenza. Quando siamo piccoli dedichiamo tanto, tantissimo tempo a fantasticare su come sarà la nostra vita, il nostro “lavoro”, le nostre amicizie e le nostre relazioni. C’è chi sogna di rimanere sempre nello stesso paese e chi non vede l’ora di scoprire tutto quello che il mondo ha da offrire; chi ha in mente un progetto ben preciso e chi non esclude alcuna possibilità. Eppure, a un certo punto, ci ritroviamo a percorrere un percorso che non ricordiamo di aver scelto o ci sta troppo stretto. Se c’è una cosa positiva che la pandemia ci ha concesso (almeno all’inizio) è la chance di fermarci e domandarci se quello che stiamo facendo corrisponde davvero a ciò che sognavamo in principio o se stiamo solo andando avanti per inerzia con il terrore di perdere preziosissimo tempo. E se siamo così fortunati da poter scacciare i nostri dubbi, allora perché non lasciare la nostra immaginazione libera di sognare ancora, senza restrizioni o limiti autoimposti? In fin dei conti, citando Paulo Coelho, «c’è solo una cosa che rende un sogno impossibile da realizzare: la paura di fallire»6.

 

Beatrice Pezzella

Beatrice Pezzella, classe 2000, studia Scienze della Comunicazione all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, dopo aver frequentato il Liceo Linguistico a Treviso. Amante della lettura, dell’arte, dei viaggi e della cultura in generale, nel tempo libero scrive riflessioni su temi ispirati alla quotidianità e al mondo che la circonda.

 

NOTE:
1. Artemidoro, D. del Corno (a cura di), Il libro dei sogni, Adelphi,  Milano, 1975, 7ª ediz., pp. LVIII-366
2. S. Freud, L’interpretazione dei Sogni, Einaudi, Torino, 2014
3. A. Breton, Manifesto del Surrealismo, in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano, 2014, p. 340
4. Ivi, p. 329
5. M . De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano, 2014, p. 181
6. P. Coelho, L’Alchimista, La nave di Teseo, Milano, 2017

[Photo credit Johannes Plenio su unsplash.com]

Il “Simposio”: definire l’amore con Platone tra spirituale e materiale

Sul tema dell’amore si è dibattuto molto nei secoli e ne sono state date differenti definizioni. Ma diciamocelo, è sempre molto complicato rispondere alla domanda: “cos’è l’amore?”. Forse non esiste una risposta corretta, o semplicemente per ognuno l’amore è qualcosa di diverso.

I greci furono tra i primi a interrogarsi sulla questione e pagine significative ci sono giunte da Platone con il Simposio e il Fedro. Ciò che rende particolare il Simposio, potrebbe essere riconducibile al fatto che ci si possa rispecchiare nelle diversità dei vari commensali che inscenano dei monologhi durante il banchetto. La vicenda si svolge a casa del tragediografo Agatone e sono vari i personaggi che intervengono sul tema dell’Eros, dandone ognuno una propria definizione, per giungere infine al discorso socratico.
Coloro che parlano prima di Socrate, si preoccupano di attribuire ad Eros i più grandi pregi in maniera indiscriminata, collocandosi fuori dalla dimensione veritativa – e dunque nella doxa. Socrate, invece, è del parere che un vero elogio necessiti di dire la verità, andandosi a collocare nella dimensione epistemica:

«Io infatti, nella mia ingenuità, credevo che sulla cosa da lodare [l’amore] bisognasse dire la verità, e che questa dovesse restare a fondamento […]» (Platone, Simposio, 1996).

Come in tutti i dialoghi platonici, Socrate rovescia le posizioni degli altri dialoganti, ma in questo caso, per farlo, decide di inscenare un dialogo con un personaggio da lui immaginato: la sacerdotessa Diotima, che lo istruirà sulle cose dell’amore.

Eros, tra le altre cose, era stato presentato come mancante delle cose belle e buone, che proprio a causa di tale mancanza egli desidera. Nel dialogo tra Diotima e Socrate, invece, Eros assume la forma di intermedio tra il bello e il brutto, tra il buono e il cattivo. Tale caratteristica viene sviluppata da Platone in una duplice direzione: Eros è intermedio in senso “verticale” – in quanto non identificabile con un dio immortale, ma neppure con qualcosa facente parte della dimensione sensibile: 

     «Ma allora, dissi, che mai sarebbe Amore? un mortale?
     – Niente affatto.
     – E allora che cosa?
     – Come prima, rispose: qualcosa di mezzo fra il mortale e l’immortale.
     – E cioè, Diotima?
     – Un gran demone, o Socrate; infatti ogni natura demoniaca sta nel mezzo fra il divino e il    mortale» (ivi).

Ma la posizione probabilmente più vicina al nostro attuale modo di considerare l’amore, è la visione di Eros come intermedio in senso “orizzontale”, ossia come qualcosa che unisce caratteri opposti, come la privazione e l’acquisizione. È infatti interessante paragonare tale posizione platonica con la psicanalisi che vede nell’amante colui che ricerca nell’amato l’oggetto della propria mancanza. Tale visione dell’amore come intermedio in senso orizzontale deriva dalla natura di Eros, che Platone fa nascere dalla sintesi di due forze opposte, quella della madre Penia (Povertà) e quella del padre Poros (Ingegno). Secondo Platone, Eros avrebbe ereditato l’indigenza, il bisogno e dunque la mancanza, dalla madre Penia; mentre avrebbe ereditato la bramosia di cercare ciò che desidera con tutte le sue forze, dal padre Poros. In quanto generato durante la festa della nascita di Afrodite, massima rappresentante della bellezza, Eros sarebbe amante del bello, pertanto Platone afferma che l’amore sia il tendere al Bene, anche nel suo manifestarsi come bellezza.

«In occasione della nascita di Afrodite, […] Povertà, escogitando, per la sua miseria, di avere un figlio da Ingegno, gli si sdraia accanto [mentre dormiva ubriaco] e concepisce Amore. Ecco perché Amore […] è, di sua natura, innamorato del bello, bella essendo anche Afrodite» (ivi).

Tale concezione può risultare complessa, ma è facilmente spiegabile se si comprende che l’Eros realizza la sua tendenza al Bene mediante la procreazione del Bello, dal quale è attratto per sua natura. La bellezza, a sua volta, stimola il desiderio di procreare portando la natura all’immortalità, ma sulla questione della procreazione Platone non si limita ad alludere alla dimensione materiale. Egli afferma che tale processo avvenga anche per l’anima; infatti il Bello porterebbe l’anima a generare le sue migliori virtù e dunque ad essere sempre alla ricerca di nuove acquisizioni del sapere.

La conclusione platonica può apparire aulica e apparentemente poco pratica, tuttavia passi avanti sono stati fatti ragionando sull’amore, proprio a partire da Platone, come dimostrano le tesi freudiane sulla libido e sulla sublimazione. La mancanza che caratterizza l’amore attua il desiderio nei confronti dell’amato e su questo notiamo come convergano sia Platone che Freud. Infatti, in Platone l’amore non fa altro che spingere l’individuo oltre la morte, attraverso la procreazione che serve a mantenere nel tempo ciò che “manca” a livello corporeo, ossia l’immortalità materiale. Freud parlerà di Eros e Thanatos, rispettivamente pulsione di vita e di morte, arrivando ad affermare che Eros si ponga al servizio della pulsione di morte.
Notiamo dunque come in Freud venga ripreso il tema della mancanza e la teoria platonica dell’Eros, fino ad arrivare alla sublimazione dell’amore, secondo cui la spinta verso la meta sessuale si sublima, cioè si trasmuta in un’altra tensione nei confronti di una meta che non è più sessuale.

La teoria platonica dell’Eros risulta quindi molto più concreta di quanto non sembri, sintetizzando perfettamente la dimensione materiale e quella spirituale, impossibili da considerarsi separatamente quando si parla di amore, a prescindere dall’opinione che si abbia riguardo al tema, che ancora oggi rimane di complessa definizione.

 

Federica Parisi

 

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Arendt, Freud e il Covid-19 tra senso di comunità e responsabilità

Il 2020 sarà certamente ricordato per essere stato l’anno della pandemia mondiale che ha profondamente cambiato le abitudini degli esseri umani, privandoli della cosa più preziosa: la libertà. In questo periodo il mondo sta facendo i conti con la coercizione e con la limitazione di ciò che qualche mese fa sembrava scontato e gli esseri umani ne stanno risentendo nel profondo.

È vero, non siamo di fronte a una guerra mondiale e nessuno ci sta chiedendo di imbracciare le armi per amor di patria, ci viene solo chiesto di rimanere nelle nostre case, in quanto alle prese con un virus aggressivo, che ha dilagato inesorabile e spietato, rendendo le nostre città palcoscenico per le passioni di un’umanità a cavallo tra solidarietà e istinto primordiale di trasgredire le regole imposte. Questo accade perché gli individui si sentono braccati, poiché l’iper-modernità ci ha portato ad assoggettarci a una “dittatura della società”, che potremmo ricondurre a quello che Freud definiva «Il disagio della civiltà», che ha portato le individualità a conformarsi a determinati schemi, rendendole inconsciamente schiave di essi. Questo fa sorgere alcuni quesiti interessanti, quesiti che si era già posta la filosofa Hannah Arendt in relazione ai totalitarismi e ai loro crimini: siamo davvero liberi anche quando ci sentiamo tali? E, relativamente all’istinto di trasgredire le leggi, siamo responsabili delle nostre azioni? E se sì, lo siamo collettivamente in quanto parte di una società, o individualmente?

Arendt differenzia in maniera sostanziale i concetti di colpa e responsabilità, nonostante essi abbiano certamente una correlazione. La prima afferisce alla sfera etica e si riferisce alle azioni compiute da un singolo soggetto agente, a scapito della propria legge morale; mentre la seconda afferisce alla sfera politica, laddove per politica si intenda la sfera sociale. Arendt indaga il concetto di responsabilità studiando in quale misura il popolo tedesco potesse essere ritenuto corresponsabile degli atroci crimini commessi dal regime nazista; tuttavia la questione può essere estesa a qualsiasi contesto storico e, dunque, anche a questo momento particolare che stiamo condividendo a livello globale; si pensi alla similitudine, seppur forte, della dittatura con le limitazioni alla libertà personale e collettiva che ci sono state imposte in questi mesi e ai concetti di colpa e responsabilità di coloro che non rispettano tali norme, ma anche di chi invece si fa portavoce e attore del rispetto verso l’umanità facendo in modo che il virus possa essere in qualche modo contenuto. Quando ci viene chiesto di sottostare a delle restrizioni è un’autorità a farlo, motivo per cui viene meno la libertà come noi la intendiamo, ma contravvenendo alle leggi imposte e nel caso specifico del Covid-19, uscendo di casa senza giustificato motivo, mettendo in potenziale pericolo la propria vita e quella altrui, ci comportiamo secondo una nostra personale morale, divenendo, quindi, colpevoli per la nostra azione. Tuttavia, secondo la prospettiva arendtiana, l’intera comunità sarebbe responsabile per le azioni compiute dai cittadini della sua nazione, pur non essendo moralmente e, dunque, individualmente colpevole, questo perché l’azione avviene inevitabilmente nello spazio intersoggettivo; infatti, nel momento in cui il soggetto agisce, rivela se stesso agli altri, divenendo responsabile delle sue parole e dei suoi gesti in relazione alle alterità. Chiaramente se agiamo in una dimensione monadica, solipsistica, privata, possiamo fare i conti solo con la nostra etica individuale, senza che nessun altro acquisisca una corresponsabilità per le nostre azioni, giuste o sbagliate che siano.

Freud, prima della Arendt, aveva affermato in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) che la socializzazione fosse in un rapporto di dipendenza dall’individualità e che quindi una distinzione netta tra società e individuo fosse superflua, in quanto la prima si compone essenzialmente della molteplicità degli individui che la costituiscono. Secondo Freud, le azioni negative compiute da una massa e dunque la negatività della stessa, dipendono dalle individualità che la compongono, che possono essere più o meno negative in base a quanto incidano i fattori oggettivi, inconsci, sull’Io del singolo. Con l’esperienza della Grande guerra si è assistito a quella che Freud ha definito esternalizzazione dell’inconscio, ossia all’oggettivazione dei moti pulsionali primordiali che si sono esteriorizzati nella massa, poiché, in accordo con Arendt, è solo all’interno della società che il singolo può agire e dunque sbarazzarsi delle rimozioni pulsionali inconsce.

È dunque necessario riflettere sul senso di appartenenza alla società e alla responsabilità che abbiamo in un momento storico come questo, di comportarci individualmente nella maniera più etica possibile per fare in modo di renderci collettivamente e positivamente responsabili della rinascita del mondo che torneremo ad abitare dopo l’esperienza del virus, nella speranza che possa essere un mondo migliore, nel quale tornare ad essere, per dirla con Aristotele, degli animali sociali.

 

Federica Parisi

 

[Photo credits Ryoji Iwata su unsplash.com]

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Eros e Thanatos: da Leopardi a Freud, da rue Jules Verne a Chesil Beach

«Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/ ingenerò la sorte»: si apre così – dopo l’epigrafe menandrea ‒ la seconda canzone leopardiana del Ciclo di Aspasia, intitolata appunto Amore e Morte. Doni divini, l’amore e la morte sono indissolubilmente legati perché l’esperienza dell’uno porta di fatto a desiderare l’altra. Per il poeta recanatese, l’incanto dell’amore eleva l’animo di chi lo prova potenziandone le facoltà e la consapevolezza per scontrarsi però, ancora più duramente del consueto, con la desolazione della realtà fino a disprezzare il mondo e a desiderare di uscirne. La passione amorosa suscita infatti spavento nell’innamorato che presagisce l’inevitabile sofferenza dell’immensità di un desiderio che non potrà mai essere totalmente appagabile.

«Forse gli occhi spaura
allor questo deserto: a sé la terra
forse il mortale inabitabil fatta
vede omai senza quella
nova, sola, infinita
felicità che il suo pensier figura:
ma per cagion di lei grave procella
presentendo in suo cor, brama quiete,
brama raccorsi in porto
dinanzi al fier disio,
che già, rugghiando, intorno intorno oscura»

Questa idea non è da interpretare in una riduttiva chiave biografica ma da ricondursi all’ambito della leopardiana teoria del piacere: il desiderio non rimane inappagato perché l’amore non è corrisposto ma perché, anche se lo fosse, il valore dell’amata si rivelerebbe inferiore all’immensità del sentimento dell’innamorato che trova quindi nella morte un foscoliano porto di quiete e un modo per sottrarre il proprio sentimento assoluto e infinito alla disillusione e alla caducità eternizzandolo.

I medesimi poli, Eros e Thanatos, vengono ripresi in chiave psicanalitica, formulati in termini di pulsione di vita e pulsione di morte, da Freud nel saggio Al di là del principio di piacere (1920). Si tratta di un dualistico conflitto psicologico – erede dei due principi cardine empedoclei, Filìa e Neikòs – tra la tendenza biologica e psichica aggregativa e quella distruttiva. Dualistico è in generale il sistema freudiano imperniato su una dialettica, se si vuole analoga a quella leopardiana, tra il principio di piacere, che domina le pulsioni, e il principio di realtà, che governa le rappresentazioni di ciò che è reale anche se non piacevole. Nel saggio Disagio della civiltà (1929) Freud estende tale dinamica al livello sociale partendo dalla constatazione dei limiti che la società impone all’uomo nel raggiungimento della felicità indirizzandone le pulsioni libidiche anche in modo inoffensivo, attraverso ad esempio la scienza e l’arte. L’uomo è quindi aggressivo per natura e la società, una sorta di Super-Io di massa («Ciò che iniziò con il padre si compie nella massa»), impedisce di sfogare l’aggressività generando nell’individuo frustrazione e senso di colpa.

Amore, morte e figura paterna sono l’asse portante della pellicola più discussa di Bernardo Bertolucci, additata dai benpensanti e forse sopravvalutata dalla critica – persino in occasione della sua morte, il 26 novembre dello scorso anno ‒ Ultimo tango a Parigi (1972), dove Paul viene ucciso, in un epilogo tragico e romantico, da Jeanne con la pistola del padre di lei e dopo aver indossato il chepì di quest’ultimo.

Fare l’amore è per entrambi ricerca della propria identità: nell’appartamento di rue Jules Verne, dove spinti da motivi diversi – Paul per tentare di sottrarsi a una vertigine di morte ritrovando se stesso nella dissacrazione e nella violenza e Jeanne per vivere un’avventura come le altre, forse più eccitante e più strana – si incontrano senza sapere il nome l’uno dell’altro, emergono a brandelli le loro esperienze precedenti.

Funzionali nel delineare il percorso cognitivo dei protagonisti i luoghi. Paul compie il proprio specifico itinerario tra due esterni ‒ la strada lungo cui cammina all’inizio e il balcone su cui muore alla fine – passando attraverso esperienze di chiuso: la sua è quindi una conquista dello spazio, la propria risalita all’aperto, dove si aspetta la vita ma trova la morte proprio per aver confuso i luoghi, per voler vedere Jeanne fuori dall’appartamento di rue Jules Verne, per voler affermare la propria presenza anche dove non accettato. A Jeanne invece è negata l’esperienza di un esterno totale, il suo cammino si svolge nelle zone di ambivalenza (il set del fidanzato, la casa materna) e l’appartamento di rue Jules Verne non è per lei condizione di risalita ma zona franca e circoscritta e alla fine rimane al di qua della porta a vetri del balcone, dentro casa sua.

La morte si insinua parallela all’amore già nei titoli di testa con i quadri di Francis Bacon Vita in decomposizione ed è soprattutto Paul che vive questi indizi di morte: il suo albergo è dominato dalla presenza della moglie appena suicidatasi, l’appartamento di rue Jules Verne è forse per lui metafora della tomba, i ballerini sono truccati come una maschera funeraria. Ultimo tango a Parigi si configura quindi come uno psicodramma che attua quella regressione freudiana allo stadio biologico, ricercata dai protagonisti, come metafora di violenza e di morte: si pensi allo scherzo atroce del topo che Paul fa trovare nel letto a Jeanne e alle atroci parole di insulto con cui Paul accompagna la propria sodomizzazione.

Amore, morte, figura paterna e tabù sociali si intrecciano anche nel dramma sentimentale di Dominic Cook, On Chesil Beach (2018), tratto dall’omonimo romanzo (2007) di Ian McEwan ‒ che ne è lo sceneggiatore. Inghilterra, 1962 ‒ un anno prima della Beatlemania, con l’uscita dell’album Please, Please, Me, e della rivoluzione sessuale – e la prima notte di nozze tra Florence, violinista eterea, ricca e all’antica, e Edward, neolaureato con lode in Storia, della provincia inglese, rude e aggressivo. Soli, vergini, in un hotel della costa, arenati sulla spiaggia di ciottoli di Chesil Beach nonostante la complicità e un corteggiamento bucolico, impacciati, imbarazzati, tra zip che si incastrano, scarpe che non si sfilano, mani che danno solletico e non piacere, goffi e inibiti, prigionieri dell’educazione rigida e delle convenzioni sociali. Attraverso una lunga serie di flashback che rallenta la tragica prima volta e carica l’atmosfera di tensione (non certo erotica), lo spettatore coglie gli indizi che contribuiranno a separare irreversibilmente i due innamorati: la madre di Edward in seguito a un incidente è affetta da disturbi mentali e Florence ha subito la collera e gli abusi del padre. Irrigiditi dal timore di fare un passo falso, angosciati dai ricordi, la prima notte d’amore è disgustosa e umiliante soprattutto per Florence, che nonostante sia bollata da Edward come “frigida” tenta un ultimo gesto di riconciliazione, atteso invano, negato per orgoglio e che sigillerà il loro destino.

All my loving darling, I’ll be true

 

Rossella Farnese

 

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