Linguaggio e realtà: due dimensioni, un unico significato

Soli tra tutti gli animali, gli esseri umani hanno la capacità di capire, di parlare e di servirsi del linguaggio in infiniti modi. Non ci stupisce quindi che l’esplorazione sistematica del linguaggio sia un’impresa a cui partecipa una moltitudine di studiosi – lessicografi, grammatici, glottologi, psicolinguistici, neuroscienziati – e di discipline: la fonetica, la fonologia, la filologia, la sociolinguistica, fino alla filosofia del linguaggio.

La riflessione filosofica riguardante il linguaggio percorre oramai duemila anni di storia: pensiamo al Logos (discorso), tema fondante nella ricerca fisico-speculativa, quando ancora la filosofia si esplicava in frammenti e trasmissioni orali. Termine che possiamo intendere come un contenitore di concetti dal linguaggio al ragionamento, dal pensiero al metodo.

In un passo famoso delle Confessioni, Agostino nel V sec d.C. espone, a differenza dei suoi precursori, un’immagine per quanto possibile sistematica del processo di apprendimento del linguaggio. Quando gli adulti “nominavano qualche oggetto e, proferendo quella voce, facevano un gesto verso qualcosa, li osservavano e ritenevano che la cosa si chiamasse con il nome che proferivano quando volevano indicarla1“.  Pur senza essere una vera e propria teoria del significato, questo passo delinea chiaramente una possibile soluzione al problema: le parole del linguaggio denotano oggetti e gli enunciati sono connessioni di tali denotazioni. Il significato di una parola è dunque l’oggetto per il quale la parola sta.

Per milletrecento anni la filosofia sembrò che avesse dimenticato la riflessione sul linguaggio, relegandola a discapito dell’essere, della teologia e nel Seicento del metodo scientifico. Solo a partire dall’Ottocento con il lavoro di Gottlob Frege, logico e matematico noto all’epoca, si inaugurò la filosofia del linguaggio contemporanea. Con il suo lavoro Agostino fu superato: se infatti il rapporto con l’oggetto denotato esaurisse il significato di una parola, allora non riusciremmo a spiegare certe differenze evidenti tra enunciati con diverso valore informativo. Di qui la necessità di riconoscere che le parole non hanno solo un rapporto di denotazione, denominazione e riferimento. Frege si chiederà se davvero il valore delle parole si riduca al loro significato, inteso come rapporto con l’oggetto denominato o se, al contrario, non sia indispensabile tenere conto anche del senso che esse esprimono.

La stessa concezione freghiana risulterà però non priva di problemi: da Russell a Quine, da Carnap a Wittgenstein, da Putnam a Kripke, essa sarà al centro di una serrata critica volta per alcuni a riconquistare la semplicità dell’immagine agostiniana, per altri a elaborare una visione nuova del rapporto tra linguaggio e realtà. Uno fra tutti fu Wittgenstein, presentato di solito come l’iniziatore di due importanti correnti della filosofia del Novecento: il Neopositivismo e la Filosofia del linguaggio ordinario. Ironia della sorte sia Wittgenstein che Agostino furono due figure di spicco della filosofia del linguaggio, senza definirsi tali.

L’obiettivo da Frege in avanti fu la ricerca di una teoria del significato che potesse allontanare l’uomo da errori e imperfezioni del linguaggio comune, cercando di unirlo alla realtà in un’unica dimensione. Così pure Russell, forte critico di Frege ma a lui legato dalla rinnegazione dell’immagine agostiniana del linguaggio.

Wittgenstein invece provò un’altra via: senza rifiuto o accettazione mise Agostino come sfondo e non cercò una teoria del significato bensì un metodo d’indagine (anche se non sempre la pensò così). Possiamo infatti parlare di due Wittgenstein: uno del Tractatus Logico Philosoficus (1921) e un secondo delle Ricerche filosofiche (1956). Quest’ultima opera rappresenta la summa dei concetti qui esposti.

Nelle Ricerche filosofiche cercherà di mettere in discussione certe assunzioni generali che, a suo giudizio sottostanno a un’unica famiglia di teorie di significato. Nel linguaggio esistono diverse funzioni delle parole, svariati modi d’impiego delle espressioni, e mostra come esse non possono essere classificabili sotto un’unica rubrica onnicomprensiva. Nel tentativo di dissipare queste tendenze generalizzanti, Wittgenstein conia l’espressione gioco linguistico e forma di vita. Esistono molteplici impieghi delle frasi, ossia varietà di atti linguistici.

Una volta affrontato il tema del proferimento, discusso da molteplici pensatori nei modi più svariati, è importante anche chiedersi come possa avvenire la comprensione del linguaggio e come essa dovrebbe essere descritta. Il comprendere andrebbe concepito – secondo Wittgenstein – come un’abilità, un saper fare, la padronanza di una tecnica che presupponga l’esistenza di una pratica sociale, addestramento ed esercizio. Ha in sé dunque il suo funzionamento.

Wittgenstein cercherà quindi, tramite una contorta rete di somiglianze, di individuare l’elemento di identicità nella differenza all’interno dell’atto linguistico. Ad esempio, tanti sono i giochi con diverse regole e funzioni, ma cos’è che li rendono giochi? Qual è il loro rapporto di condivisione? Bisogna, sostiene Wittgenstein, stabilire un equilibrio nel funzionamento della lingua, verificare con il mondo la veridicità del riferimento e dell’uso dell’atto linguistico così che possano andare assieme.

Siamo distanti dalle posizioni di Frege o di Russel, abbiamo come sfondo Agostino ma siamo ancora lontani da una teoria o esplicazione di che cosa sia il linguaggio e di quale possa essere la sua funzione e condizione di verità. Gli oppositori allo stesso Wittgenstein saranno molti, primo tra tutti Chomsky.

Quello che a noi rimane è la tendenza contemporanea a unire gli sforzi, tramite la specializzazione del sapere: neurobiologia, filosofia, psicologia, sociolinguistica – tutte discipline orientate allo studio di componenti diverse, ma con un unico obiettivo: c’è unità tra realtà e linguaggio, tra l’umano e il mondo? Siamo nel vero o nel fittizio? Siamo noi a determinare le cose e non le cose a plasmare noi?

 

Simone Pederzolli

 

NOTE
1. Agostino d’Ippona, Confessioni, BUR, Roma, 2006, p.58

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Bir kaşık nedir?

Il passo più importante del programma logicista di Frege (1848-1925) consisteva nel tentare di definire le nozioni aritmetiche in termini di nozioni logiche. Immaginiamo dunque che un cameriere, appena assunto e incapace di contare, avesse ricevuto dal maître l’ordine di controllare che la quantità dei piatti presenti sui tavoli della terrazza dov’era servita la colazione non fosse né superiore né inferiore alla quantità dei cucchiaini d’argento. Il cameriere, sistemato un cucchiaino accanto a ogni piatto e controllato che la corrispondenza non avesse lasciato residui (nessun piatto senza cucchiaino o viceversa), avrebbe risolto la situazione senza troppo affanno. I bambini seguono il ragionamento del cameriere senza difficoltà, intuendo che se si trattasse di un ricevimento principesco, con centinaia e centinaia e centinaia di noiosi invitati, la situazione non sarebbe semplice, come nel caso della colazione in terrazza… neppure se il cameriere si mettesse in testa di consegnare personalmente a ciascun ospite il suo cucchiaino. Le coppie dovrebbero quindi essere disposte in ordine dal cameriere, il cui colpo d’occhio potrebbe fallire nel distinguere tra chi già ha un cucchiaino e chi ancora lo deve ricevere. L’equivalenza non sembra creare problemi, neppure per un cameriere un po’ confuso. Tanti cucchiai quanti piatti, tanti piatti quanti invitati, tanti cucchiai quanti invitati: classi di classi equivalenti, mappe senza resto. Se la domanda “quanti sono i cucchiai?” non ci spaventa, ben diverso è ciò che accade se qualcuno si azzarda a chiederci “che cos’è un cucchiaio?”. Dapprima, i bambini non ci credono: <<Un cucchiaio è un cucchiaio!>>; <<A=A>>. Poi, l’idea di trovare la maniera migliore di spiegare a qualcuno che non l’ha mai visto “che cos’è?” inizia a farsi strada. I “problemi” però, sono molti… <<Un cucchiaio è una posata>>, ma lo sono anche forchetta e coltello. <<Un cucchiaio è una cosa che serve a mangiare la minestra>>, ma anche a grattarmi se una zanzara mi ha appena punto nel mezzo della schiena. <<Un cucchiaio è una cosa grigia, di metallo, con un manico lungo e una testa arrotondata>>, ma ce ne sono anche rossi, di ceramica e a forma di cuore. La classe dei cucchiai è equivalente alla classe di coloro che mangiano la minestra? <<C’è chi beve come i cani!>>, dice qualcuno. <<E chi beve dal piatto! E chi usa le mani>>, aggiunge un’altro. La situazione si fa talmente complicata che il cameriere decide di fare un annuncio, dando per certo che tutti sappiano a cosa riferirsi quando sentono pronunciare la parola “cucchiaio”: <<a qualcuno manca una posata? Avete tutti il cucchiaio?>>. Ma è sufficiente un signore qualunque, con dei bei capelli biondi arruffati. Un signore che vive in una casetta gialla lontana dal centro in compagnia di sua moglie e del suo cane Brandy, a scompigliare le cose. Perché lui mangia la minestra con il blap e a volte quando non riesce a mettersi le scarpe prende un blap e fa leva con quello. E ha blap di ferro e di legno in cucina e blap di plastica per le feste di compleanno. Basta che un giorno egli decida, contrariamente a ogni abitudine, di portare sua moglie in quel ristorante, perché il castello del cameriere crolli: <<Scusi, ci porterebbe due blap?>>. <<Che cos’è un blap?>>, chiede il cameriere… e siamo daccapo!

[*Fare Filosofia Coi Bambini vuol dire, anzitutto, recarsi in classe ogni giorno, stare coi bambini, prendere appunti, raccogliere dati, studiare, approfondire, fare ricerca. Non ci si improvvisa Filosofi Coi Bambini, né tantomeno lo si diventa automaticamente dopo un corso di formazione. Occorre tanta esperienza sul campo ed entusiasmo: ecco perché è bene diffidare da chi ne parla tanto e magari lo insegna pure, ma nei fatti non lo pratica o peggio non l’ha mai praticato. Non trattandosi, poi, di un insegnamento esoterico destinato a pochi, non può e non deve essere “venduto”: ecco perché sarebbe bene che appartenesse a molti e che non si legasse ad associazioni, categorie, gilde, col rischio di venirne imbrigliato. In vista di queste riforme e di una sempre più necessaria riflessione sullo stato della disciplina, auspichiamo nell’apertura di un canale di dialogo coi “cugini” (di secondo grado) della Philosophy for Children Italiana].

Carlo Maria Cirino

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