“Due razze di uomini”: complessità oltre il pregiudizio

Il nostro tempo si caratterizza per una crescente complessità che negli ultimi anni è stata amplificata dal trauma pandemico e dalla ingiustificata violenza che la guerra alle porte dell’Europa sta portando con sé.

Un’epoca difficile da decifrare proprio per la sua complessità che si sottrae ad ogni tentativo di riduzionismo analitico e ancor di più ad ogni incerto sforzo di semplificazione. In un simile contesto è ricorrente imbattersi in confronti, dialoghi e discussioni che hanno la pretesa di ridurre i fenomeni umani a categorie preconfezionate che in maniera manichea intendono distinguere arbitrariamente, non solo il bene dal male, ma anche e soprattutto di indicare chi sta dalla parte dell’uno o dell’altro a seconda che appartenga a un gruppo sociale, a una nazione, a un continente, a una razza, a una religione, a un genere. La conseguenza di un tale semplicistico modo di pensare – nel gomitolo aggrovigliato di questo tempo che muta a una velocità insostenibile per le risorse cognitive dell’essere umano –, è quella di cadere in pensieri e atteggiamenti discriminanti, non inclusivi e che tendono a giudicare le azioni umane come buone o cattive a partire semplicemente dal gruppo di appartenenza. Nefaste sono le implicazioni di questo modo pregiudiziale di approcciarsi alla realtà: razzismo, discriminazioni, esclusione sociale, diffidenza, paura, cultura dello scarto, guerre. Veri e propri virus sociali che nascono dal tentativo, impossibile (sic!), di ridurre a categorie semplici, ciò che per definizione non è riducibile ovvero la complessità. Solo allineandoci con la prospettiva di quest’ultima, possiamo adottare un atteggiamento personale e di conseguenza interpersonale, quindi sociale e politico di tipo inclusivo e non discriminante verso qualsivoglia categoria di persona.

A questo proposito risulta illuminante la lezione che abbiamo ereditato dallo psichiatra e filosofo viennese Viktor Frankl, ebreo sopravvissuto a quattro diversi lager nazisti. Al termine del secondo conflitto mondiale e della barbarie scatenata in Europa dai regimi totalitari, ai pochi sopravvissuti era spesso chiesto di raccontare la propria esperienza di prigionieri nei campi concentramento e di sterminio. L’aspettativa era che i testimoni delle atrocità puntassero il dito contro il popolo tedesco colpevole delle nefandezze compiute. Anche Frankl fu invitato più volte a raccontare la propria esperienza di internato in diverse occasioni. Saldo nella sua esperienza, forte della sua libertà di pensiero e incurante delle ostilità che il suo punto di vista avrebbe procurato nella comunità ebraica, Frankl riportò sempre l’attenzione dei suoi uditori sul concetto di responsabilità individuale, ricusando ogni tipo di semplificazione e di generalizzazione che portasse a sostenere la tesi della colpa collettiva di un gruppo sociale, di un popolo, di una nazione.

Celebre il discorso da lui tenuto il 10 marzo 1988, davanti a trentacinquemila ascoltatori, sulla piazza del municipio di Vienna, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’Anschluss: «Il Nazionalsocialismo ha diffuso il delirio razziale: in effetti esistono soltanto due razze umane, ossia la ‘razza’ degli uomini onesti e quella degli uomini disonesti. E la separazione razziale taglia tutte le nazioni e, all’interno di ciascuna nazione, tutte le fazioni. Persino nei campi di concentramento si incontrava qualche SS appena decente, come pure qualche imbroglione e farabutto anche tra i detenuti» (Frankl, 2001). Con coraggio Frankl evidenzia il fatto che non esistono gruppi sociali buoni o cattivi ma che in ogni umana aggregazione sono presenti individui che perseguono il bene e la giustizia e altri che rincorrono, con ogni mezzo, fini che si distanziano da valori quali il bene e la giustizia che tutelano la vita e l’umanità degli individui. L’intellettuale viennese richiama con forza a due grandi dimensioni che contraddistinguono l’essere umano: la libertà e la responsabilità. Libertà di decidere, momento dopo momento, che cosa fare di sé stessi e responsabilità per questa scelta. Dunque, libertà di decidere che tipo di persona si vuole essere e si vuole diventare: abbassarsi a livello animale o far fiorire la più nobile dignità umana che consiste nel pensiero e nella capacità di amare e donarsi all’altro da sé dilatando i confini di quelle espressioni che favoriscono un’esistenza e una convivenza più umana.

Frankl ci aiuta così a delineare un importante indicatore di maturità intellettuale ovvero la capacità di non essere discriminativi o abbonati a infondato pregiudizio. Il bene e il male attengono alla responsabilità personale e non a questa o a quella appartenenza categoriale. La persona va considerata per ciò che è nella sua singolarità, nella sua libertà e responsabilità. I soli fondamenti a partire dai quali è possibile una valutazione etica che non può mai riferirsi all’appartenenza di un individuo a una categoria piuttosto che a un’altra. Solo così è possibile non cadere in deplorevoli pregiudizi che scadono facilmente in razzismo, classismo, sessismo. Seguendo questa prospettiva è verosimile non scivolare in uno sterile riduzionismo che perdendo di vista la singolarità dell’individuo ambisce, illusoriamente, a semplificare approssimativamente la complessità umana e sociale nella quale siamo immersi.

 

Alessandro Tonon

 

[photo credit unsplash.com]

banner-riviste-2023

Meaning seeking come dimensione della motivazione

Montale diceva che il solo vivere non basta. Ancora prima, per Platone l’umano è come un otre forato: la biologia non basta. Le pulsioni e le funzioni biologiche non sono abbastanza: ognuno di noi è un progetto incompiuto con la vocazione a realizzarsi. Essa passa attraverso la ricerca di un significato, di un senso, che è ciò che si vive e si sente. Noi siamo esseri alla ricerca di un significato, viviamo secondo il principio dello scopo. Il nostro essere desideranti passa attraverso lo scopo.

Ciò che gli anglofoni chiamano meaning seeking è una dimensione fondamentale della motivazione ed è ciò che permette la realizzazione delle possibilità. Possibilità che spesso richiedono una profonda trasformazione dell’Io per essere portate a compimento. La motivazione è ciò che contagia sia l’Io sia gli altri permettendo la realizzazione di progetti di senso. Ognuno di noi necessita di un significato per affrontare l’esistenza. La sofferenza e la tensione monopolizzano la coscienza, che si libera dalle catene solo con il vento della motivazione e del valore.

Ciò che ha davvero significato richiede impegno e fatica. Solo la motivazione avvia, guida e mantiene comportamenti mirati. Solo la motivazione ripaga gli sforzi e gli ostacoli affrontati. L’impulso motivazionale si ha ogni volta che l’individuo avverte un bisogno, che rappresenta di fatto la percezione di uno squilibrio tra la situazione attuale e quella desiderata. Il bisogno è, quindi, uno stato di insoddisfazione che spinge l’uomo a procurarsi i mezzi necessari per riuscire a realizzarlo o sublimarlo.

Una suddivisione divenuta ormai classica distingue tra le motivazioni intrinseche e quelle estrinseche. Le prime inglobano i bisogni innati che provengono dall’interno dell’individuo stesso. Le seconde, invece, sono basate su una spinta che si volge a ottenere un beneficio esterno. L’essere umano si muove in funzione di ottenere vantaggi materiali (buoni voti, fama) o immateriali (carriera, potere).
A tal proposito, affascinante è la piramide di Maslow, ideata nel 1954 dall’omonimo psicologo, che si propone come un modello motivazionale dello sviluppo umano basato su una gerarchia di bisogni. In base ad essa, la soddisfazione dei bisogni più elementari è condizione necessaria per fare emergere quelli di ordine superiore. Alla base della piramide ci sono i bisogni essenziali alla sopravvivenza; salendo verso il vertice, si incontrano i bisogni più immateriali. Si parte dai bisogni primari e fisiologici, come cibo, acqua ed impulso sessuale a quelli di sicurezza (protezione, lavoro, salute e famiglia). Salendo, si incontrano poi i bisogni di appartenenza (famiglia o amici), quelli di stima (essere riconosciuto, realizzato) fino all’autorealizzazione, la quale altro non è se non l’aspirazione individuale a essere ciò che si vuole sfruttando le facoltà mentali e fisiche.

I bisogni fondamentali, una volta soddisfatti, tendono a non ripresentarsi, mentre i bisogni sociali e relazionali rinascono con nuovi e più ambiziosi obiettivi da raggiungere, almeno secondo Maslow. Una concezione che viene messa in dubbio dal neurologo e psicologo Viktor Frankl, che non esitò a provare come spesso, nonostante i bisogni più bassi non siano soddisfatti, un bisogno più alto, quale la ricerca di significato, può diventare più urgente. Mentre per Maslow l’essere umano è mosso dal bisogno, per Frankl, invece, dal desiderio di significato. Una “vita” significativa è, per quest’ultimo, una vita ricca di compiti, ovvero di appelli alla capacità umana di rispondere ad una problematica nella convinzione di poterla risolvere. L’essere umano sarebbe così libero di agire facendo leva sulle proprie risorse, compiendo così necessariamente degli sforzi1.

Per quanto la tematica richiederebbe un approfondimento maggiore, basti qui considerare il rischio lucidamente individuato da Frankl insito nell’autorealizzazione referenziale e solitaria. Essa, da sola, non rappresenta un criterio esaustivo per una teroria motivazionale. Da qui il concetto di autotrascendenza, che il neurologo spiega utilizzando la metafora dell’occhio. Un occhio può vedere se stesso solo in una condizione patologica di cataratta o glaucoma. Allo stesso modo, l’essere umano deve dimenticarsi di sé e porsi al servizio di una causa, dell’attuazione di un senso o della dedizione a un compito o a una persona.

Infine, rimangono alcune domanda aperte: un percorso di autorealizzazione referenziale non porta l’essere umano sul baratro della solitudine? In che misura continua ad avere senso la ricerca di autodeterminazione? E ancora: quale senso può avere l’espressione individuale fuori da un orizzonte relazionale? D’altronde, per dirla con Dante, «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante, Divina commedia, Inferno Canto XXVI).

 

Sonia Cominassi

 

NOTE
1. Cfr. Maria Teresa Russo, Etica del corpo tra medicina ed estetica, Rubbettino, Catanzaro 2008; L’uomo in cerca di senso. Uno psicologo nei lager e altri scritti inediti, presentazione di Daniele Bruzzone, Milano, Franco Angeli, 2010.

[Photo credit Alexis Fauvet via Unsplash]

lot-sopra_banner-abbonamento2021

“Non si è affamati soltanto di pane”: il mondo dei giovani visto da Viktor Frankl

«Non si è affamati soltanto di pane, ma anche di senso. Ci si preoccupa troppo poco di quest’aspetto nello stato sociale odierno» (V. Frankl, Logoterapia. Medicina dell’anima), così si era espresso lo psichiatra e filosofo Viktor Frankl in una conferenza al Politecnico di Vienna nel 1985. Queste parole risuonano con maggior intensità alla luce delle manifestazioni umane, giovanili in particolare, del tempo presente. Le cronache quotidiane riportano eventi che interessano adolescenti e giovani, i cui comportamenti sono espressione di un marcato vuoto interiore. Bullismo, sopraffazione reciproca, violenza reale e virtuale – quest’ultima ancor peggiore per la vastità della propria eco e delle proprie conseguenze psicologiche –, dipendenze tecnologiche, perversioni sessuali, depressione, omicidi e suicidi, sono cifre tragicamente ricorrenti che ritraggono una parte, malauguratamente crescente, della popolazione giovanile.

Nell’attuale mondo occidentale non si può certo affermare che gli stomaci siano vuoti, ma alla luce di questi indicatori certamente lo sono le esistenze, tormentate da un vuoto interiore senza precedenti. È possibile comprendere queste manifestazioni – il che non significa certamente giustificarle – soltanto se analizziamo il fenomeno in profondità, andando alla radice di quei comportamenti e del loro movente. Esse sono espressione della noia, che implica un’assenza di passioni e interessi per il mondo e dell’indifferenza che richiama ad una mancanza di iniziativa costruttiva e proattiva. La noia e l’indifferenza affiorano nel vuoto esistenziale che pervade le giovani generazioni, le quali sembrano aver smarrito compiti e impegni nobili che possono inondare di senso la propria esistenza.

Il senso dell’esistenza non è un concetto astratto, come spesso e banalmente si vuol far credere, ma è estremamente concreto, calato nell’esigenza dell’ora. Il significato riguarda quanto la vita si attende da noi, giorno per giorno, di ora in ora. Esso può essere scoperto soltanto interiormente, contattando l’organo esistenziale per eccellenza: la propria coscienza. Invero, attraverso essa scopriamo i valori che attendono di essere da noi realizzati ed è proprio tale concreta realizzazione che proiettandoci nel futuro, riempie di senso anche il nostro presente. Altresì, è nella coscienza che possiamo percepire e riconoscere la sottile ma fondamentale differenza fra valori, che promuovono la vita e la sua dignità, secondo libertà, responsabilità, solidarietà e dis-valori, tutto ciò che ergendosi sulla distruttività tende a negare il valore della vita, poiché esclude dal proprio agire i fondamenti dell’umanesimo.

L’isolamento, la depressione, la dipendenza e la violenza sono l’espressione di una generazione marcata da un abissale vuoto di senso. Un vuoto che esige, in ogni modo, di essere riempito. Proprio laddove la volontà di significato viene frustrata proliferano comportamenti distruttivi per sé e per gli altri, i quali contrastano la vita nella sua espressione umana più nobile. Per questo è necessario che la comunità educativa degli adulti riconosca anche in un giovane delinquente, in un tossicodipendente, in un depresso o in un dipendente patologico, la volontà di trovare uno scopo e dare un senso alla propria vita. I giovani d’oggi non sono senza valori, hanno bisogno che il mondo adulto ritorni ad adempiere al proprio compito educativo, sfidandoli a realizzare significati nella propria esistenza. Facendo sentire loro la responsabilità per la vita, che si configura come impegno concreto per un’opera da realizzare, per una causa, per un alto ideale civile, politico o religioso, o come amore per un altro essere umano. Solo riscoprendosi responsabile per qualcosa o per qualcuno, l’essere umano può sperimentare che la propria esistenza, unica e irripetibile, ha un significato altrettanto unico e irripetibile. Precisamente, scrive Frankl, «la ricerca di senso ha un orientamento […] è diretta verso quei valori che ogni singolo uomo ha da realizzare nell’unicità della propria esistenza e nella singolarità del proprio spazio vitale» (V. Frankl, Logoterapia. Medicina dell’anima).

Queste no future generation hanno bisogno di riconoscere che la vita si configura come un appello, un compito unico e irripetibile, al quale ciascun essere umano è invitato a rispondere personalmente. Riconoscendosi responsabile dinanzi a tale compito, il singolo individuo profonderà il proprio impegno fisico, psicologico e spirituale, per realizzarlo. Invero, sperimentare che vi è uno scopo nella vita, che vi è un obiettivo da perseguire, una causa da servire o una persona da amare, permette di superare anche le circostanze più arcane, senza precipitare nel nichilismo che induce a fare cose senza senso (dis-valori). Aiutare i giovani in questo difficile cammino di educazione esistenziale, implica invitarli a sentire interiormente il desiderio di significato, quel motore che aiuta a muoversi da obiettivi conseguiti a valori che ancora attendono di essere realizzati nel futuro, in una sana e necessaria tensione verso il significato che anima fattivamente l’esistenza.

 

Alessandro Tonon

 

[Photo credits su unsplash.com]

copabb2019_ott

È la morte che dà senso alla vita?

Dinanzi al mistero della morte molti uomini si chiedono quale sia il senso della propria vita. Che significato viene dunque ad assumere la vita al cospetto della morte che tutto annulla? Nel corso della storia del pensiero filosofico le risposte sono state molteplici e fra loro molto differenti, per contenuti e prospettive. Al contempo, le religioni, orientali e occidentali, nascono proprio come tentativi di rispondere al limite per eccellenza inscrivendolo all’interno di una prospettiva che sveli la vita, un certo tipo di esistenza che non ci è data di conoscere ma solo di immaginare ed eventualmente “tener ferma” come contenuto di una fede, dopo la morte.

Fra i tentavi filosofici di risposta al significato della vita in rapporto alla morte, più importanti del Novecento, come non annoverare quello dello psichiatra e filosofo viennese Viktor Emil Frankl. Il suo contributo, oltre a riprendere e rimandare alle speculazioni dell’analitica esistenziale dello Heidegger di Essere e tempo, del concetto di uomo come essere-gettato nel mondo e come essere-per-la-morte, si arricchisce della sua esperienza di medico-psichiatra, delle sue competenze filosofiche, psicologiche e soprattutto della sua tragica ma determinante esperienza di vita nei lager nazisti. Invero, la vita dell’uomo Frankl ha certamente contribuito a corroborare le intuizioni e le competenze del Frankl filosofo e psichiatra.

In particolare, rispetto al significato della vita in relazione alla morte, l’intellettuale viennese ritiene che per rispondervi siamo rimandati a noi stessi, al fatto originario che l’esistenza è al contempo consapevolezza e responsabilità. La consapevolezza concerne la propria fragile condizione di esseri che hanno un termine. Mentre la responsabilità inerisce la nostra unicità e irripetibilità di singoli uomini, in rapporto alla singolarità e irripetibilità delle concrete situazioni nelle quali veniamo a trovarci di ora in ora. Singolarità e irripetibilità sono due aspetti che permettono di comprendere il significato della vita che si manifesta come finita. Il carattere limitato dell’esistenza, asserisce Frankl «contribuisce a darle un significato, e non a sottrarglielo»1. Secondo il pensatore viennese la morte non può dunque pregiudicare il senso della vita. Diversamente, proprio l’avere in vista la morte o poterla in qualche modo “anticipare” con l’immaginazione – servendoci di un’espressione heideggeriana – permette di inondare di senso la propria esistenza vivendola autenticamente. Scrive Frankl: «Domandiamoci che cosa accadrebbe se la nostra avventura terrena non fosse determinata nel tempo, ma fosse infinita. Se fossimo immortali in questo mondo, avremmo ogni buona ragione per rimandare ogni nostro atto»2. In questo senso verrebbe meno la nostra stessa responsabilità per la vita. Di fronte a un’esistenza infinita ogni nostro progetto verrebbe meno. Mentre, come aveva intuito Heidegger: «l’esserci, in quanto gettato, è gettato nel modo di essere del progettare»3. È proprio il progettare, l’avere in vista il futuro che permette di realizzare ciò che siamo. La consapevolezza della limitatezza del nostro transito terrestre, permette di intraprendere una strada autenticamente nostra, dunque di rispondere responsabilmente alla vita. «È proprio in considerazione della morte» afferma Frankl «quale limite insuperabile alle nostre possibilità e al nostro futuro, che siamo costretti ad utilizzare il tempo della nostra vita, a non perdere le occasioni che ci vengono offerte, la cui somma ‘finita’ costituisce il consuntivo della nostra vita»4. Il senso della vita riposa proprio nel suo carattere irreversibile. Pertanto, la responsabilità di un uomo si può esaminare solo in relazione al tempo limitato della sua esistenza. In merito a questo Frankl paragona l’uomo ad uno scultore, che partendo dal materiale grezzo (la vita e il suo destino), si adopera con tutti i mezzi e le possibilità a disposizione per dar luce alla miglior forma possibile. Questo è concepibile allorché, pur essendo l’uomo “gettato” nel mondo e dunque condizionato, mantiene la libertà ultima di ergersi al di sopra di tale gettatezza, di tali limitazioni, al fine di realizzare valori che diano senso alla vita. Quest’ultima è conseguentemente un costante cammino di autotrascendenza che permette di attuare la libertà nella forma delle possibilità sempre presenti, al di qua della morte. All’uomo resta dunque la libera possibilità di «trasmutare il materiale che il destino gli fornisce, in parte con il proprio lavoro, in parte sperimentando o soffrendo: di ‘sbozzarne fuori’ quanto più può valori creativi, di esperienza e di atteggiamento»5.

Lo scultore ha a disposizione un tempo limitato per realizzare il suo lavoro e di questo tempo non conosce la scadenza. Il tempo a disposizione può essere molto come poco, persino pochissimo. Non sapendolo, tuttavia, lo scultore è chiamato dalla vita a utilizzare il proprio tempo in modo pieno e completo per portare a termine la propria opera unica e irripetibile. E «l’eventualità che egli non riesca a compierla non la destituisce di valore»6. Nessuna esistenza può essere dunque valutata in base alla sua lunghezza, ma in base alla ricchezza dei suoi contenuti, dei valori che è riuscita a realizzare nel tempo che le stato concesso. «Nella limitatezza del tempo e dello spazio terreno l’uomo deve compiere qualcosa, conscio sempre di essere mortale e tenendo ben presente la propria immancabile fine»7.

La vita e la morte costituiscono dunque un unico grande insieme, avvolto nel mistero (che concerne tutto ciò che sfugge alla comprensione razionale). Ma questo mistero non è mai destituito del proprio senso, a condizione che l’uomo prenda consapevolezza di essere «attaccato sul vuoto al suo filo di ragno»8, come recita un celebre verso di Ungaretti. Una condizione esistenziale che scorge il limite invalicabile della morte e che proprio per questo riconosce la propria responsabilità di fronte alla vita. Responsabilità che chiama in causa la libertà dell’uomo di prendere posizione nei confronti del proprio destino (il materiale grezzo dell’esistenza) per realizzare valori che concernono ciò che l’uomo riesce a creare, quanto riesce ad amare e sperimentare, come riesce a soffrire e persino a morire. Motivazioni che trascendono la vita e che in una certa misura la rendono eterna. Risultano nuovamente chiarificatrici e parenetiche le parole di Frankl, il quale afferma: «la responsabilità dell’uomo […] è rapportata alla singolarità e all’irripetibilità della sua particolare esistenza. L’esistenza umana è infatti un essere responsabile di fronte alla propria finitezza. Questa temporalità della vita non la rende […] senza senso: al contrario, è proprio la morte a renderla significativa»9. Seguendo le intuizioni frankliane è dunque verosimile rispondere alla domanda posta in esergo sostenendo, seppur con parola fragile e tremante, che è proprio l’orizzonte della morte a dischiudere il senso alla vita.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana, Brescia 20056, p. 108.
2. Ivi, p. 108.
3. M. Heidegger, Essere e Tempo, UTET, Torino 1969, p. 239.
4. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, op. cit., p. 108.
5. Ivi, p. 109
6. Ibidem.
7. Ibidem.
8. G. Ungaretti, La pietà, in Sentimento del tempo, in Giuseppe Ungaretti. Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 19693, p. 171.
9. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, op. cit., p. 116.

 

[Photo credits: Matt su Unsplash.com]

Ascoltiamo il grido dell’uomo alla ricerca di senso

L’uomo del tempo presente è attraversato da un abissale sentimento di vuoto interiore, da un’angosciante mancanza di significato della propria vita. L’insorgere del vuoto esistenziale è dovuto, come spiega lo psichiatra e filosofo Viktor Frankl, al fatto che:

«diversamente dall’animale, l’uomo non ha impulsi e istinti che gli dicano automaticamente tutto ciò che deve fare; inoltre, contrariamente all’uomo di ieri, l’uomo di oggi non ha più tradizioni che gli indichino ciò che dovrebbe fare. Orbene, non sapendo ciò che deve e tantomeno ciò che dovrebbe fare, molto spesso non saprà più neanche ciò che in fondo vuole»1.

L’assenza di tali punti di riferimento conduce l’uomo a fare, volere e desiderare ciò che fanno, vogliono o desiderano gli altri. Il conformismo, l’omogeneizzazione e al contempo l’isolamento si manifestano nei più disparati tentativi di riempire il vuoto interiore. È sufficiente osservare la contemporaneità e rilevare come siano in aumento le diverse forme di dipendenze da alcool, droghe, gioco e internet (Internet Addiction Disorder), passando per i crescenti e cruenti fenomeni di criminalità, per giungere alla reificazione della sessualità che si sta spersonalizzando e sta via via perdendo la propria finalità (il proprio senso!) squisitamente relazionale, perché piegata sotto la spinta del godimento immediato e feticistico, dei corpi.

Sono solo alcune delle espressioni dell’uomo contemporaneo che possono essere lette alla luce del tentativo estremo di riempire l’abissale vuoto interiore. Purtroppo però queste modalità non fanno altro che deviare e soffocare il grido dell’uomo alla ricerca del significato della propria esistenza. A ragione Frankl afferma che «noi oggi non siamo più confrontati come ai tempi di Freud, con una frustrazione sessuale, quanto piuttosto con una frustrazione esistenziale»2. E, contrariamente a quanto affermato da Maslow nella celebre piramide dei bisogni, il desiderio, profondamente umano, di inondare di senso la propria esistenza, prescinde dall’autorealizzazione personale e dal soddisfacimento dei bisogni elementari, in quanto emerge sempre prima di essi (primum philosophari), anche e soprattutto quando l’esistenza è attraversata dalla sofferenza. Ne danno testimonianza i malati terminali e i sopravvissuti ai campi di prigionia e concentramento, alla ricerca del senso della propria esistenza e della propria sofferenza sino all’ultimo istante. Il bisogno di senso, precede dunque i bisogni fisiologici primari, li anticipa, per questo «l’uomo che in misura tanto rilevante cerca il piacere ed il godimento alla fin fine risulta essere uno che, nei confronti della sua volontà di significato, quindi […] nella sua motivazione ‘primaria’ è rimasto frustrato»3.

Il desiderio profondo che la propria vita sia animata da un senso è una peculiarità che, coloro che si occupano di esseri umani, non possono trascurare. Infatti, spesso è proprio la frustrazione della volontà di significato che genera altre problematiche, come quelle precedentemente citate e non viceversa. Per questo Frankl ha individuato una nuova tipologia di nevrosi, tipiche del tempo ipermoderno, le nevrosi noogene. Esse emergono precipuamente, quando la tensione per la ricerca del proprio senso viene frustrata e per questo può ripercuotersi o manifestarsi in sintomi nevrotici.

Se Freud scriveva che «nel momento in cui ci si interroga sul senso e sul valore della vita si è malati»4, Frankl invita a riflettere sul fatto che non si ammala tanto colui che s’interroga sul senso della propria vita, quanto piuttosto colui che frustra questa domanda, che la aggira, che tenta di soffocarla dirigendo il proprio desiderio di senso verso mete che non possono soddisfarlo pienamente. Dunque è possibile affermare che il riduzionismo freudiano non rende ragione dell’essenza ultima dell’uomo, come essere pensante che sin da quando ha sviluppato l’intelletto si è posto la domanda circa il senso della propria esistenza. Finché nell’uomo è presente questa domanda, è possibile vivere con pienezza anche gli ultimi istanti dell’esistenza. Nella misura in cui ci lasciamo attraversare dall’invocazione esistenziale del senso, ci possiamo sentire interpellati dalla vita, chiamati a risponderle restando fedeli al nostro compito, al nostro desiderio, anche quando le circostanze sono avverse e faticose.

La filosofia sin dalle origini nasce come fame di senso, come ricerca di significato, come interrogativo circa la possibilità di condurre la propria esistenza scoprendone il valore. Le parole e la vita dello psichiatra e filosofo Frankl, richiamano da vicino la mission esistenziale della filosofia, che ancora una volta può venire in soccorso alle nostre esistenze lacerate e attraversate dalla fatica esistenziale, suggerendo che il significato può essere trovato sempre, a condizione che lo si ricerchi instancabilmente. Esso è sempre concreto e si riferisce alla concreta esigenza del momento. «Ogni giorno, ogni ora – scrive Frankl – si presentano con un nuovo significato, e per ogni uomo c’è un diverso significato che lo attende. Ciò vuol dire che esiste un significato per ognuno, e per ognuno un significato tutto particolare»5. E l’uomo può scorgere il proprio senso solo nella misura in cui trascende se stesso, andando verso qualcosa o qualcuno che non è se stesso, «un significato da realizzare, o un altro essere umano da incontrare nell’amore»6. Pertanto, l’uomo coglie il proprio senso e si realizza quando ‘dimentica’ se stesso per amore di qualcosa o di qualcuno, per la quale o per i quali vale davvero la pena di vivere.

Per far fronte al vuoto esistenziale che lacera noi, uomini del tempo presente, è fondamentale riscoprire la volontà di significato che ci attraversa, lasciarci animare da essa in quanto motivazione primaria e possibilità insostituibile per inondare di senso il nostro cammino dilatando l’orizzonte della nostra vita.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. V. E. Frankl, La sofferenza di una vita senza senso, Milano, Mursia, 2013, pp. 29-30.
2. Ivi, p. 27.
3. Ivi, p. 36.
4. S. Freud, Lettere 1873-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 1960, p. 402.
5. V. E. Frankl, La sofferenza di una vita senza senso, op. cit., p. 50.
6. Ivi, p. 35.

 

copabb2019_ott

Riflessioni sul rapporto fra abisso e luce

Quante volte nel corso della nostra vita siamo colpiti da sofferenze inevitabili? Amori che finiscono, famiglie disgregate, amicizie lacerate, difficoltà economiche, malattie inguaribili, lutti. Contingenze che si abbattono sulle nostre esistenze, indipendentemente dalla nostra volontà e che ci fanno precipitare in un abisso. E, solo chi ha attraversato la sofferenza, può cogliere quanto tale abisso possa essere profondo.

Dinanzi ai dolori, in particolare a quelli legati alle ferite dell’anima, l’uomo si sente chiamato a cercare e a dare un senso alla travagliata esperienza che sta vivendo. È proprio questa chiamata che rende tale l’umano: la possibilità di inondare di senso le pagine tristi e dolorose della propria esistenza. Gli uomini, infatti, non potrebbero vivere la sofferenza se in qualche modo non le attribuissero un senso. Scrive Natoli: «Il dolore […] si fa experimentum crucis, sottopone a prova l’individuo che lo vive e si erge a controprova del senso dell’esistenza»1. La sofferenza, solo qualora sia inevitabile, diviene prova e per questo occasione di maturazione etica, psicologica e spirituale. La domanda di senso circa il male invita l’uomo ad assumere su di sé la sofferenza. In questo viaggio egli matura, apprende a vivere con una maggiore profondità e una piena consapevolezza la propria esistenza. Nel cammino solcato dalla sofferenza, l’uomo può trovare un senso positivo, caricandola di importanti valenze a livello umano e spirituale. Lo psichiatra Frankl ha individuato tre binomi che caratterizzano l’umano: colpa-pena, sventura-sofferenza, malattia-morte. Tutti noi infatti sbagliamo, soffriamo e moriamo. Alla luce del realismo di questa visione, Frankl sostiene però che ogni uomo può trovare un significato alla propria sofferenza e quindi alla propria vita, proprio nella misura in cui sottrae creativamente spazi di dominio alla colpa, alla sfortuna e alla sofferenza. La luce è dunque sempre a disposizione dell’uomo e questo dipende esclusivamente da come l’uomo sceglie di vivere una sofferenza ineludibile, dunque da quale atteggiamento interiore adotta verso il destino. È fondamentale riconoscere, quotidianamente, all’uomo questa possibilità affinché egli possa cogliere sempre il significato della propria esistenza.

La sofferenza inesorabile è dunque opportunità di crescita e cambiamento. Essa aumenta la sensibilità, la prudenza e al contempo allarga gli orizzonti della comprensione profonda dell’altro e del suo riconoscimento. Inoltre, qualora vissuta con pienezza di senso, permette di attivare quella che Frankl definì “forza di reazione dello spirito” e che oggi possiamo chiamare resilienza. La peculiare capacità umana di riemergere dall’abisso in cui una sofferenza senza senso può trascinare. L’uomo ha dunque in sé tutte le possibilità e le risorse interiori di riemergere dalle tenebre dell’abisso e rivedere la luce. Questo dipende da lui, dal modo in cui affronta la sofferenza e la vive. È dell’uomo infatti l’opportunità di trascendere il dolore. E questo accade quando egli soffre per amore di qualcosa o di qualcuno. Frankl ricorda che nei lager nazisti riuscivano a sopravvivere e a dare un senso alla tragica condizione esistenziale solo coloro che riconoscevano di avere un valido motivo per soffrire: un ideale politico, un valore religioso, una persona da amare, una causa da servire. A questo proposito va ricordata l’esortazione che il medico viennese fece ai propri compagni di baracca nel campo di sterminio affinché riuscissero a strappare un senso alla vita, nonostante la tragedia nella quale erano immersi:

«Dissi loro che in queste ore difficili qualcuno guardava dall’alto, con sguardo d’incoraggiamento, ciascuno di noi e specialmente coloro che vivevano le ultime ore: un amico o una donna, un vivo o un morto – oppure Dio. E questo qualcuno s’attendeva di non essere deluso, che sapessimo soffrire e morire non da poveracci, ma con orgoglio!»2.

È allora che l’uomo può inondare di senso la propria condizione e può cogliere eterni spiragli di luce oltre l’abisso, poiché soffre per qualcosa o qualcuno che sta oltre la sofferenza, qualcosa o qualcuno che la trascende.

Al termine di queste brevi considerazioni sull’abisso della sofferenza ineludibile e sulla possibilità di scorgere la luce oltre l’oscurità, come non riportare le parole che Rilke rivolse al giovane poeta Kappus dopo averlo confortato in modo edificante circa l’importanza di coltivare la speranza oltre le tenebre. Concluse Rilke: «E se vi debbo aggiungere ancora una cosa, è questa: non crediate che colui, che tenta di confortarvi, viva senza fatica in mezzo alle parole semplici e calme, che qualche volta vi fanno bene. La sua vita reca molta fatica e tristezza e resta lontana dietro a loro. Ma, fosse altrimenti, egli non avrebbe potuto trovare quelle parole»3.

Alessandro Tonon

Articolo scritto in vista del quarto incontro Luce/abisso della rassegna Tra realtà e illusione promosso dall’Associazione Zona Franca.

NOTE:
1. S. NATOLI, L’esperienza del dolore, Milano, Feltrinelli, 20105, p. 8.
2. V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113, p. 138.
3. R. M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 201321, pp. 62-63.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Si può sperimentare l’eternità dell’amore oltre la morte?

«Mettimi come sigillo sul tuo cuore […] perché forte come la morte è l’amore».

Cantico dei cantici 8, 6

Nel corso della nostra vita siamo posti di fronte all’invalicabile limite della morte, inteso come mistero per eccellenza. Dinanzi alla perdita di un proprio caro, di una persona amata, ci chiediamo che ne sarà di lui, di lei, ma soprattutto: che ne sarà del nostro amore per quella persona, una volta che si sarà congedata dal mondo? Che ne sarà di tutto quello che abbiamo vissuto insieme e che non potremo mai più rivivere? Sarà possibile continuare a sperimentare quell’amore cha ha caratterizzato il nostro rapporto con la persona morta?

Queste laceranti domande interpellano i filosofi sin dalle origini e tengono bordone nei duemilacinquecento anni di storia del pensiero. Un pensiero che si confronta con l’infinito desiderio d’infinito amore e si scontra con la finitudine dell’esistenza, limitata nel tempo e nello spazio. Ma è proprio l’amore la forza eterna che trascende la temporalità della nostra esistenza. È l’amore che è necessario coltivare nella nostra vita, perché solo esso lascia tracce di bellezza eterna e intramontabile nel nostro transito terrestre.

Scriveva Rilke: «Non vi lasciate ingannare dalla superficie; nelle profondità tutto diventa legge»1. Questo significa che l’amore può essere vissuto e sperimentato concretamente anche senza la presenza fisica dell’amato, nella propria profonda interiorità, poiché solo lì vi è l’eterna sorgente dell’amore; quell’amore che trascende anche la morte. Etty Hillesum testimonia quanto sin qui detto attraverso le parole che annota nel proprio Diario in seguito alla prematura morte dell’amato Julius Spier:

«Il mio cuore volerà sempre verso di te, da ogni luogo della terra, come un uccello e sempre ti troverà […] Sei diventato talmente parte del cielo che s’incurva sopra di me, che mi basta alzare gli occhi per esserti accanto. E se anche mi trovassi in una cella sotterranea, quel pezzo di cielo si stenderebbe dentro di me e il mio cuore volerebbe a lui come un uccello, ed è per questo che è tutto così semplice, sai, straordinariamente semplice e bello e ricco di significato»2.

Parole dense, profonde, consapevoli, di un’indicibile tenerezza e maturità interiore, psicologica e spirituale. Sì, perché solo un profondo percorso interiore può condurci ad esprimere con questa lucida e delicata dolcezza l’amore che trascende l’assenza della persona amata.

Un simile approdo si riscontra anche nelle parole e nell’esperienza di Viktor Frankl. Lo psichiatra viennese, nell’inferno del lager nazista, evoca l’immagine della moglie ventiquattrenne, anch’ella internata in un differente campo di sterminio e della quale ignora la sorte. Di fronte al limite invalicabile dell’assenza, della morte, si fa urgente una tendenza all’interiorizzazione. Il pensiero di Frankl va all’amore per la creatura amata, a prescindere dalla presenza fisica della stessa e dal sapere se sia o meno nel novero dei viventi. Scrive Frankl:

«Improvvisamente, ho di fronte l’immagine di mia moglie. […] Parlo con  mia moglie. La sento rispondere, la vedo sorridere dolcemente, vedo il suo sguardo, e […] per la prima volta nella mia vita, provo la verità di ciò che per molti pensatori è stato il culmine della saggezza, di ciò che molti poeti hanno cantato; sperimento in me la verità che l’amore è, in un certo senso, il punto finale, il più alto, al quale l’essere umano possa innalzarsi. […] l’uomo, anche quando non gli resta niente in questo mondo, può sperimentare la beatitudine suprema – sia pure solo per qualche attimo – nella contemplazione interiore dell’essere amato»3.

L’amore non solo eccede la morte, ma eternizza la vita. Nell’interiorità abbiamo la possibilità di coltivare l’amore per le creature, sperimentando l’eternità indissolubile di questo legame. L’amore per una persona cara è la bellezza senza fine di un fiore i cui petali mai avvizziscono, perché eternamente coltivati, riparati e protetti nella propria intima interiorità, all’interno della quale tutto viene conservato assumendo i contorni ontologici dell’essere eterno.

Pervenire a una simile, profonda consapevolezza, richiede un quotidiano e paziente esercizio interiore, che non può mai dirsi completo e raggiunto. Proprio per questo, di fronte all’enigma della morte, noi tutti ci troviamo al confine fra l’abisso del nulla, il nichilismo e l’eternità dell’essere che si fonda nell’amore che non ha mai fine. La nostra fragile umanità, al cospetto della fine, vive uno spaesamento tragico, perché non è né semplice né scontato riconoscere l’eternità dell’amore. Negli ultimi istanti della vita di una persona, particolarmente se cara, la vulnerabilità della nostra esistenza emerge nella sua angosciante pesantezza. Ma l’uomo che riflette sulla propria precaria condizione vive con umiltà e riconosce nella propria interiorità la traccia eterna dell’amore. La forza della fragilità che è principio e fondamento di ogni autentica relazione. Poiché, come scrive Rilke, l’amore è «qualcosa che lo elegge, e lo chiama a un’ampia distesa»4, l’uomo può imparare ad abitare la lacerante contraddizione della propria esistenza, segnata dalla morte, senza rimanere soffocato, aprendosi all’intramontabile orizzonte della bellezza interiore, nella quale l’amore ha la sua fragile ma eterna dimora.

Alessandro Tonon

NOTE:
1. R. M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, tr. it di L. Traverso, Milano, Adelphi, 201321,  p. 33.
2. E. HILLESUM, Diario, tr. it. di C. Passanti e T. Montone, Milano, Adelphi, 2013, pp. 751-752.
3. V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113, p. 74.
4. R. M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, op. cit., p. 49.

[Immagine tratta da Google Immagini]

L’amore. Frankl, oltre Freud e Adler

«Amare è un’angusta occasione per il singolo di maturare, di diventare in sé qualche cosa, diventare mondo, un mondo per sé in grazia d’un altro» M. Rilke.

Se la psicoanalisi si è preoccupata di studiare l’istintività, l’analisi esistenziale frankliana ripone la propria attenzione sulla ricerca di significato della vita. Ciò che attraeva Viktor Frankl e che continua ad interessare i suoi seguaci è propriamente il senso dell’esistenza, l’orientamento dell’uomo verso il significato. La massima esistenziale del senso viene proposta da Frankl attraverso la tesi del filosofo e teologo Hans Urs von Balthasar, il quale afferma che «il senso dell’essere sta nell’amore»1. Commenta Frankl: «Affermare fin dall’inizio che l’amore costituisce il senso dell’essere implica che “amore” vuol dire sempre “amore verso un tu”. Posso amare soltanto qualcosa di concreto, mai qualcosa di astratto e, quindi, non un valore come tale, in se stesso»2.

L’amore vero, rivolgendosi alla concretezza di una persona, non riguarda un’attenzione generica all’altro, al suo carattere psicofisico, alle sue facoltà, alla sua superficie. Esso ha come obiettivo scorgere la persona spirituale presente nell’altro. Perché «solo alla persona spirituale si dice tu»3 e l’amore chiama alla relazione con un tu. L’amore, pertanto, o è un rapporto fra un Io e un Tu, intesi come unità indivisibile di corpo, mente e spirito, oppure non è vero amore.

La psicoanalisi freudiana e la psicologia individuale adleriana, diversamente dall’analisi esistenziale, non prendono in considerazione la dimensione ontologica e spirituale della persona. Esse si soffermano sulla sola dimensione istintuale dell’essere (lo stesso Freud, scrivendo all’amico Binswanger, ammette di essersi dedicato solamente “al piano terra” dell’edificio uomo) che non viene integrata con le altre. Per questo risolvono l’amore o partendo dall’Es, dagli istinti, oppure partendo dal complesso di inferiorità sociale. In questo modo però viene meno l’essenza stessa dell’amore. Freud e Adler non parlano d’amore, bensì di un surrogato di esso, legato unicamente alla datità psicofisica o a quella sociale. «Sono ben note – scrive Frankl – le modalità carenti dell’amore: la libido ed il sentimento di inferiorità; questo è ciò che resta dell’amore, ciò che esso diviene nelle loro mani: da una parte pura sessualità, l’istintualità sessuale della persona, e dall’altra sola società, puro rapporto sociale»4. La volontà di piacere e di potenza, sono così in aperta opposizione con la volontà di amare. Se il valore ontologico sta nell’amore e questo viene deviato verso altre mete, si finisce per far degenerare la volontà di significato, appunto perché si smarrisce il senso dell’essere per eccellenza. Proprio per questo il filosofo viennese afferma: «Il potere cerca il valore d’uso di una cosa, mentre l’amore preserva la dignità della persona. Il potere lascia che si diventi egoisti, interessati, mentre l’amore rende attenti al valore»5.

Il nostro tempo sembra aver smarrito il significato profondo dell’amore. Le relazioni affettive non vengono vissute in pienezza, bensì vengono consumate fugacemente perché mosse solamente dal gioco del godimento immediato. La mercificazione dei rapporti comporta legami fragili e personalità altrettanto deboli. Infatti, l’atteggiamento puramente sessuale ha come fine il fisico del partner e in questo aspetto rimane imprigionato. Ugualmente l’atteggiamento erotico è finalizzato all’aspetto psichico, ma anche quest’ultimo non permette di conoscere l’intimità dell’altra persona. Solo chi assume l’atteggiamento dell’amore vero può incontrare l’altro, nella sua intimità pluridimensionale. In proposito Frankl si esprime così:

«L’amore (nell’accezione più stretta della parola) è la forma più elevata dell’erotismo (nell’accezione più estensiva del termine), in quanto offre la possibilità di penetrare il più profondamente e completamente possibile nella struttura personale di un Tu, entrando in una relazione squisitamente spirituale. Il rapporto immediato con lo spirito di un altro rappresenta la più completa forma di partnership. Colui che ama in tal modo non è più eccitato nel proprio fisico o scosso nella propria emotività: è commosso nel profondo dello spirito, toccato dall’umanità di un altro. L’amore è l’essere rivolti alla persona spirituale dell’amato, con la sua irripetibilità e singolarità»6.

Frankl sostiene che l’essere umano è animato dalla volontà di dare un senso alla propria vita e dal desiderio della massima pienezza esistenziale. La scelta d’amore è una delle mete che maggiormente permette di inondare di senso la propria esistenza, proprio perché integrando i diversi piani dell’essere (corpo, mente e spirito) può condurre alla completezza. Nell’epoca ipermoderna, l’uomo fatica a strappare un senso alla propria esistenza, talvolta sembra averlo smarrito e cerca di riempire il vuoto interiore abbandonandosi al soddisfacimento delle proprie pulsioni. Questo accade in particolare nei rapporti che profumano poco d’amore e molto di istintività narcisistica. Ecco che l’uomo e la donna si fanno guidare dal desiderio di godimento laddove:

«la volontà di significato rimane inappagata. Vale a dire che la volontà al piacere fa la sua apparizione quando l’individuo rimane frustrato nella sua volontà di significato; è allora in genere che egli comincia a essere sottoposto al principio del piacere secondo la psicoanalisi. La libido sessuale cresce rigogliosamente soltanto nel vuoto esistenziale!»7.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. V. E. Frankl, Homo patiens, tr. it. Di E. Fizzzotti, Brescia, Queriniana, 20012, p. 47.
2. Ivi, p. 47.
3. Ivi, p. 48.
4. Ivi, p. 49.
5. Ivi, p. 50.
6. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, tr. it di E. Fizzotti, Brescia, Morcelliana 20056, p. 161.
7. V. E. Frankl, Come ridare senso alla vita,  tr. it. di G. Garbelli e E. Schreil, Milano, Paoline 20122, p. 114.

[Immagine tratta da Google Immagini]

copertina-abbonamento-2020-ultima