«JE SUIS CHARLIE» A quasi 10 mesi dalla strage cosa abbiamo dimenticato?

Parigi, 7 gennaio 2015.
Rue Nicolas Appert, numero 10.
Sono le 11.30 del mattino, è in corso la runione di redazione.
Raffiche di arma da fuoco. Silenzio. Morte.
Due uomini armati di AK47 escono dalla redazione, il volto celato da passamontagna.
Scappano in tutta fretta ma incontrano una pattuglia di polizia e poi una seconda.
Altri scontri a fuoco. Ancora Morte.
Riescono di nuovo a fuggire ma poco dopo sono costretti ad abbandonare la macchina a causa di un incidente e si impossessano di un’altra auto
Miracolosamente, nella foga uno dei due perde la propria carta di identità.

Wittgenstein ci insegnava: «su ciò di cui non si può parlare è necessario tacere», e penso che nei giorni successivi all’attentato al giornale satirico francese egli avrebbe ribadito con forza il suo concetto.
Qual è il motivo che ci porta a strumentalizzare così facilmente una strage, a condividerne i video come pazzi sui social, ad alzare anche noi la voce al grido «Je suis Charlie» seguito da un molto meno pacifico «morte ai musulmani»? Perché semplicemente non esprimiamo il nostro cordoglio in silenzio, magari spegnendo televisori, computer e cellulari, meditando singolarmente su quanto accaduto?
Ma com’è che ora “nous sommes tous Charlie”?
Fino a qualche giorno prima, l’irriverenza della redazione aveva dato fastidio a chiunque: destra, sinistra, cattolici, ebrei e musulmani. Certo, a nessuno era venuto in mente di uccidere qualcuno, ma maledizioni, offese e minacce non erano certo mancate – basta pensare alle molotov lanciate contro la sede nel 2011.
Che dire dei giornalisti – e non solo – che di colpo si scoprono amanti della satira?
Che dire della frase che a partire dal 7 gennaio ha avuto tanta fortuna in rete: «non tutti i musulmani sono terroristi, eppure tutti i terroristi sono musulmani»?
Che dire di Mario Borghezio, che ha passeggiato per Milano attaccando copertine di Charlie Hebdo su ogni vetrina di Kebab?

Ma ci siamo chiesti cosa ne pensano loro – i musulmani – del gesto estremo compiuto da queste tre persone (sempre che solo di tre persone si tratti)?
Ecco degli estratti:
Dalil Boubakeur, Presidente del Consiglio Francese per il Culto Musulmano: «Ci inchiniamo davanti a tutte le vittime di questo dramma orribile».
Nabil al-Arabi, Segretario della Lega Araba: «l’Islam è contro ogni violenza».
Mohammed Mraizika, Segretario generale dell’Unione delle moschee di Francia: «Nulla, assolutamente nulla, può giustificare o scusare questo crimine».
A loro si aggiungono Tareq Oubrou, Rettore della moschea di Bordeaux, e l’Imam della stessa città, che invitano i musulmani tutti a partecipare alle manifestazioni per «esprimere il loro disgusto».

Tirando le somme, è fin troppo facile cadere in semplicismi o anche solo farsi trascinare dalla corrente, ma in questi momenti più che mai è necessario riflettere in modo “filosofico” (che non a caso in queste situazioni può essere sinonimo di “ragionevole”) ed analizzare in modo razionale la questione.
Non si può negare che il tragico atto sia stato “negativo” – almeno in quanto è stata fatta e subita violenza in modo oggettivo-razionalista, uscendo quindi da un’ottica etico-moralista. Ora, l’indagine filosofica di L.V. Tarca (ad esempio nell’opera “La filosofia come stile di vita”) ci insegna che negare una negazione significa riprodurla, dato che in ogni caso nego qualcosa, anche se quel qualcosa si tratta a sua volta di una negazione.
Nell’atto pratico, proporre una “soluzione” che sia in qualche modo “negativa”, almeno nella misura in cui si contrappone/opera violenza, non può essere una soluzione.
Testimonianza di ciò possono essere le reazioni del mondo arabo di fronte alla pubblicazione del nuovo numero di Charlie Hebdo, volutamente provocatorio. Come afferma l’Huffington Post: «Dal Pakistan all’Algeria, fino alla Giordania e alla Siria è un venerdì della collera quello che si è celebrato nel mondo arabo. Sotto accusa sono le nuove vignette su Maometto pubblicate dal settimanale satirico francese Charlie Hebdo».
Le manifestazioni più violente si sono registrate in Pakistan, dove la polizia ha dovuto intervenire con i lacrimogeni; in Iran, a Gaza e soprattutto in Niger, dove sono state incendiate quarantacinque chiese, cinque hotels, trentasei ristoranti, un orfanotrofio, una scuola e un centro di cultura francese. (Fonte: Internazionale).

Come si può, quindi, rispondere in maniera positiva – nel senso del “puro positivo”, cioè quell’azione che differisce dalla negazione senza però riprodurla e quindi seguendo la teoria della “pura differenza? Un suggerimento di risposta ci può essere dato – paradossalmente? – da Izzed Elzir, Presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche italiane (UCOII) e Imam di Firenze: «il mio invito, adesso, di fronte a questo estremismo ed a questo terrorismo, è di rafforzare le energie per aumentare il dialogo ed il confronto».

  1. Severino, nella sua opera “Capitalismo senza futuro”, e gli articoli presenti del testo “Primum Philosophari”, a cura di L. V. Tarca e Laura Candiotto, ci mostrano come un’azione che voglia essere coerente con se medesima non può prescindere dall’analisi di mezzo e scopo: essi devono coincidere. Non si può ottenere un certo risultato se le nostre azioni si discostano da esso. D’altronde ciò ci era già stato mostrato ed insegnato da Gandhi: per ottenere la non-violenza è necessario sì predicarla ma soprattutto metterla in pratica.
    Ecco quindi il puro positivo: cercare il dialogo con chi ci ha “violentato”, perché altrimenti riprodurremo l’azione che abbiamo subito: combattendo la guerra faccio comunque guerra, combattendo un violento opero comunque violentemente, combattendo un ingiusto riproduco l’ingiustizia.

«L’omofobia, la xenofobia ed il razzismo NON sono satira. Anzitutto perché la satira ha come bersaglio il potere e, in generale, i carnefici, non le vittime. In secondo luogo, gay, neri, uomini con gli occhi a mandorla ecc… si nasce. Non è qualcosa che puoi scegliere. Credere o meno in una divinità, invece, è una scelta. In terzo luogo, il razzismo in Italia è reato (legge 654/1975) e la legge è il limite della libertà di espressione».

Questa la risposta di un navigatore della rete alla prospettiva di un ideale giornale satirico “Salvini League” dai toni xenofobi, omofobi ecc ipotizzato da un altro marinaio in risposta all’articolo apparso su Wired il 09/01/2015 intitolato “L’Italia senza satira e la strage di Charlie Hebdo” redatto da Marco Rizzo.

Ho evidenziato subito quale sia secondo me uno dei punti fondamentali dell’enorme minestrone di idee che ha iniziato la sua lenta cottura a seguito del terribile fatto del 7 Gennaio.
La legge è il limite della libertà di espressione, o, modificando leggermente la formula: il potere è il limite della libertà di espressione. Sembra una cosa da nulla – quasi scontata oserei dire – ma invece a mio modo di vedere è uno dei nodi nevralgici della questione.
Alla domanda: «Ti è consentito proporre teorie ed analizzare cause e conseguenze di ogni fatto?»; tu cosa rispondi?

Sì, ci verrebbe da dire, l’Occidente si vanta da secoli della libertà che scorre nelle sue vene, quasi traesse il suo sostentamento dalle idee delle persone e non dai finanziamenti alle guerre che gli fanno comodo o dai massacri di massa in nome di un altro liquido di colore nero ben più proteico della parola “libertà”.

Nei fatti la risposta è un secco e categorico «NO».

Ormai non ci è più nemmeno consentito chi/cosa piangere. Il filtro delle notizie non è in mano nostra, ma ci precede. E così è naturale che “siamo tutti Charlie” mentre in Nigeria, il giorno seguente all’attacco al giornale satirico francese, Boko Haram ed i suoi soldati compivano la loro più grande strage senza che la cosa ci toccasse minimamente; e qui si temono duemila vittime: donne, uomini e bambini che non avevano offeso nessun profeta.
Un esempio di come la libertà di pensiero abbia vita breve è il semplice titolo di un articolo apparso su “Le Figaro” – giornale conservatore parigino – in segiuto alla strage: «La théorie du complot est l’arme politique du faible », cioè: «la teoria del complotto è l’arma politica del debole». Non voglio entrare nel merito della questione complottista, ma, alla notizia che ciò che ha permesso l’identificazione e quindi successivamente la cattura (in questo caso purtroppo l’uccisione) dei presunti attentatori è stata la perdita delle carte di identità da parte di questi ultimi nella macchina con la quale stavano fuggendo, a me qualche dubbio sulla “versione ufficiale” era sorto.
(Per un approfondimento psicologico sulla questione può essere interessante l’analisi di Nadine Eggimann, psicologa dell’Accademia militare del Politecnico federale di Zurigo, anche se a mio modo di vedere è alquanto semplicistico).

Un altro bell’esempio del lavaggio di cervello mediatico è quello messo alla luce dal progetto “Tra le righe” di Venezia: «Il giorno dopo l’attacco alla redazione di Charlie Hebdo, i nostri giornali ci offrono una carrellata di eloquenti prime pagine. Nulla di nuovo. Come era prevedibile, questa tragica vicenda ha portato anche i media a scadere in una facile generalizzazione. “Macellai islamici”, “Strage islamica contro la libertà”, queste sono alcune delle prime pagine che ci propone la stampa nazionale».

Cos’è, quindi, che abbiamo dimenticato?
Ci siamo dimenticati di indignarci. Non tanto per il fatto in sé, sfido chiunque a non condannare l’attentato, quanto piuttosto per come abbiamo reagito.
Il pensiero e la ragione sono i nostri più grandi alleati dato che anche in catene siamo – potenzialmente – massimamente liberi. Nostro diritto, e dovere, è quello di ragionare, di reagire agli stimoli in maniera ponderata, di non farci dominare dai sentimenti o da ciò che viene espresso dagli altri.

Massimiliano Mattiuzzo

[immagine tratta da Google Immagini]

Chi siamo per parlare di giustizia morale? L’immigrazione ci svela i nostri limiti

Tutti parlano di migranti. Tutti vogliono esprimere il loro giudizio a riguardo. Oggi provo anch’io a dire la mia, e ad organizzare in qualche riga i miei ingarbugliati pensieri.

Come prima cosa vorrei mettere al bando ogni tipo di giudizio di valore che è stato formulato in merito a questa vasta e complicata questione. Io credo che affrontare il dibattito a suon di “è giusto accogliere”, “è giusto rimandare a casa” non sia affatto efficace. In particolare, ciò che mi sembra fallace è lo stesso coinvolgimento della sfera della Giustizia. Perché non limitarci ai soli dati di fatto? Perché deve esserci per forza una Verità a riguardo?

L’intero processo storico è stato marcato da fenomeni di emblematica rilevanza; credo che possa essere elevata a tale anche l’ondata immigratoria che negli ultimi tempi si è posta con così tanta determinazione al cospetto della nostra attenzione e delle nostre sensibilità. È banale affermare che una migrazione di una così vasta portata (che coinvolge persone provenienti da svariati paesi, e spinte a partire da svariate motivazioni) sia una delle sfide più imponenti che finora si siano mai presentate nella lista delle cose da fare dei cosiddetti paesi “avanzati”. Una sfida che però li coglie (e forse, ci coglie) impreparati. Ma d’altronde, come si può essere pronti a gestire una tale emergenza? Forse arrabbiarsi con i vari organismi statali e con l’Europa tutta è superfluo: chi ha mai immaginato una situazione come questa?

La Storia, inoltre, non insegna! La Storia offre chiavi di lettura, parametri di confronto, strumenti; ma non fornisce alcuna soluzione. Ecco perché non mi piace, in quanto anacronistico e dunque totalmente inutile, associare il fenomeno immigratorio attuale con altri avvenuti in passato. L’unico punto in comune tre i migranti di oggi e quelli di ieri è il ritrovarsi costretti a partire, a lasciare il proprio luogo di origine. Indipendentemente dagli ideali politici, questo fattore dovrebbe toccarci tutti, in quanto cittadini e in quanto uomini. Mi auguro (e voglio sperare) che nessuno sia capace di rimanere indifferente di fronte alle notizie e alle immagini che quotidianamente fuoriescono dalle pagine dei giornali, dagli schermi televisivi, o addirittura dagli stessi telefoni che con costanza ed ossessione stringiamo in mano. Ma ciò che veramente fa la differenza, tra ieri ed oggi, sono le congiunture sociali, politiche e soprattutto economiche. Ed è questo il vero punto decisivo, in quanto influisce non solo sull’elaborazione delle strategie politiche volte a regolare il grande flusso umano, ma anche sulla nostra percezione di quanto sta accadendo. Questo punto, a mio parere, è tanto decisivo quanto spaventoso: il migrante, letto alla luce delle sovrastrutture che inevitabilmente condizionano il nostro pensare, viene scorporato della sua dignità e viene percepito come minaccia. Minaccia alla nostra “perfetta” e “pacifica” società; minaccia alla nostra economia; minaccia al nostro già travagliato mondo del lavoro. L’empatia, l’elogio dell’interculturalità, lo spirito di fratellanza, l’altruismo, talvolta vengono messi in ombra e soffocati. Ma infondo, è davvero legittimo condannare del tutto un tale atteggiamento, seppur di chiusura si tratta?

Io non ho risposte, e con queste righe non ho voluto esprimere alcun giudizio di parte. Ho cercato di descrivere la situazione così come appare ai miei occhi forse inesperti; ma soprattutto ho cercato di evidenziare la problematicità intrinseca ad ogni ragionamento in materia di immigrazione. Mi premeva il desiderio di stimolare la riflessione al dubbio e all’ignoto, perché troppo spesso riscontro un abuso delle etichette “moralmente giusto e quindi buono”, “moralmente sbagliato e quindi da denigrare”. Chi siamo noi per parlare autenticamente di giustizia morale?

Federica Bonisiol

[immagine di proprietà de La Chiave di Sophia]

Nella testa di una jihadista – Anna Erelle

“Fratelli del mondo intero, lancio la fatwa contro questo essere impuro che si è preso gioco dell’Onnipotente. Se la vedete, ovunque siate, rispettate le leggi islamiche e uccidetela. A condizione che la sua morte sia lenta e dolorosa. Chi si fa beffe dell’Islam ne pagherà le conseguenze col sangue. Essa è più impura di un cane, violentatela, lapidatela, finitela. Insciallah”.

Leggo la fatwa lanciata da Abu Bilel verso Anne Erelle nel luglio 2014 e sento pervadere il mio corpo da brividi di orrore e al tempo stesso da una repulsione che contengo a fatica.

Famosa giornalista d’inchiesta francese, Anne Erelle si è sempre definita interessata all’indagine sui comportamenti devianti; poco importava quale ne fosse l’origine, la sua ricerca è sempre andata ben oltre i fatti, cercando di cogliere i motivi per cui i destini di moltissime giovani fossero fatalmente caduti in trappola. E’ fenomeno estremamente attuale quello che vede protagoniste le adolescenti europee: vengono reclutate tramite internet per scappare dai loro paesi d’origine e dirigersi in Siria ed affrontare la guerra santa per lo Stato Islamico. E’ molto forte il proselitismo jihadista, non ha nulla a che fare coi metodi più vecchi: la “Jihad 2.0” è efficace, moderna, accattivante.

La vicenda riportata in “Nella testa di una jihadista” ha inizio nel marzo 2014. La giornalista d’inchiesta francese Anne Erelle, durante una delle sue indagini, entra in contatto attraverso un profilo fake in cui si fa chiamare Melanie con Abu Bilel, importante mujahiddin di origine europea. L’uomo si invaghisce della ragazza già dai primi scambi di messaggi, ritrovando in lei un bersaglio ideale per il reclutamento di giovani convertite, e in meno di ventiquattro ore le chiede già di incontrarsi su Skype, offrendole un matrimonio e un futuro in cui poter combattere per uccidere gli infedeli, per contribuire alla trasformazione dell’Islam in unico sovrano mondiale.

Un uomo che chiede a Melanie del profumo che porta e al tempo stesso esalta i suoi luoghi di battaglia in cui si vede ancora il sangue dei corpi uccisi.

E’ un lavoro duro quello di uccidere gli infedeli, mica sono in un villaggio turistico“: così afferma con fierezza, rimarcando tratti di fanatismo che non rendono giustizia all’umanità, che offendono il concetto stesso di vita per qualsiasi religione o culto che meriti di chiamarsi tale.

Dopo settimane di chat, Anne Erelle e la sua sete di indagine la portano ad accettare la proposta di matrimonio di Abu Libel e a dirigersi in Siria: al confine viene però scoperta e costretta a tornare immediatamente in Francia. Su di lei viene lanciata la fatwa mortale, un esito che la porta ad essere costretta a vivere sotto copertura e falso nome, nascosta per sopravvivere.

E’ una storia di coraggio ed indagine, è un diario di lotta e determinazione. Una donna che lotta per comprendere un fenomeno che è ancora troppo distante dalle nostre concezioni, pur avvicinandosi a noi sempre più pericolosamente. Cosa affascina le giovani donne che lasciano famiglie, parenti e amici per una vita ad estremo contatto con la violenza in cui alternano continuamente gli status di vittime sottomesse e carnefici spietati?

E’ un meccanismo complicato ed avvincente quello degli jihadisti, che considerano più facile conquistare l’Occidente avvicinandosi alle donne, perché il sesso più debole ed influenzabile.

“Voi donne europee siete maltrattate e considerate oggetti. Gli uomini vi esibiscono al loro fianco come un trofeo. E’ necessario che l’IS raggiunga il maggior numero di persone, ma prima di tutto quelle più maltrattate, come le donne”.

Abu Libel offre a Melanie la salvezza, sembra volerla portare via da un mondo che non la considera abbastanza. Abbastanza importante. Abbastanza persona. Abbastanza donna. Le prospetta importanza, ma al tempo stesso il suo tono non è soltanto autorevole, ma piuttosto autoritario. Un’autorità che non lascia dubbi sulla differenza tra oggettività o soggettività di una donna. Un’autorità che affascina troppe donne indifese, perché alla ricerca di considerazione. Un’autorità che preoccupa le donne che lottano ogni giorno per essere considerati tali. Un’autorità sfrontata, che non conosce limiti e riserve.

L’esperienza di Anne Erelle è quella di una donna che lotta per le donne. E’ quella di una passione talmente forte da mettere a rischio la propria vita. E’ quella di chi ha talmente tanto coraggio da poter rinunciare alle paure più comuni e giustificate. Un diario d’inchiesta da leggere d’un fiato per aprire gli occhi su una realtà terribilmente in prospettiva e – ancor prima di tutto – per raccontare una storia di coraggio.

“La storia dell’Uomo è anzitutto e soprattutto una storia di coraggio: la prova che senza il coraggio non fai nulla, che se non hai coraggio nemmeno l’intelligenza ti serve”. Oriana Fallaci

Cecilia Coletta

[immagini tratte da Google Immagini]

È tutto un caso. È tutto assurdo. È tutto adesso.

Io ne ho presi cento di quei Germanwings. Prenotavo sempre la prima fila. Vicino al finestrino. Che stai più larga, che ti portano un panino freddo e un pezzo di cioccolata, che ti godi il panorama. L’Italia. Le Alpi. E poi il Lago di Costanza. Che ti dice che ormai è fatta. Allora ti alzi, vai in bagno, ti dai una pettinata, una ritoccata al trucco. Pronta per riallacciare le cinture, atterrare, slacciartele proprio mentre ti stanno chiedendo di aspettare prima il segnale, accendere il cellulare, scrivere “sono qui” e finalmente buttarti tra le braccia di chi ti sta aspettando all’aeroporto.
Non c’è necessità di usare frasi di circostanza. La parola tragedia sembra ridicola. Tutto sembra ridicolo. Tutto lo è.
È tutto assurdo. È tutto un caso. È tutto adesso.

Aprire il sito. E davvero non avere più parole. Ma solo preghiere.

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Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale / Views are my own]

La Consulenza Filosofica, intervista a Eugénie Vegleris

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La mia esperienza professionale mi orienta da tredici anni verso la stessa problematica

filosofica, molto aristotelica: il passaggio dalla riflessione alla volontà, dalla volontà alla

deliberazione, dalla deliberazione all’azione. Sostengo, con l’appoggio di prove, che l’approccio della filosofia pratica è più efficace dell’approccio psicanalitico. E sento che questa superiore efficacia trovi radici nella natura del pensiero. Il pensiero produce e maneggia concetti e non immagini: libera l’individuo dal peso diretto delle cose.

 

Così, Eugénie Vegleris descrive in un articolo la propria esperienza professionale.

La Vegleris, consulente filosofica presso diverse aziende francesi, ha abbandonato l’insegnamento nelle scuole per fare della “fede filosofica” la propria professione, fondando la Filosofia Aziendale.

Interviene, utilizzando la filosofia come metodo di comunicazione, di creazione di progetti e risoluzione di problemi, in molte associazioni francesi, nelle aziende o nei confronti di persone singole.

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La Filosofia fa parte della sua vita: cosa significa per lei “filosofare”?

Domanda difficile…filosofare consiste nel cercare il senso di quello che facciamo, viviamo, di quello che ci succede; è ciò che ci permette di essere sempre aperti per costruire il significato delle cose.

Lei ha fatto l’insegnante per molti anni e poi è passata alla consulenza filosofica: qual è stato il suo percorso e cosa l’ha spinta ad intraprendere la consulenza?

In realtà non c’è stata nessuna spinta!

Semplicemente ero disperata dall’insegnamento: avevo insegnato per 10 anni amavo gli allievi, mi piaceva il mestiere, ma non potevo più sopportare la gestione della scuola francese, perché era diventata antifilosofica, perché, per esempio,  non dava più la possibilità di uscire dalla scuola con gli allievi per andare al museo, al cinema…e, a mio avviso, la filosofia è e deve essere, un dialogo sul mondo!

Così ho abbandonato l’insegnamento senza sapere cosa fare ma avendo sempre in testa come obiettivo la mia libertà; un giorno ho saputo per caso che c’era un consulente filosofico a Parigi collegato a Gerd Achenbach, il fondatore tedesco della consulenza filosofica, così sono andata a incontrare entrambi e ascoltando quello che loro facevano mi sono detta, senza sapere esattamente cosa fosse la consulenza filosofica, che volevo fare proprio quello!

Man mano, ho tessuto il mio mestiere con l’esperienza, sono un’ autodidatta.

Cos’è la consulenza filosofica?

La consulenza filosofica è l’incontro tra il consulente che ha la fede filosofica, cioè credere assolutamente nell’efficacia del pensiero, e un’altra persona che ha scelto di intraprendere il cammino della conoscenza di se stessa per affrontare le diverse situazioni professionali ed esistenziali.

Lo scopo della consulenza è la libertà dell’altro, facendogli scoprire come può, attraverso la riflessione, superare i limiti superabili e ambire alla propria libertà.

Molti considerano la filosofia astratta e inutile -in Italia la stanno eliminando da molte facoltà-, eppure la consulenza filosofica entra anche nelle aziende: come vengono a coincidere questi due mondi che sembrano opposti?

Sembrano opposti ma non lo sono. La filosofia all’inizio della sua storia era una prassi, Socrate dialogava con diversi professionisti sul senso della loro attività (che cosa è la giustizia? Che cosa è l’educazione? Che cosa è la comunicazione?…) come il lavoro nelle aziende che è una prassi che richiede la decisione, la comunicazione, il management… : tutti i filosofi hanno riflettuto sull’uomo e sul mondo per costruire una politica, una prassi (solo la filosofia di Heidegger non è seguita da una politica ed un’etica). Il primo è stato Platone, più recentemente Hanna Arendt; la tradizione, quindi, prova che la filosofia non era, dunque non è astratta. Lo è diventata per una deviazione universitaria, teorizzandosi sempre di più. In effetti, dopo Cartesio, tutti i filosofi erano professori all’Università e, lontano dall’azione, hanno reso la Filosofia astratta. Più esattamente, I grandi pensatori come Kant, s’interessavano molto all’azione – all’etica ed alla politica. Però, le loro opere erano tanto complesse quando inaccessibili, mentre i pensatori mediocri diventavano astratti per far finta di essere profondi.

La tradizione della filosofia è assolutamente teorico-pratica perché solo il concettualizzare permette di capire la realtà: non è possibile agire sulla realtà senza capirla.

Poiché la filosofia è un approccio di concettualizzazione  della realtà, essa è anche un mezzo per trasformare la realtà. Di conseguenza, la consulenza filosofica diventa la concretizzazione pratica della filosofia.

Etica nell’azienda: il filosofo come riesce ad introdursi in un ambiente che non rispecchia la propria moralità?

L’impresa non è etica, è perfino amorale, non le importa la moralità perché quello che le interessa è il profitto. Tuttavia, le persone che ci lavorano, non sono tutte sottomesse all’ideologia del profitto. Il consulente filosofico approfitta dei direttori che sono convinti della necessità di riflettere e di camminare con il pensiero e non con il calcolo per introdurre la sua attività. Una volta all’interno dell’azienda, il consulente filosofico può agire in accordo con se stesso e, in caso di disaccordo etico,  il suo dovere è di  andarsene via.

Perché un dirigente di azienda dovrebbe scegliere un filosofo? 

Le ragioni sono diverse.

Primo, per curiosità: ho iniziato a fare questo mestiere nelle aziende perché un direttore era curioso di vedere quello che io potevo fare per la sua impresa.

Secondo, per disperazione: succede che ci sia in azienda un problema che nessun consulente classico è riuscito a risolvere e per disperazione il dirigente può pensare che forse il consulente filosofico potrebbe affrontare la difficoltà. In effetti, il filosofo, che non pensa né agisce per schemi prestabiliti, riesce meglio di un consulente/councelling a gestire l l’insolito o/e l’imprevisto.

Terzo, per la simpatia verso la filosofia: molti dirigenti hanno studiato la filosofia e la considerano utile, questo è molto favorevole per potersi introdurre nell’ambiente.

Esiste un metodo universale per la consulenza filosofica?

Credo di no, ogni consulente fa alla sua maniera.

C’è, però, un’etica comune: lo scopo del consulente filosofico non è quello di fare soldi ma di essere utile senza sottomettersi all’ideologia dell’impresa che è assolutamente criticabile.

Devo aggiungere che l’impresa mi sembra essere un laboratorio molto interessante per osservare il mondo attuale: trovandosi al centro del mondo che cambia senza pausa, l’impresa è costretta a adattarsi ai cambiamenti mentre le scuole rimangano ancora pure teorie. L’impresa è un luogo attraversato da numerose tensioni e dalle tensioni può sempre nascere qualcosa di nuovo. I progressi nascono dalle crisi -questa è la mia scommessa.

Lei ha il suo metodo di consulenza?

Sì, ho delle linee guida, però poi improvviso rispetto all’ambiente, alla situazione, alle persone…

Questo mestiere mi fa sentire libera perché ho la fede filosofica nelle viscere e so che le persone sono ricche di idee; il consulente agisce sempre in una situazione precisa in cui le persone sono coinvolte e quindi interessate al successo del colloquio con il consulente filosofico. Per questo motivo il filosofo non è mai solo ma è sempre aiutato dalle persone che lavorano con lui!

La consulenza funziona proprio nella reciprocità e questo l’arricchisce.

In Italia la consulenza filosofica non è molto diffusa e ci si affida più agli psicologi, mentre negli USA la figura del consulente è molto richiesta; perché c’è questa diffidenza verso il filosofo in Europa?

Credo che l’Europa sia troppo attenta e sottomessa ai suoi pregiudizi e non sia abbastanza aperta.

Negli USA quando una cosa funziona, viene replicata immediatamente per la sua efficacia, mentre in Europa bisogna prima verificare l’efficacia, poi provare e infine decidere, gli USA provano subito e se va bene continuano, altrimenti smettono: il declino dell’occidente consiste, secondo me, nella diffidenza verso le novità.

Lei afferma che la consulenza filosofica dia libertà all’interlocutore, quella libertà che si prova studiando la filosofia, essendo una ‘disciplina’ che apre la mente a 360 gradi. Questo viene colto nelle aziende dopo che svolge i colloqui?

No. Purtroppo, questo non succede nelle aziende perché l’uso della filosofia nell’azienda è limitato alla chiarificazione e/o risoluzione di una situazione. Quindi la consulenza filosofica presso le imprese  non può aprire la mente a 360 gradi! Ciò nonostante, chi percorre il sentiero della consulenza scopre la bellezza della filosofia e, chi sa, un giorno, fuori dalla azienda….

Quindi secondo lei la filosofia riuscirà mai ad avere l’attenzione che merita nella nostra società?

Questo dipende solo da voi giovani perché credo che il futuro sia solo vostro; e vostro deve assolutamente essere, dunque, il compito di valorizzare e promuovere filosofia. Obiettivo arduo perché la società crede di non aver bisogno della filosofia, crede che la globalizzazione possa farsi così, senza alcuna riflessione. Ma io sono convinta che voi giovani abbiate la possibilità di cambiare le cose.


Comprende per agire, così potremmo riassumere la finalità che si cela dietro l’esperienza della consulenza filosofica di Vegleris.

Comprendere inteso come prendere coscienza di sé, integrando e appropriandosi di ciò che abbiamo di fronte nella nostra vita o in diverse situazioni, ciò che è esterno e estraneo a noi stessi.

Nel momento in cui qualcuno comprende quest’ultimo intraprende qualcosa di nuovo, agisce in vista di un fine, un obiettivo o di un progetto, che sia all’interno del mondo aziendale o semplicemente all’interno della propria vita.

La consulenza filosofica risponde al bisogno vitale di senso, offrendo gli strumenti mentali per un uso efficace del pensiero, pensiero che diventa “dialogo dell’anima con se stessa”; offre uno spazio di dialogo, il cui nucleo è l’uomo come insieme di pensiero, emozione e azione e dove consulente e consultato sono alla pari.

Come esperto nell’interpretazione delle visioni del mondo, il consulente filosofico aiuta i consultanti a scoprire i diversi significati che sono contenuti nei loro modi di vita ed esamina criticamente quegli aspetti problematici che rappresentano le loro difficoltà.

Ran LAHAV

La consulenza filosofica come reale alternativa alla psicoanalisi, nella quale nasce una “relazione”, ed è proprio nel rapporto interpersonale che il discorso filosofico trova una sua realizzazione.

La filosofia insegna ad agire, non a parlare.

Seneca


[Immagini tratte da Google immagini]