L’impressionismo prima degli impressionisti

Esiste una pur remota possibilità che uno o più artisti abbiano anticipato, nelle forme e nei contenuti, i caratteri fondanti, e spesso inconfondibili, di una corrente artistica di molto successiva? Come già ho avuto modo di dimostrare in un mio vecchio articolo dedicato al pittore genovese Luca Cambiaso, in rarissime occasioni questo può accadere, anche se, di fatto, non si può certo parlare di vera e propria anticipazione, ma, piuttosto, di casuale coincidenza formale, talvolta sorprendente ma comunque destinata a rimanere tale, non potendo essa colmare le abissali distanze concettuali e contestuali che intercorrono tra un dato movimento artistico (o ancor meglio un’Avanguardia) e il suo fantomatico precursore.

Quando si viene a prendere in considerazione la poetica dell’Impressionismo, tuttavia, le cose cambiano radicalmente. Infatti, se da un lato le grandi Avanguardie di inizio Novecento presentano delle caratteristiche ben definite e marcate e, spesso, fanno perno su un manifesto che ne illustra i propositi, l’Impressionismo francese è una corrente dalle basi teoriche meno solide, fondata su assunti semplici e su un’eccezionale immediatezza visiva. L’obiettivo principale dell’arte portata avanti da Monet, Cézanne, Renoir e compagnia è quello di catturare un’immagine della realtà quotidiana così come la si percepisce a un primo e fugace sguardo, e di rielaborarla in pittura con un tocco rapido e brillante. Ciò significa che l’arte di questi maestri presenta un caos di pennellate dense e talvolta grossolane che, una volta viste da lontano, si ricompongono in un magnifico ordine che ci mostra una qualche veduta della Senna o un affollato locale alla moda parigino.

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Ecco che queste caratteristiche generali, e a dire il vero piuttosto generiche, hanno alimentato osservazioni su osservazioni da parte della critica, che presto ha saputo individuare modelli e precursori di questo tipo di pittura. Cosa che, in fin dei conti, non è poi così difficile, visto che la sua qualità fondante è essenzialmente quella pennellata spessa e veloce che si vede soprattutto in Monet e Sisley. È in particolare il cadorino Tiziano Vecellio a essere indicato come il primo grande precursore dell’Impressionismo. Nelle sue opere tarde, vale a dire quelle databili dal 1560 fino all’anno della morte (1576), il grande maestro veneto porta lo sviluppo della pittura tonale a estreme conseguenze, raggiungendo risultati che esteticamente si discostano molto dalla pittura coeva: la Punizione di Marsia di Kromeritz o il Ratto d’Europa di Boston ne sono due ottimi esempi. Questa fase della produzione di Tiziano fu molto apprezzata da numerosi pittori francesi dell’Ottocento, in particolare da Delacroix, artista molto noto agli impressionisti e che in qualche modo può rappresentare il trait d’union tra il maestro veneto e quelli d’oltralpe. Tuttavia, nonostante Tiziano fosse studiato e ampiamente apprezzato nella Parigi di quegli anni, la sua arte è troppo distante sia storicamente sia culturalmente dai risvolti del secondo Ottocento parigino per poter figurare come anticipatrice della corrente impressionista: le basi comuni, che si limitano a una vaga somiglianza stilistica nella stesura del colore, sono davvero troppo deboli.

Tuttavia, alcuni decenni prima, ci fu un altro grande ammiratore della pittura di Tiziano dall’altra parte della Manica, il quale va considerato a mio parere il vero e forse unico grande precursore dell’Impressionismo, l’inglese William Turner. A partire dal 1820 egli adottò un’impronta stilistica sempre più moderna, che giunse progressivamente a quelli che, negli anni ’40 dell’Ottocento, furono dei veri e propri colpi di genio, dipinti al limite dell’astrazione, come dimostra il capolavoro Rain, steam, speed della National Gallery di Londra. Risultati di questo calibro furono raggiunti oltre trent’anni prima rispetto ai capolavori di Monet e Renoir, in un contesto storico, quello contingente alla rivoluzione industriale, del tutto simile: così come in Francia si sentiva il bisogno di un cambiamento, così in Inghilterra Turner lo ha sentito parecchi anni prima, non limitandosi a un approccio di stampo romantico verso i paesaggi inglesi, ben esemplificato dalla pittura di Constable, ma adottando un linguaggio formale che superasse l’immagine oggettiva, pur filtrata da sentimenti personali, e che giungesse alla rappresentazione di una realtà veloce, in continua evoluzione, che l’occhio non fa più in tempo a descrivere con attenzione.

constable-hadleigh-castleQuesto approccio moderno fu adottato in realtà anche dallo stesso John Constable, che in alcuni suoi studi preparatori ha ottenuto delle immagini che, per modernità, non temono il confronto con Turner: basti pensare allo studio a grandezza naturale per Hadleigh Castle, alla Tate Gallery di Londra, per rendersene conto. Tuttavia questi magnifici dipinti, concepiti con grande cura dall’autore (e sicuramente da lui molto amati), non erano destinati ad essere visti pubblicamente nelle esposizioni della Royal Academy, ma restavano un lavoro privato di Constable, che, mosso da impulsi e idee simili a quelli di Turner, non ha però potuto azzardare un passo così audace, che solo qualche anno dopo avrebbe trovato invece terra fertile negli occhi di chi, ormai immerso in un mondo cambiato, avrebbe compreso quell’evoluzione. Ecco quindi che, forse, i primi veri impressionisti non furono francesi, ma britannici, un po’ meno consapevoli del loro essere tali ma certamente altrettanto moderni e innovativi.

 

Luca Sperandio

 

NOTE
Immagine di copertina: opera di William Turner
Immagine 1: Tiziano, Ratto di Europa
Immagine 2: John Constable, Hadleigh Castle

 

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Il tempo delle cattedrali: nostra signora di Parigi

Con la sua prima pietra posata sull’Île de la Cité nel 1163, la cattedrale di Notre-Dame de Paris è stata per quasi un millennio testimone della storia di Parigi, della Francia e dell’Europa, ne ha accompagnato le figure storiche e ispirato gli artisti, si è fatta culla di bellezza e di spiritualità, ha accolto fra le sue mura sovrani e diseredati.

Dalla cattedrale ancora in lavorazione, nel 1185, Eraclio di Cesarea ha indetto la Terza Crociata, mentre San Luigi ne fece forziere della miracolosa Corona di Spine nel 1239; Filippo il Bello la scelse come sede della prima riunione degli Stati Generali nel 1302, mentre Enrico IV d’Inghilterra volle essere incoronato Re di Francia al cospetto delle maestose vetrate gotiche di Notre-Dame nel 1431, preferendola alla tradizionale sede delle incoronazioni, la Cattedrale di Reims, come avrebbe fatto nel 1804 anche il neo-imperatore Napoleone; devastata durante la Rivoluzione Francese, Notre-Dame divenne sede del Festival della Ragione nel 1793, mentre nel 1944 Parigi vi celebrò la propria liberazione con un Magnificat e una Messa in Te Deum. Victor Hugo, nel suo Notre Dame de Paris (1831), l’ha trasformata nella casa del campanaro gobbo Quasimodo, perdutamente innamorato della zingara Esmeralda, contesagli dal bel capitano della guardia cittadina Febo e dall’arciprete Claude Frollo; Honoré de Balzac ne ha fatto la silenziosa testimone di un’avventura parigina dell’esiliato Dante Alighieri in I proscritti (1831), mentre il poeta Gérard de Nerval nelle sue Odelettes (1832) l’ha descritta come eterna sentinella dei millenni che si succedono. È stata dipinta da Jaques-Louis David e da Honoré Daumier, da Henri Matisse e da Marc Chagall, è stata cantata da Édith Piaf e da Paul Burani, da Léo Ferré e da Riccardo Cocciante. Il cinema l’ha fotografata più volte, con Un americano a Parigi (1951) o i disneyani Il gobbo di Notre Dame (1996) e Ratatouille (2007), Midnight in Paris (2011) e Before Sunset – Prima del tramonto (2004). Perfino il mondo dei videogame ha prestato il proprio omaggio alla cattedrale, che irrompe nel mondo virtuale in titoli come TimeSplitters 2 (2002), Civilization IV (2005), Assassin’s Creed Unity (2014) o Forges of Empires (2012).

Mentre Parigi cresceva e diventava uno dei centri nevralgici della vita e della cultura europee e mondiali, Notre Dame era lì, ad accompagnare e ospitare la sua storia: ha ospitato matrimoni, come quello di Maria di Scozia o di Enrico di Navarra, e funerali, come quello del Generale Charles de Gaulle o del Presidente François Mitterand, celebrando la vita e la morte dei parigini, accompagnandone i trionfi e le sconfitte, attraversando momenti di prosperità e di povertà, pesti e battaglie, occupazione e guerra, feste e rivoluzioni.

Un edificio come Notre Dame non è “solo” un monumento: è lo spirito di un popolo fatto pietra, simbolo dell’identità più profonda di una città, un paese, un continente, testimonianza incrollabile del meglio di cui l’umanità è capace, una bellezza e una spiritualità che superano le contingenze storiche e geografiche per parlare tutte le generazioni e tutte le genti, testamento di un popolo che affida la propria voce a mura e statue che abiteranno un futuro che alla carne è precluso.

L’intera umanità, non solo il popolo parigino o francese, ha rischiato di subire una ferita irrimediabile la sera del 15 aprile. Nostra Signora di Parigi è danneggiata, ma siede ancora sul suo trono, sull’Île de la Cité, dal quale veglia sulla città da novecento anni, testimone, protagonista e custode di una storia che le sarà affidata, si spera, per ancora molti, molti anni.

Giacomo Mininni

[foto di Stephanie LeBlanc tratta da Unsplah.com]

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Libri selezionati per voi: luglio 2018!

“Luglio col bene che ti voglio vedrai non finirà.
Luglio m’ha fatto una promessa l’amore porterà.
Anche tu, in riva al mare tempo fa, amore, amore
mi dicevi: “luglio ci porterà fortuna” poi non ti ho vista più;
vieni, da me c’è tanto sole ma ho tanto freddo al cuore
se tu non sei con me”.

Recita così una famosa canzone della storia della musica italiana, che ancora oggi con la sua melodia ci porta indietro nel tempo, ad una di quelle estati in cui il mare lo si raggiungeva con la Vespa, senza traffico per strada e con addosso un paio di quegli occhiali che oggi definiamo vintage. Non fate come il suo autore però: quest’estate non lasciatevi sopraffare dalle pene d’amore! Per noi le opzioni sono due: o storie d’amore a lieto fine, o una bella lettura sotto l’ombrellone, perciò ecco a voi i nostri consigli del mese.

 

ROMANZI CONTEMPORANEI

occhi-gialli-dei-coccodrilli-la-chiave-di-sophiaGli occhi gialli dei coccodrilli – Katherine Pancol

Se cercate una lettura corposa, divertente e coinvolgente per l’estate appena iniziata, questo libro è giusto per voi. Numerosi e vari i personaggi che vi intratterranno: prima su tutti la protagonista Josephine. Disillusa, impacciata e studiosa del Medioevo si dovrà fare carico della vita familiare dopo essere stata abbandonata dal marito. La sua storia personale si intreccia a quella della figlia maggiore, ragazza sveglia e intraprendente; a quella della favolosa e invidiabile sorella; e a quella della madre, spietata e opportunista. Grande successo editoriale in Francia, il romanzo è completato da altri due testi: Il valzer lento tartarughe e Gli scoiattoli di Central Park sono tristi il lunedì. Trilogia imperdibile!

la-chiave-di-sophia-vivere-stanca-izzoVivere stanca – Jean-Claude Izzo

I bassifondi della Marsiglia di un tempo fanno da sfondo a questa raccolta di racconti di Izzo, scrittore francese dalle origini italiane. In particolare, il porto cittadino e i suoi personaggi emblematici ci parlano di crudeltà, lotte e amori impossibili, elementi tutti tinti di noir, tratto caratteristico dell’autore. Letture veloci, ideali per chi è di fretta, per chi ha i bambini che sgattaiolano in spiaggia da sorvegliare, per chi vuole scoprire il volto della Marsiglia di una volta.

 

UN CLASSICO

chiave-di-sophia-malavogliaI Malavoglia – Giovanni Verga (1881)

Protagonisti del romanzo sono i Toscano, detti anche “Malavoglia”, una famiglia tradizionale, basata su un sistema patriarcale, dove il vecchio padron ‘Ntoni, capofamiglia indiscusso, presiede sui figli e sui nipoti, ispirandosi ai vecchi proverbi che mai lo tradiscono. Ciò rende la vita della famiglia socialmente chiusa, legata ad abitudini che da secoli si presentano immutate, tramandate di generazione in generazione. Ne deriva un necessario sconvolgimento dei fatti, non appena subentra il “nuovo”, difficilmente accolto da chi non è in grado di cambiare davvero. Fedele rappresentazione di uno spaccato sociale, Verga si fa portavoce di una denuncia sociale, arricchendo la narrazione di tematiche profonde e sentite che scavano tra le debolezze e le difficoltà umane.

 

UN SAGGIO

lo-zen-e-la-cerimonia-del-te_la-chiave-di-sophiaLo zen e la cerimonia del tè – Kakuzo Okakura

Questo libricino di Kakuzo Okakura è un vero e proprio must per chi voglia mettere un dito nella sconfinata, profondissima e delicatissima cultura orientale; non a caso, venne scritto nel lontano 1906 in lingua inglese da un orientale agli occidentali. L’estate sembra non essere fatta per i saggi, ma voi provate a portarvi sotto l’ombrellone questo volumetto di un centinaio di pagine e lasciatevi immergere nella «tazza dell’umanità», dove Oriente e Occidente trovano il loro proprio punto di incontro. Il tè assurge a simbolo di una sensibilità ed un pensiero orientali descritti attraverso due discipline: il taoismo e lo zen (una declinazione giapponese del buddismo); entrambe delineano un’estetica che intreccia l’arte allo stare al mondo, tanto che «distruggendo la bellezza della vita, distruggiamo anche l’arte».

 

JUNIOR

chiave-di-sophia-respirazione-bocca-a-bocca-alla-balenaRespirazione bocca a bocca alla balena – Alberto Rebori, Alberto Casiraghy

Un breve libricino dalle immagini chiare e il testo didascalico, utile per ragionare sulle grandezze e per ideare qualche attività su questo tema. Fare la respirazione bocca a bocca ad una balena, se seguite i suggerimenti degli autori non sarà più una mission impossible! Lettura simpatica per tutti i bambini della scuola primaria, ideale per queste vacanze. Chi non vorrebbe avvistare una balena all’orizzonte durante una giornata in riva al mare?

fiato-sospeso-chiave-di-sophiaFiato sospeso – Silvia Vecchini, Sualzo

Vado subito al dunque, perché è il seguente pregiudizio ciò che il libro vuole sanare: se frequentate la scuola media e soffrite di allergia e dermatite, farete molta fatica a crearvi delle amicizie. È questo il caso di Olivia, ragazzina intelligente ed energica con la passione per il nuoto. In acqua la ragazzina si sente allo stesso tempo libera e protetta; libera di essere se stessa e protetta dagli sguardi dei compagni. In seguito ad un furto ai danni della sua scuola, Olivia vorrà scoprire chi è stato il colpevole; lo farà accompagnata dall’unico vero amico di sempre e dalla ragazza che tanto la derideva. Come forse intuirete, il finale di questo fumetto sarà all’insegna dell’amicizia.. Una vera rivincita per la nostra protagonista!

 

Federica Bonisiol, Giorgia Favero, Anna Tieppo

 

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Film selezionati per voi: marzo 2018!

Una proposta cinematografica ricca, quella di marzo. Date un’occhiata ai suggerimenti dei nostri esperti Rossella & Alvise! Vi propongono titoli che vi faranno riflettere su società, futuro, natura… Insomma non avete scuse per concedervi un’uscita al cinema. Buona visione!

 

FILM IN USCITA

dark_night la chiave di sophiaDark Night  Tim Sutton
Rischiava di non essere mai distribuito nel nostro Paese uno dei film più interessanti degli ultimi anni, presentato nel 2016 alla Mostra del cinema di Venezia e mai più uscito nelle sale italiane. A due anni di distanza dalla sua realizzazione, Dark Night rimane però un ritratto attualissimo della società americana e del drammatico problema legato all’utilizzo delle armi e alle stragi di innocenti nei luoghi pubblici. Liberamente ispirato al tragico caso del massacro avvenuto a Aurora nel cinema in cui stava venendo proiettato Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan, Dark Night ritrae sei personaggi, compreso il giovane killer, nelle ore precedenti l’attentato criminale. Sei giovani protagonisti immortalati con uno stile sempre in bilico tra il genere documentario e quello del film d’autore in una pellicola che non vuol dare alcun tipo di risposte, ma far riflettere sulla gravità di un problema che, oggi più che mai, continua ad apparire insanabile. Un film necessario e imperdibile. USCITA PREVISTA: 1 MARZO 2018.

annientamento la chiave di sophiaAnnientamento – Alex Garland
Non vedrà mai il buio di una sala cinematografica, ma il nuovo film del regista di Ex machina si preannuncia già come uno degli eventi filmici più importanti dell’anno. Disponibile su Netflix a partire dal 12 marzo, Annientamento è la trasposizione del primo libro della trilogia letteraria dell’Area X di Jeff VanderMeer. Un viaggio in un futuro distopico e altamente fantascientifico che promette grandi sorprese grazie a un cast di tutto rispetto, capitanato da Natalie Portman. Se il regista Alex Garland riuscirà a ricreare le stesse sensazioni visive del suo lavoro precedente, Annientamento sarà un film per cui varrà la pena abbonarsi a Netflix. USCITA PREVISTA: 12 MARZO 2018.

wind-river la chiave di sophiaI segreti di Wind River – Taylor Sheridan
Uscita a scoppio ritardato anche per un altro grande film dopo Dark Night di Tim Sutton. I segreti di Wind River rappresenta la chiusura di un’ideale trilogia iniziata con Sicario nel 2015 e proseguita nel 2016 con Hell or high water (entrambi sceneggiati da Sheridan). La chiusura di questo ciclo avviene tra i freddi ghiacci del Wyoming e ha per protagonisti un solitario cacciatore interpretato da Jeremy Renner e una recluta dell’Fbi che sta indagando su un pericoloso assassino. Avvolti da un biancore accecante i due protagonisti scopriranno una verità agghiacciante. Girato con grande maestria e sostenuto da un cast di ottimi interpreti, I segreti di Wind River è un film di genere davvero ben fatto. Un lavoro quasi d’altri tempi che unisce all’azione del thriller numerosi spunti di riflessione per lo spettatore. USCITA PREVISTA: 29 MARZO 2018.

 

UN DOCUMENTARIO

visages-villages-chiave-di-sophiaVisages, villages – JR e Agnès Varda

Film a quattro mani, Visages, Villages è un viaggio attraverso la Francia rurale contemporanea, nato dall’amicizia tra Agnès Varda, autrice di Cléo e lo street photographer JR, autore indipendente di giganteschi collage posti nel cuore delle metropoli. Un passo a due attraverso la campagna che offre una grande varietà di paesaggi e un rapporto diretto con la natura, un ritorno alle origini per Agnès, patriarca inclassificabile della Nouvelle Vague, un territorio nuovo per l’artista urbano JR. Avanzando a bordo di un cinétrain che scatta foto enormi, Agnès e JR realizzano un film inventivo interrogandosi sul senso del loro lavoro e sul valore dell’immagine, sulla loro produzione e democratizzazione. Un film collage di giochi di parole e gesti artistici. USCITA PREVISTA: 15 MARZO 2018

 

UN FILM D’ANIMAZIONE

rudolf-alla-ricerca-della-felicita-la-chiave-di-sophiaRudolf alla ricerca della felicità – Mikinori Sahakibara

Basato sul romanzo per bambini più venduto in Giappone, Rudolf to Ippaiattena, il film racconta la storia di Rudolf, un gatto nero che viene improvvisamente separato dal suo amato padrone. Inaspettatamente si sveglia in un camion diretto verso Tokyo dove incontra Ippai, un grande gatto-capo temuto da tutti in città. Non potendo tornare a casa, Rudolf inizia una vita randagia al fianco di Ippai, non così cattivo come appare. USCITA PREVISTA: 15 MARZO 2018

 

UN CLASSICO

poster-film-nata-di-marzo-la-chiave-di-sophiaNata di Marzo – Antonio Pietrangeli

Commedia borghese e briosa, Nata di Marzo, ambientata a Milano, è la storia di un matrimonio anni ’50 tra Sandro, architetto e Francesca, frivola, capricciosa, viziata, instabile − caratteristiche dei nati di marzo, appunto − con una forte volontà di indipendenza e un disperato bisogno di parità. Una sophisticated comedy del regista della Nouvelle Vague italiana, datata 1958, costruita a episodi, segmentata da tre lunghi flashback e con un finale problematico, imposto dalla produzione per salvaguardare lieto fine e morale ma senza annullare il pensiero di Pietrangeli e le istanze indipendentiste e paritarie di Francesca.

 

Rossella Farnese, Alvise Wollner

 

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Je suis Charlie, moi non plus

Il terremoto che ha colpito il centro Italia i giorni scorsi non ha mancato di attirare gli usuali sciacalli mediatici, e non si è certo tirata indietro la controversa rivista francese Charlie Hebdo, fino a poco fa considerata da molti italiani il simbolo della libertà di pensiero e di espressione. Stavolta, però, la reazione al disegno firmato Felix è stato di indignazione quasi unanime e, salvo una schiera di strenui difensori che insiste a leggere nella vignetta una “fine satira sociale e politica” penalizzata da “giochi di parole intraducibili dal francese”, i corpi di morti e feriti trattati con la solita, dissacrante ironia ha provocato stavolta un’alzata di scudi generale, anche a livello istituzionale.

Curioso, visto e considerato come anche la vignetta che ironizzava sull’attacco al Bataclan o quella sulla strage di Nizza erano state accolte come esempi di “autoironia”. Il pubblico sdegno, che non si era scomodato neanche per i vergognosi disegni sul piccolo Aylan Kurdi, interviene solo quando nel bersaglio dei vignettisti finisce in prima persona chi legge. Forse, finalmente, si è in grado di capire oggi quali sentimenti suscitino normalmente i disegni “satirici” della rivista francese, gli stessi che avevano fatto commentare perfino a Papa Francesco: «Se il dottor Gasbarri, che è un mio grande amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, gli aspetta un pugno [sic]. È normale».

Anche il regista premio Oscar Hayao Miyazaki, non certo un leader religioso, aveva dichiarato che a suo avviso la satira dovrebbe occuparsi di politica, possibilmente la propria, mentre quella a danno di credenze e culture altrui non ha ragione di esistere; la redazione rispose con un raffinatissimo «Cabu, qui détestait le manga, et qui a passé sa vie à caricaturer les hommes politiques, te dit merde!».

Sia Bergoglio che Miyazaki hanno messo in luce quella che è la pietra della discordia delle polemiche di ieri e di oggi (e che si traducono sempre e comunque in pubblicità per il giornale), un dibattito intorno alla definizione stessa di “satira”. Basta che una cosa sia scioccante per essere considerata satira, come molti hanno sostenuto in questi giorni? Allora Charlie Hebdo è un campione del genere, così come lo sono di diritto anche gli snuff movie o i reality sugli incidenti stradali. La satira deve veicolare un messaggio, farsi portavoce di una critica mirata a un dato sistema ideologico o sociopolitico? Ecco allora che le opinioni divergono.

Una vignetta su Benedetto XVI o Papa Francesco che mette in ridicolo parole o atteggiamenti può essere satirica, una che raffigura la Trinità impegnata in sesso di gruppo no; un disegno che mette in ridicolo al-Baghdadi può essere satirico, uno che ritrae il Profeta Muhammad in posa per un servizio fotografico porno no. Esiste un confine neanche troppo sottile tra il deridere una persona per le sue convinzioni e ridicolizzare le convinzioni stesse. Nel caso delle religioni, poi, il discorso si fa ancora più delicato, perché si va a toccare una sfera estremamente intima della vita personale; una fede non è un’ideologia politica, una regola di condotta morale, un sistema di credenze: rientra piuttosto nella categoria delle relazioni personali, nel caso specifico una relazione tra il credente e Dio. Il paragone usato da Bergoglio nel 2015 tocca precisamente il cuore della questione: si può parlare ancora di satira quando non si cerca di criticare o correggere, ma semplicemente di indignare, offendere, scioccare, senza alcun riguardo per la sensibilità altrui e senza curarsi minimamente di ciò che per altri è il sacer?

Se la risposta è negativa, allora non è possibile non indignarsi per ogni singola provocazione da parte di Charlie Hebdo e colleghi, ma piuttosto che fornire pubblicità gratuita con dibattiti infiniti, sarebbe bene seppellire la fonte del malcontento sotto una coltre di indifferente silenzio. Se la risposta invece è positiva, e la libertà non deve avere come limite neanche quella altrui, allora si lasci passare tutto: l’idea di rispetto della vita umana rimanda direttamente al sacro, ed eliminato questo, è solo ipocrisia indignarsi per uno sbeffeggiamento di troppo alle vittime di qualsivoglia tragedia.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta da Google Immagini]

“Orizzonti di gloria”

Agli inizi della sua carriera, che lo vedrà poi consacrarsi come uno dei più grandi registi del XX secolo, nel 1957 Kubrick gira Orizzonti di gloria, il suo quarto lungometraggio e la seconda pellicola delle tre totali in cui si misurò con scenari di guerra e con il mondo militare. Ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, nelle retrovie francesi, questo film è una pietra miliare del cinema antimilitarista, un ritratto duro e feroce della vita in trincea. La produzione incontrò non poche difficoltà in quanto il governo francese non ne autorizzò le riprese, che vennero poi effettuate in Germania; anche dopo la sua uscita Orizzonti di gloria fu lungamente censurato in Francia, apparendo solo dopo il 1975, per protesta verso la rappresentazione di Kubrick degli ufficiali francesi.

La vicenda si svolge sul fronte conteso tra francesi e tedeschi. Dopo il disastroso fallimento di un grande attacco francese, un generale ordina come punizione l’uccisione di tre uomini, scelti a caso, per dare l’esempio alle truppe. Vengono accusati di viltà e codardia dal generale, nel tentativo di coprire le proprie colpe e responsabilità di un attacco suicida e senza senso. Saranno inutili i tentativi di un colonnello (interpretato da Kirk Douglas alla sua prima collaborazione con Kubrick) per salvare i tre condannati a morte, in quanto interpretati dall’alto comando come desiderio di prendere il posto del generale.

Siamo ancora lontani dalla rappresentazione dell’uomo nei confronti della guerra che farà Kubrick trent’anni più avanti in Full Metal Jacket: non c’è ancora quella lucida e spietata analisi dell’assurdità della guerra, che spegne l’essere umano, svuotandolo completamente per riempirlo poi di odio e distruzione. Qui invece siamo di fronte alla casualità che il potere pretende di gestire; all’assoluta pazzia di chi, in nome di qualche mostrina in più sull’uniforme, si erge a dio, scegliendo chi deve vivere e chi invece morire.
I fatti raccontanti in questa pellicola prendono spunto da eventi realmente accaduti; i libri di storia parlano di vicende analoghe o, a volte, peggiori. Ma forse nessuno prima di Kubrick era riuscito a rappresentarle in modo così diretto, sincero, ad analizzare la guerra in quanto tale, senza dietrologie, senza inutili retoriche. Gli uomini sono solo pedine di una grande scacchiera e come tali possono essere sacrificati. Non c’è logica, non c’è umanità; solo un unico grande “gioco” che è la guerra, che deve essere finito e vinto, non importa come e non importa a che prezzo.

Orizzonti di gloria è il primo capolavoro di questo grande regista. Girato con la maestria che ha caratterizzato tutta la sua carriera, il grande uso della fotografia, qui in bianco e nero per accentuare ancor più la tragicità della storia. Di particolare impatto il piano sequenza lungo la trincea francese all’inizio del film, che riprende lo sfinimento e la paura sui volti dei soldati francesi; o la scena finale, struggente, in cui una giovane donna tedesca canta per i soldati che l’avevano accolta schernendola, finendo invece per commuoverli nel profondo. Passando con la cinepresa da un volto all’altro, Kubrick dà un ultimo schiaffo allo spettatore, mostrando la sua visione dell’uomo, lacerato e conteso tra bene e male.

Lorenzo Gardellin

[Immagine tratta da Google Immagini]

La paura che corrode

In ogni giorno di festa, quando mettiamo piede fuori casa in mezzo alla gente, stiamo iniziando a sentire una sensazione diversa. Ci assale una sorta di agorafobia negli spazi aperti, una paura sociale quando siamo con gli altri, in autobus, passeggiando attraverso una piazza gremita di gente. Pensiamo che possa accadere il peggio, che i fatti di cronaca più terribili possano in quell’istante coinvolgere la nostra città, la nostra vita. Ci guardiamo attorno, attendiamo un’esplosione infernale, cerchiamo di capire da dove potrebbe arrivare e pensiamo a come fuggire…

Invece non accade nulla, continuiamo a fare la passeggiata che ci eravamo programmati, senza però goderci neanche quel giro in santa pace.

L’esplosione non c’è stata e la nostra vita è ancora al sicuro, ma cosa è successo dentro di noi?

Un’esplosione in realtà l’abbiamo subita, siamo stati dilaniati da un ordigno diverso, silenzioso. Un’arma di distruzione di massa ecologica – perché non rovina l’ambiente – ma provoca danni insanabili se lasciata agire costantemente.

Una bomba di paura, terrore, inquietudine e ansia ha pervaso tutto il nostro corpo. Gli effetti sono devastanti. La paura è una emozione che deriva dalla percezione di un pericolo, reale o supposto: non serve cioè che il pericolo ci sia davvero, ma basta che noi ne percepiamo la possibilità. È un’emozione primaria, governata prevalentemente dall’istinto, non possiamo disinnescarla nemmeno con la forza della ragione, con il pensiero della nostra sicurezza.

Ma il terrore che ci ha pervaso non scompare dopo l’esplosione, rimangono radiazioni e conseguenze su tutto il corpo. Le principali reazioni corporee alla paura possono riguardare infatti l’intensificazione delle funzioni fisico/cognitive e l’aumento del livello di attenzione, del costante stato di vigilanza che ci porta stress, tensione, desiderio di fuga. Diventiamo delle belve intente a proteggere il nostro territorio, la nostra incolumità da un nemico che non esiste ma di cui abbiamo paura.

Mentre passeggiamo con lo sguardo sospettoso, il sistema nervoso simpatico (responsabile delle reazioni in caso di emergenza) è più che mai attivo: aumenta il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la quantità di glucosio per i muscoli che devono contrarsi per l’attacco o la fuga. Anche se effettivamente non stiamo registrando alcuna informazione paurosa, perché stiamo soltanto facendo shopping, il nostro pensiero terrorizzato innesca l’amigdala, che prende il comando delle nostre reazioni, inibendo le parti del cervello responsabili del pensiero.

Come fermare allora questa concatenazione dannosa di eventi? Se rimaniamo immersi in uno stato di paura, anche quando l’oggetto della paura non c’è, entriamo nella cosiddetta ansia anticipatoria. Ma se anche questo stato d’animo rimane insensato, perché continua ad anticipare qualcosa che non accade, come liberarsene?

Sostituendo.

Dobbiamo sostituire ogni pensiero di paura con un pensiero di speranza, ricostruzione, positività, anche nel dolore di quello che succede. Se non lo faremo, il nostro cervello rimarrà “marcato”, perché accumula ricordi di eventi che ci hanno impaurito, proprio per metterci al riparo da nuovi eventuali pericoli. Ogni volta che cammineremo per strada, non staremo più godendo dell’euforia della giornata, ma innescheremo inconsapevolmente una valanga di reazioni dannose: il battito cardiaco aumenta, i muscoli si contraggono, le pupille si dilatano e il respiro si fa più profondo e rapido.

Il cervello non distingue un pensiero ipotetico da un reale bisogno di fuga o attacco in una situazione di pericolo. Per lui anche il solo pensiero che possa succedere una cosa diventa allarmante e stravolge il nostro equilibrio. Per calmarlo non possiamo fare altro che immergerci in pensieri diversi, forzarci di pensare ad aspetti positivi e propositivi.

Usciamo di casa a testa alta, per goderci un’altra giornata di sole e per schiacciare ogni pensiero di terrore con il nostro benessere.

 

Giacomo Dall’Ava

[Immagine tratta da Google immagini]

Nizza. La sofferenza e la domanda di senso

Io chiedo come può un uomo uccidere un suo fratello.[…]

Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare

F. Guccini

Parigi, Bruxelles, Istanbul, Dacca, Nizza: la spada di Damocle del terrorismo incombe sulle nostre esistenze. Posti di fronte a questi tragici eventi, dai cuori piangenti e dalle menti pensanti sorgono forti e spontanee le domande che interpellano l’uomo dalla notte dei tempi. Lame affilate che squarciano “il velo di maya” della superficiale quotidianità. Perché il dolore? Perché il male? Perché la violenza? Perché la sofferenza? Interrogativi che assumono un contorno ancor più straziante e incomprensibile, quando è l’uomo stesso a uccidere l’altro uomo, a provocarne la morte e l’annientamento.

Tali domande si fanno largo fra le nostre vite, reclamano risposte concrete, interpellano le nostre coscienze. “L’umanità – scrive Salvatore Natoli – in tutta la sua storia è stata attanagliata dall’esperienza del dolore e ad essa ha voluto dare un senso, di essa, in qualche modo, ha tentato una giustificazione”.1

Al di là dell’inconsistenza di certe risposte, l’uomo si sente chiamato a dare un senso alla sofferenza, in mancanza del quale ogni cosa assumerebbe le grigie tinte del non senso, con la conseguente svalutazione di ogni valore umano. Il dolore è quanto di più proprio, peculiare, individuale possa darsi nella vita degli esseri umani, i quali non potrebbero vivere la sofferenza se in qualche modo non le attribuissero un senso. Scrive Natoli:

Il dolore […] si fa experimentum crucis, sottopone a prova l’individuo che lo vive e si erge a controprova del senso dell’esistenza. […] il dolore è un’esperienza a suo modo originaria. L’umanità, provata dal dolore, si cimenta con esso e tenta risposte: ora lo sublima, ora lo subisce, ora lo vanifica come apparenza, ora lo percepisce come ineluttabilità. Il dolore, come contrassegno di ciò che esiste, diviene allora occasione di prova e di giudizio per l’intero senso dell’esistenza.2

Come Natoli, anche Viktor Frankl ha l’indiscusso merito di aver posto al centro della sua riflessione filosofica e psicologica, il senso della sofferenza a partire dal dolore. La singolarità di quest’esperienza, la solitudine di ogni soffrire segna e in qualche modo anticipa la più peculiare e solitaria delle esperienze umane: la morte. Per questo, una fenomenologia della sofferenza è possibile solamente alla luce di una profonda e strenua ricerca del suo significato.

Di fronte a un destino tragico e ineludibile, l’uomo si coglie come una struttura ontologica attraversata dal male e dalla sofferenza. Si coglie, non più come homo sapiens o homo faber, ma come homo patiens. La sofferenza diviene concreta possibilità di significato. Frankl sostiene che, anche nella tragedia, ciascuno di noi può trovare un senso alla propria vita, proprio nella misura in cui sottrae creativamente spazi di dominio  alla sventura e alla sofferenza.

L’uomo, anche rispetto alle gravi sciagure di questi giorni, è posto di fronte ad una sfida: affrontare il male a testa alta o soccombere. Egli può imparare a soffrire solo se non rinuncia alla sua dignità e alla sua responsabilità di fronte alla vita e al dolore irreversibile. Frankl, nella baracca del lager, cerca di aiutare i propri compagni a riscoprire il senso della vita. Proprio lì, proprio all’inferno:

Parlai delle molte possibilità di dare un senso alla vita. Raccontai ai miei compagni […] che la vita ha sempre, in tutte le circostanze, un significato, e che quest’ultimo senso dell’essere comprende anche sofferenze, morte, miseria e malattie mortali. […] li pregai di mantenere il loro coraggio […] perché la nostra lotta senza via di scampo aveva un senso e una sua dignità. Dissi loro che in queste ore difficili qualcuno guardava dall’alto, con sguardo d’incoraggiamento, ciascuno di noi, e specialmente coloro che vivevano le ultime ore: un amico o una donna, un vivo o un morto – oppure Dio. E questo qualcuno s’attendeva di non essere deluso, che sapessimo soffrire e morire non da poveracci, ma con orgoglio!3

Il compito dell’uomo è dunque quello di contrastare e superare interiormente il dolore inevitabile che lo colpisce dall’esterno. Un vita contrassegnata dalla sofferenza, può essere inondata di senso quando il singolo trova una ragione di vita idonea a sopportare la sofferenza stessa. Scrive Frankl: “è possibile affrontare la sofferenza e coglierne tutta la portata significativa solo se si soffre per amore di qualcosa o di qualcuno. […] Una sofferenza ha senso quando è sofferenza ‘per amore di…’. Mentre la si accetta, non solo la si affronta ma, attraverso di essa, si ricerca qualcosa che non è ad essa identica: la si trascende”.4

Imparare a dare un senso alla sofferenza è un lungo e faticoso cammino che richiede la capacità di soffrire. L’uomo non possiede questa capacità “deve acquistarsela, deve guadagnarsela: se la deve soffrire”.5 Essa rientra fra le doti con un alto valore umano e spirituale. Può essere acquisita dal singolo a partire da una libera scelta interiore. La sofferenza diviene così occasione di maturazione psicologica per l’uomo. Una maturazione che conduce alla riscoperta della libertà interiore, la quale anche di fronte agli eventi più tragici rimane sempre libera di scegliere come disporsi dinnanzi agli eventi stessi. Proprio per questo Frankl sostiene che “l’uomo è libero di dominare – almeno – interiormente il proprio destino”.6 Forse, questa è l’unica possibile risposta costruttiva e positiva alle domande suscitate dalle immagini di morte e disperazione, che in queste ore scorrono sotto i nostri occhi attoniti.

Alessandro Tonon

Note

1 S. NATOLI, L’esperienza del dolore, Milano, Feltrinelli, 20105, pp. 12-13.

2 Ivi, pp. 8-13.

3 V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113, p. 138.

4 V. E. FRANKL, Homo patiens, tr. it. di E. Fizzotti, Brescia, Queriniana, 20012, p. 86.

5 Ivi, p. 77.

6 Ivi, p. 83.

Quella celebre frase…

Gli uomini agiscono quando si sentono protagonisti della Storia

Due grandi lampadari fanno brillare i bassorilievi dorati che decorano la Sala dell’Orologio. Siamo a Parigi, nel Ministero degli Esteri, e l’orologio sta per battere le 16. Robert Schuman, ministro, si alza in piedi e inizia a raccontare una storia. Una storia utopica, inverosimile, assurda. Racconta di due paesi, la Francia e la Germania, che condivideranno il carbone e l’acciaio. È dall’843 che quei due paesi si combattono a vicenda: in seguito allo smembramento dell’impero di Carlo Magno si erano scontrati continuamente. In Alsazia, in Lorena, a Strasburgo, a Lipsia, sul Reno. Nelle due guerre mondiali su quel confine erano appena morti tre milioni e mezzo di soldati. Il nove maggio del 1950, quindi, Robert Schuman si alza e narra questa storia e la slancia nel futuro: egli racconta quella che sarà l’Unione europea. È efficace: negli anni seguenti i paesi da sei diventeranno ventotto.

Il sole picchia sulla pianura arida e brulla. La moschea di Mosul splende nel mezzo. L’orologio segna le 12 e venti. Abu Bakr al Baghdadi, vestito di nero, si alza e inizia a raccontare una storia. Una storia utopica, inverosimile, assurda. Racconta di una moltitudine di staterelli che sono stati divisi per secoli, sfruttati da altre potenze, e che ora hanno la possibilità di unirsi nuovamente. Nel 750 l’impero volava dall’India, all’Egitto, al Marocco, fino alla Spagna. Ora, il ventinove giugno 2014, inizia un nuovo racconto, i cui i protagonisti saranno quei fedeli che lo stanno ascoltando. Siria, Iraq, Libano, Iran, sono l’embrione di un progetto che travalica i confini degli Stati e punta a incidere sulla Storia, così come cinquant’anni prima era avvenuto in Europa.

Le storie sono tutto. Nessuno ama morire, così, semplicemente: ma se diventa protagonista di quella Storia che tra cinque lustri sarà studiata dagli scolari, allora sì che può perfino desiderare di morire. Mentre in Europa ci sta franando la terra sotto i piedi e siamo paralizzati senza sapere su quale sentiero proseguire, dall’altra parte del Bosforo e del Dardanelli c’è un Califfato che possiede un’idea cristallina sul racconto che vuole scrivere. Un’idea così efficace e spaventosamente semplice, la gloria di Dio, che trascende le frontiere e scivola nei cuori dei ragazzi cresciuti in Francia, in Belgio, a Bruxelles, come a Berlino, a Roma, i quali si sentono più vicini a un Siriano che al compagno di scuola. Perché al suo compagno di scuola è stata sciorinata la storia dell’Unione europea, gli hanno insegnato a contare le stelle gialle sulla bandiera e a ricordare che da CEE si è chiamata CE e poi UE. Ma non gli raccontano quale futuro può avere, non lo rendono protagonista della Storia. Un esempio, su tutti: il discorso di Hollande, il 16 novembre scorso, dopo gli attacchi parigini. Egli invita i cittadini a non preoccuparsi perché lo Stato provvederà, lo Stato bombarderà, lo Stato arresterà. Sancisce una frattura tra Stato e cittadino: cosa che a Raqqa è impensabile.

Tra le case in mattoni ocra avanzano dei soldati vestiti con delle tute nere, esili: raccontano la loro superiorità rispetto agli occidentali che si nascondono dietro ai telecomandi dei droni. Sulle reti Internet sono diffusi video di belle donne velate, di uno Stato che funziona grazie alla Sharia e al contempo di decapitazioni e di brutalità1. Questa mescolanza di istinti primordiali e di benessere affascina nel profondo. L’Europa è qui che fallisce, qui sta il punto debole, per questo non riesce a contrapporsi “neanche retoricamente”2 a questa barbarie, perché ha perso la capacità di narrare, cioè di immaginare un progetto ampio, magari irrealizzabile, ma slanciato in alto. Gli uomini non si seducono, e dunque non si spronano, con un programma politico in dodici punti, con un tweet di 140 caratteri, o con un comunicato stampa. Gli uomini si affascinano raccontando la Storia che loro possono scrivere, di cui saranno protagonisti, e a quel punto faranno di tutto, anche le gesta più cruente. I reclutatori Isis mostrano come la tua vita, non importa se inizia a Los Angeles, a Madrid o a Vercelli, può confluire con la storia di un altro miliardo di fedeli e può tendere a inglobare anche quel tuo compagno di scuola.

Le storie sono tutto. Anche se raccontano concetti che pensavamo svaniti, come quello di Dio, nonostante gli economisti dicano che è il petrolio a far muovere tutto, di fatto sono le storie ad affascinare i Salah Abdeslam di turno, e con lui molti altri. Quella celebre frase, gli uomini muoiono le idee restano, è vera anche in questo caso.

NOTE

[1] Molto materiale multimediale e testuale è archiviato senza censure in www.clarionproject.org, dove si trovano anche i fascicoli della rivista del Califfato in lingua inglese “Dabiq”.
[2] Philippe-Joseph Salazar, Parole armate, Bompiani 2016
Mattia Grava

Mattia Grava, all’ultimo anno del Liceo classico, sta per iscriversi all’ateneo di Padova. Appassionato di letteratura, scrive ogni giorno qualche riga sui margini dei libri di testo; a novembre ha presentato il libro “La percezione delle Pleiadi” di Francesco Fontana. Dopo l’esperienza come rappresentante d’Istituto ha pedalato lungo la via Francigena attraversando le colline dell’Italia centrale.

Terrorismo del XXI secolo: un punto di vista fuori dal coro

<p>Attentati di Parigi, un punto di vista fuori dal coro</p>

Al diluvio generalista, qualunquista, razzista e guerrafondaio della gran parte degli internauti sugli attentati perpetrati dal terrorismo contemporaneo, pacatamente, rispondo: Davvero siamo convinti che bombardando a tappeto il mondo risolveremo qualcosa? Se non sbaglio la Germania nazista fu sconfitta a suon di bombe ma non per questo il nazismo, il razzismo e la xenofobia le abbiamo completamente depennate.

Ma siamo davvero convinti che sia l’Islam il problema? Che sia solo ed esclusivamente una religione a fomentare il terrorismo? Se fosse così, crediamo di essere da meno? Lasciamo perdere per una volta tutte le marachelle cristiane passate in giro per il mondo e concentriamoci sul presente: pensate davvero che cento, duecento, mille morti siano eventi più gravi di tutti gli scandali in cui Santa Chiesa Romana – se proprio vogliamo focalizzarci esclusivamente sulla religione quale veicolo di violenza e morte – è invischiata? Che nei primi il male sia gratuito, palese, violento e da condannare senza se e senza ma, non c’è dubbio, ma nei secondi, in noi bravi cristiani, il male mi sembra sottile, egoista e materialista e fa altrettanti morti e forse forse anche più danni sul lungo termine.

Come? Perché? Semplice, l’attico del Bertone, i festini e le chincaglierie e la droga dell’abate, tutte le imprese commerciali e le strategie finanziarie del Vaticano con quali soldi vengono portati avanti se non con quelli dell’8×1000? E questi soldi non dovrebbero andare ai bisognosi? Ai poveri? Agli affamati? Questi vedono arrivarsi uno anziché dieci per il loro sostentamento e non sappiamo nemmeno se quell’uno arrivi per davvero: pensiamo davvero che stiamo solo noi dalla parte illuminata della terra? Pensiamo davvero che semplicemente rubando, morti non ne facciamo in giro per il mondo? Forse non ci è dato saperlo, ma se tu, caro lettore, fossi povero e – che so – dello Zimbabwe e non hai un soldo seppure ti abbiamo promesso aiuto, e vieni a conoscenza di quanto sia stato utile il tuo denaro – donato dalla collettività tra l’altro – a rendere agevole la vita di un prelato o di chissà quale altro benpensante e benestante di turno, ebbene come reagiresti? Non dico che gli attentanti di Parigi siano l’effetto degli scandali vaticani, piuttosto sono l’effetto di politiche meschine, materialiste, guerrafondaie e accattone dal dopoguerra sino ad oggi. D’altronde, pensandoci, buona parte del terrorismo del XXI secolo fa leva proprio sull’immoralità della nostra società.

Pensiamo davvero che le bombe di una nazione democratica siano più morali di quelle di una nazione o di un gruppo o di un movimento antidemocratico? La verità è che non possiamo pensare di esportare i valori occidentali a suon di bombe, con gente armata fino ai denti, con la bandiera del nostro paese in un territorio straniero e con tutte le balorde contraddizioni che stanno via via venendo fuori dalla nostra opulenta società (vedi gli scandali vaticani, le bugie sulla guerra degli ex premier Tony Blair e G.W.Bush, l’incredibile inefficienza del sistema politico europeo e l’uso di grandi multinazionali per depredare, ancora oggi, paesi inermi e allo sbaraglio).

Il vero nocciolo della questione, a mio avviso, sta, nel contesto occidentale, nella perdita del valore dello spirito nell’uomo a causa dello smembramento e deterioramento della struttura che ne detiene il monopolio, ossia santa romana chiesa, mentre per quanto riguarda il contesto islamico, troviamo un innervamento di questo stesso spirito e di una sua fatale congiunzione con i mezzi tecnologici, economici e con le finalità politiche contemporanee. Alla stregua di quando il capitalismo prese piede in occidente, grazie al matrimonio tra economia e tecnologia con la vocazione spirituale (vedi Spirito del Capitalismo di Max Weber), oggi l’islam si ripropone fatalmente usato ed abusato per questioni squisitamente economiche, politiche e geopolitiche: come agli albori del sistema capitalistico, oggi un nuovo spirito si sta risvegliando e attraverso un’altra fede, non cristiana, ma pur sempre attraverso una fede, per vocazione. Vi è comunque una profonda differenza che ne determina l’azione e la portata di tale vocazione, di tale spirito, ossia la mancanza di una struttura centralizzata nell’Islam: ma questo è un altro, interessante, punto di partenza per analizzare quanto e in che misura si possa condannare in toto tutti i credenti musulmani.

Isis, Al Qaeda, repubbliche islamiche e quant’altro sta venendo alla ribalta in questi periodi non sono altro che i primi sintomi del risveglio dello spirito di un nuovo (profondamente morale quindi intollerante e spietato con chi tenta di sbarrargli la strada) concetto di società che sta trovando nei mezzi, nelle tecnologie e nell’immoralità del suo nemico l’humus ideale per potersi espandere, farsi ideale in una massa e in uno Stato e vocazione in un singolo individuo.

Signori miei, rassegnamoci, rimbocchiamoci le maniche perché la storia ci descrive – tutti! Occidentali e non – come bambini che vedono per la prima volta una presa elettrica e per puro esperimento, ci mettono due dita.

Cosa abbiamo imparato dalle due grandi guerre? Che ci ritrovammo con una rivoluzione industriale, con nuove tecnologie, combustibili, colonie, un gran numero di soldati e dei risentimenti da sfruttare e così ci inventammo due grandi guerre: distruggemmo l’Europa, buona parte dell’Asia e ci avviammo verso il disincanto da qualunque etica e morale. Perché? Perché come bambini testammo tutto il nostro nascente potenziale.

Mentre oggi ci ritroviamo dentro un mondo volutamente senza frontiere e laddove ancora resistono è facile eluderne i controlli. Abbiamo sofisticati mezzi di comunicazione che vanno oltre lo spazio ed il tempo, un sistema economico molto più feroce e geloso di qualunque sistema statale e politico mai visto sulla terra e così, come dei bambini, ci stiamo ritrovando nuovi giocattoli per le mani e per indole innata ne facciamo esperimento con un terrorismo a macchia di leopardo. Noi occidentali non siamo esenti dal terrorismo e a tal proposito vorrei ricordare quando fornimmo armi ed equipaggiamenti ai mujaheddin afghani o il sostegno ai terroristi nicaraguensi contras o i finanziamenti al sindacato polacco Solidarność; senza scrupoli e senza alcuna prospettiva futura applicammo la Dottrina Reagan e sostenemmo individui e gruppi ambigui per arginare l’egemonia sovietica.

Dai primi del novecento sino ad oggi, si sta sistematicamente smantellando il senso puro e netto della rivoluzione francese, della libertà, del sogno di un’umanità senza confini, dell’uguaglianza, della ragione e dello spirito di fratellanza. Il mio augurio è che ognuno nel suo piccolo faccia del suo meglio per impedire questo nuovo sfacelo, che mantenga a freno la propria emotività di fronte a simili atti di terrorismo e che si comporti da adulto, senza andar incontro ad un odio gratuito, di stampo eurocentrico e liberticida: Pensiamo al futuro.

Umanità, resisti!

Salvatore Musumarra