Nightmare Alley e l’illusione dell’essere umano

Nightmare Alley, il più celebre dei romanzi di William Lindsay Gresham, è un viaggio all’interno dell’animo umano e dei suoi meandri: i personaggi rappresentano le tensioni dell’essere umano tra redenzione, vendetta e riscatto sociale. Il protagonista, Stan, è un uomo misterioso di cui si riesce a scorgere ben poco, un uomo che riesce a mascherare le sue emozioni ed il suo passato ma che arrivato a Nightmare Alley – luogo simbolo dell’occulto e dell’inganno, ovvero luogo in cui si esibiscono circensi, veggenti e i così definiti freaks – egli man mano mostra la sua vera natura.

La parabola di Stan inizia con il parricidio che commette e che rappresenta la morte della sua moralità, la sua purezza che degenera in vendetta; scappa e giunge casualmente a Nightmare Alley, dove inizialmente lavora come semplice apprendista di Zeena, un’affascinante cartomante, fin quando non comincia a cimentarsi nell’arte dell’occulto, nella cartomanzia e nella lettura del pensiero mettendo a punto numeri sorprendenti che incantano tutto il pubblico grazie all’aiuto dell’amata Molly, che rappresenta di contro l’ingenuità e la purezza perdute dallo stesso Stan.

Stan viene accecato dal successo e dalla brama di riscatto sociale: come il Faust vende la sua anima in nome dell’assoluto, così Stan vende la sua in nome della brama, illudendosi di potersi ergere oltre ogni valore morale senza alcuna ripercussione e arriverà, infatti, ad ingannare un uomo disperato alla ricerca di redenzione per un errore passato, mettendo in scena un raccapricciante spettacolo che verrà smascherato con conseguenze tragiche.

È interessante notare come allo stesso tempo ci sia uno scambio e quasi una coincidenza tra l’ingannatore e l’ingannato: se è vero che Stan inganna e fa di questo la sua arte, è altrettanto interessante notare che gli uomini che vengono ingannati si sottopongono lucidamente ad un’arte che sanno in fondo essere fittizia, cercando speranza. Nightmare Alley rappresenta il luogo della lucida illusione delle mente umana, il luogo dove l’essere umano si rifugia quando il reale non riesce a rendergli giustizia e il luogo da cui è difficile evadere se non si recupera il contatto con sé stessi e con il mondo. È curioso che Stan alla fine della sua tragica storia ritorni a Nightmare Alley per divenire non più il soggetto ma l’oggetto dell’attrazione, ossia la così detta “bestia umana” che rappresenta il regresso dell’uomo al suo stato più bruto.

Si potrebbe obiettare che l’essere umano, tentando di evadere da ogni vincolo morale come fa Stan, non diviene altro che un bruto: ossia ritorna allo stato di natura alla Rousseau, nel quale non è in grado di stringere un vincolo sociale. La critica intrinseca alle pagine di Gresham è senz’altro alla borghesia del suo tempo: una classe media che si lasciava raggirare da giochi di prestigio che erano in voga, noncuranti dei reali problemi che li circondavano e lucidamente ingannati da un’atmosfera nebulosa che loro stessi avevano creato.

Il monito sempre attuale, infine, che Gresham lascia trasparire tra le sue pagine è che l’uomo nel momento in cui cade preda del lucido inganno di poter superare sé stesso ed i propri valori, di poter andare oltre quella che è la sua moralità e quindi la sua stessa umanità, diviene egli stesso ciò che aveva cercato di dominare: un bruto. L’uomo contemporaneo, oggi, servendosi della tecnologia tenta di superare se stesso, candendo vittima del falso mito del progresso; l’uomo, piuttosto, dovrebbe imparare a vivere nel rispetto dei suoi vincoli naturali perché solo in questo modo può rispettare se stesso e la natura di cui fa parte, preservando il suo posto nel mondo. Oggi più che mai è necessario fare riferimento a questo monito.

Il romanzo di Gresham mostra come non ci siano colpevoli o vittime, mostri o santi, ma che il vero pericolo risiede nella natura dell’essere umano e che il compito dell’uomo per non cadere nell’istintività tipica del bruto sia coltivare la sua natura rispettandone i limiti, che è il presupposto per la sua stessa conservazione e progresso, per poter essere sempre il soggetto del suo mondo e per diventarne, invece, l’oggetto.

 

Francesca Peluso

 

[immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia 2022

 

 

Il sapere tradizionale oggi e l’opera di Gilbert Simondon

Gilbert Simondon è uno dei filosofi del ‘900 francese più discussi; la sua opera è definita enciclopedica per la vastità di temi affrontati e per l’enorme contributo al dibattito filosofico e scientifico contemporaneo: egli non solo analizza il rapporto che intercorre tra uomo e tecnica ma torna alle radici della riflessione filosofica riformulando un nuovo vocabolario in cui ambito scientifico-pratico e teorico-umanistico si intrecciano.

Il tema della tecnica e del relativo rapporto con l’essere umano, di cui Simondon si occupa nel Du mode d’existence des objets techniques, suo testo più celebre, è ampiamente discusso soprattutto dopo le due guerre mondiali, dal momento che durante gli anni ’40 vi era stato un notevole sviluppo delle biotecnologie, degli studi sulla genetica e delle nuove scoperte nel campo della fisica e della chimica che avevano messo in discussione il sapere tradizionale. L’oggetto tecnico, allora, diventa il cardine del pensiero simondoniano, in quanto simbolo del sapere umano che si concretizza e che racchiude in sé la storia dell’evoluzione umana:

«L’oggetto tecnico individuale non è questa o quella cosa, data hic et nunc, ma ciò di cui c’è genesi. L’unità dell’oggetto tecnico, la sua individualità, la sua specificità, sono i caratteri di consistenza e di convergenza della sua genesi. La genesi dell’oggetto tecnico fa parte del suo essere “umano”. L’oggetto tecnico è ciò che non è anteriore al suo divenire, ma presente a ogni tappa del suo divenire; l’oggetto tecnico uno (sic) è unità di divenire».1

L’essere umano aveva superato limiti che si ritenevano invalicabili, si era posto questioni che avevano ridefinito il suo ruolo nella società e aveva cercato di trovare nuove risposte nelle scienze, incentrando su di esse la riflessione morale e teorica tralasciando però un aspetto importante del sapere: la metafisica.
La metafisica rappresenta il capo da cui ogni scienza prende vita ma il problema, per Simondon, sta nel momento in cui nella storia del pensiero filosofico questa si è estraniata dalle scienze pratiche per chiudersi in sé stessa. La svolta del pensiero simondoniano è aprire le porte a un Nuovo Umanesimo in cui ogni arte, ogni scienza e ogni riflessione sia intrecciata all’altra: l’uomo si riscopre parte del mondo e trova in sé stesso il germe dell’alterità.

Non può esserci alcun progresso nelle scienze se non si tiene presente lo studio dell’essenza dell’essere umano e di ciò che lo circonda, l’uomo non è pura materia ma, come lo definisce Simondon, è un «soggetto transindividuale»: è materia e spirito in grado di intrattenere un rapporto dinamico relazionale con il mondo. Arrivare a un Nuovo Umanesimo vuol dire dimostrare l’inscindibile legame tra le scienze e la riflessione filosofica che grazie alla scienza si rinnova a sua volta nei temi e nei dibattitti.
Simondon non si ferma alla teorizzazione di un Nuovo Umanesimo, ma aggiunge che l’individuo contemporaneo dovrà costruire un Nuovo Umanesimo tecnologico: l’oggetto tecnico (con esso Simondon intende ogni artefatto creato artificialmente) non è altro che il risultato di un processo creativo e normativo necessario all’uomo. Non si può considerare semplicemente l’alienazione dell’individuo da esso e ciò che ne consegue, ma bisogna considerare il rapporto dinamico che l’oggetto stesso instaura con l’individuo come un vero e proprio soggetto relazionale: l’oggetto tecnico ha una matrice umana, da cui nasce, da cui viene creato e che lo permea e grazie a questa acquisisce la capacità di modificare la realtà stessa.

È così che sino agli anni ’90 del ‘900 il filosofo viene ricordato in Francia come il filosofo della tecnica. Ciò è sicuramente riduttivo dal momento che non viene tenuto conto dell’enorme contributo dell’opera e del suo influsso per la metafisica occidentale contemporanea. In ultimo è importante ricordare che la riformulazione del vocabolario filosofico è la base che getta Simondon per rielaborare alcuni concetti cristallizzati come la materia, l’individuo o l’essere: le definizioni non si servono più solo di termini derivanti dal lessico umanistico, ma il filosofo utilizza termini derivanti dalla chimica, fisica e dalla biologia a dimostrare la tesi della sua rivoluzione.

Simondon è ritenuto un pioniere della nuova metafisica occidentale e rivoluziona la riflessione filosofica dimostrando nuovamente la sua universalità e necessaria importanza per il sapere umano, il suo messaggio è di rinnovamento del sapere e ancora oggi è di monito per chi si accinge a parlare di uomo, tecnica e tecnologia.
Ponendo l’accento sulla proposta di rinnovamento del sapere del filosofo, si può affermare, infine, che il filosofo conclude un percorso iniziato con la rivoluzione scientifica in cui l’essere umano si faceva soggetto nel suo mondo; ora l’individuo non solo è soggetto ma è un soggetto agente e relazionale, aperto agli altri di cui si riscopre parte. Questa è l’immagine di uomo contemporaneo che bisognerebbe inseguire, capace di congiungere passato e presente attraverso l’intreccio della storia del sapere e delle idee che lo formano e lo hanno formato.

 

Francesca Peluso

 

NOTE
1. G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques, Aubier, 2012, pp. 60 -61.

[Photo credit Ramòn Salinero via Unsplash]

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La “fortuna” in Match Point: Woody Allen e Machiavelli a confronto

Il tema centrale della pellicola Match Point (2005) di Woody Allen è la fortuna: nel monologo iniziale una voce narrante fuori campo ci dice che gli uomini sono spaventati da quanto essa possa influire sulla nostra vita; un qualcosa di incontrollabile è capace di decidere l’esito delle nostre azioni, la nostra perdita e la nostra vittoria. Minuto dopo minuto, il film mostra perfettamente quanto poco a volte conti l’operato umano e con esso sia le sue buone azioni che quelle crudeli.

Il protagonista, infatti, pur reo di aver commesso omicidio ed adulterio, per una serie di eventi fortuiti riuscirà a continuare a vivere la sua vita dorata. Il match point nello sport è quel momento in cui si decide l’esito della partita: nel tennis la palla colpisce il nastro della rete e può andare nel lato avversario segnando punto oppure può rimbalzare indietro decretando la perdita. Tutto è incontrollato, tutto sfugge dalle nostre mani, che senso ha allora agire?

La visione di Woody Allen mi ha sempre colpita per il suo estremo realismo: è evidente che il regista pensi che non siamo noi a decidere l’esito delle nostre azioni, pur essendo liberi di agire. Esse non le definisce una divinità, ma semplicemente una serie di causa/effetto che non siamo noi a determinare. Il dramma è che noi siamo lasciati liberi nell’azione in un mondo che a volte in maniera incontrollata ribalta tutto ciò che abbiamo creato o inaspettatamente volge il futuro in nostro favore. Nel momento in cui riusciamo a capirlo abbiamo afferrato cosa sia realmente la vita: una serie di cause ed effetti inevitabile, fortuita, sconosciuta, che solo in parte siamo capaci di gestire. Accettare questo vuol dire accettare che la fortuna, questa entità mistica, governi la vita in qualche modo con noi e che forse abbia anche più potere. Ecco il dramma: l’essere umano è semplicemente frutto di una serie di eventi che lo hanno determinato casualmente e continueranno a determinarlo.

Queste riflessioni mi riportano al capitolo XXV de Il Principe (1532) di Machiavelli in cui l’autore definisce la fortuna: essa è l’azione del caso che influisce solo su una parte delle vicende umane, perché una delle doti del Principe deve essere la virtù. Essa consisterà dunque nella capacità di prevenire determinate situazioni, ma anche nella capacità di adattarsi a situazioni nuove e diverse volgendole a proprio vantaggio. La fortuna di cui parla Machiavelli si discosta nettamente dalla concezione medievale di una fortuna intesa come destino predestinato da un Dio e quindi ineluttabile. Sembra, infatti, che nelle pagine di Machiavelli l’azione dell’uomo acquisti nuovamente valore, dia una certa speranza all’agire umano. È importante notare che Machiavelli rappresenta l’intellettuale rinascimentale che rivendica l’arbitrio dell’uomo nel mondo e non cita divinità alcuna che domini la vita, ma solo una casuale concatenazione di eventi che a volte si verifica e che bisogna essere in grado di governare.

Si può dire che Allen concordi con Machiavelli nell’asserire che non vi è divinità alcuna che governi il corso delle vicende umane dal momento che asserire una cosa del genere andrebbe incontro ad evidenti contraddizioni e sarebbe ingiustificabile; concorda anche nel definire la fortuna come pura azione del caso che dà vita ad eventi imprevedibili.

La cosa più importante da sottolineare è che il regista perde l’ottimismo machiavelliano aderendo ad una visione più materialistica e nichilistica della vita e delle azioni umane. Allen è figlio dell’età contemporanea, del nichilismo imperante e in quanto figlio della sua epoca è spinto a pensare che oramai non conta essere virtuosi o detenere buone qualità dell’animo quando tutto è ineluttabile. Gli esseri umani non sono sempre in grado di adattarsi a nuove situazioni, né tantomeno hanno uno sguardo così lungo da poterle prevenire. La verità è che le cose succedono: al di là di chi sia il protagonista della storia, la fortuna non si cura del nostro passato, dei nostri sforzi, ma la cruda realtà è che nella vita tutto accade e non ci resta che accorciarci le maniche e provare a reagire.

Se da un lato è vero che la vita è incontrollabile e questo ci è difficile da accettare, è vero anche, come afferma Allen, che disperarci per questo ci porta solo sulla strada più facile. La vera partita nella vita la si gioca solo con sé stessi: forse non si vince o non si perde del tutto, ma ci sono le nostre scelte, c’è la vita che accade giorno per giorno e non si può che accettarla così come si presenta a noi e fare della “fortuna il nostro talento”.

 

Francesca Peluso

 

[immagine tratta da un fermo immagine del film Match Point di Woody Allen]

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Aristotele e il desiderio di conoscenza

 

• TUTTI GLI UOMINI HANNO UN INNATO DESIDERIO DI SAPERE •

 

Questa citazione è tratta dal primo libro della Metafisica ed è emblematico che Aristotele la ponga all’inizio della sua trattazione: tutti gli uomini hanno bisogno di risposte, ciò che rende l’uomo diverso è il meravigliarsi di ciò che lo circonda ed avere la capacità di alzare gli occhi al cielo per indagare, capire, sperimentare e cosa straordinaria mettersi e mettere in dubbio l’essenza di ciò che lo circonda. Questo è l’inizio della storia della filosofia nonché la storia del percorso del pensiero umano.

Gli uomini attraverso le loro sensazioni e sin dal loro primo approccio con il mondo che li circonda sono portati naturalmente al voler conoscere, ecco l’origine del mito, delle genealogie: l’uomo ha bisogno di risposte ai suoi perché, l’uomo vive grazie alle sue domande che ne permettono il progresso. L’uomo è capace di tecnica, di ragionamenti, di giudizio critico e morale e tutto nasce dalla sua naturale propensione al voler comprendere i meccanismi del mondo che lo circonda.

È di primaria importanza ricordare che Aristotele quando parla del desiderio di conoscenza naturale nell’uomo ne parla come di un desiderio sciolto da una qualsiasi utilità: l’uomo non aspira a conoscere solo in virtù di ciò che gli può essere utile, anzi l’uomo aspira al sapere perché naturalmente proteso verso questo, aspira alla conoscenza in sé. L’uomo aspira a voler conoscere la realtà che lo circonda in quanto è capace di andare oltre le contingenze.

Ciò che rende meravigliosa la storia dell’evoluzione del pensiero è che pur cambiando le contingenze, l’epoca, i mezzi di cui l’uomo si serve, si può osservare come le domande degli uomini sulla vita, sulla morale, sul mondo, sull’origine di esso e sulla morte non siano mai mutate, ma ne è mutata ed evoluta la risposta attraverso i secoli. La natura umana e con essa la sete di sapere unisce l’uomo nei secoli e il fascino della filosofia è poter prendere parte alla storia del nostro pensiero e provare a contribuire con una nostra risposta.

 

Francesca Peluso

 

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Oltre la linea: Jünger e Heidegger sul nichilismo

Oltre la linea (Über die Linie) è scritto da Jünger nel 1950 in occasione del sessantesimo compleanno di Martin Heidegger, che gli risponde nel 1955, e oggi il testo completo della corrispondenza è pubblicato in una breve opera.
Il testo di Jünger vuole essere un omaggio all’autore che aveva rivoluzionato il lessico filosofico moderno ed aperto a nuove riflessioni sulla metafisica e sul Nichilismo dei valori e del senso. Heidegger aveva anche a lungo studiato e discusso i testi di Nietzsche e nel momento in cui legge il Nichilismo Europeo si dice “distrutto”. Ciò lo spinge a riprendere il dibattito sul tema portandolo anche all’attenzione dei suoi allievi a metà degli anni ’40 in diversi corsi all’Università di Berlino.

La linea citata nel titolo è il limite simbolico che una volta varcato potrebbe portarci al di là della condizione nichilistica storica che viviamo; di particolare importanza è la particella iniziale über che rimanda all’attraversare: sebbene la particella possa rimandare ad un attraversamento completo, ciò che intende Jünger è la possibilità di poter attraversare la linea restando quasi in biblico sul limite e dando uno sguardo dall’alto alla condizione storica che si sta vivendo.

«L’attraversamento della linea, il passaggio dal punto zero, indica il punto mediano non la fine. La sicurezza è ancora molto lontana» (M. Heidegger, E. Jünger, Oltre la linea, 1950).

Le domande che inevitabilmente verranno a porsi saranno: è possibile questa transizione ipotizzata dal filosofo o la soluzione migliore è accettare di vivere in una condizione storica nichilistica? Quale è la soluzione che ci porta alla transizione, e la storia che ruolo ricopre?

Afferma Jünger nella prima parte del testo: «Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione costante di sfuggirne conosce ben poco la nostra epoca» (ivi). Il niente di cui parla il filosofo è l’assenza di meraviglia dell’individuo moderno, il quale sembra essersi assopito: gli manca il contatto con le arti, con i valori, manca la fiducia nelle idee. L’essere umano moderno è stato dilaniato dalle guerre mondiali ed ora cerca di ricostruirsi attraverso il progresso della tecnica, ma nel farlo perde il contatto con l’Assoluto1. L’unica speranza per andare attraverso la linea è recuperare il rapporto con le arti, perché solo attraverso queste l’individuo può recuperare anche il dialogo con sé stesso. Le contingenze storiche lo hanno messo alla prova ponendolo dinanzi al pieno Nichilismo dei valori; ciò nonostante il filosofo è speranzoso e fiducioso in questa nuova rivoluzione a cui il soggetto moderno dovrà dare vita.

La risposta di Martin Heidegger non si fa attendere, ma si discosta da ciò che aveva prospettato Jünger: il Nichilismo, non si può varcare né attraversare, non si può guardare dall’alto perché ne faremo sempre parte, l’esperienza del niente fa parte della vita dell’uomo perché è parte essenziale della sua storia:

«La pietra di paragone più dura, ma anche meno ingannevole, per saggiare il carattere genuino e la forza di un filosofo è se egli esperisca subito e dalle fondamenta, nell’essere dell’ente, la vicinanza del Niente. Colui al quale questa esperienza rimane preclusa sta definitivamente e senza speranza fuori dalla filosofia e dalla storia» (ivi).

L’individuo deve farsi carico del Nichilismo avendo la consapevolezza che l’ospite più inquietante, come lo definì Nietzsche, non potrà mai essere messo alla porta ed anzi la sua esperienza è ciò che profondamente caratterizzerà la vita di ognuno. Il compito del filosofo sarà guidare l’individuo nel percorso che lo porterà ad accettare e vivere la sua condizione attraverso la riflessione, il dialogo, l’analisi. Vivere nichilisticamente significa accettare che non c’è alcun legame con l’Assoluto, tutto è umano ed è solo il singolo che definisce il senso e il valore al mondo che lo circonda; tutto sembra essere umano, forse troppo umano.

L’opera ci porta a riflettere sulle possibili soluzioni al Nichilismo imperante nell’epoca contemporanea e senz’altro il suo merito è di darci la possibilità di indagare il problema dell’analisi del Nichilismo da due punti di vista. Da un lato la necessaria accettazione di esso; dall’altro il dover recuperare ciò che sembra essere perso anche oggi: la fede negli ideali, il rapporto con l’arte e il dialogo con noi stessi, l’unico mezzo attraverso cui possiamo rapportaci agli altri. Infatti, sebbene il Nichilismo non sia superabile, è possibile però accettarlo e vivere nella storia e facendo la storia, una storia che si costruisce con l’altro.

 

Francesca Peluso

 

NOTE
1. L’Assoluto di cui parla l’autore si deve intendere come uno Spirito Trascendente che pervade la storia e la pervade di senso, strettamente collegata a questa concezione è la teoria dell’arte come salvifica essendo uno dei mezzi attraverso cui questo si manifesta.

[Photo credit Artyom Kabajev via Unsplash]

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La Tana di Kafka: l’essere prigionieri di sé stessi

La Tana è un racconto scritto nel 1923 da Kafka durante la sua permanenza a Berlino; il protagonista del racconto è avvolto dal mistero e si intuisce che sia un roditore intento a cercare di costruire un nascondiglio sotterraneo per difendersi da eventuali invasori che potrebbero cibarsi di lui. Il covo è labirintico, lontano sempre di più dalla superficie e il roditore passa le giornate a perfezionare la sua struttura scavando ulteriori cunicoli e a consumare convulsivamente le sue provviste. 

Una volta concluse le provviste è costretto ad andare a caccia per procurarsene delle nuove, terrorizzato dal poter essere scoperto si ritrova incapace di uscire dalla sua stessa tana: «Ho assestato la tana e pare riuscita bene. Dal di fuori, in verità, si vede soltanto un gran buco che però in realtà non porta in nessun luogo»Sembra che il rifugio che aveva costruito a sua difesa si sia trasformato in una gabbia che lo imprigiona; mentre le sue riflessioni si accavallano, sente degli strani rumori dall’esterno e si convince che di lì a poco sarà attaccato. Il roditore si prepara a difendersi, chiedendosi perché non abbia udito prima il nemico e il racconto si conclude bruscamente con la frase: «Tutto invece è rimasto immutato…»

Le vicende di questo peculiare personaggio portano a riflettere su come la nostra casa possa diventare la nostra prigione, ma soprattutto su come si possa diventare prigionieri di sé stessi; il suo flusso di pensieri è concitato, inquieto e quasi si è incapaci di distinguere se le sue preoccupazioni siano reali o frutto di un’allucinazione provocata dalle sue paure. Il piccolo roditore di Kafka ha scelto di vivere lontano dai suoi simili, si è volontariamente isolato a scopo di difesa, la paura del diverso e dell’incontro con l’altro lo hanno portato ad una reclusione forzata che lo ha spinto ad allontanarsi dalla vita vera. Si legge infatti: «Quando esco devo quindi vincere anche fisicamente la pena che mi dà questo labirinto e provo dispetto e commozione a un tempo ogni qualvolta mi smarrisco per un istante nella mia propria fabbrica e l’opera sembra ancora compresa nello sforzo di provare a me, che già da un pezzo mi sono fatto un giudizio, la sua giustificazione di esistere…»

Il racconto di Kafka è un’allegoria di ciò che accade oggi, ma che in realtà è sempre accaduto: l’incontro con l’alterità spaventa, è difficile accettare di vivere con gli altri ed è altrettanto complesso accettare di conoscerci attraverso l’altro. Si deve vivere in relazione agli altri perché chiudersi ci allontana dal conoscere l’altro e il mondo, portandoci ad alimentare paure, sospetti e pregiudizi. Paradossalmente proteggersi implica aprirsi all’ignoto e al pericolo, scegliere di blindare il nostro io vuol dire esporci inesorabilmente a pericoli che non siamo in grado di affrontare. Nell’atto finale, infatti, il piccolo animale per proteggersi è costretto a risalire attraverso i cunicoli del labirinto che ha costruito ed arrivare quasi alla sua superficie per poter avvertire meglio le mosse del nemico. 

Lo sviluppo dell’individuo è nel rapporto con gli altri e lo si vede dalle sue attività che hanno tutte in sé natura sociale, le barriere che scegliamo di costruire a livello individuale e quelle che si sono volute costruire a livello sociale hanno lasciato impronte indelebili nella storia.

È emblematico che il racconto si concluda bruscamente affermando che nonostante gli sforzi, nonostante i tentativi di difesa tutto è rimasto immutato: è rimasto immutato perché il protagonista è senza storia. Una storia che non si costruisce isolandosi: la storia è ciò che muta l’essere umano e va costruita attraverso scelte e azioni che permettono un rapporto dialettico con l’altro, vi deve essere integrazione e azione. Il singolo fa la storia attraverso i suoi atti performativi, ma anche la storia lo trasforma, non si può accettare di vivere non avendone una. È di primaria importanza per l’individuo conoscere sé stesso identificandosi nell’altro, la paura dell’altro del roditore oggetto del racconto nasce dal suo non conoscerlo; la non conoscenza porta alla costruzione irrealistica di una idea di realtà che si finisce per accettare cecamente. 

Tutti gli sforzi del soggetto di allontanarsi dall’altro non hanno fatto altro che avvicinarlo ad esso nella parte finale, nel momento in cui risale in superficie non può fare altro che aspettare che si compia il suo destino e attendere l’arrivo imminente di uno straniero di cui non conosce neanche le reali intenzioni. Il nemico che spesso vediamo nell’altro è in noi stessi, si può diventare estranei nel momento in cui non ci si riconosce come specchio di un’alterità che non è nemica, ma nostra complementare.

Accettare di voler conoscere il singolo vuol dire accettare di conoscere l’altro senza dissolversi in esso, ma cercando un confronto critico. Ciò che Kafka ci mostra nel suo racconto vuole essere un monito e ci ricorda che possiamo essere sia la nostra prigione, sia le fondamenta della costruzione del nostro io, che deve formarsi attraverso le azioni e la volontà di accettare i rischi che vi saranno, ma che porteranno ad essere parte attiva della storia.

 

Francesca Peluso

 

[immagine tratta da Pixabay]

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Favolacce: morire basta per rinascere?

Favolacce (2020) dei fratelli D’Innocenzo è un’opera complessa da definire, una favola nera in cui non vi sono eroi e forse neanche dei veri e propri cattivi; una favola oscura che ci porta all’interno di una realtà sospesa tra l’assurdo e l’onirico.

Pur essendo l’opera ambientata ai giorni nostri sembra di trovarsi in un limbo, i personaggi sono incapaci di ogni tipo d’azione – e anzi, gli adulti che si sono assuefatti alla realtà ne sono incapaci, ma chi agisce sono i bambini o meglio i quasi adolescenti: sono gli unici che riescono a concepire un’estrema via di fuga e (forse) consapevolmente prendono un’estrema decisione. Nel finale la voce narrante legge alcune parole dal diario di una giovane protagonista affermando di essere dispiaciuta di aver raccontato una storia al limite dell’assurdo, ma ora il tragico finale ci “riporterà a iniziare da zero”.

Ma è davvero la morte l’unica soluzione per poter rinascere? La morte delle nuove generazioni sembra essere ciò che riesce a purificare le vite ormai perdute dei genitori, una redenzione non richiesta, ma essenziale. I genitori che hanno condannato a morte inconsapevolmente i propri figli attraverso la loro infelicità e incomprensione sembra vengano condannati alla sofferenza, ma attraverso questa assolti.

Eppure la morte non basta, perché il ciclo delle vite dannate e assuefatte continua e lo si nota nelle ultime immagini che raffigurano un ennesimo dramma familiare.

Ma se neanche morire è sufficiente, come si può rinascere dalle ceneri del proprio fallimento? Il triste messaggio dell’opera è ciò che spaventa di più ascoltare e vedere: la realtà è senza scampo e per quanto si voglia cercare di fuggirne essa è pronta nuovamente a tendere un agguato, le ceneri che ci portiamo dentro saranno la nostra cicatrice eterna. Si può scegliere di morire prima di essere assuefatti da una realtà che ci priva della nostra sensibilità, come fanno i giovani protagonisti, o si può scegliere di non scegliere e agire come i genitori.

In un noto romanzo di Günter Gräss, Il tamburo di latta, il giovane protagonista rifiuta la sua realtà su cui incombe la minaccia del nazionalsocialismo e decide di provocarsi un danno fisico per non crescere più e di non esprimersi se non attraverso il suono del suo tamburo di latta. La scelta del protagonista è dovuta al fatto che egli afferma di non voler vivere in un modo dove l’individualità è scomparsa, dove non vi sono più eroi o rivoluzionari, ma solo coloro che hanno deciso acriticamente di vivere una realtà in cui non sono più protagonisti, ma spettatori. Ciò che pensa il giovane protagonista del romanzo descrive esattamente quello che è il messaggio che i giovani protagonisti di Favolacce vogliono passi attraverso lo schermo: si deve lasciare la scena prima di diventare privi di sensibilità e delle grandi qualità umane da romanzo quali l’ambizione, l’umanità, l’empatia.

I genitori dei giovani protagonisti sono affetti da una malattia tipica dell’età moderna: la continua ricerca di qualcosa che superi ciò che già si possiede. Sono incapaci di prendersi la responsabilità delle proprie scelte e talmente incentrati su sé stessi che diventano cechi di fronte alle esigenze dei propri figli, tanto da non riuscire a vedere ciò che accade alla luce del sole dinanzi ai loro occhi.

I genitori mancano di empatia perché concentrati sulla propria insoddisfazione ed eterna sensazione di non essere mai abbastanza, una terribile sensazione di “normalità” sembra li assalga. Sono incapaci di ambizione perché inconsciamente non vogliono uscire dal microcosmo di una provincia immaginaria troppo reale e asfissiante di cui fanno parte, l’atto estremo dei bambini è un atto di ribellione, la ribellione è un sentimento forte che si cela dietro anche gesti estremi. La morte come ribellione è un concetto difficile e forse a tratti paradossale, la ribellione intesa come azione qui si trasforma in un atto che pone fine ad ogni azione. L’umanità e la paura dei giovani protagonisti è tangibile quando poco prima dell’atto estremo una lacrima riga un volto; è straziante che siano così indifesi e soli e per questo disperatamente costretti ad agire.

Favolacce è una parabola amara che cattura l’attenzione dello spettatore, lo trasporta in una storia macabra, oscura, simile a un incubo e forse ciò che spaventa di più è che sia in effetti reale, troppo reale. Non c’è risposta alle domande dello spettatore che deve accettare che a volte bisogna soltanto riflettere e osservare; la grandezza di un’opera d’arte sta nel suscitare domande che non hanno risposta e spingerci oltre il nostro piccolo microcosmo: in questa prospettiva Favolacce è sicuramente un’opera eccezionale.

 

Francesca Peluso

 

[immagine tratta dal film]

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“Nato il quattro luglio”: a cosa può portare lo spirito nazionalistico?

Gli anni ’60 hanno sempre suscitato in me un grande interesse per le tendenze musicali, per le lotte ai diritti umani, per i cortei, per l’aria di libertà che sembrava respirarsi. Ho sempre visto quel periodo come un momento in cui le coscienze dei giovani si sono risvegliate all’unisono e hanno cercato di farsi spazio in una società che per lungo tempo non li aveva ascoltati. Furono anni controversi le cui vestigia sono ancora presenti, ma vorrei porre l’attenzione su un evento che senz’altro ha segnato un punto cruciale della storia contemporanea: la guerra in Vietnam (1955-1975). Per farlo vorrei partire dall’analisi di un film di Oliver Stone che credo racchiuda appieno quello che fu lo spirito di quegli anni.

Nato il quattro luglio, film del 1989, fa parte di una serie di tre pellicole che Stone diresse cercando di focalizzarsi ogni volta su un punto di vista diverso: prima quello degli americani e poi dei vietnamiti. Nella pellicola sopracitata è evidente sin dalle prime scene come lo sguardo sia posto sugli americani, sul loro forte spirito nazionalistico e su come la guerra sia presentata ai giovani. Il piccolo protagonista assiste nella prima inquadratura alla parata del 4 luglio con una bandierina e un elmetto, lo si vede giocare con dei piccoli fucili quasi ad essere un segno premonitore di quello che sarà il suo futuro. Successivamente lo si vede diventare un giovane forte e atletico che dopo aver ascoltato una conferenza di un Marines decide di arruolarsi per la guerra in Vietnam “per difendere e preservare il grande spirito americano”. 

Ma la guerra è sempre dissolutrice, distrugge i sogni giovanili di gloria e di riscatto e ben presto ci si ritrova a chiedersi se quello in cui si è creduto abbia senso dinanzi alla rovina e alla distruzione che essa ha portato. Non è più una guerra per lo Stato ma diventa una lotta per la sopravvivenza e ci si rende conto che il popolo “maligno” che si era andato a combattere è semplicemente un popolo come un altro, dilaniato e spaventato dalla guerra. Tornato in patria il protagonista è cambiato nel corpo e nell’animo, così come tutti coloro che vi parteciparono: spesso si legge che chi andò in Vietnam tornò cambiato nel corpo e nella mente, e così fu.

La guerra in Vietnam per i giovani americani era un’occasione di servire il paese come avevano fatto i padri, i nonni, solo pochi decenni prima. Eppure l’esperienza avrebbe dovuto insegnare quanto la guerra fosse deleteria, si sarebbe dovuto ricordare il numero di vittime, le famiglie distrutte, la fame, ma negli anni ’60 vinse su tutto nuovamente lo spirito nazionalista e il forte motivo economico. Si manifestò contro questo nuovo flagello e vi furono molti cortei pacifisti, ma solo quando tutto finì ci si rese conto che una nuova generazione di americani era andata distrutta.

La guerra in Vietnam ha dato conferma di come la storia non abbia ancora un’accezione critica, sembra non insegnare e soprattutto sembra che gli ideali nazionalisti abbiano ancora la meglio sui cittadini. L’idea di forza, potere e sopraffazione acceca l’uomo a tal punto da non fargli più avere una visione volta al futuro e alle conseguenze delle proprie azioni, ma riduce il suo sguardo al mero presente. Combattere quella guerra – come tutte le guerre del resto – volle dire abbandonare la propria giovinezza e innocenza e diventare improvvisamente adulti con consapevolezze nuove che avrebbero per sempre cambiato le loro vite. Uccidere, distruggere e annullare ogni tipo di morale vuol dire far morire parte di sé stessi.

Canzoni, film, cortei, documentari animarono il mondo degli anni ’60 e le strade dell’America, se è vero che la storia non aveva sortito alcun effetto sino a quel momento sembra che la guerra in Vietnam abbia suscitato il più grande movimento di giovani mai visto, i quali avevano preso consapevolezza di ciò che volevano essere e del mondo che volevano vivere. Fu un movimento planetario, una presa di coscienza collettiva. Le immagini di quegli anni ancora oggi destano meraviglia ed emanano voglia di pace e libertà. Questo spirito è rimasto in parte nella nostra cultura e ancora oggi per noi deve essere un monito, un esempio.

Credo che ciò che gli anni ’60 ci hanno insegnato sia che non bisogna mai assopirci e lasciarci guidare ciecamente da alcuna idea o ideale che ci viene impartito in nome di uno Stato, bisogna essere vigili per cambiare il nostro mondo o anche la nostra piccola realtà. Essere coraggiosi e consapevoli vuol dire prendere atto di ciò che è stato e avere uno sguardo lungo su ciò che vogliamo sarà. Non permettiamo più che il sonno della ragione generi mostri, ma siamo attenti a renderla sempre vigile e critica.

 

Francesca Peluso

 

[Immagine tratta dal film]

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Una citazione per voi: Kant e la legge morale

DUE COSE RIEMPIONO IL MIO ANIMO DI AMMIRAZIONE SEMPRE NUOVA E CRESCENTE: IL CIELO STELLATO SOPRA DI ME, E LA LEGGE MORALE IN ME

(I.Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari, 1976, pg. 197)

 

Kant pone questa citazione alla fine della Critica della Ragion Pratica, pubblicata nel 1788.

Si richiama fortemente alla rivoluzione scientifica ed uno dei punti di riferimento è Bacone; ci porta, infatti, a soffermarci su una facoltà imprescindibile di cui è dotato l’uomo: la Ragione. Rivolgere lo sguardo al cielo stellato vuol dire ricordare all’uomo di cosa è capace, cioè il poter governare e studiare la natura attraverso la sensibilità, l’intelletto e le sue categorie. L’uomo governa la natura, questa si confà alla ragione e non viceversa, l’uomo si riscopre soggetto in un mondo in cui fino a quel momento era stato oggetto. L’uomo si astrae dal suo stato di minorità e si riscopre soggetto in un mondo di fenomeni, l’uomo valica le famose colonne d’Ercole del sapere grazie alla Ragione.

Ponendo lo sguardo alla legge morale il richiamo è forte a Rousseau, ma per il filosofo la legge morale porta l’uomo a determinarsi come persona all’interno della società: nessuno ci obbliga ad aderire alla legge morale, ma chi sceglie di farlo lo fa in relazione alla società in cui vive ed è colui che è dotato di autocoscienza. Le legge morale fa parte di tutti noi e ci guida nell’azione, la domanda di Kant sorge nel momento in cui si chiede perchè decidiamo di aderire ad una morale comune nonostante nessuno ci obblighi?

La grandezza del filosofo sta nel riconoscere l’uomo come soggetto che riesce ad unire ambito morale, pratico, e teoretico. Un soggetto che è in grado di riconoscere dentro di sé un io interiore che sa domandarsi come agire secondo imperativi che ha dentro di sé. Questa citazione aprirà ad importanti dibattiti in filosofia che rimangono tuttora aperti sulla natura della morale; sarà anche ripresa da J.S. Mill che parlerà del rapporto dell’individuo con la libertà e sarà d’ispirazione per tutti gli autori successivi come Fichte o Hegel e si rivelerà fondamentale per il futuro esistenzialismo.

 

Francesca Peluso

 

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“Il nichilismo europeo”, il frammento di Lenzerheide di Nietzsche

Per questa rubrica sulla riscoperta di un classico della filosofia ho pensato di analizzare il celebre frammento di Lenzerheide in cui Nietzsche racchiude il fulcro della sua riflessione sul Nichilismo occidentale, ma anche il suo pensiero sull’eterno ritorno, la trasvalutazione dei valori e sull’Oltreuomo che inesorabilmente si collega ad una presa di coscienza della condizione nichilistica dell’uomo. Lenzerheide è una località in cui il filosofo si recava spesso per riflettere e fare lunghe passeggiate; lo scritto che prenderò in analisi è una raccolta di brevi frammenti editi negli anni ’60 da Einaudi grazie all’attenta analisi filologica di Colli e Montinari.

Il filosofo si confronta con vari tipi di nichilismo e prende spunto per la sua riflessione dal nichilismo dei valori russo, dal nichilismo religioso e dal nichilismo del senso. Nietzsche si rende conto che oramai cercare una soluzione al nichilismo sembra essere anacronistico, perché la scienza e la presa di posizione dell’uomo nei confronti della natura e del sapere stesso lo ha messo di fronte il nichilismo stesso. Noi viviamo il nichilismo e l’uomo può solo accettare questa condizione e provare a farci conti e a tracciarne una genealogia.

Ma la domanda che il filosofo si pone è: l’uomo può riuscire ad accettare di essere frutto di una casualità, che la sua vita non abbia senso e può accettare di non avere un valore in quanto uomo?

L’indagine del frammento di Lenzerheide si apre con una analisi della morale cristiana occidentale, ragionando per idealtipi si potrebbe dire che l’uomo grazie alla morale cristiana e nella speranza di una vita futura ha dato valore alla sua stessa vita e ha accettato di credere in valori morali divini che segnavano un religamen con Dio.
Il gesto eroico di Nietzsche è nel far rendere consapevole l’uomo che quei valori che aveva creduto divini in realtà sono valori umani troppo umani che l’uomo ha creato per dare un senso, un orientamento alla sua vita rendendosi conto della sua condizione. La trasvalutazione dei valori è ammettere una nuova tavola di valori che si sanno essere umani, valori che si sanno soggettivi perché frutto di impulsi, passioni, desideri e ambizioni.

La morale non ha nulla in sé di oggettivo, ma solo di soggettivo e l’atto eroico dell’uomo sta nell’ammettere questo suo carattere e smascherarla dal suo carattere di veridicità che si è portato dietro per anni, e chi porrà valori nuovi sarà l’Oltreuomo. L’interpretazione dell’Oltreuomo per anni è stata oggetto di fraintendimenti dovuti ad interpretazioni filologiche non corrette e perché troppo spesso associata a teorie politiche successive. In realtà l’Oltreuomo è colui che accetta la condizione umana troppo umana dell’uomo priva di orientamento, è colui che porrà i valori nuovi sopracitati ed è colui che saprà affrontare l’Eterno Ritorno dell’uguale.

La concezione di tempo nietzschiana è sostanzialmente diversa da quella cristiana che prevede una progressione, si potrebbe assimilare ad una retta in cui individueremmo un prima, un ora, un sarà. Quello che invece il nostro filosofo ci prospetta è una visione circolare del tempo, un tempo che non ha fine, non è direzionato e si rinchiude in sé stesso facendo coincidere ogni inizio con la medesima fine.

Come penserebbe il Superuomo l’Eterno Ritorno?

Questa è la domanda con cui si conclude la dissertazione del frammento in analisi; è difficile pensare che esista un uomo che si prenda la responsabilità di sperimentare, vivere ed accettare l’insensatezza della vita giorno dopo giorno. Eppure questo uomo deve volere l’insensatezza della vita, deve volere una nuova tavola di valori. Qui entra in gioco il concetto di Volontà di Potenza che sembra per certi versi essere un fine o l’unico valore incontrovertibile a cui si possa fare affidamento. Ma dichiarare un fine non sembra essere in contrasto con il pensiero di Nietzsche?

È una domanda a cui spesso si è cercato risposta, ma risulta difficile darne una certa.
Ciò che resta è l’eroica riflessione di un filosofo che rompe gli schemi con la metafisica precedente ed è capostipite della Storia della filosofia contemporanea come dirà Heidegger nelle sue celebri lezioni degli anni ’40; Nietzsche ci prospetta un nuovo scenario d’azione dell’uomo e mette l’uomo al centro del suo universo. L’uomo vuole il volere, l’uomo è artefice di sé stesso, l’uomo è libero e consapevole della sua condizione. L’uomo trova la sua forza nell’accettare la sua indeterminatezza: è questo il messaggio che spaventa, ma che fornisce un nuovo motivo di speranza all’uomo nelle sue capacità.

 

Francesca Peluso

 

[Photo credit Breno Machado via Unsplash]

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