Attimi di fotografia di strada: intervista a Umberto Verdoliva

Spesso si dice che uno sguardo vale più di mille parole. Nonostante io gareggi nel team delle parole, finisco col convincermi della verità di questa massima mentre osservo in anteprima le fotografie in allestimento alla mostra che presto inaugurerà presso Ca’ dei Carraresi a Treviso, 100 attimi. Fotografia di strada. Certo, bisogna che questo sguardo sia sapiente, riflessivo, incessantemente indagatore – come quello di un bravo fotografo. Incontro allora Umberto Verdoliva, fotografo e curatore della mostra (visitabile dal 2 al 13 settembre 2016 nel capoluogo veneto), e cerco di scoprire da lui che cosa si celi dietro quello sguardo così prodigioso, ma anche qualche prospettiva su quello che gli sta davanti: l’umana realtà quotidiana.

100 attimi poster - La chiave di Sophia

1) La fotografia è nata nella prima metà dell’Ottocento quando si ricercava una più rapida e più fedele riproduzione della realtà, apparentemente possibile soltanto attraverso la scienza e la tecnica; solo in un secondo momento è diventata un’arte. Con la tecnologia di cui ciascuno dispone oggi, chiunque può scattare una foto, mentre naturalmente cala il numero di persone che può progettare e realizzare un’architettura oppure una composizione musicale. Che cosa dunque contraddistingue la fotografia “da album delle vacanze” da un oggetto d’arte?

La fotografia oggi è alla portata di tutti e ciò comporta una continua produzione d’immagini al punto tale che potremmo parlare di un vero e proprio spreco di fotografie. Il processo in atto è talmente ampio e complesso che è difficile per me immaginarne il futuro. La massificazione della fotografia ha trasformato quest’ultima in continui appunti visivi da utilizzare nei social, dei veri e propri “post it” che vengono in breve tempo accantonati e dimenticati negli hard disk e nelle diverse memorie di smartphone e pc; invece, se la fotografia è supportata da un’idea, da una visione personale, da un progetto, continua ad essere quella che era un tempo cioè uno strumento di documentazione, racconto, mezzo di espressione, testimonianza, memoria storica, occasione di aggregazione e socializzazione. In questo senso la fotocamera è uno strumento che potrebbe dar vita a dei veri e propri “oggetti d’arte”; di conseguenza ha molta importanza il pensiero di chi si approccia alla fotografia e il senso che vuole attribuire ad essa.

2) L’immagine del fotografo è spesso quella di una persona sola e attenta dietro al suo obiettivo mentre è a caccia… di cosa è a caccia? Perché si diventa fotografi e perché lei è diventato fotografo?

Ogni fotografo ha un suo percorso personale. Ho scoperto la fotografia per caso, in età matura e con una professione diversa già avviata e consolidata. E’ iniziato un percorso che mi ha portato a scoprire non solo la bellezza del quotidiano e a collezionare momenti che assumono un significato particolare, ma a partecipare alle vicende umane restandone inevitabilmente contaminato. E’ questa la bellezza della fotografia di strada: l’incontro con l’umanità; un incontro che non si riduce a un catturare un istante ma è un entrare in contatto con la dimensione esistenziale più profonda, quella nascosta nei piccoli gesti e/o nelle espressioni di un volto o di una situazione particolare.
Non mi sento un fotografo ma un uomo che utilizza la fotografia per mostrare agli altri oltre alla quotidianità anche se stesso; è un modo per comunicare la mia visione delle cose, del mondo e la mia sensibilità.

3) A parte in alcuni casi (quasi ovvi) o per specifiche “serie”,  le sue foto sono in bianco e nero: che cosa offre in più la mancanza dei colori?

La maggior parte delle mie foto sono in BN, ma non perché ci sia una chiusura verso il colore, anzi, ho serie nate e pensate a colori ed amo moltissimi fotografi che lo sanno utilizzare al meglio.
L’uso del BN deriva essenzialmente dal fatto che sono portato più a “celebrare” la vita e ad enfatizzare il lato emotivo della memoria e il BN mi sembra più adatto rispetto a quello della cruda realtà che attribuisco maggiormente al colore. Il BN, come del resto anche il colore, fanno parte entrambi della mia visione della realtà e li scelgo ogni qualvolta li reputo più adatti a rappresentarla; fotografare in BN o a colori non ha molta importanza, dipende cosa meglio si adatta a ciò che voglio mostrare.

Intervista Verdoliva colori - La chiave di Sophia

 

4) Il suo lavoro come fotografo si ascrive a quel genere denominato “street photography”, mentre quotidianamente veste i panni dell’architetto-urbanista. Quanto i suoi studi e il suo lavoro hanno influito sul suo sguardo da fotografo? E come può descrivere, a me neofita, la street photography?

Molti attribuiscono la pulizia compositiva e le geometrie spesso presenti nelle mie fotografie al fatto che abbia studiato materie come disegno tecnico o progettazione architettonica. Probabilmente ha influito, ma avere cura della composizione fotografica è stato assolutamente naturale. Compongo l’inquadratura velocemente e quasi sempre in maniera pulita e lineare.
Descrivere adeguatamente la street photography è molto difficile, ogni definizione ha i suoi limiti. I confini sono talmente labili da confondere spesso anche chi la pratica da anni. Una definizione di Luciano Marino descrive bene che cosa rappresenta  per me: «La street photography è la fotografia che fa dell’inquietudine il motore per la ricerca dell’umano e delle sue rappresentazioni. E’ quindi un intenso atto di scoperta, di avvicinamento, di contaminazione. Diventa il mezzo per partecipare alla vicenda umana, cogliendone la raffigurazione quotidiana, la sua messa in scena».
La parola “street photography” è solo un termine che identifica una certa attività, come esiste il fotografo di moda o il fotografo di matrimoni o il fotografo paesaggista e così via, essa identifica l’attività di un fotografo che sceglie di raccontare il quotidiano e le infinite interazioni tra genti in spazi di condivisione comune seguendo determinati approcci essenzialmente personali, pertanto molto variabili. Le diatribe infinite e le tante polemiche orientate a una ricerca di regole o definizioni le trovo inutili e destabilizzano la considerazione di chi ha scelto questa attività con consapevolezza.

5) Quando penso alla strada ed alla sua vitalità mi appare sempre alla mente una delle prime scene de Il favoloso mondo di Amelie, quando la protagonista aiuta il vecchio signore cieco ad attraversare la strada e gli racconta ciò che vede, gli descrive gli odori che sente, raffigura ciò che succede. La strada è un microcosmo di attività e di sensazioni di cui facciamo esperienza più o meno tutti i giorni, ma ad una tale velocità e con tanti pensieri nella testa che ci impediscono di vedere veramente qualcosa. Si può dire che la street photography aiuta noi, nuovi ciechi distratti, a notare tutto quello che ci perdiamo?

Nella domanda credo ci sia implicitamente anche la risposta. Infatti, è la dimostrazione di quante possibili descrizioni/definizioni può avere la street photography. Attraverso l’occhio di chi fotografa si possono vedere cose che non vedi o a cui non fai caso; camminando per le strade puoi sentire, spesso distrattamente, senza esserne consapevole, gli odori e le atmosfere di una città, ma la fotografia, se praticata consapevolmente, ti porta all’incontro con l’altro. Un incontro a volte sfuggevole, altre volte vissuto e condiviso, ma che quasi sempre lascia un segno: sia nell’osservatore, che può restare colpito, affascinato, sconcertato e sorpreso da come mostri il quotidiano e dalla tua idea, sia in chi fotografa. Più l’osservatore ne resta coinvolto e più hai raggiunto il tuo scopo e tutto questo diventa linfa continua per il tuo cercare.

6) Parliamo ancora un po’ di questo specialissimo set. Lei vive a Treviso, che oltretutto è molto vicina ad una città completamente sui generis come Venezia, ma ha avuto modo di visitare e vivere anche altre città italiane, nonché all’estero. Come cambia la vita della strada e la visione che si può avere di essa di Paese in Paese? Che cosa si cerca nelle strade di New York che è diverso (o magari che è uguale) rispetto a ciò che si ricerca a Treviso o a Praga? C’è poi un’altra città, che esiste e che non esiste, che lei definisce “Mental City”: cos’è e che cosa ha di così peculiare?

Mental city è un progetto fotografico che rappresenta una mia visione di Treviso. Ci vivevo da poco e la prima impressione è stata quella di una città elegante, discreta, che ti permette di isolarti e di perderti tra i portici e per le sue strade silenziose. Era una città che non conoscevo ancora e quella è una sintesi mentale dell’idea che avevo di essa e la realtà conosciuta nel tempo; ne sono rimasto molto colpito ed è stato naturale per me rappresentarla fotograficamente così.

Intervista Verdoliva Città mentale - La chiave di Sophia

Da “Mental city”

Un buon fotografo di strada è un attento osservatore e le sue ricerche e riflessioni spesso dipendono anche dal luogo in cui vive, pertanto quello che cerchi e trovi può variare da città a città e condiziona inevitabilmente la fotografia. Una foto scattata a New York è molto diversa da una foto scattata a Firenze, e non solo per il differente impianto urbanistico, ma soprattutto perché entrambe esprimono una propria essenza totalmente diversa e caratterizzante. Una delle sfide di chi fotografa è riuscire a cogliere questa essenza e saper raccontare attraverso le immagini uno dei tanti volti di una città.
Così descrivere una città come Napoli, partendo dalla stessa idea che mi ha spinto a fotografare, ad esempio Treviso, porta ad un risultato diverso, perché l’anima della città è diversa; ma allo stesso tempo fotografare la stessa città da un’altra prospettiva e con un’idea differente, la stessa risulta originale e nuova. L’idea dell’autore e quello che vuole mostrare è sempre determinante. La fotografia di strada è versatile e se devo parlare di una regola importante, dico che, in spazi pubblici e d’interazione tra le persone, la spontaneità del momento e la non costruzione della scena sono degli elementi fondamentali per cogliere aspetti peculiari di un vivere quotidiano; anche lì però possono esserci delle deroghe, per me è importante il cammino che nel tempo fa l’autore con la sua fotografia al di là di regole e consuetudini.

7) Ogni giorno e ad ogni ora, decine, centinaia, migliaia di persone brulicano nelle strade, di tutti i tipi i colori e gli scopi; le sue fotografie ne hanno colto aspetti intensi, casuali, divertenti – basti pensare alla sua serie Sex and the City o Prisoner of the Privacy. Pensa di aver imparato qualcosa di più sul genere umano guardandolo attraverso il suo obiettivo?

Sicuramente sì. La cosa più importante è stata quella di vedere me stesso nelle persone che incontro: ho imparato a capire e prevedere le reazioni, a essere discreto e allo stesso tempo furtivo per cogliere espressioni oggettivamente difficili da prendere in posa; cerco di mostrare le persone come se fotografassi la mia famiglia, con amore e rispetto, pertanto non ho timore di loro. Inoltre, con la fotografia mi diverto tantissimo e il mio senso ironico emerge spesso. Chi guarda le mie immagini percepisce immediatamente la grande passione che mi anima e quanto mi diverto per strada: la passione è contagiosa e la trasferisco con piacere.

Intervista Verdoliva sexandthecity - La chiave di Sophia

Da “Sex and the city”

Intervista Verdoliva Privacy - La chiave di Sophia

Da “Prisoner of the privacy”

8) Non posso fare a meno di cogliere alcuni aspetti di irrealtà nelle sue foto: in alcune di esse infatti, attraverso sovraesposizioni, riflessi fortuiti e fortunate casualità, riesce in qualche modo a cristallizzare una realtà parallela, spesso ironica oppure onirica. Quale significato ha dunque per lei il concetto di “realtà”?

Quando per anni sei in strada a fotografare l’umanità, l’ambiente e le relazioni, sviluppi delle visioni sempre più complesse, vai oltre il semplice sguardo su ciò che c’è intorno a te. Approfondisci, entri nella realtà a tal punto che puoi riuscire anche a stravolgerla. La fotografia dà questa possibilità e personalmente questo mi attira particolarmente; la complessità degli sguardi, la reinterpretazione della realtà attraverso punti di vista o prospettive inusuali, far soffermare l’osservatore rendendolo instabile nelle sue certezze, mostrare cose non intuibili a prima vista ma che sono davanti ai nostri occhi è il mio principale obiettivo. La realtà la puoi immortalare e la puoi ricreare, non è per me una dimensione stabile e univoca.

9) Il 2 settembre presso Ca’ dei Carraresi a Treviso verrà inaugurata la mostra 100 attimi. Fotografia di strada, di cui lei è il curatore e che resterà allestita fino al 13 settembre. Essa raccoglie cento fotografie, da qui al titolo il passo pare breve. Che cosa rende questi attimi così speciali? Perché questa mostra?

Se sono attimi effettivamente speciali lo lascerei dire ai visitatori, la mia speranza è attirare interesse, incuriosire e avvicinare il pubblico al tipo di fotografia, dare una risposta esclusivamente con le immagini a chi cerca di capire cosa è la street photography. Sono cento istantanee che rappresentano, per me, il buon livello raggiunto oggi dalla fotografia di strada italiana. È un confronto e una presa di coscienza anche rispetto alla street photography internazionale che fino ad oggi ha dettato i tempi, le mode e le tendenze. Ho scelto le fotografie attingendo dai lavori di autori che fanno parte di collettivi fotografici tra i più stimolanti in Italia, focalizzando l’attenzione verso questa forma di aggregazione inusuale per il genere, anche se non nuovo nella storia della fotografia: dal gruppo Mignon, collettivo storico padovano, a Spontanea, InQuadra e EyeGoBananas, collettivi giovani e con autori interessanti che si mettono in gioco continuamente per migliorarsi, formatisi in questi ultimi anni sull’interesse di massa verso il genere. Insieme a loro esporranno sei autori veneti di cui apprezzo il talento e la passione per questo tipo di fotografia.
Una mostra che ha il compito di presentare, a chi non conosce ancora la street photography, quanti possibili approcci e visioni possono esserci nel praticarla, quanto sia difficile e non banale cogliere attimi significativi, di quanto lavoro in termini di tempo e di confronto ci sia alle spalle ma soprattutto del legame sempre presente con la Fotografia e i grandi maestri di un tempo. Il mio intento è che essa riveli non solo qualità – molte delle foto presentate sono state selezionate e riconosciute valide in numerose manifestazioni internazionali importanti – ma, lontano da termini e definizioni, i tanti possibili volti della fotografia di strada. Un piccolo tributo a quanti la praticano con passione e una occasione per stabilire un punto d’incontro fisico e non virtuale tra noi.
Vorrei inoltre lasciare un consiglio a chi vuole avvicinarsi alla street photography o la pratica da poco, di farlo con grande umiltà evitando quei processi autoreferenziali che mistificano qualsiasi riconoscimento che credo debba arrivare da più parti nel tempo e in maniera assolutamente naturale. Viceversa, non si aiuta la fotografia di strada ad essere presa seriamente in considerazione.

10) Per noi la filosofia descrive il mondo in cui viviamo ogni giorno. Che cos’è invece per lei la filosofia?

Se la filosofia descrive il mondo in cui viviamo ogni giorno, allora ci sono tanti punti in comune con la fotografia, che attraverso gli occhi di qualcuno continuamente indaga sul senso dell’essere e dell’esistenza umana. La realtà e la verità sono due parole chiave della filosofia, così come anche della fotografia, poiché entrambe le ricercano incessantemente.

 

Osservazione della realtà e ricerca della verità (o di una verità) sono dunque due punti di contatto tra fotografia e filosofia, entrambe sono degli strumenti che ci aiutano a trovare delle risposte – la prima tramite l’estetica e l’immagine, la seconda attraverso la sfera razionale e la parola. Entrambe indagano l’uomo e ne fanno anche la storia. Sono personalmente molto affascinata da queste fotografie, forse proprio perché me ne vado per il mondo il più delle volte distratta dalla mia interiorità e dalle mie domande, senza accorgermi dei dettagli visivi in cui si trovano alcune risposte. Per esempio, che la vita va presa anche con una buona dose d’ironia, o semplicemente con più leggerezza. Penso ai versi immortali di Shakespeare, “Il mondo è un palcoscenico, / e tutti gli uomini e le donne sono soltanto attori”; in queste foto però non ci sono quasi mai attori. E’ un po’ come il Gengè Moscarda di Pirandello che vuole vedersi vivere, perché appena si vede riflesso non riconosce più se stesso, si scopre inevitabilmente a recitare. In un certo senso in queste fotografie vediamo noi stessi, come siamo quando pensiamo che nessuno ci stia guardando o giudicando – forse allora solo la fotografia, l’occhio di qualcun altro, è capace di mostrarci come siamo. Nonché di mostrare nero (o colori) su bianco le nostre invariabili incomprensibilità e le nostre innate contraddizioni, il nostro voler stare insieme pur richiudendoci a volte in noi stessi, dentro e fuori, definiti o evanescenti. Delle realtà multiformi che si cristallizzano nel momento dello scatto, e che così diventano memoria di noi per i posteri, ma anche per noi stessi. «La cosa più importante è stata quella di vedere me stesso nelle persone che incontro», ha detto Umberto; ciò che trovo incredibilmente sorprendente è proprio che anche io, io del tutto ignorante in materia di fotografia, osservando queste immagini, all’improvviso mi scopro a capire qualcosa di più di me stessa.

Giorgia Favero

Per approfondire il lavoro di Umberto Verdoliva: sito ufficiale, flickr, Facebook.

Qui tutte le informazioni relative alla mostra.

Tutte le immagini sono di proprietà di Umberto Verdoliva.

La fotografia: un terremoto nel mondo dell’arte

<p>Wales, Monmouthshire, Monmouth. Vintage Leica camera and Kaufmann Posographe.</p>

Molti si potrebbero chiedere come mai in età contemporanea i grandi artisti non dipingano più pale d’altare, grandi ritratti celebrativi o cicli d’affreschi a tema storico o mitologico.

Perché l’arte contemporanea ha deviato così tanto dalle grandi rappresentazioni figurate, dal classicismo e dagli alti ideali di bellezza che Winckelmann aveva teorizzato? Forse gli artisti dell’ultimo secolo non erano più in grado di dipingere come i grandi maestri del passato? Sentivano forse la necessità di esprimersi con immagini diverse per meglio interpretare un’epoca ormai distante da quelle precedenti? Oppure sentivano il semplice bisogno di esprimersi in modo libero e personale mediante una cifra stilistica unica che sarebbe stata la base di ciascuna delle Avanguardie storiche?

Queste domande nascono spontanee in molti di coloro cui capita di vedere nei musei le opere di artisti quali Picasso, Klee, Matisse o Pollock. Tuttavia, per giungere a rispondere, almeno sommariamente, a queste domande, è necessario comprendere quanto la fotografia abbia giocato un ruolo di primo piano nel drastico cambio di rotta intrapreso dalle arti figurative negli ultimi 150 anni. L’introduzione della fotografia negli anni ‘30 dell’Ottocento ha permesso di riprodurre in maniera esatta la realtà a un costo relativamente modesto: la tecnica perciò andò presto a sostituire la mano del pittore in molti dei campi d’azione precedentemente battuti. Quello del ritratto fu il primo, e forse quello in cui il cambiamento è stato più profondo. La fotografia permise di restituire in modo pressoché esatto le fattezze di un individuo, motivo per il quale molti artisti specializzati nel ritratto, in particolare i miniaturisti (che dipingevano in piccole superfici dei ritratti “portatili”), ebbero sempre più difficoltà a svolgere la loro mansione: a fronte del dilagante successo della fotografia come mezzo per immortalare uomini e intere famiglie, l’agenda di questi artisti divenne via via sempre meno fitta. Non è un caso che molti di costoro, già dagli anni ‘40, divennero essi stessi fotografi, assumendo così un ruolo da pionieri della nuova tecnica riproduttiva. Ma come poteva dunque l’arte, a questo punto, rispondere a questo attacco senza precedenti mosso dalla tecnologia? Come avrebbe potuto la pittura rimanere un medium bidimensionale privilegiato per la comunicazione visiva del reale?

Ovviamente era necessario divincolarsi dall’imitazione della natura, da sempre l’obiettivo cardine delle Belle Arti e ora portato a massima efficacia dalla neonata tecnica fotografica. L’obiettivo da parte degli artisti era quindi quello di “superare” la fotografia, presentando la realtà sotto un punto di vista nuovo. Dipinti come le vedute di Canaletto o i paesaggi olandesi del ‘600 non avevano più motivo di esistere, dal momento che la loro estrema attenzione ai dettagli non poteva fare a gara con la fedeltà assoluta di un’immagine fotografica. Fu da questi presupposti che, proprio nell’ambito della pittura di paesaggio, nacque l’Impressionismo, il cui scopo era quello di restituire la realtà non mediante una trasposizione perfetta della sua immagine nel quadro, bensì tramite una visione, resa con pennellate ampie e rapide, che desse la “prima impressione” (da qui il nome di “Impressionismo”) di ciò che una persona vede, prima che il suo occhio possa soffermarsi a considerare il dettaglio, mettendo a fuoco gli innumerevoli particolari che il mondo esterno gli offre.

Questo fu il primo grande passo verso l’arte contemporanea come la si concepisce oggi, passo irreversibile che, causando da una parte la perdita dei valori più propriamente estetici dell’arte, dall’altra aprì orizzonti nuovi in cui poter approfondire il rapporto soggetto-realtà. Ciò avvenne, nei primi anni del Novecento, sotto numerose declinazioni diverse, corrispondenti a grandi linee con le celebri Avanguardie storiche. Ciò che fecero il cubismo, l’espressionismo, il futurismo e, in ultima istanza, l’astrattismo fu condurre ad estreme conseguenze quel processo, causato dalla fotografia, che già dagli anni ’60 dell’Ottocento portò ad un allontanamento dell’arte dall’imitazione del reale: ora l’oggetto-mondo poteva venire analizzato dal soggetto-artista mediante processi di scomposizione (Picasso e Braque), interiorizzazione (Kirchner e Schiele) o rielaborazione in chiave onirica (Dalì).

Creare opere classiche non aveva quindi più senso: lo stile accademico apparteneva oramai al passato e compito dell’arte divenne quello di comunicare qualcosa che la fotografia non era ancora in grado di fare proprio. E questo fu quello che i grandi artisti di fine Ottocento e inizio Novecento seppero fare, mettendo da parte la classicità e rispondendo adeguatamente alle sollecitazioni che l’introduzione della fotografia aveva provocato.

 

Luca Sperandio

 

[Photo credits Google Immagini]

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“Salty girls”

Immaginiamo un famoso fotografo che lavora ad un progetto intitolato “Just Breathe: Fibrosi Cistica” ed immaginiamo che per farlo abbia a disposizione le modelle con cui lavora abitualmente: senza alcuna imperfezione e con poca coscienza di cosa dovrebbero rappresentare.

E’ questa l’attualissima vicenda di Ian Pettigrew, che ha deciso di scostarsi dalla consueta perfetta perfezione per realizzare una serie di foto di donne affette da fibrosi cistica, una malattia ereditaria definibile come un’anomalia nella secrezione del cloro.

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“Salty Girls”, letteralmente “ragazze salate”, il nome di questa vetrina di coraggio, forza ed umanità. Hanno posato più di sessanta donne in bikini o con mise molto eccentriche per gridare al mondo di non sentirsi diverse dalle altre e di voler essere considerate come tali.
Belle, naturali, spontanee: queste parole attraversano la mia mente mentre guardo i vari scatti. Non noto a prima vista le innumerevoli cicatrici che deturpano il loro corpo; mi colpiscono i loro sorrisi, le loro fossette sul viso, la spontaneità dei loro movimenti.

Condannate ad una vita che le mette alla prova ogni giorno, perché dovrebbero vivere la sequenza dei loro anni diversamente dagli altri?

“L’idea che esistano dei corpi di cui vergognarsi è ancora molto reale e diffusa”, afferma Ian Pettigrew all’Huff Post Usa. Troppo spesso queste donne sono vittime di discriminazioni, troppo poche le persone che al giorno d’oggi vogliono riuscire a combatterle. Il concetto di bellezza va oltre un fattore puramente estetico, va oltre la cornice e si coglie direttamente dentro al quadro stesso. E’ un concetto che in queste donne è imperante, dilagante oserei dire. E’ un’idea che urlano con le loro espressioni. E’ un messaggio che si legge chiaramente in ognuno degli scatti realizzati.
Ad ognuna di loro la malattia potrebbe essere al tempo stesso il più grande limite di vita e la maggior imperfezione: nascondere ciò che vedono diverso dalle altre donne potrebbe sembrare la soluzione più idonea. Eppure, grazie ad un coraggio da invidiare, mostrano i loro punti di debolezza, proprio perché consapevoli che in realtà sono soltanto simbolo di una forza estrema. Vivere esattamente come gli altri, non diventando schiave di un mondo costruito sulle diversità.

Sono figlie, sono sorelle, sono amiche, sono mogli, sono fidanzate, sono donne in carriera: sono esattamente tutto quello che sono le altre persone. No, anzi. Non soltanto. Sono assolutamente di più. Sono capaci di essere rappresentanti delle cicatrici che segnano i loro corpi, sono talmente determinate da sfidare una malattia di cui attualmente non esiste una via di guarigione definita. Combattono per ottenere una sperimentazione più avanzata, per loro stesse e per le altre donne. Combattono come tutte noi nei nostri ambiti e nelle sfide che ci poniamo.

Scatti che le raccontano, tuttavia non abbastanza: sono infatti destinati a diventare vere e proprie storie di vita raccontate in un libro. Non credo di poter comprendere fino in fondo quanto carattere ci voglia per affrontare ogni giorno, ogni momento, ogni secondo della loro quotidianità. So però per certo che non l’hanno privata di un altro genere di sale: quello della vita, quello del coraggio. Entusiasmante dev’essere prendere spunto da vite così, ammirarle fino a sostenerle. Imitare per quanto possibile la loro tenacia. Cogliere quella superiorità e quell’esperienza di vita che hanno, delineata in qualsiasi forma.

Non esistono difficoltà talmente grandi da non poter essere abbattute; ecco il concetto che rappresentano.

Volti ignoti che diventano noti anche al mondo che ignora una certa realtà.

Volti puliti che rendono un po’ meno forti le discriminazioni e un po’ meno sporca la spazzatura della rassegnazione. Volti di chi crede – ancora – in una prospettiva migliore.

Volti di reale bellezza. Volti di autentico coraggio.

Cecilia Coletta

[Immagini tratte da google immagini]

FOTOSOFIA

La storia e la vita del più grande scrittore per immagini mai esistito. Un documentario esemplare, capace di irradiare bellezza e profondità da ogni singolo fotogramma. “Il sale della terra” non è un semplice film, è un’esperienza visiva che accarezza e oltrepassa le porte della riflessione filosofica.

Fotografia. Un vocabolo che affonda le sue radici nel greco antico e che sta a significare, alla lettera, una scrittura per immagini. Vocabolo ai giorni nostri fin troppo usato, che ha rischiato molte volte di perdere l’essenza stessa del suo significato. A rinnovare oggi un dibattito che sembrava non avere più nulla di nuovo da dire, c’ha pensato uno dei grandi nomi della cinematografia contemporanea: Wim Wenders. Colpito e affascinato dalla potenza espressiva di alcune fotografie scattate in una maestosa miniera del Brasile, ha voluto documentarsi sull’identità del fotografo che le aveva realizzate. Comincia così “Il sale della terra”, un viaggio nella vita e soprattutto nelle opere di Sebastiao Salgado, uno dei più grandi fotografi viventi.

Nato nel 1944 ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais, da cui parte ancora adolescente, Salgado è oltre che un fotografo, anche un instancabile viaggiatore che ha finora esplorato ventisei Paesi in tutto il Mondo e concentrato in immagini bianche e nere di una semplicità sublime e una sobrietà brutale, i più importanti eventi del XX Secolo. Interrogato dallo sguardo fuori campo di Wenders e accompagnato sul campo dal figlio, l’artista si racconta attraverso i reportages che hanno omaggiato la bellezza del pianeta e gli orrori che hanno oltraggiato quella dell’uomo. Fotografo umanista della miseria e della tribolazione umana, Salgado ha raccontato l’avidità di milioni di ricercatori d’oro brasiliani sprofondati nella più grande miniera a cielo aperto del mondo, ha denunciato i genocidi africani, ha immortalato i pozzi di petrolio incendiati in Medio Oriente, ha testimoniato i mestieri e il mondo industriale dismesso, ha perso la fede per gli uomini davanti ai cadaveri accatastati in Rwanda e ‘ricomposti’ nella perfezione formale e compositiva del suo lavoro.

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Ciò che rende la sua opera diversa da molte altre è l’estrema umanità che caratterizza le sue raccolte. E’ un fotografo che antepone alla perfezione stilistica dell’immagine, la sensibilità e il vissuto umano dei soggetti che si appresta a fotografare. Ecco perché con Salgado l’arte dello scrivere per immagini, si trasforma in un’operazione morale e umanitaria. Wenders ce lo racconta quasi con riverenza, costruendo un ritratto che rasenta la venerazione ma non sfocia mai nell’idolatria. Non un film di narrazione, ma un’enorme mostra fotografica animata e commentata dalla guida più autorevole in materia: l’autore stesso. “Il sale della terra” colpisce per la sua potenza espressiva. Per la capacità di alternare la brutalità della consapevolezza sociale, a tematiche universali ancora oggi di grande attualità. Ne è un chiaro esempio il finale della pellicola in cui si parla della svolta ambientalista dell’artista che con la sua famiglia ha contribuito a salvare gran parte della foresta pluviale brasiliana, ripiantando migliaia di alberi e creando di fatto un nuovo polmone verde per il nostro Pianeta.
La grandezza del fotografo sta anche in questo. Nel saper mettersi sempre in discussione, non dando mai nulla per scontato e cercando di coinvolgere il più possibile lo spettatore, incitandolo in prima persona, a diventare parte attiva di questa vita e a fare qualcosa di utile per il bene comune. “Il sale della terra” è un documentario che scavalca i confini della cinematografia per approdare alle soglie della riflessione filosofica. E’ una fotosofia, come recita il neologismo che da il titolo a questo articolo. E’ un pensare per immagini, ferme o in movimento, che sanno toccare i tasti più vicini al nostro cuore e alla nostra mente, trasformando l’Arte in uno splendido strumento di critica e di incitamento umano e sociale.
Alvise Wollner


[Immagini tratte da Google Immagini]