Giustizia e forza tra Rousseau e Pascal

In natura sopravvive chi ha i mezzi migliori. Che si tratti di forza in senso stretto o di altre caratteristiche che possono esser considerate tali in senso più generale – come un efficace mimetismo o la secrezione di sostanze deterrenti – l’osservazione dei fenomeni naturali ha prodotto l’idea di “legge del più forte”. Questa espressione, però, se trasposta dal contesto naturale a quello sociale rischia di essere facilmente male interpretata e di legittimare atteggiamenti dispotici nei contesti più disparati: mobbing sul lavoro, bullismo nelle scuole, violenze in contesti familiari, venendo meno a quella che probabilmente è la caratteristica fondamentale della società, e cioè la tutela del più debole.

Nel Diritto del più forte (terzo capitolo del primo libro de Il contratto sociale), Rousseau si propone di mostrare l’incomprensibilità della nozione di “diritto del più forte” tracciando una netta distinzione tra la nozione di forza e quella di diritto. Se infatti ammettiamo la validità di questa idea, se accettiamo che il diritto sia un’istanza subordinata alla forza e dipendente da essa, ne deriva che il più forte è legittimato nel suo soverchiare il più debole, e che chi ha la forza di imporsi lo faccia anche a buon diritto. Tuttavia in questo caso il diritto non aggiunge nulla alla forza: il più forte non ha certamente bisogno di questa legittimità per imporsi, piuttosto egli lo fa in virtù di questa sua natura stessa; il più debole, dal canto suo, non si sottomette per dovere, bensì per necessità. Recita Rousseau: «Che un brigante mi sorprenda al limitare di un bosco: non soltanto dovrò per forza dare la borsa, ma, quando potessi sottrarla, sarei in coscienza obbligato a donarla? Perché, in fin dei conti, la sua pistola è sempre una potenza» (J.J. Rousseau, Du contrat social, 2010).
Da questo testo emergono dunque principalmente due idee. Innanzitutto il fatto che la nozione di diritto e quella di forza siano nettamente distinte, e l’espressione “il diritto del più forte” equivale in fin dei conti a “la forza del più forte”, poiché il diritto non aggiunge nulla al potere d’azione della forza. La seconda, più sottile, è che il diritto non costringe materialmente, bensì obbliga, cioè agisce a livello di coscienza morale. La forza s’impone da sé, il diritto chiama.

Questa distinzione mirabilmente condotta stronca una volta per tutte i tentativi di legittimare un sopruso sulla base della forza (sono più forte, quindi è giusto che comandi io), perché la legittimazione avviene sul piano del diritto, e non di una situazione di fatto. Ciò sembra risolvere una serie di questioni spinose, ma in realtà proietta dietro sé un’ombra, di cui sicuramente Rousseau era consapevole, che era già emersa con fascino nel pensiero di Pascal in Giustizia, forza1.
In questo testo Pascal, che riflette sulla relazione tra queste nozioni, mette in luce la problematicità della distinzione di cui sopra. La giustizia necessita della forza, perché da sé non si impone: essa è ciò che legittima o meno uno stato di fatto. Alla forza, dal canto suo, serve esser giusta per legittimare il suo esercizio, per non essere tirannica. Tuttavia, se da un lato «la forza è facilmente riconoscibile», proprio in virtù della sua natura, dall’altro «la giustizia è soggetta a disputa»: di ciò sono testimoni gli innumerevoli dibattiti sulla natura della giustizia, da Platone ai giorni nostri. Di questa ambiguità ha storicamente approfittato la forza, imponendo le sue ragioni e dichiarando (con forza) d’esser giusta. «Così – conclude Pascal – non potendo fare in modo che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto».

Benché l’analisi di Pascal abbia una conclusione piuttosto sconfortante, ci sembra di poter trarre un insegnamento importante da queste lezioni. Il rischio di un sopruso è sempre dietro l’angolo, e le ragioni emergono lampanti da questi due testi. La giustizia non può essere imposta, la sua dimensione essendo quella morale: essa agisce a livello di coscienza individuale. Una regola imposta forzosamente è necessariamente tirannica, poiché essa deve essere l’espressione del senso di giustizia di una comunità, sia essa un gruppo di colleghi di lavoro, una classe scolastica oppure uno Stato. Ognuno, nella vita di tutti i giorni, ha la responsabilità di far esistere la giustizia nel contesto in cui vive, e ciò, come si è visto, non può essere imposto da fuori, ma deve uscire da dentro. Ecco perché invece di seguire ciecamente una regola comportandoci così da sudditi, è importante, seguendo il proprio buonsenso, individuare il significato della stessa, interiorizzarlo ed agire come chi sta al mondo con la consapevolezza del senso di ciò che fa. Una società giusta non è separabile dalla responsabilità dei propri cittadini.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Si tratta del novantaquattresimo pensiero contenuto in Pensieri. Le brevi citazioni che seguono sono tratte da questo pensiero.

 

[Photo credit Tingey Injury Law Firm via Unsplash]

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La forza gentile delle donne

Quel giorno, erano le 11.30, stavo tornando a casa in macchina. Ascoltavo un po’ di musica alla radio, quando la vettura che mi precedeva si ferma di colpo. Mi accorgo di movimenti concitati nell’abitacolo. Fermo anch’io la mia corsa. Affianco l’auto. Vedo l’uomo sferrare un pugno alla donna che sedeva dietro, accanto a suo figlio. Un’altra auto sopraggiunge. Faccio segno all’uomo di fermarsi subito. Mi manda a quel paese. Scendo dalla macchina e gli vado contro. La donna, che era alla guida di quell’altra auto, mi affianca. Esce un tesserino dalla tasca. Lui cambia espressione. La donna chiede alla signora cosa stesse accadendo. Abbiamo visto tutto, la possiamo aiutare. Lei – ricordo ancora quello sguardo – mette la mano sulla spalla dell’uomo. “Nulla. Non sta accadendo nulla. È mio marito. Andiamo a casa”. L’uomo si allontana, impaurito (gigante di argilla). La donna ci ringrazia: “Grazie, ma ora andate via”.

 

Mi ricordo ancora il silenzioso urlo di dolore di quella donna, soffocato nella vergogna. La dignità offesa. E poi il figlioletto, terrorizzato, muto testimone di tutto.

La violenza di genere è un fenomeno noto in ogni tempo. Antigone e Ipazia ci hanno raccontato le loro storie. Ma negli anni, purtroppo, poco è cambiato. Non sono mancate, certo, le motivazioni morali contro la violenza e in particolare contro la violenza su donne e bambini. Sono mancati invece quei meccanismi, quelle leve giuste per attivare nuovi processi culturali, istituzionali, politici, legislativi. Ha ragione Luisa Muraro quando, provocatoriamente, scrive: «la storia ha voltato pagina? Bene, noi le volteremo le spalle» (L. Muraro, Dio è violent, 2012).

Quella tanto cara ragione moderna, dell’uomo adulto, universale ed emancipata, si è rivelata una gabbia di ferro, funzionale al controllo generalizzato. Quel pensiero non ha solo voltato le spalle alle donne, ha aggiornato i modelli di subordinazione, di sottomissione. Una razionalità tanto lontana dal privilegiare l’intersoggettività, il rapporto con l’altro, la concretezza, l’attenzione al tempo presente, il pensiero circolare. Non ne faccio una questione ideologica o di appartenenza. È un fenomeno diffuso in tutte le società del mondo.

Alcuni anni fa, l’Orchestraccia rivisitò Lella (di Edoardo De Angelis), un classico della tradizione musicale romanesca, nella quale viene raccontata la storia di un femminicidio. Nel video dell’Orchestraccia, però, la storia cambia. Ci sono donne ferite, che portano i segni delle offese, ma che si rialzano e che cancellano da sole le tracce delle percosse, i lividi e le cicatrici. Quelle che vengono rappresentate sono donne che non cedono e non hanno paura di uomini violenti. Donne forti, ma di una forza differente; non quella, per intenderci, alla quale prelude la cosiddetta “legge del più forte” ma una forza immortale, vigente, effettiva e gentile, tutta rivolta alla pace, direbbe Maria Zambrano. Questa forza cambia la storia strappando quel “velo di Maya” che nasconde la realtà delle cose, con lo stesso coraggio e la stessa determinazione delle donne iraniane che si tagliano i capelli e si tolgono il velo. Sono gesti che allargano lo spettro semantico e simbolico di tutto quello che ci circonda.

La violenza non è solo quella del sangue e del corpo. È violenza anche la sottrazione di beni, materiali e non. C’è la violenza psicologica e dei sentimenti. L’ingiustizia, l’emarginazione, l’isolamento, il pregiudizio: sono espressioni di una violenza nelle relazioni sociali, spesso accompagnata da una violenza nell’interazione comunicativa. Nessuno può dirsi estraneo, cognitivamente, a tutto ciò. Allo stesso tempo mi chiedo quanto sia motivata la nostra volontà e il nostro desiderio di uscire da questi cortocircuiti del pensare.
Me lo chiedo perché non si può cambiare la società con la violenza, anche se in fondo è quello che abbiamo sempre fatto o tentato di fare. L’azione violenta è la distruzione di ogni possibilità; è pura disperazione. Così come la legge del più forte è la negazione di ogni giustizia, di ogni bene. Io penso, invece, ad un’azione differente. Un agire non femminista, ma femminile, che liberi le donne dalla sofferenza di relazioni malate.

Una rivoluzione che è un “agire creativo”, ispirata al bene e alla giustizia, orientata da un pensiero dell’alterità e della differenza che, in una nuova alleanza donna-uomo, affermi ogni giusta pretesa e abbassi l’arroganza dei potenti, preluda a forme migliori dello stare insieme e dia parole nuove per nuovi pensieri. Mi riferisco a un’azione “disobbediente”, non alle leggi, ma al pensiero conformista della maggioranza e all’indifferenza, e che aiuti tutti ad essere persone migliori.

 

Massimo Cappellano

 

[Photo credit Katherine Hanlon via Unsplash]

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L’ignoranza è forza: da George Orwell al nostro presente

Di questi tempi citare George Orwell può essere pericoloso, si rischia di passare per seguaci di una moda letteraria improvvisata tendente al radical e di replicare con triste ironia le frasi dello scrittore britannico per sottolineare la propria presunta superiorità morale e intellettuale, in contrasto ad una massa di creduloni in costante crescita.
La sola colpa imputabile a Orwell è di aver pubblicato settant’anni fa 1984, un libro che non conosce crisi nonostante l’angosciante grigiore che impregna ogni pagina e che, una volta concluso, fa venir voglia di auto esiliarsi in un monastero tibetano fino alla fine dei tempi; la colpa più grossa tuttavia appartiene a noi, intesi come genere umano, perché siamo stati capaci di realizzare alcuni dei cupi scenari distopici del romanzo e di promuoverli sia nell’intenzionale esaltazione dell’ignoranza, sia nell’inconsapevole immobilismo di chi la vorrebbe combattere.

L’ignoranza è forza è il terzo slogan del Socing – l’ideologia dominante nel mondo immaginato da Orwell – scritto a caratteri cubitali sulla facciata del Ministero della Verità, ma perché ci è così vicino? Perché è così attuale?
Basta semplicemente affacciarsi nel mondo social per rendersi conto di quanto la vera moda non sia tanto citare Orwell ma deridere chi apre un libro, chi si informa prima di esprimere un’opinione, chi sceglie di studiare, chi ha dedicato la propria vita alla ricerca.
Il termine “Professorone” attribuito in senso dispregiativo a chi è costretto a dimostrare che il fuoco scotta e che l’acqua è bagnata, è onnipresente, ed è indice di una sempre più bassa qualità dei dibattiti sociali, portati avanti – ironia della sorte – proprio nella piattaforma interattiva che ha richiesto lo sforzo e lo studio di un numero consistente di tecnici specializzati: il web.

I luoghi comuni secondo i quali “lavora solo chi utilizza la forza fisica” e “possiede esperienza solo chi ha la terza media perché a 14 anni era già nel mondo del lavoro e ha valore solo il sapere derivante direttamente dai nostri avi” formano il pilastro dell’ignoranza più osannata e incoraggiata.
Forse è una sorta di rivalsa non tanto di chi non ha potuto, come ad esempio i nostri nonni che nel periodo bellico e post-bellico non hanno avuto alternativa, ma di chi non ha voluto studiare, per noia o per interessi legittimamente diversi, fatto sta che l’avversione nei confronti di chi invece conosce un determinato argomento è palpabile e spesso violenta.

Perché l’ ignoranza è quindi più forte? Perché il gruppo che ne abbraccia i fondamenti è ben nutrito ma le risorse di cui dispone non le trova solo tra i suoi affiliati, esiste infatti un problema di ghettizzazione intellettuale.
Se dovessimo superficialmente suddividere gli internauti tra colti e analfabeti scorgeremmo tra loro un muro invisibile fatto di prese di posizione, sfottò e nulla più. Gli analfabeti rivendicano la loro natura e deridono i colti, i quali a loro volta deridono gli analfabeti e li classificano come casi irrecuperabili, senza speranza, di conseguenza questi ultimi restano ben saldi al loro mondo e di cambiare abitudini non ci pensano proprio.
Un cane che si morde la coda è una metafora che ben rappresenta la situazione.

L’immobilismo sembra non voler vedere né vincitori né vinti, ma probabilmente non si tratta di far vincere qualcuno, quanto piuttosto di cercare una terza via che conduce ad una sorta di compromesso.
Certo non è sostenibile mettere costantemente in dubbio ogni scoperta scientifica o quanto è già ampiamente conosciuto e dimostrato: la forma della Terra, l’efficacia dei vaccini, certi avvenimenti storici, la bontà dell’istruzione e di chi nell’istruzione ci lavora…
Ultimamente il dubbio è spesso utilizzato per esprimere con forza una negazione ma nella strada del compromesso potrebbe ritrovare la sua propensione alla curiosità, la quale a sua volta è portatrice di ricerca e conoscenza di quesiti ancora inesplorati oppure migliorabili.

Dall’altra parte proprio perché nessuno nasce imparato bisognerebbe puntare all’inclusione, alla divulgazione e alla condivisione delle conoscenze in proprio possesso, per avvicinare quanta più gente possibile ad un qualcosa che alla fine appartiene a tutti.

 

Alessandro Basso

 

Immagine di copertina: Planetoide tetraedrico, Maurits Escher, 1954

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Tra ragione e passione. Storia culturale della differenza di genere (parte II)

Nel mio precedente articolo, si è introdotta, seppur per sommi capi, la questione storica della differenza di genere, che, come abbiamo già detto, è quella differenza che più di tutte si radica come originaria, infatti, tra gli esseri umani è quella più trasversale, dicotomica e ineluttabile dal punto di vista biologico. In questo articolo il focus viene posto sulla cultura greca e sull’immagine della donna da essa plasmata, sull’onda di quella che si era già in parte delineata nelle società precedenti.

La donna nella Grecia antica La donna greca, soprattutto quella Ateniese e salvo alcune eccezioni, era relegata agli spazi della casa, subordinata all’uomo e dedita alla vita domestica; era sconveniente che le donne facessero vita pubblica, salvo nelle occasioni dei rituali di culto e nelle celebrazioni di feste.

La Grecia portò le polis alla più alta forma grazie alle vittorie in guerra, rafforzando così la classe militare che poté mettere in discussione i poteri dell’aristocrazia. Questo era ovviamente fuori discussione per le donne, che non godevano di una situazione istituzionalizzata di vita in comune e di condivisione di interessi con le loro coeve. La vita militare e la guerra hanno certamente rafforzato la coesione maschile e fornito le basi fondamentali alla costruzione della vita politica. Eccezione in ciò la faceva Sparta: fin dal VII sec. la legge prevedeva l’addestramento militare anche per le donne, affinché fossero forti per partorire e crescessero figli vigorosi. L’iscrizione dei nomi dei morti sulle lapidi spartane era vietata, fatta eccezione per i morti in battaglia e per le morte di parto, due condizioni che ricevevano la medesima gloria. È interessante aggiungere che il governo spartano era oligarchico, mentre la democrazia fu inventata ad Atene, dove le donne erano totalmente escluse dalla vita pubblica.

Erodoto, nel VII sec. a.C. riscrive nelle “Opere e i giorni” il mito di Pandora, narrazione in cui è una donna, Pandora appunto, a essere causa di tutti i mali, mentre nella “Teogonia” racconta l’ascesa di Zeus al pantheon divino. Lo sfondo mitico è congruente con il panorama sociale: per il femminile non c’è più alcuna forma di potere. Un ultimo urlo di nostalgia del passato arriva dalla tragedia greca, le cui opere furono scritte nel V sec. a.C. principalmente da 3 grandi autori: Eschilo, Sofocle, Euripide. Tutti e tre hanno dato un po’ di voce al cosmo femminile legato alla passione, al mondo irrazionale, al primato della morale famigliare e all’antico culto ormai sull’orlo della rimozione: quello fondato su una teogonia al femminile. È possibile, grazie ad alcune tragedie, vedere i resti dell’antico scontro tra il sistema patriarcale e quello delle Dee Madri.

Quando la tragedia termina la sua stagione, muore anche Socrate. Platone ha 30 anni ed è il primo filosofo che fa della filosofia una materia non più esclusivamente orale, ma anche scritta, elaborata sia dall’insegnamento del maestro, ma anche grazie al contatto con altri sapienti. Particolarmente importante è il suo contatto con i Pitagorici, che avevano comunità di adepti costituita da maschi e femmine, cosa eccezionale per la società greca.

Sicuramente Platone si ispirò ai Pitagorici per la sua elaborazione del concetto di anima immortale e, dato che nella Repubblica prevedeva che il governo della città fosse affidato a dei guardiani, sia maschi che femmine, possiamo immaginare che Platone abbia avuto una visione positiva dell’esperienza pitagorica (anche se le donne pitagoriche non erano comunque uguali agli uomini). E’ importante sottolineare che Platone non riteneva la donna uguale all’uomo, semplicemente le destinava alcuni spazi. È interessante anche sottolineare l’attenzione che Platone dedica al mondo dell’irrazionalità, nonostante egli sia uno dei filosofi che ha eretto la ragione a baluardo del sapere, nonché della filosofia. Il mondo irrazionale è presente in ogni individuo e, se represso, può sfociare nelle manifestazioni più mostruose e aberranti, per questo necessita di spazi congrui alle sue manifestazioni. La religione tradizionale è il luogo che, nonostante in antitesi con la razionalità che sta diventando l’istituzione della filosofia, si pone come adatto a contenere l’irrazionalità. Platone è consapevole che la ragione è per pochi eletti, per il resto del popolo il freno sarà la religione con la superstizione. E nel mondo greco trovano ampiamente spazio i fenomeni che contengono l’irrazionale, come ad esempio i santuari degli oracoli, il più famoso e longevo quello di Delfi, in cui la Pizia emanava profezie su richiesta, dopo essere stata posseduta dal dio Apollo attraverso la trance.

Un altro momento catartico era quello del culto dionisiaco delle Baccanti, in cui le donne abbandonavano le case per lasciarsi possedere dal Dio che le portava alle manifestazioni più estreme, attraverso il ballo sfrenato, l’isteria collettiva e l’estasi dionisiaca. Le donne che rispondevano al richiamo di Dioniso erano le menadi, perfettamente narrate da Euripide nella tragedia delle Baccanti. La tragedia, in generale, afferma l’impotenza morale della ragione e dà voce a quella forza potente, misteriosa e paurosa che era in mano agli dei: la passione. Non a caso spesso gli ideali della passione sono incarnati da protagoniste femminili.

Arrivati a questo punto della storia, la dicotomia ragione/passione, è ormai obbligata. Le donne sono state escluse da tutti i campi applicativi della ragione, in particolare dall’istruzione e dalla vita politica. Il loro mondo è per forza quello delle passioni. La loro dimensione legata, per esclusione, esclusivamente alla fisicità accentua l’appartenenza all’irrazionale e alle sue manifestazioni più tipiche, come la medianità e la trance; anche le forze dell’irrazionalità vengono associate a divinità femminili. L’esclusiva fisicità della donna viene ancora più esaltata da Aristotele: la femmina appartiene alla categoria inferiore, che per Aristotele è la materia, mentre il maschio appartiene alla forma, che è la categoria che attribuisce il valore alle cose. Per Aristotele, quando il seme maschile feconda la donna, pone l’intero embrione, mentre la madre è solo substrato materiale che fornisce le risorse per crescere. Con la filosofia aristotelica la donna è definitivamente consegnata all’inferiorità attraverso le argomentazioni della ragione filosofica. La religione cristiana incorpora la metafisica aristotelica, investendo di autorità religiosa solamente i maschi, coerentemente con il pensiero aristotelico ed ebraico.

Nella prossima parte, che sarà conclusiva, si vedrà come le basi di una cultura ormai profondamente patriarcale, confluiranno in un progetto di scienza che ancora oggi pone ancora problemi e incomprensioni all’obiettivo di una cultura di genere più equa.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE

Cfr. N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, Laterza, Bari, 1991.

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La filosofia della storia in Tucidide: inevitabilità e ripetitività

Tucidide di Atene, storico e militare di V secolo a.C., ha lasciato ai posteri, oltre alle numerose pagine della sua opera, La Guerra del Peloponneso, una traumatica e disincantata filosofia della storia. Dietro agli scontri, alle battaglie, alle perdite che coinvolgono l’intera Grecia, dilaniata da un conflitto civile senza eguali, si nasconde, secondo lo storico ateniese, un’immutabile e drammatica causa scatenante, che è causa scatenante non soltanto della guerra che Tucidide vive e racconta, ma di tutte le guerre che il mondo ha ospitato e ospiterà.

Esistono, scrive Tucidide, nell’ambito del processo che ha portato alla guerra del Peloponneso, delle cause visibili, le aitìai, che sono legate allo specifico conflitto in atto e sono di natura prettamente politico-militare. A queste cause immediatamente visibili, però, sottintende una causa invisibile, una causa più vera, l’alethestate prophasis della guerra tra Atene e Sparta e, più in generale, di ogni guerra che vede protagonisti gli uomini.

Al paragrafo ventitreesimo del libro I de La Guerra del Peloponneso troviamo scritto: «Il motivo più vero, ma meno dichiarato apertamente, penso che fosse il crescere della potenza ateniese e il suo incutere timore ai Lacedemoni (gli Spartani, ndr), sì da provocare la guerra». A parer di Tucidide, quindi, la crescita progressiva e smisurata di Atene, l’auxesis, ha intimidito Sparta e la Grecia intera a tal punto da rendere inevitabile la guerra. Il concetto tucidideo di inevitabilità, innovativo e drammatico, lascia ancor più impressionati, se lo si estende non semplicemente ad Atene, a Sparta e alla Grecia di V secolo a.C., ma a qualsiasi conflitto che coinvolga gli uomini. Poco più indietro, al paragrafo ventiduesimo dello stesso libro, Tucidide scrive: «La mancanza del favoloso in questi fatti li farà apparire, forse, meno piacevoli all’ascolto, ma se quelli che vorranno investigare la realtà degli avvenimenti passati e di quelli futuri (i quali, secondo il carattere dell’uomo, saranno uguali o simili a questi) considereranno utile la mia opera, tanto basta»1. Quel che più impressiona, nella citazione, è quanto scritto tra parentesi: la natura dell’uomo è una e immutabile, pertanto gli avvenimenti futuri che lo riguardano sono facilmente prevedibili, se si è in grado di studiare il passato con competenza e oggettività.

È questo il cuore della filosofia della storia di Tucidide, che, con inarrivabile disincanto, ci fa notare come l’uomo, per sua stessa essenza, tenda alla crescita smisurata della propria forza, al timore dell’altro e, come necessario scioglimento della tensione, alla guerra. Come si è presentata la traumatica guerra presente, si presenteranno quelle future, perché al centro degli eventi è l’uomo, che ha una natura che non sarà mai in grado di tradire. Il divenire umano è ingabbiato, e Tucidide, con stile attento e rigoroso, lo mette in luce, quasi fosse un monito, ancor prima di cominciare il racconto della guerra che sta sconvolgendo la sua polis e l’intera Grecia.

Il concetto di inevitabilità e quello di ripetitività applicati alle vicende degli uomini potranno sembrare, alla luce degli straordinari passi avanti compiuti dalla storiografia, riduttivi ed eccessivamente generalizzanti (come del resto ogni filosofia della storia). Ma il messaggio tucidideo non può non segnare, ancora oggi, chi in esso si imbatte: siamo realmente destinati a necessarie tensioni? Davvero la nostra essenza di uomini ci impedisce di vivere senza incorrere, presto o tardi, in periodici e laceranti conflitti?

Mattia Zancanaro

Rodigino classe ’95, vive nella sua città natale fino al conseguimento del diploma presso il liceo linguistico. Si trasferisce poi in Germania, dove trova tempo e modo di coltivare le sue due principali passioni: la lingua tedesca e la filosofia. Rientrato in Italia, si iscrive alla facoltà di filosofia dell’Università di Trieste, città in cui attualmente vive. Amante del dibattito politico, cerca di relazionarsi a quest’ultimo affiancandogli le tematiche della filosofia, per un approccio maggiormente consapevole e maturo.

NOTE:
1. Viene qui riportata, per entrambe le citazioni del testo tucidideo, la traduzione di Claudio Moreschini, tratta dall’edizione de La Guerra del Peloponneso offerta da BUR Rizzoli, Milano 2008.

[Credit: Mark Herman]

Nella fragilità la forza

Il nostro tempo esalta il potere, l’impulso, l’esibizione della potenza virile e la celebrazione oggettuale del corpo femminile. Il potere, in tutte le sue forme, s’impone nell’immaginario collettivo come la conditio esistenziale senza la quale non è possibile condurre una vita gioiosa e ricca di senso. Per questi motivi si vuole eclissare la fragilità umana. Essa viene considerata come una condizione svantaggiosa, un handicap da celare, un’esperienza inutile, immatura, priva di senso. Ma, afferma lo psichiatra Borgna: «La fragilità fa parte della vita, ne è una delle strutture portanti, una delle radici ontologiche»1. Proprio nella fragilità infatti sono custoditi i più preziosi valori umani di sensibilità, partecipazione, empatia, comprensione della sofferenza e della gioia, spiritualità e slancio creativo.

I filosofi, sin dalle origini, testimoniano la fragilità dell’essere umano e la considerano come la caratteristica precipua del suo essere-nel-mondo, segnato dall’esperienza del limite, della finitezza, condizione essenziale però, per continuare a desiderare l’infinito. È sufficiente pensare alle agostiniane inquietudini del cuore, o riportare le parole di Pascal: «L’uomo non è che una canna, la più debole (fragile) della natura; ma è una canna pensante»2, o citare il passo di Etty Hillesum quando confessa al suo Diario, dunque a se stessa, che «gli altri – al pari di lei – sono altrettanto insicuri, deboli, indifesi»3.

Allo stesso modo dei filosofi, letterati e poeti trovano nella fragilità esistenziale la sorgente feconda per stendere versi di un’indicibile profondità evocativa. Fra molti, come non nominare Holderlin, Leopardi, Rilke e più recentemente Alda Merini. Costoro, scorticati dalla vita e riconosciutisi fragili, hanno steso versi che come musica, fanno breccia nei nostri cuori e nella nostra anima. Fragili le loro esistenze, fragili le loro parole che, proprio per questo penetrano gli abissi dell’interiorità. Sono i versi dell’umana fragilità, delle trepidazioni del cuore e degli insaziabili interrogativi della mente, dello slancio tragico ma irrinunciabile verso l’infinito. Inoltre, come non ricordare i colori intensi e le vorticose pennellate delle opere di Van Gogh. Artista in equilibrio instabile fra normalità e follia che ha espresso tutta la sua straziante, ma essenziale, fragilità, dipingendo tele che sono divenute a pieno diritto un patrimonio dell’umanità.

Le parole dei filosofi, i versi dei poeti e le espressioni artistiche possono aiutarci a recuperare, con uno sguardo nuovo, la nostra dimensione originaria, immersa nella fragilità, che è forza. È da essa infatti che emergono non solo gli slanci poetici, artistici, culturali e spirituali, ma pure gli incontri autentici fra persone che riconoscono la propria vulnerabilità (da vulnus, ferita) e che per questo sentono il bisogno esistenziale dell’altro, non per dominarlo come vuole l’ideologia del potere, ma per realizzare il desiderio di unione. Così lo psichiatra Andreoli: «La fragilità è l’antitesi […] del potere; poiché non vuole fondare nessuna supremazia sull’altro, semmai può solo sentire di averne bisogno. Fragile è colui che necessita dell’altro, di un altro uomo che è, per condizione, lui stesso fragile. È così che la fragilità di uno dà forza a quella dell’altro e rassicura colui che nel contempo ti sostiene»4.

Diversamente dall’ideologia della perfezione che domina il nostro quotidiano e che vuole vendere la bellezza esteriore come la sola, la fragilità richiama la vera bellezza, poiché si focalizza su ciò che una persona è nella sua essenza e non su come essa appare. La fragilità è friabilità del corpo e delicatezza dell’anima. Sperimentiamo la prima con l’insorgere di una malattia o di un handicap fisico e la seconda nella nostra misteriosa vita emotiva interiore. L’una può incidere sull’altra. Riconoscere la fragilità può aprirci ad un uso fine e ponderato delle parole, dei gesti e delle scelte che quotidianamente compiamo, al fine di non ferire l’altro da noi e piuttosto inserirlo in una relazione fondata sull’umiltà, il rispetto, l’amicizia, l’ascolto, la condivisione e la gratitudine dell’incontro.

In una società caratterizzata dall’ideologia del potere, del successo, dell’indifferenza e dell’isolamento è quanto mai importante educarsi a riconoscere la fragilità, non come tratto da biasimare o scarto da eliminare, ma come essenza ontologica della nostra individualità. Sono a questo punto edificanti le parole di Eugenio Borgna: «Quello che, agli occhi del mondo, appare come fragilità, come insicurezza o come ricerca di un infinito irraggiungibile, è il riverbero della luce ardente della speranza, di una speranza che rinasce dall’angoscia e dalla disperazione»5. Per questo, se guardiamo oltre la società dell’apparire, se con Fromm passiamo dall’avere all’essere, possiamo scorgere quel paradosso che Paolo di Tarso ha sintetizzato con indicibile chiarezza e profondità scrivendo, nella seconda lettera agli abitanti di Corinto: «Quando sono debole (fragile), è allora che sono forte» (2Cor 12,10).

Per noi uomini, segnati dal limite del fallimento, della sofferenza e della morte, riconoscere che la fragilità non è un sintomo da curare, ma un’espressione irrinunciabile del nostro essere-nel-mondo, significa vivere con la consapevolezza che la forza non sta nel potere, che esaurisce ogni infinito, ma nella fragilità che l’infinito lo cerca instancabilmente.

Alessandro Tonon

NOTE:
1. E. BORGNA, La fragilità che è in noi, Torino, Einaudi, 2014, p. 5.
2. B. PASCAL, Pensieri, Milano, Edizioni San Paolo, 199612, p. 240.
3. E. HILLESUM, Diario 1941-1943, tr. it di C. Passanti, Milano, Adelphi, 201217, p. 68.
4. V. ANDREOLI, La gioia di vivere, Milano, Rizzoli, 2016, p. 110.
5. E. BORGNA, La fragilità che è  in noi, op. cit., p. 73.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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I sentieri del corpo: storie oltre il sintomo

#15marzo2017 #fiocchettolilla
Oggi, 15 marzo 2017, è la giornata nazionale contro i disturbi alimentari. Simbolo nazionale di una lotta che molti di noi vivono tutti i giorni, il 15 marzo non vuole unicamente dare voce alla battaglia contro un sintomo. Il fiocchettolilla, infatti, è espressione di una sofferenza abbandonata nel silenzio, un dolore che si manifesta attraverso l’uso del nostro corpo.
Ho voluto ricordarlo attraverso un racconto poiché credo che la penna sia un mezzo efficace per sentirci accanto al nostro prossimo. Per accarezzare quelle solitudini che non trovano le parole per dare voce al loro malessere. Ma, soprattutto, per accarezzare quella solitudine che vive dentro di noi. Perché, in fondo, è solo cominciando da noi stessi che possiamo raggiungere l’altro.

“Niente torna. Quando inizio a scrivere, perdo il filo. Il pensiero si disfa e si sbriciola. E insieme al pensiero, anche quella parola cercata e che avrei voluto proferire. Rimango con la bocca asciutta, come se stessi rincorrendo qualcosa contro vento.
Forse qualcuno.
Lo sai, vero, che ti rincorrerò per sempre? Lo sai che ti cerco?

Non so esattamente come sia successo. Eri sempre con me, al mio fianco. Non ci siamo mai lasciate. Quando gli altri voltavano lo sguardo altrove, tu eri lì. E mi stringevi la mano.
E allora, cos’è accaduto? Perché ti ho perso? Perché te ne sei andata via?

Era una mattina grigia. Un foglio di nebbia copriva ogni cosa.
Nuotavo, una bracciata dopo l’altra. Tu dov’eri? Perché sei sparita? Mi avevi promesso che saresti rimasta lì, per sempre.
Eppure, mentre tutto si dissolveva, è iniziato il tuo silenzio. E quando piangevo, non c’era più nessuno dentro di me che mi sussurrava di essere forte.
Da quando te ne sei andata, io mi sento sola. Triste. Alcuni dicono che sono una ragazza depressa. Ma perché per gli altri è tutto così facile? Che gusto ci provano ad appiccicarti addosso delle etichette?
Depressa. Rimango in silenzio. Mentre sento quella parola rimbombare nella mia mente. Respingendo il mondo che sta fuori.
Dove sei finita piccolina? Dove ti posso ritrovare?
Ho iniziato a fare degli incubi. Spesso, ci sei tu. Accarezzi la mia guancia pallida. Baci la mia fronte gelida. Mentre mi lasci andare, distesa sul letto di una palude. Un po’ come Ophelia. Te la ricordi Ophelia, vero? E quel quadro di Millais che ti piaceva tanto? Te lo ricordi, vero?
Non mi hai mai spiegato perché lo adorassi..
Ma io, io perché non mi risveglio da questo incubo? Sono anch’io Ophelia?
Lei è così bella… io, invece, ho solo tanto freddo.

La sai una cosa? Attraversare quest’incubo mi ha permesso di ritrovarti.
Se ti scrivo è perché ho imparato ad ascoltarti. A fermarmi quando non riesco più a nuotare perché sono esausta. A scrivere seguendo la voce del desiderio e non quella del dovere. A mangiare, quando sento i crampi allo stomaco e una mela non è più sufficiente. Ad amare. Sì, lo so, è incredibile. Sto imparando ad amare senza l’angoscia di perderlo ogni giorno e senza la paura di non poter sopravvivere senza di lui.

Lo ricordo bene quell’inverno gelido. Un inverno freddo come tanti altri, dopotutto.
Io, però, sentivo quel clima rigido con più intensità.
Sentivo il gelo dentro.

A volte, lo percepisco di nuovo. Insieme ai ricordi e alla paura di precipitare nel vuoto.
Non è tutto finito. Anzi. Ho capito che l’unica cosa che posso fare è conviverci.
Una convivenza difficile. Spesso ancora conflittuale.
Oggi, però, ci sono delle pause di pace. Questo, grazie alla persona che mi ha aperto il cuore.
Un cuore che allora credevo fosse di ghiaccio.

Non sentivo più nulla. Solo la voce di un controllo che mi rassicurava e che mi sussurrava di dover resistere. Da sola. In completa autonomia. Senza di te.
Per questo te ne sei andata, non è vero?
L’altro era diventato il pericolo. Ci apriva davanti la paura dell’imprevedibile. Il disordine. L’incontrollabile. Preferivamo non sentire, non mangiare, non baciare. Non amare.

**********

Ci sono giorni in cui, malgrado l’amore che ho vicino, l’imprevedibile bussa alla porta e sento di nuovo la paura. E allora vado a scuola, poi a nuoto, un’ora di scrittura, incontri di lavoro. Ma ce la faccio a finire tutto in tempo, vero? Ritorno a scuola, tengo una lezione a casa, ricomincio a scrivere, invio un paio di mail, rispondo a quelle ricevute. Apro le lettere dalla Francia. Vivo in sospeso tra i due mondi per un attimo. Mi rimetto a scrivere. Ma perdo il filo. Il pensiero si è inceppato.
A differenza di un “prima”, però, in cui tutto mi sembrava possibile, il mio “ora” è tracciato dai confini del limite. Cercando di accettarmi e di rispettarmi anche quando le cose non vanno bene. Quando sbaglio. Oppure quando fallisco.
Anche se, quando fallisco, l’incubo ritorna…
Perché lo stai rifacendo? Perché ti senti così vuota? È così bello vederti sorridere…
Ora sono io che ti parlo. Ero sparita, ma sei riuscita a riacciuffarmi. Non mi perderai di nuovo, te lo prometto. Abbiamo lavorato così tanto insieme. Non sprechiamo tutta questa fatica!
Sento che hai paura. E la sai una cosa? Anche io ne ho. Tanta. Ogni giorno. Ma questa volta, sarà diverso. Se cadi tu, ti rialzo io.
Ci devi credere però. La primavera arriva. Arriva da dentro. La potrai respirare e assaporare. Il suo arrivo sarà imprevedibile.
Percepirai un cambiamento dal cuore.

Sara Roggi

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Il vero guerriero della resilienza: Nietzsche

«Quel che non mi uccide, mi rende più forte»1.

In Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa con il martello, opera del 1888, Nietzsche esprime la sua sentenza e reagisce alla morte di Dio: in merito si rivolge ad un acclamato richiamo alla vita e torna a vivere orientandosi direttamente verso la teoria all’Oltreuomo (Ubermensch). Questo è il Nietzsche che rinasce dalle ceneri della decadenza dei valori e dei costumi, lo spirito costruttivo che noi stessi dovremmo adottare di fronte al negativo.

Tale sentenza richiama il concetto di resilienza, che ormai non ci è molto oscuro come termine. La rivalutazione di tale parola è molto utilizzata oggi in psicologia e fa leva su questa strategia per risolvere e affrontare i problemi. Per “resilienza” per intenderci possiamo indicare la capacità di reagire agli urti della vita, di riuscire a superare le esperienze più negative e traumatiche della nostra vita, uscendone rafforzati. Un modo per affrontare queste situazioni lo avevo già messo in dubbio nello scorso articolo, trattando della distrazione, ma questa volta è proprio necessario prendere il toro per le corna e affrontare il tema.

Ognuno di noi è capace di reagire a ciò che gli accade: ognuno a suo modo. Questa attitudine adattativa comune ma personale, ci consente di essere di nuovo intatti, arricchiti e pronti per nuovi stimoli ed esperienze. Essere resilienti significa analizzare la situazione traumatica, comprendere gli errori, l’evento, le colpe e le responsabilità, e accettarli. La fase dell’accettazione è la più difficile perché richiede un notevole sforzo emotivo, che spesso è dato per scontato, perché si tratta non solo di accettare l’evento, ma di convivere con le conseguenze che esso ha creato e di tutte quelle modifiche che hanno cambiato anche noi stessi. Con l’accettazione di ciò e dunque l’accettarsi, l’evento si può dire superato. L’urto in questo caso non è più vissuto in modo violento e non crea lo stesso turbamento che si è presentato in un primo momento. Le ferite, se profonde, si possono rimarginare, anche se a volte i segni e le cicatrici rimangono.

Ecco, la resilienza sta proprio nella nostra capacità di guarigione da queste ferite dell’anima che ci vengono inferte volontariamente e involontariamente.

Detto così è semplice, ma non tutti hanno in primo luogo gli stessi tempi di reazione; a volte avviene in modo completo e efficace e può succedere che da soli non riusciamo ad affrontare le situazioni. Ci possiamo ammalare per questo. La prima tra tutte le malattie dell’anima e la più comune, solo per citarne una, è la depressione. Anche prendendo in considerazione semplicemente il termine, si può comprendere la sua natura: de – pressione, il cui prefisso è un rafforzativo. L’anima è sotto pressione, è schiacciata dalla vita. Di questo però parleremo in un’altra occasione.

Questa dote che è la resilienza non è solo una capacità della persona, ma può essere insegnata, sviluppata e dovrebbe essere condivisa per vivere e cercare un equilibrio nel vortice della vita. A volte da soli non si riesce ad affrontare tutto, insieme il peso e la pressione dei carichi che questa esistenza ci lascia, si dimezza. Ricordatevi solo che anche questo è un dono.

Al prossimo promemoria filosofico

 

Azzurra Gianotto

 

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NOTE:
1. F.NIETZSCHE, Il crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 2010, pg.26.

Per Anna Marchesini, attrice dalla vita “obesa di vita”

Nel 2014, rivolgendosi a Fabio Fazio che le chiese quale fosse per lei il senso della vita (una domanda facile, vero?!), Anna Marchesini, ormai straziata dall’artrite reumatoide, con una parlata strascicata ma dignitosa, quella di una grande persona e di una grande donna – una di quelle creature che non si arrende, e non vuole farlo, che vive di futuro come chiunque altro vivrebbe di ossigeno – rispose con una di quelle frasi che, se ascoltate, non può che cambiare il tuo modo di vedere le cose: «Sono così interessata, appiccicata, morbosamente ghiotta, obesa di vita che mi interessa pure la morte, che di essa è il finale e non è detto».
Da allora, questo divenne il mio motto – e mi risultava anche facile applicarlo, essendo io un ciccione. Ecco Anna, sono stato autoironico, sei fiera di me? Lo so che, da dietro quel sipario di broccato che chiamano “morte”, mi hai sentito.

Fu da quell’intervista che chi scrive capì che Anna Marchesini andava conosciuta appieno, e non solo come (pur eccezionale) attrice di varietà, di teatro, di televisione.
Comprai il suo romanzo Il terrazzino dei gerani timidi e lo lessi d’un fiato. Lo feci per curiosità, perché mi torturava una domanda, riguardo questa donna, che allora ricordavo “solo” per quei video che trovi su YouTube vestita da sessuologa o da Lollobrigida, da cartomante o da cameriera-secca-dei-signori-Montagnè: come può Anna, trovare la serenità nella sofferenza fisica? Dopo una vita che le ha dato così tanto, la malattia non l’ha forse infiacchita per sempre?
La risposta mi venne leggendo questa frase: «Respiravo profondamente l’aria della sera, si trascinava dietro un tiepido profumo di gerani, mi assalì il timore che tutto sarebbe rimasto identico e immutabile come quei vasi indifferenti, nulla era certo – mi dissi – ero stanca, quel difficile esercizio di equilibrio, in bilico tra l’infanzia, il presente e il futuro remoto, aveva incredibilmente moltiplicato il tempo […]. Ecco – mi dissi – questo preciso attimo, è gioia. Il silenzio là fuori era così dolce che mi pareva di sentirne il canto; da qualche parte avevo letto che tutto è armonia se solo riusciamo a sentirla, così rimasi in ascolto ed ebbi cura di muovermi, senza spostarlo».

Sono le piccole cose. Ecco il segreto per la felicità. Non lamentarsi per quello che non si ha più – o di quello che non s’avrà mai – ma gioire di quello che c’è. Fu la prima lezione di esistenzialismo della mia vita. E non m’era giunta da un grande filosofo, ma da una divertente attrice e delicata scrittrice.
La protagonista del romanzo non è Anna Marchesini, ma è una donna che le somiglia molto, indubbiamente, e per sua stessa ammissione; la grande attrice sublimava sé stessa, ultimo glorioso esercizio di metodo Stanislavskji, nelle vite degli altri; perché questo era per lei essere-Anna-Marchesini: vivere la propria vita per (e con) la vita-degli-altri. Ed ecco perché Anna non poteva che essere un’attrice, la più grande, la migliore.

Parlando con i ragazzi del Liceo Artistico “Ripetta” di Roma, nel 2008, la Marchesini disse: «Mi ero iscritta a psicologia, ma divenni attrice perché andando all’università in treno, vedevo sempre una finestrella accesa. Madonna, avevo una curiosità e mandavo una sfoglia di me a guardare. Mi immaginavo una donna che faceva il caffè, una camera da letto dopo che due persone avevano finito di stringersi, una ragazza che rincasava tardi, oppure uno che era in bagno a spingere e basta! Io mi immaginavo cose meravigliose. Avevo una passione per la vita-degli-altri, e io ci volevo guardare dentro. Avevo un voyeurismo ginecologico per la vita degli altri».
È così che nascono le grandi passioni, da grandi curiosità personali… che poi, nel progredire della storia dell’Universo, non sono che piccole meraviglie quotidiane. La giovane orvietana Anna, che ogni mattina si recava a La Sapienza per seguire le lezioni di Psicometria, si meravigliò di una lampadina accesa, e divenne Anna Marchesini – non è ironico? Lo è, e lei, anche raccontandolo, faceva di tutto perché apparisse tale.

Indipendentemente dal valore filosofico delle sue parole (valore di cui la Marchesini era perfettamente consapevole, e in cui si crogiolava: «D’altronde da bambina volevo essere il Messia donna!» disse nel 2008), Anna aveva una missione, e una volontà precisa: essere ironica – sempre e comunque. Sentiva come suo il compito di strappare un sorriso, un momento di gioia, di esilio dall’abisso dell’anima quotidiana: e per far ciò, lo aveva capito ben prima del grande successo con Il Trio, occorre necessariamente prendere in giro l’ordinario, ridicolizzare (con eleganza e intelligenza, però) la grande mitologia, portare all’estremo i tabù di una società, quella italiana in particolare.
Ed ecco spiegati la sublimità della parodia dei Promessi Sposi e personaggi immortali come la Signorina Carlo, inviata – con tanto di cofana à là Moira Orfei – da Quelli che il calcio… a commentare improbabilmente partite di pallone, di cui a malapena capiva regole; o come la sessuologa Merope Generosa che, al momento di pronunciare le parole più “sconce” tipiche della sua professione, si imborghesisce a tal punto da sostituire il termine “pene” con “malloppetto ciccioso e pendulo” e “ragazze che hanno rapporti pre-matrimoniali” con “zozzone sporcaccione”; o come la cartomante Amalia che – con esagerato accento romanaccio – invitava i suoi ascoltatori a telefonare e a “non porcastinare inoltre il tempo perché le linee ponno ésse ingorgate, ma la regia mi trasloca un buzzicone ch’ha acchiappato aa linea”.

Maestra di meta-teatro, Anna era fieramente donna, e donne erano i suoi personaggi, sempre e comunque: donne che si rapportano all’uomo, ridendo e prendendolo (e prendendosi) in giro, perché la vita è esattamente questo: autoironia, umiltà, abbandono. Maschera di sé stessa – perché la sua vera lei erano appunto le maschere – ci lascia cosa, se non un sorriso, una risata, forse una piccola lacrimuccia?

Ma forse no!, lei non vorrebbe che piangessimo: la morte è la fine, ma non è detto… perché, anche nel dolore e nella malattia, da vera maestra di esistenzialismo teatrale, Anna sapeva perfettamente che la situazione è grave, ma non è seria.
Solo che se in politica questa frase è un’accusa esplicita ad atteggiamenti vergognosi, nella vita di tutti giorni, sul palco della nostra storia particolare, e dietro le quinte dell’esistenza, è un valore, e si chiama leggerezza.

David Casagrande

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La scarpa di Cenerentola: può dirsi una fiaba ancora attuale?

Carnevale a Venezia. Tutti s’immaginano maschere grandiose, eleganti figure fluttuanti con le loro piume, quel tintinnio di campanellini e tanto colore come scintillio sullo sfondo austero degli antichi palazzi, oppure ci si figura i pazzi visionari che non sanno dire no alla fantasia, quel turbinio scomposto di cappellai matti, Paperini, improbabili animali e autovelox a due gambe che invade di colore una piazza san Marco il giorno di martedì grasso. Ed infatti è così. Ma quando ti allontani dal cuore turistico della città riesci anche a scorgere qualcosa di diverso e di meno grandioso, una città più reale ma ancora desiderosa di festeggiare. Quello di quest’anno è stato un Carnevale fugace, eppure ogni giorno, inseguendo lezioni quasi coincidenti in sedi sparse nella più marginale Dorsoduro, mi sono frequentemente imbattuta in piccoli supereroi sul monopattino, seguiti da pazienti genitori con lo zaino della scuola, nonché in una serie apparentemente infinita di principesse che, con il dimenticato contegno tipico dell’infanzia, scalavano solerti i numerosi ponti di pietra, sollevando con ingenua goffaggine l’orlo dell’abito. Parlo di quei tipici abiti in poliestere dai colori troppo accesi e con decorazioni al limite del lezioso, quelli che vendono in stock e finiscono in negozi di giocattoli e grandi supermercati; tuttavia sarebbe sciocco ignorare la magia che si cela persino dentro di essi. Del resto, chi altri vorrebbero essere, se non delle principesse? E’ per questo che si dice sempre che le donne sono in realtà (e nel profondo tutte) delle principesse che vogliono essere salvate: tutto questo potrebbe iniziare proprio dal vestito che, troppo automaticamente, qualcuno è subito pronto a cucire loro addosso in occasioni come il Carnevale.

C’è stato un giorno, circa tre anni fa e nella vita reale, in cui ho avuto la mia piccola occasione di essere una principessa. Ero andata nel parco di Villa d’Este a Cernobbio, un hotel cinque stelle sul lago di Como, dove io e le mie due compagne di gruppo dovevamo studiare un piccolo e strano edificio per il nostro progetto del laboratorio di Restauro. Era giovedì, uno degli infiniti giovedì passati in quel posto buio e umido, quel regno dei ragni dimenticato dall’umano pensiero, con l’aggravante che quel giorno pioveva a dirotto da almeno dieci ore ininterrotte e c’era un fango tale che mi ero vista costretta a cambiare le Converse con degli stivali di gomma. Avevamo fatto tardi con i nostri lavori e dunque alle cinque meno dieci, cioè in immane ritardo, ci siamo ritrovate a correre a perdifiato giù per il pendio: un passo falso e potevamo anche rotolare direttamente alla fermata dell’autobus. In uno degli ultimi tratti della discesa, una romantica scalinata coperta da una volta di rampicanti verdi punteggiati di piccole rose bianche, sento nella mano il sacchetto delle scarpe farsi più leggero. Mi volto, vedo una delle mie Converse rossa abbandonata a metà scalinata, trionfale sullo sfondo della volta verdeggiante. Proprio in quel momento, quasi provvidenzialmente, un uomo appare in cima alle scale, slanciato e curato, con lo smoking e tutto quanto (un cameriere della villa, realizzo dopo: probabilmente gli eravamo sfrecciate davanti senza nemmeno accorgercene). Tuttavia non ci penso un secondo: con addosso il freddo mortifero dei vestiti umidi di pioggia, e poi le gambe doloranti, il fiato corto, l’ombrello stanco e gocciolante ed i capelli zuppi stampati in faccia, inverto il senso di marcia, corro a prendere la scarpa perduta mentre lui, la figura in smoking, essendosi altrettanto precipitato presumibilmente in mio soccorso, ormai era solo a pochi gradini di distanza – ed io lo ignoro: afferro la scarpa, mi volto e riprendo la discesa. Arriviamo alla fermata e saliamo sull’autobus quasi al volo, stavo ancora agitando la scarpa fuggitiva in mano.

Il punto è che non ho aspettato che l’uomo mi portasse la scarpa. Ero esausta, così esausta della giornata che stavo quasi per arrendermi ad aspettare l’autobus successivo e dunque il treno successivo, e invece ho recuperato la scarpa, preso l’autobus e preso il treno. Da sola.

So che non è un grande episodio, ma nell’ottica di una che cerca attorno a sé dei segnali subdolamente e cripticamente inviati dall’Universo, in quel momento mi è apparso evidentemente carico di almeno un significato simbolico: non ho necessariamente bisogno di avere qualcuno con me per ottenere qualcosa che desidero; oppure: non ho bisogno di essere salvata, volendo posso salvarmi da sola. E non è una lezione così scontata: ho visto ragazze e sentito di donne che per il loro compagno hanno perso di vista se stesse e le cose che desideravano, e non per un compromesso ma per una resa incondizionata; donne il cui orizzonte si è ridotto ad un noi e a volte peggio, ad un “lui”. Del resto ce l’hanno insegnato da subito: Cenerentola ha lasciato che fosse il principe a portarla via dalla casa delle dispotiche parenti acquisite, non è che le sia venuto in mente di dire loro “Cavoli, non merito un trattamento simile, o ne parliamo e risolviamo la questione oppure ciao”.

Forse però in quel modello c’è qualcosina di più di una damigella in pericolo. Anche Mononoke, Merida ed Anna sono principesse ma le loro storie sono diverse da quelle di Cenerentola e di Aurora. Essere principesse non significa essere delle imbranate della vita, buone solo a cantare con gli animali del bosco e ad ammaliare gli uomini facendo gli occhi da cerbiatto. Una principessa può essere leale, coraggiosa, combattiva, indipendente, una leader, un modello: è questo che vorrei fosse raccontato alle bambine nei vestitini colorati mentre si rimirano allo specchio e sognano un grande castello.

E che dire dei piccoli Batman in monopattino? Loro crescono con l’idea apparentemente insita nel cromosoma XY di avere l’obbligo morale di salvare tutti, dal gattino impaurito sull’albero alla popolazione dell’intero pianeta dall’ennesima minaccia aliena; nessuno dice loro che non è così sbagliato essere imperfetti, cedere alla debolezza, vivere momenti d’egoismo – che in definitiva bisogna soltanto accettarsi, e poi impegnarsi ogni giorno per migliorarsi un pochino e che, anzi, quello è il vero eroismo. Forse è per questa pazza idea del superpotere che alcuni di loro, poi, prendono la malsana decisione di doversi prendere con la forza una virilità che a volte sentono di non avere. Forse anche loro a volte vorrebbero essere salvati, ma non lo possono dire a nessuno.

Quando si arriva all’essenza delle cose, il solco tra l’essere uomo e l’essere donna si argina: siamo persone e in quanto tali naturalmente sfaccettate; alcune volte emaniamo bagliori scintillanti, talaltre inondiamo lo spazio di ombre. Dobbiamo accettare ed accudire ugualmente la nostra forza e la nostra debolezza. Per quanto riguarda me, essere Aurora è una piccola divertente debolezza: un bel vestito, carezzare un sogno romantico, la ricerca di attenzioni extra, sentirsi belle davvero anche se non è vero, un dolce con il cioccolato, un castello in aria… Perché tanto l’universo me l’ha detto: quando voglio o ne ho la necessità, posso anche togliere quel vestito, che è altrettanto mio, e andare a combattere gli Unni per salvare la Cina.

Giorgia Favero

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