Sull’importanza dello studio come nostra attività quotidiana

C’è un brevissimo scambio di battute nel film “Vento di Passioni” del 1994 di cui vorrei avvalermi per introdurre e discutere un tema, quello della formazione e dell’istruzione, sempre più cruciale a molte questioni irrisolte della nostra contemporaneità. 

La scena cinematografica è quella che vede il Colonnello Ludlow (Anthony Hopkins) e la futura nuora Susannah (Julia Ormond) condividere la loro cena in cucina con la famiglia incaricata dei servizi domestici della casa. Durante la conversazione a tavola, il Colonnello, accorgendosi delle lacune educative della tredicenne Isabel (Sekwan Auger), offre ai genitori la sua disponibilità a occuparsi personalmente della sua istruzione. Il padre Decker (Paul Desmond) si rivolge quindi alla moglie (Tantoo Cardinal) per un suo parere, e subito dopo, con franchezza e senza fronzoli, pone al Colonnello la seguente domanda: «E che ci farà con tutta questa istruzione?» Al ché il Colonnello Ludlow, in un misto di sorpresa e ovvietà, gli risponde: «Avrà una vita più ricca e più piena!»

Questa risposta rapida e concisa sembra però lasciare un po’ perplesso il padre di Isabel. La sua esclamazione, in pronta battuta, sulla peculiarità d’origine della figlia sembra infatti esprimere il dubbio che l’educazione offerta dal Colonnello possa essere, in qualche modo, inadatta o inappropriata rispetto alle realistiche opportunità future di Isabel.

Il film è ambientato nel Nord-America durante gli anni dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, quindi all’incirca poco più che cent’anni fa, ma la domanda del padre di Isabel supera la contingenza temporale cinematografica, qualificandosi piuttosto come un interrogativo tra i più comuni. Chi di noi non si è mai chiesto almeno una volta il senso e il motivo dell’utilità pratica dello studiare

Ora, se è del tutto normale investire il proprio impegno di studio in previsione di una più o meno specifica occupazione professionale è altrettanto vero che la selezione formativa e conoscitiva operata dalla nostra scelta rischia di circoscrivere l’importanza dello studio esclusivamente a una funzione preparatoria e per questo tacitamente a termine.

Ecco che allora la risposta del Colonnello Ludlow ci offre l’occasione di riflettere più in profondità sul senso dello studio. La sua affermazione infatti esprime la convinzione che l’educazione culturale in senso lato, abbia un valore a prescindere da qualsiasi posizione o possibile contesto sociale. Quello studio infatti permetterà a Isabel di vivere «una vita più ricca e più piena» indipendentemente da un suo riconoscimento generale o una sua remunerazione materiale poiché l’importanza dell’impegno e dell’esercizio allo studio sta innanzitutto nel rafforzamento della propria interiorità e personalità. Infatti, attraverso esso, noi impariamo a interrogare il nostro pensiero, ad assumere momentaneamente la prospettiva di altri e ad acquisire, per questo, una maggiore capacità e volontà espressiva. 

Queste considerazioni lineari, apparentemente prive di implicazioni pratiche, sfidano, in realtà, almeno due nostre impostazioni culturali piuttosto assodate.

La prima è quella che tende a identificare lo sviluppo della persona con la competenza di una professionalità specifica e contingente nonostante non ci siano evidenze empiriche di una coincidenza al dettaglio tra le funzioni gerarchiche sociali e la diversificazione di ciò che chiamiamo “talento”. Se, dal punto di vista pratico e realistico, sembra più che ottimale una selezione conoscitiva di tipo funzionale, è di certo discutibile l’idea, a essa troppo spesso implicita, di uno sviluppo della nostra persona coincidente e mai abbastanza eccedente la competenza acquisita di una mansione generica o specializzata. Ciò a maggior ragione oggi che le nostre attività occupazionali tendono a subire un dinamismo capace di renderle obsolete. 

La seconda, tanto antica quanto imbarazzante, è quella che accorda al sapere l’attributo del potere e che, parimenti, accetta senza riserve la necessità organizzativa delle proprie strutture economiche come criterio elettivo e selettivo del proprio personale patrimonio conoscitivo, determinando un rapporto inverso, e quasi sempre definitivo, tra volume conoscitivo e status sociale. Situazione particolarmente paradossale oggi che la funzionalità dei nostri compiti sembra esonerarci da osservazioni e riflessioni di più ampio respiro.

Per queste ragioni lo studio non è da intendersi come una attività meramente scolastica finalizzata al superamento di un esame e all’ottenimento di un titolo specifico ma come una nostra attività fondamentale da coltivare con libero interesse e ordinarietà. La sua importanza sta nel sostenere la nostra voce che si caratterizza imparando a legittimare l’esigenza di espressività che spunta e muove dalla singolarità della propria vita.  

Riuscirà la cultura del nostro secolo a riconoscere il valore dello studio, a tradurlo in pratiche quotidiane e a fiorire grazie all’uso democratico e alla costruzione partecipata della conoscenza? 

 

Anna Castagna

 

[Photo credit Alexander Grey via Unsplah]

 

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L’altra faccia della medaglia: giovani e fuga dall’Italia

Siamo sempre di più: la cosiddetta ‘fuga di cervelli’ sembra non arrestarsi, anzi peggiorare. Articoli di quotidiani, dossier speciali, trasmissioni televisive dedicate ai giovani italiani che se ne vanno dipingono l’Italia del brain drain, quella che esporta più laureati di quanti ne attiri. L’ultimo riferimento all’esodo viene dal Ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che a gennaio 2018, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico all’Università “La Sapienza” di Roma, ha ricordato che «il numero di laureati sta crescendo ma è ancora troppo basso e ancora troppi giovani lasciano il nostro Paese per migliori opportunità all’estero»1. Secondo l’ultimo studio di Confindustria, sono 624 mila gli Italiani che dal 2008 al 2016 hanno spostato la loro residenza all’estero, in tutte le fasce di età2. Lo spostamento dei giovani in particolare costa all’Italia circa un punto di PIL all’anno, secondo lo studio citato.

Ma stanno veramente così le cose? In occasione di una conferenza sul fenomeno migratorio, una persona di nazionalità italiana, nel condividere con il pubblico la sua storia personale di migrazione intra-europea, disse di aver lasciato l’Italia per ambizione, per inseguire un sogno, quello di partecipare ad un progetto di respiro internazionale.

La verità è quella del brain drain potrebbe essere solo una faccia della medaglia. L’altra parte della storia è fatta di curiosità, voglia di mettersi in gioco, e perché no, ambizione. La curiosità di scoprire a fondo realtà nuove, la voglia di mettersi in gioco, integrandosi in ambienti diversi, l’ambizione di seguire un sogno più grande di se stessi o in un settore più rinomato all’estero: non sono caratteristiche legate alla nazionalità che portiamo, ma alle nostre personalità. Queste caratteristiche ci avrebbero portato a spostarci in un paese diverso da quello di nascita, anche se fossimo nati inglesi, scandinavi, olandesi o tedeschi. Reinventarsi in una realtà diversa e straniera è un processo così radicale e totalizzante, che non può essere compiuto se alla necessità pura e semplice, non si affianca almeno una di queste caratteristiche.

L’interpretazione corretta di questi dati ci dovrebbe spiegare che ci sono tanti motivi per cui una persona decide di trasferirsi in un altro paese. Immaginiamoci una bilancia: da una parte la necessità e dall’altra le altre motivazioni menzionate in precedenza. Nella scelta di ognuno di noi entrambe hanno un valore, anche se diverso. Ci saranno persone per cui la necessità ha un peso maggiore, così come ci sono persone per cui curiosità, sfida o ambizione hanno il sopravvento nella decisione finale. Per altre, magari, è più una questione di “moda”. Qualsiasi sia la motivazione predominante, non è intellettualmente onesto interpretare delle statistiche appiattendole solo su una singola variabile. Soprattutto quando su queste interpretazioni, si forma l’opinione pubblica nazionale, ed a sua volta quella estera3.

Sembra pensarla alla stessa maniera anche PagellaPolitica, il nuovo partner di Facebook Italia nella lotta alle fake news4, che ha verificato i dati dello studio di Confindustria. Secondo PagellaPolitica5 ci sono almeno tre considerazioni da tenere a mente. Innanzitutto, non tutti gli italiani emigrati hanno lo stesso titolo di studio. Ci sono italiani con titolo di studio superiore come concittadini laureati o dottori di ricerca: questo implica che il calcolo sulla spesa di formazione fatta dallo studio in questione possa solo essere un’approssimazione al rialzo. In secondo luogo, in economie che si definiscano avanzate, è normale che i giovani si spostino in Paesi diversi da quello di origine, con alcuni tra i maggiori Paesi europei che arrivano a numeri più elevati di quelli italiani6. Infine, un numero non irrisorio di italiani torna in Italia, spostando nuovamente la propria residenza dall’estero all’Italia (22 mila nel 20157).

Queste considerazioni ci restituiscono un’immagine differente e forse più realistica dei 624 mila italiani, evidenziati dai giornali. La necessità è una faccia della medaglia, quella che fa più rumore, perché porta a decisioni che sono frutto della mancanza di viabili alternative. Ma non è l’unica. Per quanto minoritaria, l’altra faccia vale ugualmente la pena di essere presa in considerazione, raccontata e ascoltata, perché come ha detto di recente il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, «quando c’è qualcosa di positivo che riguarda l’Italia, bisogna avere il coraggio di raccontarlo»8. Il rischio è quello di favorire altrimenti il circolo vizioso della profezia che si auto-adempie9.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. Padoan, la disoccupazione cala, ma ancora troppi giovani lasciano l’Italia, Corriere della Sera, 18 gennaio 2018.
2. Confindustria Centro Studi, Scenari Economici, dicembre 2017, N. 31,
3. Francesca Capano, L’intreccio tra Dinamiche Interne e Rappresentazioni Esterne, settembre 2017, La Chiave di Sophia.
4. Facebook farà il fact checking anche in Italia, con Pagella Politica, Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2018
5. Quanto costa allo Stato e alle famiglie italiane la fuga dei cervelli. Una stima, gennaio 2018, Pagella Politica.
6. L’affermazione non è tuttavia sostanziata da dati o riferimenti a Paesi europei specifici.
7. Fonte: Istat.
8. Il video dell’intervento alla pagina Facebook del Presidente del Consiglio.
9. In sociologia, la profezia che si auto-adempie è una previsione che si avvera solamente perché ritenuta reale (la previsione genera l’evento che a sua volta verifica la previsione stessa).

 

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Etica formativa o dar forma all’etica?

Sbagliando si impara. Neanche a dirlo. Un errore tira l’altro, come le ciliegie, e si fa esperienza di come vanno le cose nel mondo, quali sono le cose da rispettare, come è meglio comportarsi in date situazioni. Procediamo a tentoni, come in una stanza perennemente buia immersa nella statistica e nella speranza che le cose siano calcolabili. Così dovremmo, in teoria, diventare dei bravi umani.

Umani o calcolatori? La perfezione del calcolo in realtà non è propriamente nostra, non si addice ad un essere imperfetto che è continuamente manchevole. La tensione verso il controllo, il tentativo di dire il mondo in una formula sì, fino a volerlo dominare come scriveva Nietzsche in relazione alla Volontà di potenza. Il nostro è un procedere secondo induzione, ovverosia se una cosa solitamente succede in un modo si ipotizza che essa continuerà a seguire quella data logica portando a quelle date conseguenze. Se premo l’interruttore la luce si accenderà e non esploderà il pianeta. Questa è la nostra massima idea di certezza. Siamo completamente immersi nella logica probabilistica pur rifiutandola in nome di un vero e proprio rigore scientifico.

Eppure la stessa scienza ultimamente viaggia su terreni altrettanto pericolanti. Basti pensare all’introduzione della meccanica quantistica capace di spazzare via le certezze e precisioni che ci si aspetta dall’atteggiamento scientifico. Il fisico teorico Carlo Rovelli in Sette brevi lezioni di fisica (2014), nella seconda lezione sui quanti, ci espone in modo semplice e accessibile l’avvento dell’indeterminatezza nel mondo della scienza. Da Planck fino a Bohr, passando per Einstein si incomincia a pensare ad elementi quali l’energia della luce come qualcosa di discontinuo e caratterizzato da numeri finiti di quanti, descritte da Rovelli come mattoncini di energia. Dunque introducendo qui la discontinuità si potrebbe pensare di star abbandonando il campo scientifico per addentrarsi in una disquisizione filosofica. Ebbene grandi fisici del ‘900 come Einstein, Planck, Bohr e Heisenberg non disdegnavano la filosofia e il contributo che essa poteva e avrebbe dovuto dare più avanti alla scienza.

La sola possibilità di una discontinuità delle cose, delle energie che ci circondano e che formano quel reale che vediamo, sposta l’attenzione dell’uomo dall’atteggiamento di scientificità e dagli oggetti per come ci appaiono. Siamo forse abituati a considerare esistenti le cose che nominiamo e che si sono scoperte, ponendo in loro un essere continuo, eppure lo stesso Heisenberg è pronto a minare le nostre certezze ipotizzando che un elettrone possa non esistere sempre. «Ma come? Se una cosa esiste non può passare da un momento all’altro alla non-esistenza!» Direste voi o Parmenide. Ancora Rovelli scrive «Heisenberg immagina che gli elettroni non esistano sempre. Esistano solo quando qualcuno li guarda, o meglio quando interagiscono con qualcosa d’altro»1.  È la relazione che permette l’individuazione, seppur probabilistica di un dato elemento. Senza interazione con l’altro un elettrone non è in nessun luogo, come un albero che per noi sparisce se gli voltiamo le spalle. Non più oggetti ma relazioni. La vita può essere anche solo relazione.

Dunque la logica probabilistica entra di prepotenza nelle teorie scientifiche, ora precise, domani magari non più.

Ritornando all’esperienza umana il collegamento è servito da quel fattore imperfetto e assolutamente impreciso, forse ignorante come esposto sempre da Rovelli nell’ultima lezione, ovverosia Noi. Siamo esseri umani e l’indeterminatezza ci domina ma su di essa abbiamo costruito modelli, teorie, palazzi e vaccini. Per prove ed errori, si costruisce il nostro edificio esperienziale, assolutamente aperto all’imprecisione e alla possibilità che esso non sia rappresentazione fedele e affidabile. Ma noi poco filosofi rispondiamo “chi se ne frega!”. Potremmo ricadere in errore nel nostro percorso eppure è l’errore stesso la condizione del nostro percorso, la ragione del suo avanzamento e miglioramento.

Sbagliare per imparare o imparare per sbagliare dunque?

Ad ogni modo, qualunque sia l’esito di una nostra azione l’apprendimento sarà sempre parte delle conseguenze. Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione scriveva che la filosofia è sempre teoretica. Un amico filosofo una volta mi disse che per lui invece la filosofia è sempre morale, sempre etica. Ricollegandomi al discorso sull’apprendimento sempre presente, credo che da una filosofia sempre etica se ne ricavi sempre un valore formativo, poiché l’etica è essenzialmente formativa nella sua determinazione attraverso conflitti, dibattiti e opposizioni. Etica come percorso, come processualità che necessita di contraddizioni, momenti che al suo interno vogliono essere superati e interiorizzati. La derivante formazione, però, non è una composizione immediata, bensì, anch’essa, un processo che si compie nell’arco di tutta la vita, richiamando alla prospettiva del lifelong-learning, ovverosia apprendere per tutta la vita. Dunque come miglioramento e sviluppo della persona ad essa se ne dà man mano una forma. Ivi si compie la continua realizzazione di una persona secondo il suo darsi forma, dar forma all’essere, non a caso lo stesso Aristotele poneva nella forma la caratteristica fondamentale della sostanza. Forma per cui la materia è una determinata cosa, aprendo alla particolarità di ciascuno secondo il proprio modo e non un altro.

Il risvolto pedagogico-formativo si fa carico di un atteggiamento morale e risolve la sua indeterminatezza, la sua potenziale fallacia superata dal coraggio del porre, consci della propria imperfezione, tendenti verso il massimo a cui si possa tendere.

Qual è dunque il valore della filosofia o dell’etica così lontane dalla precisione e considerate di inferiore portata rispetto a scienze che comunque non ci danno risposte certe, e ancora di più non riescono a soddisfare quella fame, quella curiosità e voglia di realizzarsi definitivamente?

Credo che ognuno si sia già risposto da solo (o almeno cercherà di farlo fino a quando… fino a quando?)

 

Un grazie all’amico Emanuele Lepore

 

Alvise Gasparini

NOTE
1 Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica.

[Immagine tratta da Wired]

 

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Lettera ad una persona in crisi con se stessa (e 5 consigli per affrontarla)

Ti scrivo per condividere qualcosa che non trovi negli articoletti o nei meme online, né in un video su Facebook o YouTube. Perché solitamente le cose dette online sono “solo” il risultato del successo di chi le dice. Sono la parte bella, motivante, quella che ti carica e ti fa sembrare tutto facile. Le parole di chi è già arrivato in cima, e dall’alto della scalata si mette a pontificare su cosa fare quando si è a terra o a metà percorso.
Io ti scrivo perché sono ancora in cammino. Sono praticamente al tuo fianco. Rispetto a qualcuno sarò più avanti, rispetto ad altri sono più indietro.

Ti scrivo perché a un certo punto ci si sente catapultati nel mondo, quello “vero”. Non quello in cui avevamo le spalle coperte dalla famiglia, dagli amici, dalle proprie certezze intramontabili. A un certo punto invece si sente di essere soli e di doversela cavare in qualche modo. Ci si sente in ansia perché si vuol fare la scelta giusta, ma in fondo sappiamo che la scelta giusta non esiste. Quello che si viveva prima era un po’ come la caverna di Platone: guardavamo il mondo esterno soltanto dalle ombre della vita proiettate all’interno.

Ma adesso sei uscito e di certo ti sentirai accecato, spossato, insicuro. Lo sono anch’io, non sei solo. Ti tremeranno la voce e le gambe di fronte ai datori di lavoro, ai professori universitari, alle nuove persone che conoscerai. Ti sentirai impreparato su tutto e ti chiederai perché nessuno ti ha mai detto che fuori era così.

Ma rimani affamato, è la fame a farti fare la differenza, a farti fare un passo oltre questo imbarazzo. Non le storie che racconti in un curriculum, non i titoli di studio che puoi accumulare a suon di bei voti o di risultati risicati. E questo era il primo consiglio.
Se mi chiedi perché ti do dei consigli, ti rispondo che lo faccio per darli anche a me stesso. Perché sto vedendo in questi anni cosa funziona, cosa mi fa andare avanti e cosa fa ottenere risultati a quelli che sono in viaggio come noi.
E ora sotto con il secondo: raccogli tutte le esperienze della tua vita, le tue passioni, il tempo che hai passato a giocare e scherzare, a scarabocchiare sui quaderni mentre un professore spiegava o quello che hai fatto passare in un luogo di lavoro che non faceva per te. Raccogli tutti i pensieri che hai fatto, le tappe per cui sei passato, anche quelle forzate, quelle inutili, quelle fatte per cause di forza maggiore. Lì troverai la diversità rispetto agli altri. La tua storia rimane unica. Punta sulla creazione di una personalità complessa, sfaccettata, multiforme.

E quindi per farlo (terzo punto) hai bisogno di rimanere attivo su più fronti. Fa’ più cose possibili, finché ne hai il tempo, la forza. Così avrai più frecce al tuo arco tra qualche tempo, avrai più idee e contaminazioni da ambiti diversi. Se invece attingi da un solo pozzo, l’acqua si sporca, con tutti quelli che si vogliono dissetare assieme a te. Varia, continua a variare i tuoi input.

E quando dovrai raccogliere i frutti del tuo percorso, impara a raccontarlo. Quarto punto. Non basta averlo fatto, non è sufficiente averlo dentro di sé e sentirsi pienamente consapevoli. Occorre saperlo trasmettere agli altri, destare curiosità e interesse nell’interlocutore. Bisogna saper far vedere all’altro quello che abbiamo imparato e fargli capire perché siamo gli unici ad averlo fatto, ad essere diventati così.

Non sarà tutto fluido, non basterà arrivare a questi risultati per ottenere qualcosa di soddisfacente e piacevole. Nel frattempo dovrai imparare a ingoiare rospi, a subire ingiustizie, a non mostrarti mai stanco o deluso. Sfogati solo in intimità, quando l’occhio del grande fratello e di chi ti giudica non ti sta fissando. Ricarica le tue energie con gli amici e le persone di valore che non ti valutano solo per quello che mostri, ma che ti accolgono anche per la fatica e gli sbagli che stai facendo e che continuerai a fare. Circondati di un piccolo esercito di sostenitori. Era il quinto e ultimo punto.

Adesso alzati, lo so che ti sei accasciato fuori dalla caverna e ci vorresti rientrare. Invece puoi soltanto andare avanti, uscire a procacciarti il cibo che preferisci e a realizzare il tuo Valore Umano.

Alziamoci assieme, sono qui a fianco a te, d’altronde siamo entrambi in cammino.

 

Giacomo Dall’Ava

 

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Perché fermarsi ad osservare il passato piuttosto che correre sempre avanti

Per dare un volto alla sua critica al progresso, Walter Benjamin sceglie Angelus Novus, un quadro di Paul Klee, in cui «è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo»1. Secondo il filosofo tedesco ciò che l’angelo sta fissando con occhi colmi di pietà è il passato, da cui è costretto ad allontanarsi da una violenta bufera che lo sospinge in avanti, verso il futuro: «ciò che chiamiamo il progresso è questa bufera»2.

angelus-novus-paul-klee_la-chiave-di-sophiaLa critica di Benjamin si muove su un piano storico: egli attacca il mito occidentale del progresso perché ci illude che la felicità sia sempre in avanti, alla fine della storia, e così ci convince a rimandare all’infinito la realizzazione dei nostri desideri. E questa bufera, oltre a strapparci dal presente, ci impedisce anche di osservare il passato. Se ci soffermassimo a guardarlo potremmo vedere che esso è pieno di detriti: sono gli scarti della storia, sacrificati sull’altare del mito del progresso; sono storie che ci parlano di felicità non realizzate, utopie di un mondo diverso che sono rimaste inascoltate. Interpretare la storia come una linea retta che procede inesorabile verso un punto d’arrivo finale ci porta a dimenticare ciò che è successo, il dolore che è stato causato, le idee che sono state abbandonate.

Le immagini di Benjamin si hanno solo un significato storico, ma si possono facilmente declinare anche sulla situazione individuale. Perché in fondo tutti noi siamo simili all’angelo di Paul Klee. Noi figli dell’Occidente ci siamo abituati fin da bambini a interpretare la vita come una corsa in avanti: la scuola ci deve preparare a studiare e ad essere performanti all’università, i corsi di lingua ci devono dare un’arma in più da usare per trovare un lavoro, lo stage deve essere un trampolino di lancio verso il posto fisso, il lavoro stesso deve avere una porta aperta verso una promozione… Una corsa che, in un’epoca in cui il futuro è sempre più povero di sicurezza, diventa ancora più frustrante.

Persi in questa forsennata corsa in avanti, quando ci guardiamo alle spalle anche noi vediamo gli inevitabili scarti della nostra vita: gli attimi che non abbiamo vissuto fino in fondo, le scelte che abbiamo sbagliato o che più semplicemente potevamo fare diversamente, le persone che non abbiamo apprezzato a sufficienza. Se ci fermassimo ad analizzare le nostre scelte passate forse potremmo capire meglio noi stessi, cogliere più a fondo i nostri desideri per provare a realizzarli. Ma la corsa in avanti non si può fermare. E forse guardarci alle spalle ci fa anche paura perché temiamo di realizzare che abbiamo sbagliato tutto, che a forza di correre sempre più veloce non abbiamo capito di aver sbagliato strada.  

Qual è dunque la soluzione? Dobbiamo abbandonarci alla bufera del progresso e sperare che essa ci trasporti in un qualche luogo felice? Benjamin fornisce la sua soluzione, o quantomeno la sua riflessione, attraverso un’altra immagine potete. Egli racconta che durante la Rivoluzione francese «giunta la sera del primo giorno di scontri, avvenne che in più punti di Parigi, indipendentemente e contemporaneamente, si sparò contro gli orologi dei campanili»3. Sparare agli orologi per fermare il continuum temporale, infrangere quella linea che procede solo in avanti per poter finalmente tornare indietro, passeggiare tra i detriti della (nostra) storia per guardarli da vicino, perché in fondo la «felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi»4.

 

Lorenzo Gineprini

 

NOTE:
1. W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997, p. 35
Idem
Ivi, p. 49
Ivi, p. 8

 

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La cucina della verità: intervista a Gualtiero Marchesi

Quando abbiamo cominciato a costruire il numero #4 della nostra rivista cartacea sul tema del cibo e delle tendenze alimentari ed enogastronomiche, abbiamo pensato che la ricerca filosofica non potesse non interfacciarsi con chi rende ogni giorno viva la cucina: gli chef.  Personalità poliedriche, dalle grandi abilità tecniche e dalla profonda attenzione per il mondo circostante, riescono a riprodurre e rappresentare in un piatto il pensiero che gli è più proprio. Filosofi del mondo culinario, interpretano la realtà attraverso i loro piatti e la lavorazione delle materie prime. Proprio perchè la nostra ricerca non poteva prescindere dalla voce degli chef, non poteva prescindere nemmeno dal più grande maestro della storia della cucina italiana: Gualtiero Marchesi.

Il suo curriculum, una sorta di cursus honorum del mondo della gastronomia e della ristorazione, è lungo e sensazionale, così come l’elenco dei premi e dei riconoscimenti ricevuti, sia come chef che come persona e come rappresentante nel mondo della cultura italiana. Possiamo riscontrare l’impronta di Gualtiero Marchesi in moltissime città del mondo, ma noi oggi lo ringraziamo soprattutto per la fondazione di ALMA, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana, di cui lui è stato un grande promotore e rettore sino a quest’anno: ha aperto i battenti nel 2004 in un bellissimo palazzo vicino Parma e con la guida di Marchesi regala al mondo alcuni tra i migliori professionisti del settore. Nel 2010 nasce la Fondazione Marchesi, «nido d’arte per i bambini e scuola creativa per i cuochi», mentre risale al 2014 la nascita dell’Accademia Marchesi, un progetto complementare ad ALMA e che rappresenta «un luogo di studio, di apprendimento e di sperimentazione dove formare i cuochi e divulgare i principi di una sana alimentazione, dove la cucina e l’arte, in tutte le sue manifestazioni, dalla musica alla scultura, alla pittura, all’architettura, al teatro… possano contribuire alla definizione del buono e del bello, coinvolgendo sia gli adulti sia i bambini».

Gualtiero Marchesi è uno degli esempi in cui cucina e filosofia sono a stretto contatto, in cui non può darsi una vera cucina senza un pensiero forte alle sue spalle. Un pensiero che si fa percorso e quindi esperienza attravero le materie prime, la loro lavorazione e la loro fruizione estetica nel piatto. Abbiamo avuto l’onore di riflettere sullo stato del mondo contemporaneo e di come la cucina debba essere una cucina della verità, in cui aristotelicamente parlando, materia e forma rilevano l’essenza del piatto. Una cucina che diventa specchio della nostra realtà e della necessità di riscoprire un rapporto sincero, vero e genuino con il cibo. Grazie Maestro!

 

La sua esperienza si è sempre intrecciata all’amore, alla passione e curiosità per l’arte: dalla pittura, scultura, alla letteratura sino alla musica. In che modo il Bello e il Buono possono coesistere in modo equilibrato? Evitando così che l’estetica si innalzi a un culto e che i cuochi si trasformino in solo esteti.

Il segreto dell’arte è proprio questo: illuminare in maniera simbolica il rapporto tra l’uomo e la natura, l’uomo e la vita, la storia, la morte.  Per questo motivo, l’arte non è distrazione, né capriccio: serve a raccontare grandi e piccoli misteri. Ridurla a qualcosa di decorativo, di futile, è come non usarla o sprecarla. L’espressione artistica si raggiunge quando si governa la tecnica talmente bene da dimenticarsela. Per questo serve studiare, formarsi, in cucina come nelle diverse arti.

La dimensione educativa e formativa è per Lei una parte fondamentale e determinante per il percorso di un cuoco e paragonando la cucina alla musica afferma che prima di tutto bisogna giungere nella condizione di essere ottimi esecutori e poi alla fine aspirare a diventare profondi compositori. Quali sono le caratteristiche che fanno di un cuoco oggi un abile compositore?

Trovo che ci siano delle somiglianze tra cuochi e musicisti, poiché ambedue lavorano sodo e di notte, devono conoscere a fondo la tecnica e saper riprodurre con esattezza una ricetta che è come uno spartito. Io apprezzo i buoni esecutori, i cuochi che sanno cucinare, che non steccano. L’interprete si trova un passo oltre. Un ruolo destinato a pochi, mentre i compositori, in grado di creare, quelli sono veramente rari. I piani di studio dell’Accademia Marchesi si basano su queste premesse.

Lei afferma che «La cucina non è un fine ma un mezzo. È uno dei linguaggi con cui parlare a se stessi e al mondo». Considerando le profonde trasformazioni socio-culturali che hanno attraversato e tutt’ora attraversano la nostra società, possiamo dire che la cucina ha anche il dovere di raccontare i cambiamenti che interessano l’individuo e la società tutta? Può individuarci due momenti storici particolari in cui la cucina ha cambiato sé stessa in funzione dei bisogni dell’uomo e della sua società?

riso-oro-e-zafferano_La chiave di SophiaCon la caduta dell’Ancien Régime, i cuochi di corte si sono ritrovati disoccupati e si sono messi in proprio. La grande ristorazione nasce dalla Rivoluzione francese. In Italia, il cambiamento avviene quando, nel ristorante di via Bonvesin de la Riva, a Milano, nasce la Nuova cucina italiana, non più succube dei ricordi di fame, della guerra, della quantità immediata a discapito della qualità.

Erano ormai cambiati i ritmi e gli stili di vita, l’apporto calorico poteva essere ridimensionato, studiate meglio e applicate le giuste cotture, rendendo il piatto leggibile, curando la composizione, i rapporti tra vuoti e pieni, tra i colori, le forme del cibo e la forma del piatto. Non a caso, ho sempre disegnato piatti e stoviglie per ottenere un’armonia visiva e concettuale. La materia è forma e il contenuto è il suo contenitore. Solo così l’esperienza ri-creativa e sapienziale della cucina diventa totale e quindi anche estetica.

Viviamo in un’epoca in cui ogni informazione è presa e consultata sul web: da un lato proliferano i blog di cucina, siti internet dove trovare ricettari e vademecum culinari, dall’altro ogni nostra esperienza, compresa quella enogastronomica, è mossa e influenzata da siti e realtà come TripAdvisor dove la recensione e il feedback da parte di altri utenti-consumatori diventa la premessa fondamentale dalla quale prendere le nostre scelte. A Suo parere, perché ritiene che l’uomo abbia bisogno innanzitutto del parere soggettivo altrui nel giudicare un luogo, un ristornate o un locale? Non abbiamo dimenticato forse quello spirito di curiosità e scoperta che ci caratterizza?

Pensiamo solo alla fissazione di fotografare tutto quello che mangiamo. Il web è sommerso di foto di piatti. Credo che questa paranoia sia l’effetto di un bisogno estremo, di una paura da esorcizzare, facendo quello che fanno gli altri, unendosi al branco. Muoversi con la massa rassicura, maschera l’angoscia di non essere accettati. La tomba dell’originalità!

Al fine di tutelare, custodire e raccontare una cultura della cucina vera, secondo Lei, verso quale direzione l’informazione, il giornalismo e la comunicazione in generale dovrebbe muoversi?original_raviolo-aperto-gualtiero-marchesi_la-chiave-di-sophia

L’informazione è diversa dal consumo di informazioni. Fare cultura richiede una certa preparazione e soprattutto curiosità e sincerità.

Ho sempre sostenuto, anche polemicamente, che al posto dei critici, spesso incapaci di cucinare alcunché, avremmo bisogno di più cronisti, gente che sappia raccontare cosa ha visto, ha sentito e mangiato, magari aggiungendo anche il perché e il per come di un piatto, ciò che pensava in quel momento il cuoco.

Quali sono state le tendenze in grado di affermarsi nel panorama culinario italiano e che hanno sviluppato un loro pensiero, rispondendo ad un reale bisogno e non semplicemente imponendosi e scomparendo come una semplice moda?

Bisogna sempre partire dal passato, dissetarsi alla sorgente per riuscire a capire il futuro. Rileggere le ricette della tradizione, attualizzandole, alleggerendole, senza pasticciare e giocare con le apparenze. Restare legati al clima. Se lavoro al mare non posso proporre una cucina alpina e viceversa. Scegliere sempre il meglio che offre il mercato, seguendo le stagioni, quando i frutti della terra raggiungono la pienezza del gusto.

Il resto è moda, va e viene.

Si può affermare che è cambiata la testa e soprattutto il palato delle persone, non si mangia più per fame ma per appetito e questo sposta sempre più il centro dei comportamenti dal mondo dei bisogni a quello dei desiderio, potremmo dire “dallo stomaco alla mente”, assumendo un nuovo punto di vista sull’oggetto del cibo a quello della cultura. A questo proposito e in risposta alle richieste di un nuovo consumatore sempre più attento, come risponde la ristorazione tradizionale? E quali sono i suoi criteri di scelta?

Non sarei così sicuro che il cambiamento sia concluso, è ancora in atto. Per questo è necessario dedicarsi alla ricerca e alla formazione sia dei consumatori sia dei cuochi. Ricordiamoci, anche, che la globalizzazione comporta e comporterà un sempre maggiore meticciamento della cucina, a partire dagli ingredienti. Non è facile stabilire dei criteri di scelta, validi oggi e tra dieci anni. L’unica cosa che si può ribadire è che la forma è materia e la materia è forma, che il buono è anche il bello.

Quali sono secondo lei i valori fondamentali della cucina italiana e del sistema agroalimentare italiano?

Come dicevo prima, l’estrema varietà. Siamo un Paese lungo e stretto, percorso da microclimi diversi, addirittura opposti, storie di persone e modi di pensare multiformi. Sembra una debolezza ma è una forza. Questo continuo confronto e il peso specifico di una grande civiltà ci hanno regalato il senso della misura, la percezione di cosa sia l’eleganza che non ha nulla a che vedere con lo sfarzo, l’esibizione del lusso. Siamo mediterranei e greco-romani, viviamo in uno spazio dove la prima regola è riconoscere il limite e trasformarlo da ostacolo in opportunità e − perché no? − in bellezza.

È importante anche riflettere intorno al nuovo senso dello stare assieme, trovando un motivo di aggregazione nell’identità del cibo consumato, diventando anche una paradossale sollecitazione etica oltre che intellettuale. Qual è la Sua posizione sulla ritualità dei pasti e sul valore aggregativo del cibo?

original_rosso-e-nero-coimbra-gualtiero-marchesi_la-chiave-di-sophiaIn passato, il rito del cibo si svolgeva in casa, perché la casa paterna era il vero, indiscusso, centro del mondo. Oggi, non credo che questo legame sia, fatte le debite eccezioni, più forte. Prevale, secondo me, il desiderio di trasformare i dettagli in rito. Forse, la modernità è afflitta da una vera e propria crisi di nostalgia più che per le cose in sé, per quello che rappresentano. Il consumismo si basa sull’apparenza. Possedere, imitare è più sbrigativo che essere o avere qualcosa, perché ce lo siamo conquistato.

La nostra rivista intende riportare alla luce il valore della filosofia come disciplina in grado di parlarci di noi e del mondo odierno e anche pratiche quotidiane come la cucina.  Lei che cosa pensa della filosofia?

Mi piace, innanzitutto, che la parola abbia a che vedere con il concetto di amore verso qualcosa. Amore della conoscenza. L’unico modo per onorare la nostra umanità.

 

Martina Basciano e Elena Casagrande

Photo credits ritratto: Luisa Valieri

Sulla nostra rivista #4 articolo speciale di Gualtiero Marchesi, per leggere qui

 

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Sindrome di Homer Simpson: cambiare fa schifo

Diciamoci la verità, cambiare fa schifo e non ce ne importa nulla dell’evoluzione umana né, tantomeno, di quella personale. Ci interessa soltanto “stare bene”, ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Badate bene, non il “massimo risultato” e basta, né mettere in atto uno sforzo sufficiente per il massimo risultato. Vogliamo ottenere quel che si può con questi minimi sforzi.

Lo chiamano anche principio dell’omeostasi: tendiamo a conservare le nostre caratteristiche al variare delle condizioni esterne. Una persona in equilibrio cercherà di mantenere quel prezioso equilibrio, non cercherà in alcun modo di migliorarlo. Sia mai, quanta fatica per niente.

E se stiamo leggendo un articolo di una rivista filosofica, tramite un dispositivo tecnologico e grazie a una rete internet, probabilmente non ci sta andando proprio malaccio. Possiamo anche continuare su questo binario. Certo ognuno con le proprie nevrosi e i propri grattacapi quotidiani, ma ce la stiamo cavando. Pacca sulla spalla e ci riassettiamo sulla poltrona che ci ospita, comodamente.

Chi ce lo fa fare  questo ulteriore sforzo per cambiare?

Nelle sessioni di coaching che mi capita di fare – in ambiti che spaziano dal mondo del lavoro all’intimità della famiglia – mi sono reso conto che le principali situazioni che ci fanno muovere il culo dalla condizione in cui ci troviamo sono tre:

  • Lo schiaffone in faccia
  • Il colpo di culo
  • La lenta e graduale ricerca del miglioramento

Il primo è il classico esempio di cambio del proprio stile di vita dopo un infarto. La morte viene a bussarti alla porta, con tanto di falce alla mano. Poi l’angelo della vita ti prende per i capelli e ti riporta sulla terra. Personalmente, spero non mi capiti mai, altrimenti la calvizie potrebbe rappresentare un problema non più estetico.

In queste circostanze si cambia per forza di cose, lo scossone ricevuto crea un “trauma” (parola che in origine aveva anche il significato di “muovere”, “passare al di là”). Ormai sei passato al di là di una soglia, il dado è tratto.

 

Nel secondo caso si cambia a caso, non sai bene cosa ti abbia fatto cambiare, né perché la situazione ad un certo punto sia mutata. Ti sei trovato al momento giusto nel posto giusto. Eppure non accade quasi mai a te, ma agli altri. E in molti casi la persona in questione non si è nemmeno sforzata troppo per far accadere questa circostanza. Non ce ne vogliano gli amanti della legge dell’attrazione: si tratta di culo (fortuna, in gergo). Non serve alcuna aneddotica, abbiamo tutti assistito a colpi di fortuna (sempre altrui) che ci pare di meritarci ma che a noi non arrivano mai.

 

Il terzo caso è l’unico su cui possiamo esercitare un minimo di progettualità e di forza di volontà. L’unico meccanismo con cui possiamo contrastare una cattiva abitudine, quel sassolino nella scarpa che non è che ci impedisca proprio di camminare, ma ci impedisce di farlo serenamente e a pieno regime.

 

Si tratta di abitudini. Le abitudini rappresentano il 45% di tutte le azioni che svolgiamo ogni giorno. E l’unico modo per contrastare un’abitudine è costruirci sopra un’altra abitudine. Ovviamente, per farlo, occorre un lavoro di lenta e graduale ricerca del miglioramento. In soldoni? Fatica e impegno.

Ma l’economia cognitiva del nostro pensiero ci trattiene dal farlo. Il cervello cerca di confrontare ogni novità con qualcosa di già conosciuto, prova prima di tutto a incastrarla in qualche categoria già creata. Il nuovo gli dà fastidio, e cerca in tutti i modi di ricondurlo a qualcosa di già noto per fare meno sforzi e non dover cambiare idea sul mondo.

Per questo in pochi, pochissimi, scelgono questa terza via. Gli altri aspettano speranzosi il bacio della dea bendata, o attendono a dita incrociate uno schiaffo da cui rialzarsi.

Ma d’altronde nessuno è da biasimare. Cambiare fa schifo. Quando scopriamo che con il minimo sforzo possiamo ottenere un minimo risultato soddisfacente, ci fermiamo lì. Zoppichiamo con il sassolino piuttosto. Piuttosto che levarlo e iniziare a camminare, a sudare, a marciare con la piena responsabilità della nostra andatura.

Insomma l’homo sapiens sapiens, che tanto si vanta della supremazia della sua specie, procede per un banale meccanismo di scelta: l’euristica del soddisfacimento. Si tratta di considerare un’opzione per volta e se ne esaminano le caratteristiche importanti. La prima opzione accettabile sarà la nostra.
Alla faccia del progresso della specie e del miglioramento personale.

 

Giacomo Dall’Ava

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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L’esperimento sociale della bombetta

La psicologia ci dice che mediamente impieghiamo dai sette secondi fino a quattro minuti per costruire un’idea della persona che ci sta di fronte. Tu quanto ci metti? Sicuramente ti sarà capitato di impiegarci quell’indicazione minima, quei brevissimi sette secondi all’interno dei quali pensi di aver capito tutto del comportamento, del carattere e delle intenzioni del tuo interlocutore. In un lasso di tempo così ristretto è impossibile cogliere la vera essenza di una persona (inutile dirlo), eppure inconsciamente ci costruiamo delle idee, delle immagini mentali che con forza si impongono nel nostro sguardo verso qualcuno. Il primo impatto si fa così pesante e determinante che spesso facciamo fatica ad essere noi stessi, tendiamo a presentarci al meglio delle nostre possibilità tra linguaggio del corpo ed abbigliamento. Quanta superficialità viene permessa! Quanto terreno che viene conquistato dall’apparenza! Un completo elegante, un viso curato, un orologio di classe al polso pronto a mostrarsi in una stretta di mano. Siamo tutto questo? Sei solo questo? La risposta deve essere “No!” in nome dell’amor proprio.

«Tu non sei il tuo lavoro. Non sei la quantità di soldi che hai in banca; non sei la macchina che guidi né il contenuto del tuo portafogli. Non sei i tuoi vestiti di marca».

Lo afferma Tyler Durden nel romanzo Fight Club di Chuck Palahniuk; forse un po’ banalmente, si potrebbe controbattere. Eppure ci vestiamo di un habitus non nostro, improprio per quel che possiamo davvero mostrare, lo indossiamo e lentamente lo diventiamo. È un’etichetta, un costrutto che non si genera a partire da noi, bensì da una vox populi che si presenta come verità, come via corretta da intraprendere in massa. Il risultato che ne consegue è un non-essere, o meglio una via di mezzo tra quello che essenzialmente siamo e ciò che non è assolutamente parte di noi. Siamo e non siamo allo stesso tempo, una sottile contraddizione che va a minare l’iscrizione sul tempio di Apollo a Delfi «gnōthi sautón» ovverosia conosci te stesso. Se mi faccio carico di un comportamento, di un essere tramandato dalla società, da un qualcosa di altro da me, annichilendomi e togliendo ciò che sono, la conoscenza di me viene assolutamente deviata. La mia essenza verrà data e presentata in modo eteronomo, non più autonomo direbbe Kant, divenendo secondo una volontà altrui, un’influenza esterna.

La verità è che non facciamo realmente ciò che vogliamo, non siamo veramente chi vorremmo essere, assoggettandoci ad una massa capace di includerci, inglobarci e farci omologare. Grandi marche, mode preimpostate, salotti ed interi appartamenti preimpostati. Formazione unilaterale, sempre più iper-specializzata, dalle tabelline all’ingegnere scontento, dalle bocciature al lavoratore manovale sottopagato. Anche la scuola stessa, un percorso obbligatorio, almeno in parte, ci conduce verso una via che si fa sempre più strettoia, sempre più povera di possibilità, di potenzialità secondo l’accezione della dynamis. Il lunedì inietta una prima dose di insoddisfazione, di lamentela generale da maturare sempre di più nel corso della settimana, il tutto in attesa di un sabato sera o di una domenica allo stadio per sfogare tutto quel risentimento, in realtà, diretto verso noi stessi, per non essere davvero sereni, per non essere noi stessi e felici. Il libero arbitrio crolla sempre più sotto il peso di questo parole, il tempo si fa Grande Inquisitore, ogni soggetto si rivela assassino di se stesso, della propria essenza. È una visione tragica, molto interpretativa, che non va posta come accusa al genere umano, come critica dall’alto di un piedistallo che non potrei proprio reggere, che non fa per me.

La soluzione, o meglio la confutazione da promuovere, può trovare ragione o almeno divertimento nel titolo di questo articolo. La bombetta a cui mi riferisco in realtà è solo un escamotage, una metaforica rappresentazione di un possibile atteggiamento. Uscire di casa con un bombetta in stile Charlie Chaplin o Hercule Poirot, poiché si presta bene per la propria assurdità e stravaganza agli occhi curiosi e giudicanti dei passanti, a meno che non ci si ritrovi in Inghilterra. Proprio ritornando da Londra, mi resi conto di quale cambiamento di sensazione poteva esserci nell’andare in giro con una bombetta, passando da un contesto all’ altro. L’obiettivo, però, è arrivare all’ indifferenza rispetto al contesto, slegarsi dalla dipendenza del giudizio, o meglio, del pregiudizio altrui, rivelandone il peso assolutamente inconsistente. Il risultato non può che essere un alleggerimento esistenziale, una leggerezza pari a quella che descrive Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, promuovendo se stessi come essere che corrisponde realmente alla sua essenza ultima.

Dunque, come esperimento, la prossima volta che uscirai di casa prova ad esser davvero chi vorresti essere, vestiti dell’habitus che senti davvero tuo, prova ad indossare la bombetta anche solo per un giorno.

Alvise Gasparini

 

La nuova rivista La Chiave di Sophia #2 dedicata al rapporto tra Uomo e Ambiente. Speciale intervista a Zygmunt Bauman prima della sua scomparsa: "L'arte del dialogo".

 

 

Il contratto sociale: Rousseau e la contemporaneità

<p>defocused crowd of people --- Image by © Images.com/Corbis</p>

È indubbio che l’Occidente stia vivendo un momento molto interessante della sua storia politica: anche grazie al concretizzarsi di alcuni scenari socio-politici che si credevano impossibili, assurdi, si ha un risveglio – forse lento, forse ancora iniziale – della coscienza politica dei cittadini occidentali. C’è voglia di occuparsi di politica e si è tornati a parlarne quotidianamente: quel che manca, a volte, son le categorie con cui interpretare alcuni fenomeni politici e la discussione pubblica diventa chiacchiericcio. In un sistema di mondi possibili ve n’è uno in cui ogni cittadino è adeguatamente informato a proposito di ciò di cui parla, in cui il discorso pubblico si colloca opportunamente rispetto ai fenomeni di cui si fa interprete. Questo mondo è ben lungi dall’essere identificabile con il nostro, in cui viviamo una tensione, un conflitto tra la voglia di partecipare al discorso pubblico e l’inadeguatezza della formazione generale dei cittadini: tra gli esiti di questo conflitto, vi sono alcune forme insane di partecipazione politica. Diciamo insane per intendere quelle forme di partecipazione alla cosa pubblica che mancano l’obiettivo, che illudono il cittadino di avere una qualche influenza sulla dimensione politica del mondo in cui vive.

Come si può risolvere questo conflitto e rendere possibile per tutti, cioè per chiunque abbia voglia di formarsi adeguatamente, la partecipazione al discorso pubblico?

Bisogna tornare a riflettere sulle origini della comunità politica in cui il cittadino si propone di agire, tentare di comprendere le ragioni di questa estraneità che la generalità delle persone vive rispetto ad essa, per poi ricalibrare adeguatamente le forme di partecipazione: la politica – intesa qui in senso ampio – va evolvendosi a ritmi serrati e non è pensabile che i cittadini non elaborino forme di azione e discorso politico altrettanto evolute, a meno che non si voglia rinunciare del tutto a questa dimensione. La qual cosa significherebbe accettare tacitamente una qualsiasi forma di dispotismo, poiché verrebbe meno la forza politica del cittadino e, con essa, il principale limite di ogni limite costituito.

Per riflettere circa la formazione della comunità politica, è opportuno farsi guidare da quei pensatori che hanno dedicato a questo tema il meglio della loro riflessione filosofica.

Uno tra questi è senza dubbio Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che ha riflettuto a proposito dei momenti costitutivi della comunità politica, quelli in cui gli esseri umani entrano a far parte di un grande e unico corpo politico, attraverso la stipulazione di un contratto sociale. Quanto v’è di peculiare nella riflessione di Rousseau, a ben vedere, è il fatto che il cittadino debba rinunciare del tutto alla propria sovranità, di cui godeva in stato di natura, senza con ciò subire alcuna diminuzione: la cittadinanza riconsidera tutti e sana ogni deficit di potere. È nella partecipazione alla vita della comunità che l’essere umano è pienamente autonomo e libero: e ciò è possibile per il fatto che il cittadino partecipa alla nascita della comunità di cui sarà parte, esercitando in prima persona il proprio potere.

Ciò che sembra mancare alla nostra contemporaneità è la disponibilità ad assumersi, da parte di troppi singoli, porzioni seppur ridotte di responsabilità: a tale resistenza fa da contraltare, ad ogni modo, la richiesta sempre più forte di spazi d’azione critica rispetto alla vita politica. Sembra, cioè, che alcuni cittadini vivano una relazione posticcia con la propria comunità, alla cui ideale fondazione non prendono parte, restando inevitabilmente in una situazione conflittuale tra i propri desideri e le condizioni di attuabilità degli stessi.

Emanuele Lepore

[Immagine tratta da Google Immagini]