Arte e Psiche: come rappresentare la realtà?

La relazione tra un artista e la sua psiche è imprescindibile per ben comprendere le sue opere d’arte. Possiamo, e dobbiamo, pensare ad artisti, come Vincent Van Gogh, Joan Mirò e Paul Cézanne, che fecero della loro psiche, intesa come l’insieme di funzioni emotive, relazionali e cerebrali, l’anima della loro arte. Possiamo anche pensare alla psicoanalisi, tramite la quale il legame tra arte e psiche viene studiato in modo approfondito sin da Freud e Jung.

Cosa intendiamo precisamente con relazione tra artista e psiche? Patrick McGrath in Follia (1996) parla di questo legame e ce ne fornisce una lettura. Ci racconta di un artista che riflette i turbamenti e le alterazioni del suo carattere nelle sue sculture, in un’ottica diversa da quella che ci immagineremmo. Questo artista è Edgar, protagonista di una relazione molto complessa con Stella, moglie del vice direttore del manicomio, in cui lo stesso Edgar Stark è detenuto per uxoricidio. I turbamenti di Edgar e la sua malattia si riflettono nella relazione d’amore e nella sua arte, data la sua abitudine a scolpire i visi delle donne amate.

«Dopotutto era un artista, e in ogni artista si annida un bambino sperduto e indifeso» (P. McGrath, Follia, 1996).

Così viene descritto Edgar. In effetti, notiamo che il suo isolamento sociale è evidente, proprio come quello di Stella, e può essere ritenuto una delle cause della loro dipendenza affettiva. Un isolamento, il loro, in cui lei si lasciava ritrarre e lui dava sfogo alla sua psiche sotto forma di materia. Lui rappresentava Stella, ne scolpiva la testa ma lasciava trasparire dalle sue opere un animo mosso da sentimenti forti. «Succede abbastanza spesso agli artisti e credo che dipenda dalla natura del loro lavoro. Vivere per lunghi periodi in solitudine e poi esibirsi di fronte a un pubblico, col rischio di esserne respinti, porta a instaurare col partner una relazione di un’intensità abnorme» (ivi). L’arte di Edgar, dunque, scaturisce da un isolamento dal resto del mondo, da una relazione complessa e dai sentimenti che tutto ciò può portare. La sua arte è una valvola di sfogo e lui non può assolutamente rinunciarvi, perché è il suo modo di cercare la realtà. Cosa intendiamo con l’espressione ricercare la realtà? Edgar e Stella discutono proprio di quella che è, secondo lui, la funzione dell’arte.

Edgar, infatti, ritrae la testa di Stella ma ritiene di non riuscire a plasmare quello che si agita nella sua mente, ciò che lo tormenta. Stella gli chiede come mai la sua scultura non abbia i contorni e lo chiede perché l’assenza di contorni le sembra indicare una non conoscenza, come se lui non sapesse chi lei è. L’artista, però, le risponde che proprio ciò che non vuole è vedere Stella, vederla come si vede lei allo specchio o come la vedono gli altri. Vuole semplicemente cercare un’immagine realistica, la realtà. Stella non riesce a capire cosa intenda.
Lui, però, sa bene come definire la realtà: la realtà è ciò che meramente vede, liberata da ciò che sente. Questa è la realtà, e la verità. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel dialogo, visto che, dopo aver detto queste cose, Edgar scoppia a ridere, ma possiamo immaginare che l’artista voglia liberarsi da ciò che sente e dai tumultuosi istinti che ha, dalla sua paranoia e dalla sua malattia. Possiamo immaginare che la realtà per lui sia senza contorni, senza linee definite esattamente come lo è la sua psiche. La scultura indefinita, dunque, rappresenterebbe sia la realtà esterna, spoglia di sensazioni, sia quella interna, frammentata e indecifrabile.

Ecco che il cerchio si chiude e noi comprendiamo come l’arte sia riflesso della psiche: in questo caso l’artista non trasmette i contenuti della sua anima, i suoi turbamenti, ma piuttosto il modo in cui percepisce la sua psiche, caotica e sfocata, agitata e anche ambigua. La realtà, dunque, oggetto della sua arte, altro non è che la cornice in cui l’identità dell’oggetto della sua arte e l’entità delle sue emozioni sono sfocate e indecifrabili.

 

Andreea Elena Gabara

 

[immagine tratta da Unsplash]

banner riviste 2022 ott

 

 

La follia abita l’amore: spunti dal mondo antico

Un passo del Simposio di Platone recita così: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. È allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime  con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio». Ogni giorno vediamo coppie innamorate tenersi per mano, scambiarsi baci, dirsi “ti amo”, ma ci sfugge la vera essenza dell’amore. Cosa vuol dire “ti amo”? Cosa significa parlare d’amore?

Io non possiedo l’altro, l’altro è qualcosa di estraneo a me da cui non si dipende perché l’incontro è tra due unità e non tra due metà. Questa è la premessa dell’amore e di una relazione sana: accettare che l’altro è qualcosa che sta ed esiste oltre e al di fuori di me. Il secondo passo è non idealizzare l’altro e non plasmarlo secondo le proprie aspettative. Ci illudiamo di amare l’altra persona per quella che è ma in realtà amiamo l’immagine che ci siamo creati nella nostra mente proiettandola all’esterno e privando l’altro della libertà di esprimersi per quello che autenticamente è.

Si tende spesso a creare ciò che si ama. «Diventa così evidente quello che la nostra storia ha sempre saputo e taciuto, e cioè che anche nelle cose d’amore l’uomo ama solo la sua creazione, quindi non la natura, ma quella natura coltivata che siamo soliti chiamare cultura» (U. Galimberti, Le cose dell’amore, 2004).

Umberto Galimberti ha fatto una ricca riflessione a proposito, e mette in luce come l’amore sia quando l’altro ti disarma, ti toglie le difese e ti mostra la tua fragilità e quella parte di te che tu non hai ancora riconosciuto.  Di conseguenza ci innamoriamo dell’altro perché cattura la nostra intima essenza prima che noi ci mettiamo a nudo. È un disvelamento dell’anima che richiede il collasso dell’Io. Non bisogna mantenere le difese, non ci deve essere controllo. L’amore non è faccenda dell’Io, ma piuttosto dell’Es: infatti è da lì che scaturiscono le scelte razionalmente inspiegabili.

L’amore mette in crisi le nostre certezze, crediamo di avere il controllo su noi stessi e sulla nostra emotività fino a quando non arriva l’amore a svegliarci dal torpore dell’illusione in cui dormivamo. La condizione sine qua non, secondo il mio punto di vista, per amare ed essere amati, è accettare di non avere il pieno controllo del proprio inconscio e soprattutto di non avere il controllo dell’altro. L’anima di una persona innamorata vive una continua tensione tra forza e fragilità, una continua lacerazione dell’Io.  

Spesso, erroneamente, si fa coincidere l’amore con la passione e l’uomo moderno, alla ricerca perpetua di emozioni forti per sentirsi vivo, non appena il fuoco della passione è meno ardente mette fine ad una storia d’amore. Si continua a desiderare, sempre di più, in una corsa senza meta. L’amore invece è figlio della stabilità e dell’eternità, il contrario del desiderio che richiede continui stimoli e novità. Amore non è fuoco che brucia in un istante fulmineo, ma luce che dura e che abita la durata.

Penso che l’amore faccia paura a molti perché non è facile entrare in contatto con la parte di sé più autentica che spesse volte è anche quella più vulnerabile e più facilmente feribile. Amare è un atto di volontà che richiede impegno, dedizione, fiducia, reciprocità, affidamento. Si sa che non è semplice perché l’amore è una minaccia all’integrità del proprio Io ed è per questo che bisogna avere il coraggio (etimologicamente “avere cuore”) di perdersi per ritrovarsi riflessi negli occhi dell’altro che ci mostra per quello che siamo. Socrate ha descritto l’amore come una relazione con l’altra parte di noi stessi e non tanto come rapporto con l’altro. Per questo motivo affidarsi all’altro ha a che fare più con una scommessa che con una vittoria certa, ma vale la pena giocarla perché in fondo l’amore è abitato dalla follia e tutti noi siamo un po’ folli.

 

Matilde Zerman

 

Sono Matilde Zerman, laureata magistrale in Psicologia. Amo leggere, stare all’aria aperta e stare in compagnia delle persone per me importanti. Mi pongo tante domande e per la maggior parte non ho risposte, ma è questo che mi affascina della vita, che tutto sia un mistero da scoprire e conoscere.

[Photo credit unsplash.com]

“Elogio della pazzia”: filosofia e felicità secondo Erasmo da Rotterdam

Viviamo in un momento storico in cui la filosofia sembra non avere valore. Non importa che essa sia stata la fonte di ogni conoscenza, o che vengano redatti centinaia di articoli a sua difesa. La filosofia è considerata inutile e la si allontana. Si possono annoverare diversi motivi che hanno scatenato tanta ostilità nei confronti di questa disciplina ma, in questa sede, ce ne servono solo due.

Il primo è molto semplice: la filosofia è una disciplina troppo seria, con le sue domande sulla morte e sull’anima e, soprattutto, con le sue risposte a volte inquietanti.
Il secondo elemento è ancor più semplice del primo: la filosofia è una materia difficile, con i suoi termini altisonanti e i suoi tomi voluminosi, tanto da scoraggiare la maggior parte di chi tenti di avvicinarsi. Esiste, tuttavia, un altro modo di intendere la filosofia; è un modo nascosto e quasi proibito, che minaccia l’austerità della filosofia ma di cui tutti noi abbiamo bisogno: lo scherzo.

Erasmo da Rotterdam pubblica nel 1509 un libriccino intitolato Elogio della Pazzia, in cui si spiegano tutti i benefici della pazzia raccontati da essa stessa.
L’Elogio è un libretto fresco, scherzoso, in cui la Pazzia prende in giro tutti, e si difende da chi la maltratta. Perché Erasmo da Rotterdam, erudito e filosofo, dovrebbe fare della filosofia uno scherzo?

«Siccome non volevo sprecare il tempo che dovevo passare a cavallo in chiacchiere senza intelligenza e senza sugo, decisi di dedicare un po’ della mia attenzione a qualche argomento […]»1. Erasmo scrive questa frase nella dedica dell’opera all’amico Tommaso Moro: in sostanza, Erasmo scrive questo libretto perché si annoia ma non vuole sprecare il suo tempo in futilità o stupidaggini. Gli scherzi non sono mai una perdita di tempo. Oltre a ciò, vi è un motivo ben più profondo, che ci aspettiamo da un filosofo come Erasmo. La filosofia si occupa dell’unica cosa, probabilmente, di cui valga davvero la pena occuparsi: come essere felici in questa vita.

Non è forse qualcosa che abbiamo tutti a cuore? La filosofia cerca continuamente un modo di vivere che sia sempre migliore, e che scacci ogni paura, per essere davvero felici. Erasmo afferma che, per essere felici, bisogna essere pazzi.
La pazzia è trasparente in se stessa, non si nasconde, e quando c’è, subito si rivela. Che cos’è in fondo la pazzia? La gioia di vivere. Abbandonarsi alla vita, in sostanza, non è da saggi. Se si fosse davvero saggi, faremmo tutto come Montaigne, che all’età di 25 anni si ritirò a vita privata e non uscì mai più di casa.

La pazzia è dimenticare la morte, gli affanni, ed è solo godimento della bellezza. «E quanto più si avanza lontano da me, nell’uomo gradualmente la vita si perde»2, fa dire Erasmo alla Pazzia.
Per secoli, i grandi sapienti hanno insegnato a mortificare il corpo, i sensi, per fregiarsi di saggezza e saper vivere, senza mai abbandonarsi alla gioia.

Eppure, scrive Erasmo, se la vita si diffonde è solo merito della follia, e non perché la vita si genera solo attraverso gli organi del piacere, tenuti ben nascosti, ma anche perché innamorarsi, affidarsi all’altro, amare i figli prima ancora di conoscerli non è frutto di sapienza, ma di pazzia, appunto.

La vita è un dono della follia e non è quest’ultima a mortificarla. Se la filosofia cerca continuamente una maniera per vivere bene, la saggezza rischia di trasformarla nella maniera per non vivere.

«Viceversa io istillo negli uomini l’ignoranza e li distolgo dal riflettere, talora li induco a dimenticare i mali e ad illudersi con speranze di felicità, qualche volta gli ungo le labbra col miele dei piaceri e insomma in tutte le loro miserie io li assisto»3.

La pazzia è l’audacia di vivere, senza alcuna protezione. E cos’è dunque la felicità?

«[…] la regola essenziale della felicità è voler essere come si è»4.

La felicità non è una scienza. Sarebbe molto più conveniente se esistesse una formula o un teorema da seguire per assicurarsi la felicità. La nostra non sarebbe più una vita, bensì un ingranaggio, e chi ha voglia di essere una vite o un bullone?

Per essere felici occorre essere pazzi, per amare chi si vuole, lavorare dove si vuole, progettare ciò che si vuole non importa cosa dicano i saggi. «In effetti han davvero pochissimo senno quanti giudicano che la felicità umana è riposta nelle cose come sono. Al contrario essa dipende dall’opinione che se ne ha»5.

La domanda che Erasmo si pone è se vale la pena sacrificare la propria felicità in nome della ragionevolezza.
Questo articolo è un invito a leggere l’Elogio della Pazzia di Erasmo per scoprire la filosofia sotto un’altra veste e capire che di essa non si può fare a meno. Dietro al lavoro, alla crescita economica e tutto quello che oggi riteniamo importante c’è infatti il tentativo di essere felici. Dietro al successo si nasconde sempre la domanda se la vita che stiamo vivendo è degna di essere vissuta.

«Ma che importa il giorno della morte ad uno che non è mai vissuto?»6.

 

Fabiana Castellino

 

NOTE
1. Erasmo da Rotterdam, Elogio della Pazzia, Biblioteca Ideale Tascabile, Milano 1995, p.13.

2. Ivi, p. 23.
3. Ivi, p. 39.
4. Ivi, p. 32.
5. Ivi, p. 53.
6. Ivi, p. 45.

[Photo credit Pixabay]

banner 2019

La follia come origine e destino della ragione

Quale relazione esiste tra follia e ragione? A prima vista sembrerebbero due concetti opposti, immaginando la follia come uno stato in cui la ragione è andata perduta. In realtà c’è anche dell’altro.
Proprio questo “altro” hanno voluto indagare i relatori della serata Follia e ragione, organizzata dal festival Pensare il presente di Treviso in collaborazione con TRA – Treviso Ricerca Arte, mettendo in campo non solo la psichiatria (impersonata dal professor Gerardo Favaretto) ma anche la filosofia (rappresentata dal presidente della SFI di Treviso Damiano Cavallin), la teologia (a cui ha dato voce il professor Francesco Paparella) e l’arte (illustrata dalla performance de I didascalici e dall’artista Cristian Fogarolli).

I legami tra le due sono dunque vari e molteplici, poiché varie sono le forme in cui si esprimono l’una e l’altra. Origine e destinazione, arte e scienza, luce e tenebra – opposte e complementari. L’eccesso della ragione sfocia spesso nella follia – pensiamo anche solo allo stesso Nietzsche – poiché un eccessivo controllo è esso stesso una forma di squilibrio. Il dubitare dell’esistente introdotto da Cartesio e sostenuto dalla dottrina di Schopenhauer, sino al delirio paranoico che troviamo splendidamente rappresentato nel film The Truman Show del 1998, sono uno dei sensi di lettura di questo binomio: la follia come destino della ragione.

Vi è anche un’altra lettura, ovvero quella attuata per esempio dagli antichi greci, che vede associare allo spirito dionisiaco la produzione artistica, dunque alla dimensione più irrazionale dell’uomo: il gesto creativo quindi sfuggirebbe dalle briglie della ragione. Ma siamo proprio sicuri che il gesto artistico sia privo di studio e calcolo? Cristian Fogarolli, giovane artista trentino, dopo un lungo studio del materiale d’archivio di alcune ex istituzioni manicomiali italiane ha selezionato una serie di fotografie che rappresentano uomini e donne in esse ricoverati. Non è possibile indovinare che tipo di patologia essi avessero, né se si trattasse di persone realmente affette da psicopatologie oggi riconosciute. Non esiste spesso nella fotografia (come nella realtà) un confine netto ed evidente tra i cosiddetti “sani” ed i cosiddetti “malati”, poiché la maggior parte dei tratti che ci appartengono continuano ad accomunarci.

Sono in effetti la manifestazioni fenomenologiche e la loro ripetitività a consentire la diagnosi psichiatrica, mentre non esisterebbe un criterio strettamente biologico nel loro verificarsi. Lo psichiatra Gerardo Favaretto mette dunque in dubbio, come provocazione, l’esistenza stessa di una patologia psichiatrica, che è dimostrabile solo dalla realtà del dolore. Un dolore che, dagli anni Cinquanta, si è cominciato a curare ed arginare con discreto successo anche tramite la creatività e l’arte: una follia che cura una follia.

Il dolore però resta: non è sempre facile da cogliere e, proprio per assenza di verità biologiche, deve essere colto tramite l’empatia, intesa come la capacità di creare un’assenza all’interno del nostro sentire per poter percepire l’altro – uno spazio aperto nella nostra razionalità. La ragione avrebbe infatti anche dei limiti e la religione ne costituisce un esempio lampante: come ci spiega il professor Francesco Paparella, la ragione ci conduce solo alle soglie del mistero (quello divino), mentre è l’abbandono che ci porta con naturalezza verso una conoscenza nuova, affascinante, “divina”. E non sempre facile da cogliere, ma in definitiva impossibile da ignorare.

Ma infine vado errando fra luce e tenebra, senza sapere se è il crepuscolo o l’alba. Alzerò solo la mano di cenere a fingere di bere una tazza di vino, e dimenticato il tempo me ne andrò via da sola.
Ahimé, se è il crepuscolo la notte mi sommergerà; oppure sarò cancellata dal giorno, se adesso è l’alba.
Amico, è tempo.
Errerò nel buio verso il nulla.
[…]
Andarmene via da sola, senza te ma anche senza altre ombre nel buio. Da sola affonderò nel buio, quel mondo sarà interamente mio1.

Giorgia Favero

Articolo scritto in occasione dell’incontro Follia e ragione svoltosi venerdì 17 marzo ed organizzato dal festival di filosofia Pensare il presente, a Treviso dal 7 al 30 marzo 2017.

NOTE:
1. Lu Xun, Il commiato dell’ombra, in Erbe selvatiche, 1927

[Immagine opera di Christian Fogarolli]

Olivier Bourdeaut, “Aspettando Bojangles”

Immaginate una famiglia che vive in una grande casa con un pavimento bianco e nero proprio come una scacchiera, un enorme divano blu fatto per saltarci sopra, un tavolo intorno al quale radunare molti ospiti, una credenza che perde foglie e va annaffiata regolarmente e, in un angolo del salotto, un enorme mucchio di corrispondenza mai aperta. L’animale domestico è un volatile fuori misura, una Damigella di Numidia, ribattezzata Damigella Superflua.
In quella casa c’è un papà stonato e giocoso, e una mamma che con le cose pratiche non ci sa proprio fare, ha ogni giorno un nome diverso, ma sempre la stessa voglia di ridere. Una donna che si entusiasma per tutto e se c’è una cosa che proprio non sopporta è la tristezza. La tristezza e la banalità.

«Quando la realtà è banale e triste, inventatemi una bella storia, voi che sapete mentire così bene. Sarebbe un peccato se non lo faceste».

Quei due ballano sempre, brindano e ballano sulle note di Mr. Bojangles, e il loro bambino spesso balla insieme a loro.
Sono proprio gli occhi del bambino a guidarci in una vita fatta di feste, ospiti, musica a tutte le ore del giorno e della notte, genitori gentili, che si amano e lo amano, dove andare a scuola non è un obbligo e a volte si balla così tanto da saltare anche la cena. Una famiglia anticonvenzionale, dove i ruoli sono appena sfumati, che vive fuori dagli schemi previsti dalla morale e dal buon costume.

«Non mi trattava né da adulto né da bambino, ma piuttosto come un personaggio da romanzo. Un romanzo che lei amava molto e teneramente, nel quale s’immergeva in ogni istante».

La loro vita sembra quasi un quadro, un’esibizione sulla quale non scende mai il sipario, lo spettacolo si ripete giorno dopo giorno sempre con lo stesso scroscio di applausi in sottofondo. Eppure, inaspettatamente, il sipario scenderà. Scenderà ogni volta che il filo della narrazione passerà dal figlio al padre, che analizzerà la loro vita da un’ottica differente. La realtà irromperà bruscamente in quella meravigliosa rappresentazione e, con il peggiore dei copioni, la tingerà di tinte cupe. Quella donna che ci era sembrata così eccentrica e divertente, brillante e folle, diverrà all’improvviso fragile, la sua stessa follia assumerà contorni inquietanti e imprevedibili.

«Quel conto alla rovescia, che durante i giorni felici avevo dimenticato di tenere d’occhio, si era messo a suonare come una sveglia infausta e scassata, come un allarme che spacca i timpani col suo incessante baccano, un suono spietato che intima di fuggire subito, che ti urla che la festa è finita, all’improvviso, malamente».

Aspettando Bojangles copertina - La chiave di SophiaDue cose mi hanno colpito molto di questo libro, che ho ricevuto a sorpresa e che all’inizio non sospettavo custodisse una storia così bella: la bolla di follia che circonda questa famiglia, equilibri sottili e meravigliosi, dove ognuno è niente più che se stesso; e l’amore puro che si respira, privato dalle sovrastrutture e dagli schemi che caratterizzano il comportamento adulto.
Si tratta sicuramente di una famiglia disfunzionale, che tuttavia induce il lettore a chiedersi: disfunzionale per chi? In fondo, sorrisi, amore e musica non sono tutto ciò di cui abbiamo bisogno? Un amore al quale non ci si può sottrarre, un amore pronto a tutto, insolito, irrazionale e allo stesso tempo dolcissimo.

Un esordio che non passa inosservato, una storia fuori dal comune, dove la verità sfuma nella fantasia e la ragione nella follia, un libro da leggere senza preconcetti e difficile da spiegare. Si può forse spiegare una canzone? Per comprenderla, e amarla, bisogna necessariamente ascoltarla.

«Lo so che mi amate, ma cosa ne farò di questo folle amore? Cosa ne farò di questo amore folle?»

Stefania Mangiardi

[Immagine tratta da Google Immagini]

(Il filosofo sul) viale del tramonto: appunti di Norma Desmond e simili visionari

<p>Sunset Blvd. (1950)   aka Sunset Boulevard<br />
Directed by Billy Wilder<br />
Shown center: Gloria Swanson</p>

Vi sono momenti in cui, guardando la mia libreria – infarcita, grondante, obesa di testi – mi sembra di veder le storie, e i momenti di vita, di ciascuno degli autori. Sì, sono lì, uno accanto all’altro – come se fossero tutti convenuti a un party, tutti gioviali e arguti: qualcuno beve un Martini, qualcun altro fuma una Marlboro, altri giacciono mollemente sui divanetti in porpora sparsi qui e lì nella sala. Tre tizi vestiti da pinguino suonano il Trio Élégiaque n° 2 di Rachmaninov.
Da buon anfitrione passo da un ospite all’altro salutando con aria compiaciuta e affabile: “Oh buona sera Dumas, tutto a posto? Ci vediamo dopo Tolkien! Giacomino, come stai?” – e che la festa cominci! Un attimo però, qualcosa non mi torna… due, quattro, venti, trenta… “Señor Marquez scusate, ma qui non manca forse qualcuno? Avete visto per caso la pattuglia dei filosofi? Dove sono Georg, Immanuel e Søren?” “Estàn en la otra habitaciòn, querido”.
Perché? Perché si sono riuniti tutti lì? Quella stanza l’avevo tenuta chiusa, come hanno fatto a entrare? Immagino – immagino non vogliano mescolarsi… i signori mi scusino, devo andare a recuperarli.

Quel che non sapevo è che il salotto, dove credevo si fossero rifugiati tutti i signori filosofi, era sparito. Al suo posto era comparso un lungo corridoio, freddo e fiocamente illuminato da alcuni civettuoli lampadari in vetro di Murano, inverosimilmente polverosi e ipnoticamente dondolanti… iniziai a percorrerlo, leggermente a disagio; giunsi a una porta di mogano, di quelle vecchie, intarsiate, con le maniglie alte… apro.

Mi ritrovai in un giardino che dava s’un luogo strano, una di quelle costruzioni solenni che, un tempo, inorgoglivano i grandi nobili… una casa abbandonata (soprattutto quando te la ritrovi dentro casa tua, al posto di un salotto di tappezzeria blu!) fa sempre un effetto sinistro. Questa poi!, era un rudere… aveva l’aria di uno di quei vecchi pensatori decadenti carichi di vesti damascate sdrucite e di medaglie di concorsi ormai aboliti da anni, che vivono isolati dal mondo tra gli spettri di un passato lucente. Attraversai il vialetto d’ingresso ed entrai.

Seduto sopra un tappeto sgualcito (di quelli da fachiri) troneggiava un vecchio barbuto, puzzolente all’inverosimile; attorno a lui, un pubblico eterogeneo di soggetti adoranti pendeva dalle sue labbra. Era Socrate. Guardai il tutto un po’ spaesato.
“Siete arrivato, Casagrande” disse una voce soave, alla mia destra: mi voltai e riconobbi Søren.
“Maestro” risposi “che ci fa lei qui? E perché non siete tutti alla mia festa, insieme agli altri?”
“Te lo spiegherò. Intanto seguimi, saliamo le scale.”
Giungemmo in cima alla grande scalinata, e ci affacciammo al corrimano; da quella prospettiva, la scena del piano di sotto pareva ancora più ridicola.
“Qualcosa non ti torna?”
“Maestro, sono confuso… perché voi filosofi siete qui soli?”
“I matti, di solito, non sono separati dagli altri?”
“Che domanda strana.”
“Siamo filosofi, caro mio, siamo matti per eredità propria. Cos’è la filosofia, te lo sei chiesto? Certo, e credo tu ti sia anche risposto. È una ricerca continua, una sete che non si placa mai, una vera e propria ossessione. È come vestire un abito che scopri essere cosparso di colla, e che più porti più ti si appiccica alle carni. Siamo persone inascoltate, che amano non esserlo: trasformisti per vocazione, capaci delle più impensate malinconie e delle più superbe gioie, diciamo agli altri com’essere felici e, per farlo, dimentichiamo che anche noi dovremmo cercare d’esserlo. Sciogliamo nodi che altri hanno stretto, chiedendoci: “Perché lo facciamo?”, ma che c’interessa saperlo, l’importante è chiedercelo! Disprezziamo i soldi di questa vita, perché non sappiamo che farcene, aneliamo attenzione anche se non viviamo per essa. Siamo musicisti, scriviamo sinfonie con le lettere, e detestiamo le banalità. Non siamo noi che ci siamo riuniti qui, in una stanza a parte, sono stati gli altri a cacciarci dalla festa: non siamo noi che “non vogliamo mescolarci”, sono gli altri che non vogliono essere contaminati dalle nostre chiacchiere. Perché “gli altri” scrivono senza pensare, noi pensiamo senza scrivere. Lo vedi? Siamo troppo diversi per poter stare assieme, anche se a volte, parte della nostra vita, la trascorriamo con loro.”
“Ma… perché io sono qui?”
Søren rise e iniziò a scendere la grande scalinata, e quando arrivò sull’ultimo gradino, mi accorsi che attorno a lui si era creata una folla di curiosi. Socrate stava in prima fila; poco più in là Sartre mi adocchiava, fumando. A destra c’era un gruppetto di tedeschi, al centro era Hegel, a sinistra stavano i medievali. Kierkegaard parlò ancora: “Perchè? Ma perché anche tu, come noi, sei pazzo! Non è forse la filosofia una follia? Non occorre che tu mi risponda. Sì, mio caro, hai fatto una scelta, e non si può sfuggire. Troverai mille ostacoli che ti faranno pensare di aver fatto la cosa sbagliata, quando ti desti al libero pensare, e mille volte tenterai di fuggire. Ma, amico mio! Non ce la farai! Ormai sei qui, in questo manicomio!, e questa è la tua vita, e non ne potrai mai avere una diversa. Capisci?”

Ormai non vedevo più nulla, solo gli occhi dei filosofi puntati su di me. Iniziai a discendere verso il conclave filosofico: “Sì, hai ragione… non riesco neanche a parlare, sono troppo felice! Voglio soltanto dirvi quanto sia fiero di trovarmi qui con voi! Mi siete mancati, prima ancora che vi conoscessi – e ora, ora no non vi lascerò mai più. Perché dopo questo pensiero, ce ne sarà un altro, e altri ancora! Vedete questa è la mia vita, e lo sarà per sempre, non esiste altro. Solo noi e il mondo… e nell’oscurità, gli altri a riderci addosso! Eccomi, signor Kierkegaard, sono pronto per il mio primo pensiero.”

David Casagrande

SELEZIONATI PER VOI: MARZO 2016!

LIBRI

Marzo è il periodo in cui l’inverno inizia a lasciare il passo alla primavera. Giornate dolci si avvicendano ad altre che profumano ancora di muschio e legna, sole e pioggia si alternano in un singolare passo a due, in cui i fiori più coraggiosi si schiudono tra le pozzanghere.

Contrasti fatti di luci e ombre, contraddizioni della natura che mettono radici dentro di noi, evidenziando la dualità della vita e dell’animo umano.

I titoli che vi consiglierò parlano di antinomie, di contrapposizioni, di bianco e nero che si fondono creando meravigliose, inquietanti e inaspettate sfumature di grigio.

61IoZNAMX9LFollia – Patrick McGrath

Stella Raphael è la moglie di un affermato psichiatra. Vive un’esistenza agiata e ordinaria, di madre e moglie accanto a un marito sempre troppo impegnato, una routine priva di stimoli e colori. Finché una pericolosa attrazione non si insinuerà nella vita di Stella. Un’attrazione che la condurrà verso Edgar Stark, artista detenuto nell’ospedale psichiatrico per uxoricidio. Una passione folle, bruciante, per la quale Stella sarà pronta a rischiare tutto, compresa la sua stessa vita.

Nurlovecento – Alessandro Baricco

Danny Boodmann T. D. Lemon Novecento non ha mai lasciato il Virginian, la nave sulla quale è nato. In trent’anni non ha mai percorso la passarella che avrebbe potuto portarlo a terra. Eppure, Novecento, sa suonare la vita. Scorrendo veloci sui tasti del suo pianoforte, le dita parlano, raccontano, emozionano. Novecento sa assorbire le storie dei passeggeri del Virginian, sa farle proprie, sa trasfigurarle in melodia. Ma rimangono pur sempre emozioni di seconda mano. Trovare il coraggio di abbandonare la rassicurante culla dell’oceano è un’altra storia. E’ un interrogativo quasi amletico: vivere o non vivere?

imgresL’amico ritrovato – Fred Uhlman

Hans, figlio di un medico ebreo, e Konradin, rampollo di un’aristocratica famiglia tedesca, stringono un’amicizia autentica. Un rapporto che nasce tra i banchi di scuola e si nutre di affinità, comprensione, sostegno fraterno. Finché l’orrore della Germania nazista non travolgerà il loro legame, schierandoli su opposte frontiere. In un mondo buio in cui sembra non esserci più posto per i sentimenti, potrebbe non essere troppo tardi per ritrovarsi.

Stefania Mangiardi

FILM

Sono ben 59 i film pronti a uscire nelle sale italiane durante il mese di marzo. Per gli spettatori si tratta di un’occasione unica per approfittare di uno dei periodi più ricchi dell’intera stagione cinematografica, con molti titoli interessanti che spaziano dalla commedia ai film d’autore, passando per tanti documentari dedicati alla musica. Abbiamo selezionato per voi i tre titoli più interessanti.

seleRoom – Lenny Abrahamson

Una delle sorprese più interessanti di questo 2016, premiato durante la notte degli Oscar con la statuetta per la migliore interpretazione femminile. L’attrice Brie Larson regala un valore aggiunto a questa storia che racconta il legame unico tra una madre e il proprio figlio all’interno di una stanza che diventa il vero mondo dei due protagonisti. Straordinari i due attori, ottima la regia e molto convincente la sceneggiatura. Un film che vi stupirà. USCITA PREVISTA: 3 MARZO

sele_1Ave Cesare! – Joel e Ethan Coen

Il nome dei fratelli Coen è diventato negli anni un sinonimo di cinema d’autore ad alto tasso qualitativo. Nel loro nuovo gioiello si divertono a raccontare i fasti della Hollywood del passato, unendo tra loro generi come la commedia e il giallo. Il cast è stellare, la regia impeccabile e la sceneggiatura vi farà ridere di gusto. In una parola: imperdibile. USCITA PREVISTA: 10 MARZO

 

sele_2Il condominio dei cuori infranti –  Samuel Benchetrit

Una commedia surreale e sociale che descrive la realtà nella sua desolazione e la riscatta attraverso la mobilitazione di un’umanità inattesa. In un condominio grigio delle banlieue parigine si intrecciano le storie di molti personaggi al limite del surreale, in una vicenda che sa unire divertimento e riflessione con grande intelligenza. L’ottimo cast (Michael Pitt, Isabelle Hupperte Valeria Bruni Tedeschi) rende il tutto ancor più godibile. USCITA PREVISTA: 24 MARZO

Alvise Wollner

Da Nietzsche alla musica: quando la società non sa ascoltare

Qualche sera fa sono stato ad ascoltare un concerto del Duo Symphonia per ricordare Bach. Quello che mi ha più colpito è l’accostamento di due strumenti solisti, una formazione di Organo e Pianoforte che suonano insieme, un mix apparentemente antitetico che però rivela all’ascolto sorprendenti e piacevoli sonorità. La musica trae la propria forza dalle differenze timbriche in una convivenza di “mondi opposti”. Il tutto era poi condito dall’utilizzo di ICT per riprodurre alcune sonorità dell’Organo e spartiti digitali.

Possibile che anche il mondo della musica riesca a dimostrare più innovazione e creatività della società e del mondo della politica? La differenza è percepita sempre come qualcosa di negativo e quasi mai come dialettica positiva ed è così che le persone se ne stanno rinchiuse in piccoli mondi, con le loro etichette, stando sempre a guardare le poche cose che ci dividono rispetto a quelle che ci uniscono.

Tutto questo mi ha riportato alla mente il rapporto sussistente tra musica e innovazione, perché come aveva ben osservato Nietzsche, qualche volta il mondo della musica anticipa quello della storia dell’uomo e della filosofia, una comprensione così profonda da condurlo al rapporto amore-odio con il celebre compositore Richard Wagner.

Tutto questo apre una opportunità di fare una bella riflessione su follia e innovazione: essere pazzi, essere visionari significa anche essere innovativi. Mettere accanto un Organo e un Pianoforte come fanno i Duo Symphonia sarebbe stata ritenuta una vera eresia per la concezione classica degli strumenti, ma allora come mai tale accoppiata risulta vincente? Che cosa non riuscivano a vedere i predecessori di Roberto Scarpa e Giuseppe Iampieri?

Come segnalato da M. Clark1, la definizione dell’uomo come animale razionale è troppo ottimistica: per lo più per ignoranza o per impazienza le persone tendono a trarre conclusioni affrettate e a fraintendere l’evidenza.

Tutti siamo portati a costruire le nostre credenze sulla base di motivazioni e per questo le credenze tendono a generarsi in modo non obiettivo, in modo quasi disonesto, perché spesso dietro alle nostre credenze si cela anche la nostra poca autostima2. In questo senso penso che Nietzsche sia stato indubbiamente un precursore nel denunciare questo genere di fenomeno descritto da Clark e da altri autori successivi.

Prendendo in considerazione gli aspetti più propriamente legati alla salute mentale di Nietzsche nella fase terminale della sua vita, è da rilevare che una diagnosi sul quadro clinico di un paziente dipende anche dallo sguardo degli osservatori, dalle categorie concettuali, dagli strumenti diagnostici e, in ultima analisi, dalla “filosofia” che essi adottano3.

Spesso quelle che vengono definite come patologie sono in realtà “disturbi mentali” dovuti all’incapacità di osservare la realtà da un approccio convenzionale, omologato e supinamente guidato dalle convenzioni sociali.

Purtroppo la psichiatria dei suoi tempi era piuttosto rozza e i medici non riscontrarono in Nietzsche con certezza caratteri psicopatici, né è provato che abbia contratto la lue, ma la diagnosi fu che egli soffrisse di una nevrosi, essenzialmente alimentata da conflitti psicologici; la sua malattia mentale è stata probabilmente una paralisi progressiva4.

La “notte” dell’ottenebramento psichico di Nietzsche calò su di lui tra il 28 dicembre 1888 e il 3 gennaio 1889, senza che nessun testimone potesse poi chiarire cosa avvenne in realtà nel suo appartamento di Torino dove alloggiava5.

Probabilmente Nietzsche nell’ultimo tormentato periodo della sua vita, prima di rassegnarsi al silenzio, si sentì abbandonato, sentì di essere rimasto solo, senza nessuno su cui poter contare veramente:

«noi siamo dalla nascita gli amici giurati e gelosi della solitudine, della nostra più profonda, più notturna e più meridiana solitudine – una tale specie di uomini siamo noi, spiriti liberi!»6.

Forse in un momento che egli stesso giudicava certamente critico comprese che per affrontare quanto ci attende fosse necessario sempre fare i conti con ciò che si è stati e con ciò che non si sarà più, e in questo può essere compresa anche la riflessione sull’Eterno ritorno dell’uguale7.

In un suo aforisma dice:

«Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te»7.

Forse Nietzsche nell’ultimo periodo di lucidità volse semplicemente lo sguardo caustico che lo caratterizzava non al di fuori, ma verso l’interno, decidendo di scrutare e saggiare il suo stesso animo. Forse riteneva che, sollevate tutte le maschere sotto le quali si celava il vero volto della società, fosse giunto il momento di verificare quanto di quel vecchio mondo che aveva tentato di superare continuasse a vivere nei meandri più reconditi della sua anima. Di addentrarsi cioè in quei «prosceni e quinte che nessun piede riuscirebbe a percorrere sino alla fine»9.

Egli quindi intraprese un cammino di decostruzione della sua stessa identità. Ritenendo la riflessione su ciò che lo circondava ormai esaurita a questo punto iniziò quella verso se stesso e questo è fattibile solo nel raccoglimento dato dalla solitudine.

Zarathustra, il viandante sotto la cui maschera si cela lo stesso Nietzsche, dice:

«Io sono un viandante che sale su pei monti, […] io non amo le pianure e, a quanto sembra, non mi riesce di fermarmi a lungo. […] adesso mi trovo davanti alla mia ultima vetta, a ciò che più a lungo mi fu risparmiato. Ahimè, ahimè sono obbligato a salire su per il più duro dei sentieri! Ahimè, ho dato inizio alla più solitaria delle mie peregrinazioni! […]. Tu però, Zarathustra, hai voluto vedere il fondo e il sottofondo di tutte le cose: e già questo ti obbliga a salire al di sopra di te stesso – sempre più in alto, finché anche le tue stelle si trovino al di sotto di te! Sì! Guardar giù verso me stesso e persino verso le mie stelle: solo questo può voler dire la mia vetta per me, questo mi è ancora rimasto come la mia ultima vetta! […]. Conosco la mia sorte, disse infine con mestizia. Orsù! Io sono pronto. Or ora è cominciata l’ultima mia solitudine»10.

Nietzsche ben comprese l’importanza di mettersi sempre alla prova e che la stasi equivaleva a una morte prematura, un dissiparsi delle potenzialità creative. Infatti il filosofo, prima professore di straordinario talento a Basilea dove raggiunse una cattedra stimabile in età molto giovane, una volta resosi conto di aver espresso tutto quello che aveva da dire in quell’ambito, decise di dedicarsi completamente alla cura ed elaborazione delle sue Opere attraverso le quali esprimere le proprie idee.

Dove Maurizio Ferraris scorge megalomania e pazzia io scorgo il continuo tentativo di superarsi, di affinare le tecniche in grado di esprimere la complessità di un linguaggio completamente da ricostruire dopo che egli stesso aveva contribuito a decostruirlo, cosa invece colta con grande acume come un nodo tematico fondamentale da K. Galimberti11.

Non è quindi così fuori luogo pensare che Nietzsche comprese che se il potere è controllo allora solo chi è incontrollabile, chi è pazzo, è oltre il potere. Fu forse per questo che si incamminò su quella via dalla quale non fece più ritorno:

«talvolta la follia stessa è la maschera per un sapere infelice e troppo certo»12.

Come rilevato da R. Escobar il destino di Nietzsche è stato quello di naufragare nella follia a conclusione del suo tentativo di intraprendere un disperato e lucido esperimento esistenziale ed intellettuale13.

La ricerca, la biografia, la creazione di nuovi sensi e la riscrittura di linguaggi che continuano a rigenerarsi in milioni di sfumature diverse, Nietzsche le note di Bach di quella sera e in generale il nostro bisogno di attribuire continuamente nuovi sensi alle cose non è forse la più intima natura del nostro modo di esistere?

Forse la società e il mondo dell’economia dovrebbero mettersi in discussione recuperando in accezione positiva l’elemento della follia come quella capacità di mettere insieme cose apparentemente incongruenti che non si limitino a essere la somma di singole parti, ma nell’interazione e nel mescolamento del tutto si genera qualcosa di nuovo. Non è forse questa la chiave più intima della creatività?

Nella musica i Duo Symphonia ci stanno provando, la società e l’economia staranno a guardare o sapranno trarre una importante lezione?

 

Matteo Montagner

 

NOTE

1. M. CLARK, I paradossi dalla A alla Z, trad. it. di A. Pedeferri, Milano, Cortina, 2004.
2. Ivi, pp. 15 – 18.
3. Cfr. H. WULFF, S. A. PEDERSEN, R. ROSENBERG, Filosofia della medicina, trad. it. di A. Parodi, Milano, Cortina, 1995.
4. Diagnosi del Dott. K. Hildebrandt del 29/08/1900 (Nietzsche era morto il 25/08/1900) in F. NIETZSCHE, Epistolario (1865-1900), a cura di B. Allason, Torino, Einaudi, 1969, p. 345.
5. Cfr. H. ALTHAUS, Nietzsche, op. cit., p. 545.
6. F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, op. cit., p. 51.
7. Cfr. F.NIETZSCHE, Il nichilismo europeo, trad. it. di S. Giametta, Milano, Adelphi, 2006.
8. F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, op. cit., p. 79.
9. Ivi, p. 50.
10. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, op. cit., pp. 177 – 179.
11. Cfr. K. GALIMBERTI, Nietzsche una Guida, Milano, Feltrinelli, 2000.
12. F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, op. cit. p. 194.
13. Cfr. R. ESCOBAR, Nietzsche e la filosofia politica del XIX secolo, op. cit, p. 217.

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

banner-pubblicitario-La chiave di Sophia N6