Nozick: una meta-proposta irrinunciabile?

La serie sulla preveggenza filosofica inaugurata con Socrate prosegue con Robert Nozick, diventato famoso in filosofia soprattutto per il suo concetto di «Stato minimo», che – forse – ha già di suo del profetico.

Ma Nozick ha saputo immaginare persino di più: nel 1974, elaborò un esperimento mentale che prevedeva l’esistenza di una macchina in grado di far avere qualsiasi tipo di esperienza desiderata, attraverso stimolazioni cerebrali particolarmente raffinate e mirate. Ecco il suo funzionamento: con il corpo immerso comodo in una vasca, puoi pensare e sentire realmente di star scrivendo un romanzo capolavoro, di star facendo amicizia, di star leggendo un testo filosofico, e così via all’infinito. E come te chiunque altro: più persone possono infatti collegarsi alla macchina contemporaneamente. Per restare aggiornati sulle ultime novità e rinnovare l’assortimento dei desideri, Nozick ipotizzava la possibilità di usufruire ogni due anni di una pausa dall’immersione, anche soltanto per dieci minuti: in quel frangente, si consulta un catalogo di esperienze, che brand e imprese di vario tipo hanno stilato su misura dopo aver analizzato e aggregato le scelte di altri individui, e così si pre-programmano al meglio le esperienze dei successivi due anni – e via di seguito, potenzialmente all’infinito.

Infatti, la domanda che Nozick si e ci poneva a questo punto era: ti collegheresti a una simile macchina? E nel caso, lo faresti per tutta la vita? La sua risposta, anzi la risposta che egli attribuiva ipoteticamente alla maggior parte dei suoi lettori, era “no grazie”: a suo giudizio pochi sarebbero davvero disposti a rinunciare a una vita genuinamente reale, autentica e profonda. Addirittura, egli reputava che «collegarsi alla macchina è una specie di suicidio». E rilanciava: siccome a noi importa essere e agire bene più che “vivere esperienze”, se esistesse una «macchina di trasformazione» in grado di trasformarti nella persona che desideri essere, essa renderebbe inutile qualsiasi macchina dell’esperienza (cfr. R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, 2008).

Insomma, vita reale batte vita virtuale – soprattutto se la seconda viene chiamata a sostituire integralmente la prima. Alcuni esperimenti hanno provato a smentire questa convinzione di Nozick, perché il fatto sarebbe non tanto che siamo attaccati ai valori autentici della vita, quanto piuttosto che non amiamo cambiare rispetto a una situazione ormai consolidata: infatti, di fronte a uno scenario inverso, nel quale si scopre di aver da sempre vissuto attaccati alla macchina e la proposta è disconnettersi da essa per tornare alla “vita vera”, la risposta prevalente resta anche in quel caso “no grazie”. Ma se, invece, il fatto fosse che le persone desiderano addirittura mettere da parte la vita reale, autentica e profonda, per entrare in un meraviglioso universo più o meno parallelo di esperienze, e non solo, a portata di mano? Come nel caso di Socrate, abbiamo a che fare con qualcuno che ci ha visto giusto, ma è rimasto come intimorito dalla propria stessa visione.

Sicuramente, c’è almeno una persona convinta che la “vita vera” non sia in realtà la nostra massima aspirazione, tanto da aver puntato tutte le fiches sul fatto che molti accetterebbero eccome un simile plug-in: è Mark Zuckerberg, che sembra aver preso talmente sul serio Nozick da dar vita (reale? virtuale?) a un ardito incrocio tra macchina dell’esperienza e macchina della trasformazione, battezzato Metaverso. Stando alle parole del suo uomo-immagine, o se preferite Dio Creatore, il Metaverso promette di realizzare in maniera definitiva «un senso realistico della presenza» e di mettere completamente al centro dell’informatica «il modo in cui le persone vogliono vivere il mondo». Con il corpo in una poltrona, mediante sensori, visori e dispositivi vari di realtà virtuali e aumentate, si apre una miriade di esperienze che già oggi vanno dal mercato immobiliare alle Fashion Week, dai concerti alle sfide a ping-pong, dalla pratica chirurgica alle chiacchierate e così via, lungo le quali è possibile costruirsi su misura i panni dell’avatar desiderato. Inoltre, per gestire il timore della FOMO, la paura di essere tagliati fuori dalle novità, non servirà nemmeno disconnettersi: basterà accedere ai cataloghi che il Metaverso stesso genererà e immetterà nel sistema in tempo reale, raccogliendo ed elaborando i dati delle esperienze e degli avatar di tutti gli utenti.

Che ne dici: accetterai il plug-in, nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non vi separi, o la vedi come Nozick e non c’è proprio (Meta)verso? Ah, se fosse la morte a spaventarti ancora, abbi fede: i tecnici lavorano incessantemente per implementare il Metaverso affinché possa ospitare anche l’esperienza dell’immortalità.

 

Giacomo Pezzano

[Photo credit Lux Interaction via Unsplash]

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Una citazione per voi: Schopenhauer e la vita come sogno

 

• LA VITA E I SOGNI SONO PAGINE D’UN SOLO LIBRO •

 

Tra gli autori che più e meglio hanno parlato del sogno troviamo Arthur Schopenhauer, che nel suo capolavoro – Il mondo come volontà e rappresentazione (1819) – ci offre un interessante punto di vista. In un intrico di argomentazioni sul nesso tra rappresentazioni vere e astratte, Schopenhauer ci conduce ad una domanda spinosissima: «non potrebbe essere tutta la vita un sogno?», un interrogativo che richiama quello di Cartesio delle Meditazioni metafisiche. Se però il filosofo francese intendeva risolverlo nella degradazione del sogno a mera illusione, Schopenhauer approderà all’esatto opposto.

Anzitutto, ciò che possiamo sostenere è che il ricordo del sogno sia meno nitido e a fuoco della realtà, ma non che il sogno stesso sia meno concreto di quella. Non sono valide, inoltre, né la visione di Kant – che voleva il sogno meno autentico perché regolato dalla casualità –né la prospettiva empiristica di Hobbes, secondo cui il sogno differisce dalla vita in virtù della rottura che lo caratterizza al risveglio. Diventa allora legittima un’altra ipotesi: non sarà che non c’è rottura e alterità alcuna tra le due dimensioni? Balza agli occhi del filosofo tedesco come si dia quest’affinità strettissima, della quale non si deve aver motivo di vergogna come vorrebbero razionalismo e logocentrismo. Anzi, come hanno sostenuto in tanti – da Platone fino allo Shakespeare de La tempesta – potremmo pensare che il mondo reale sia avvolto come un sogno da un Velo di Maya, e che noi stessi non siamo altro che «il sogno di un’ombra». Leggiamo la celebre immagine che a tal proposito ci offre Schopenhauer:

«La vita e i sogni son pagine d’un solo e medesimo libro. La lettura condotta con continuità e coerenza si chiama vita reale. Quando però l’ora consueta della lettura (il gioco) giunge al termine e viene il tempo del riposo, noi spesso continuiamo a sfogliare il libro e ad aprire, senza ordine e continuità, una pagina ora qui ora là»1.

È vero, nella vita c’è più rigore che nel sogno e ci sembra che le due realtà siano a se stanti in virtù dell’evento del risveglio, che segna il passaggio da una vita mnemonica ad una mondana. Ma, guardando più da vicino, ecco che cogliamo l’illusione nella realtà così come scorgiamo un senso perfino nell’incubo più assurdo. Qui una pagina più ordinata, causale e rigorosa, ma non meno velata dal gioco delle apparenze; lì una pagina creduta caotica ma che di fatto è scritta nei caratteri di un disordine ordinato; qui un capitolo dall’ampio sviluppo, che trova il suo epilogo al momento della morte; lì uno breve, che inizia e finisce nell’arco di una notte.

 

Nicholas Loru

 

NOTE:
1. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Einaudi, Torino 2013, I, §5, p. 47.

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“Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”: Borges e l’apocalisse concettuale

Jorge Luis Borges fu un uomo che visse di libri. Dapprima catalogatore presso una biblioteca municipale, divenne poi direttore della Biblioteca Nazionale Argentina, professore di letteratura inglese all’Università di Buenos Aires e presidente dell’Associazione degli Scrittori Argentini. Era un uomo dalla cultura stratosferica. Viveva in migliaia di mondi diversi e conosceva bene lo smarrimento provocato dalla lettura. Ma lui, di questa vertigine, fece materia per le sue opere.

Il suo tema è lo sdoppiamento, il riflesso, l’incursione del fantastico nel reale. Famose sono le sue biografie inventate e le recensioni di testi immaginari. Quasi sempre gli scritti di Borges mostrano quanto labile sia la distinzione tra realtà e finzione e tendono a ricostruire il mondo. Noi temiamo di leggere questi scritti perché hanno il potere di rovesciarci, di confondere certezza e illusione. Il racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius ne è un esempio folgorante: esso è la storia di un’apocalisse concettuale.

La trama segue le ricerche di un anonimo autore (forse Borges stesso) attorno al mistero che circonda la regione di Uqbar. Gli viene nominata per la prima volta da un amico, il quale, distrattamente, sostiene di averne letto una volta su una qualche enciclopedia. Nelle pagine relative si affermava che la letteratura di Uqbar possedeva un registro prettamente fantastico e che le sue storie erano tutte ambientate in una tra due terre immaginarie: Mjelnas e Tlön.

Tlön è una finzione nella finzione. È l’idea vagheggiata da una mente lontana abitante un regno indefinito. Eppure alla fine compare nel mondo reale. L’autore rinviene fortuitamente un volume appartenente a una enciclopedia perduta dal quale estrapola le concezioni metafisiche degli abitanti di Tlön, le loro grammatiche, le algebre, gli argomenti dotti, le dispute. L’autore ne viene del tutto conquistato; scopre un vero e proprio cosmo, inventato sì ma architettato con rigore, dalle precise leggi fisiche, puntuale, dove le asserzioni di Hume che sono esatte sulla Terra risultano essere del tutto false.

Pur trattandosi di un’opera di fantasia, l’enciclopedia contiene un intero pianeta credibile. Che farsene allora del proprio mondo? Cosa si agita nell’anima di colui che incontra un altro cosmo, valido e convincente come il proprio, ma del tutto antitetico? Potremmo leggere questo racconto come un incontro etnografico, ma nel modo in cui nessun incontro etnografico è stato raccontato: come la possibilità di cambiare.

Tlön però non è negoziabile; piano piano la sua ombra si addensa e sulla Terra appaiono dei referti che gli appartengono. Dapprima una bussola con delle incisioni tratte da uno dei suoi alfabeti, poi un piccolo e pesantissimo cono d’argento, uscito dalla tasca di un ubriacone della pampa, che è simbolo di divinità nel pianeta di Tlön. L’apocalisse comincia così – il pianeta Terra sta per essere sostituito. Nel frattempo viene rinvenuta l’intera enciclopedia, lì dove sicuramente prima non c’era. L’opera circola, gli animi se ne interessano. Ogni individuo resta affascinato dalla minuzia di questo pianeta incombente e se ne lascia conquistare. La realtà, inesorabilmente, cede. Ma la cosa certa «è che voleva cedere sin dall’inizio»1: quell’ordine così composto, fatto da umani per umani, è irresistibile.

Desiderio suicida del pensiero? Forse, se lo intendiamo come un annegare nella propria potenzialità espressiva. Ma in realtà è un’opera contro Dio, un ordito che, sebbene labirintico, è fatto da uomini e «destinato ad essere decifrato da uomini»2. Tlön conquista il mondo, diventa il mondo; le politiche cambiano, le società si trasformano, a scuola s’insegna la storia di Tlön mentre quella della Terra viene dimenticata. Gli umani dimenticano che il rigore di Tlön «è un rigore da giocatori di scacchi, non da angeli»3.

Eppure la sostituzione – come un’invasione di ultracorpi concettuali – prosegue imperterrita. Gli umani sono conquistati dal gioco. Siamo così smascherati. La verità sull’immaginazione è svelata: noi viviamo di essa. Le convenzioni sociali, le identità, la storia, qualsiasi fatto noi riteniamo oggettivo, è in realtà arrangiato dalla tessitura dell’immaginazione. Questo perché un’oggettività in sé non è definibile; ci sarà sempre uno scarto tra cosa e pensiero (almeno in termini di “vissuto”) e occorre qualcosa – l’immaginazione – che intervenga a mediare l’abisso e a creare dei riferimenti. Il mondo è una narrazione, una lettura. Un catalogo particolare, non l’interezza di tutti i libri possibili. Così l’avvento di Tlön è apocalittico in entrambi i sensi: man mano che distrugge il mondo ne rivela la psichedelica espressività.

 

Leonardo Albano

 

NOTE
1. J.L. Borges, Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, in Finzioni, Milano, Adelphi, 2003, p. 33.

2. Ibidem.
3. Ibidem.

[Photo credit Patrick Robert Doyle via Unsplash]

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“Facciamo che…”: quando il gioco si fa serio

“Facciamo che…”: è la formula che introduce più o meno qualsiasi gioco tra bambini, un brevissimo incipit che ha il potere di sospendere la realtà ed aprire porte su nuovi mondi, trasformando i giocatori, gli oggetti con cui interagiscono e l’ambiente in cui si muovono in qualunque cosa sia accessibile alla fantasia. “Facciamo che questa scopa era un cavallo e che noi eravamo cavalieri che dovevano uccidere il drago”; “Facciamo che il pavimento è lava e noi non dobbiamo caderci”; “Facciamo che siamo esploratori su una montagna e che lo scivolo è la cima da raggiungere”. Gli adulti che osservano dei bambini giocare si stupiscono spesso dell’assoluta serietà che accompagna la finzione ludica: il “facciamo che…” modifica la percezione del reale con una forza unica, e il giocatore ne è totalmente assorbito. Il guastafeste che, annoiato o stanco di perdere, interrompe l’illusione con “Ma tanto non è vero che noi siamo esploratori/cavalieri/astronauti” è colpevole di “aver rovinato il gioco”, un vero e proprio crimine che a volte si sconta con l’esclusione dal gruppo.

La tenerezza e la sorpresa con cui si guarda ai giochi dei bambini è ironica, però, considerato il numero di giochi in cui gli adulti sono immersi da tutta una vita, in maniera talmente profonda da non riuscire più neanche a riconoscerli come tali. “Facciamo che questo pezzo di carta (o tondino metallico, o sasso luccicante) vale quanto un chilo di pane” è uno dei più evidenti. Ciò che è considerato prezioso e che diviene moneta di scambio è tale per convenzione, e per più o meno tacito e unanime accordo, ma non ha alcuna giustificazione reale. Rimane famoso l’espediente con cui i mercanti portoghesi supplirono alla difficoltà di trasportare oro fino alle colonie del sud dell’Africa per acquistare schiavi dai negrieri locali: sdoganarono anche tra gli europei l’uso della conchiglia cauri come moneta di scambio, facendo tra l’altro impennare il valore e il prezzo di una “valuta” che poteva letteralmente essere trovata sotto i piedi di chi poi vendeva anche familiari e merci di valore in cambio di essa.

“Facciamo che ci sono delle linee invisibili che dividono la terra, e che tutti quelli che vivono da una parte o dall’altra di quelle linee si chiamano in maniera diversa”: questo gioco, tra i più antichi del mondo, è lo stesso che nella sua forma più estrema diventa “Facciamo che tutti quelli che vivono al di là della linea invisibile sono nemici e tu devi sparargli”. Se gli interessi reali di chi dichiara guerra e muove gli eserciti sono il più delle volte comprensibili e in certa misura razionalizzabili, tutto ciò che concerne gli attori principali, i soldati stessi, dalle uniformi al gergo militare, dalla gerarchia alle medaglie-premio, ricorda, più che una tanto declamata “arte” della guerra, un gioco di gruppo dalle regole ferree, che richiede una sospensione dell’incredulità (“Una persona che non ho mai visto ma che ha un costume diverso dal mio è mio nemico e devo sconfiggerlo”) accessibile solo grazie alla ferrea autodisciplina percettiva che tanto colpisce nei bambini.

Di giochi come questo se ne possono riconoscere a decine nella vita “seria” e “razionale” degli adulti, giochi talmente interiorizzati e immersivi che non possono neanche più venir messi in questione nella loro realtà effettiva, pena l’esclusione dal gruppo, o peggio. Il problema sta tutto nel fatto che la maggior parte di questi giochi, portati all’eccesso, ha portato disuguaglianze, ingiustizia, morte, perfino squilibri planetari, premiando ciecamente i vincitori e punendo spietatamente i perdenti.

A ben guardare, c’è una sola, grande differenza che separa il mondo dei giochi dei bambini e quello degli adulti: per i primi, dopo un pomeriggio al parco giochi, arriva sempre qualche genitore a interrompere la finzione e riportare gli esploratori, i cavalieri o chi per loro alla realtà, con una lezione che andrebbe riscoperta e reimparata prima di causare troppi danni con le conseguenze della nostra immaginazione. “Il gioco è bello quando dura poco”.

 

Giacomo Mininni

 

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Una parola per voi: maschera. Marzo 2019

«L’uomo è meno se stesso quando parla della sua persona.

Dategli una maschera, e vi dirà la verità».

Oscar Wilde, Il critico come artista

Martedì 5 marzo, quest’anno, termina il Carnevale. Celebrazione che evoca divertimenti sfrenati, follie, risate e colori, ma soprattutto: travestimenti. I costumi carnevaleschi sono amati dai bambini ma anche dagli adulti; li mettiamo per andare a feste a tema, balli o parate. O, se non amiamo travestirci, ci piace forse guardare i carri di Carnevale sfilare in pompa magna per le strade cittadine. Sono esagerati, satirici, imponenti, mettono fra parentesi la routine quotidiana, di solito rigorosa e incasellata entro regole ben precise.
Eppure, con questa sua citazione, Oscar Wilde vuole dirci che l’uomo tende a mentire su se stesso proprio quando è “intrappolato” nelle sue normali condizioni. È proprio nel quotidiano, che tendiamo a fingere di essere chi in realtà non siamo, indossando una maschera “negativa”. Lo facciamo perché temiamo le convenzioni sociali, nonché il giudizio altrui. Cosa penserebbero di me in ufficio, se dicessi veramente quello che penso? Che direbbe la mia famiglia se mi mostrassi per ciò che sono, senza filtri o bugie? La sincerità non sempre paga – in società e in generale nei rapporti interpersonali, paga di più la diplomazia, se non addirittura la mistificazione.
Talvolta può dunque venirci in aiuto una maschera “positiva” che, coprendo il nostro volto, apre una breccia sul nostro vero io svelando chi siamo. La maschera ci protegge dagli insulti, dagli scherni, dalle condanne, dagli abbandoni. Dietro a una maschera, dice Wilde, possiamo dire la verità, trovare il coraggio di essere franchi e onesti, perché gli altri non vedono chi si cela dietro ad essa.

La parola per voi del mese di marzo è maschera: essa può essere negativa o positiva, una prigione, uno strumento di espressione, di liberazione o addirittura di emancipazione. A voi la nostra selezione di libri, film, canzoni e opere d’arte a tema!

 

UN CLASSICO

chiave-di-sophia-il-fu-mattia-pscalIl fu Mattia Pascal – Luigi Pirandello

Mattia Pascal, fuggito a Montecarlo, trova fortuna nell’arbitrio della roulette, ma, prima di tornare al suo paese natio, legge su un giornale che, Mattia Pascal, era stato ritrovato senza vita. Inizia così, la possibilità di una nuova vita per Mattia Pascal, sotto la maschera di Adriano Meis. L’alter ego, la maschera dietro cui si nasconde, restituisce al protagonista la libertà di una vita vera, da vivere proprio come egli voleva. Tuttavia, scoprirà che nessuna maschera può essere tenuta a lungo, che questa deve cadere, e che Mattia Pascal, suo malgrado, non può che essere se stesso, anche se non vuole.

 

UN ROMANZO CONTEMPORANEO

chiave-di-sophia-eleganza-del-riccioL’eleganza del riccio – Muriel Barbery

Un capolavoro con due protagoniste: la dodicenne Paloma, figlia geniale di una ricca famiglia che abita al numero 7 di rue de Grenelle a Parigi e Renée, la portinaia del palazzo, vedova e riservata. La maschera si rivela soprattutto nel personaggio di Renée, che si cala magistralmente nel suo ruolo di portinaia ignorante, un po’ scorbutica e sciatta, con il televisore perennemente acceso su programmi di basso spessore ma con un mondo privato, al di là di quello visibile, fatto di tante letture e passioni, come quella per la filosofia e per la cultura giapponese. La maschera calerà a poco a poco con l’arrivo del nuovo inquilino, monsieur Ozu: una citazione di Tolstoj le sfugge dalle labbra e sulla maschera si forma una prima crepa. Similmente accade per Paloma, che si finge un’adolescente come tutte le altre “nella boccia” dei pesci rossi, nascondendo il cervello e lo spirito di un genio. Quello che il romanzo sembra dirci è che è spesso difficile mostrarci per quello che siamo, ma prima o poi la finzione si rivela per quella che è; la domanda allora diventa: ne vale la pena?

 

UN LIBRO JUNIOR

io-sono-il-drago-chiave-di-sophiaIo sono il drago – Grzegorz Kasdepke, Emilia Dziubak

Una storia per tutte quelle bambine che, anziché sognare abiti da principesse, preferiscono giocare la parte del drago: un terrificante mangia-cavalieri che vi darà nuove idee per appassionanti giochi in famiglia. Oltre gli stereotipi di genere, ciò che conta è esprimere al meglio, senza freni inibitori, i propri interessi e il proprio modo di essere. Lettura che calza a pennello con il periodo di Carnevale e con le eventuali discussioni in famiglia riguardo l’abito più adatto con il quale mascherarsi. Età di lettura: 4-6 anni

 

UN FILM

m-butterfly la chiave di sophiaM. Butterfly David Cronenberg
Mascherati dietro raffinate spirali di ambiguità psicologiche e sensuali, i personaggi di “M. Butterfly” (film del 1993) incarnano alla perfezione una storia in cui nulla è mai veramente come appare. Pechino, 1964. René Gallimard è un diplomatico del consolato francese. Durante una festa conosce e si innamora perdutamente di una cantante lirica cinese senza capire che, in realtà, dietro quella voce celestiale non si nasconde una donna ma un uomo destinato a stravolgere per sempre la vita del diplomatico. Ispirato a una storia realmente accaduta, il film di David Cronenberg è un saggio visivo straordinario sulla potenza dei sentimenti umani e sulla loro capacità di stravolgere le apparenze del corpo e dello spirito. La lettera M. del titolo può essere interpretata sia come un chiaro riferimento alla Madama (Butterfly) di pucciniana memoria che alla M di “mister”, figura maschile associata a un appellativo femminile: “Butterfly”, per l’appunto. Privati delle loro maschere sociali, i personaggi di Cronenberg si lasciano travolgere dall’impeto delle loro passioni più autentiche, finendo inevitabilmente alla deriva.

 

UNA CANZONE

chiave-di-sophia-cremonini-pagliaccioIl pagliaccio  Cesare Cremonini

Tratta dall’album Il primo bacio sulla luna (2008), questa canzone di Cesare Cremonini mette in evidenza la completa aderenza che talvolta può verificarsi tra personalità e maschera. Il protagonista del testo è infatti un artista del circo, un pagliaccio per l’appunto, che si scopre tale anche una volta tolto il trucco a fine serata, quasi come in una sorta di ephiphany (“La sera quando mi sciolgo il trucco, / riscopro che sono un pagliaccio anche sotto“). Cremonini sembra dunque ricordarci quanto sia importante esprimere il proprio essere e trovare il proprio posto nel mondo, anche se diverso da quello convenzionale; anche perché, sembra suggerire il finale del video, anche il mondo reale (quello esterno rispetto ai colori e alle stranezze del circo) è fatto di altrettanto caos e altrettante maschere. Rispetto all’inizio della canzone che presenta una forte cesura tra questi due mondi (“Sono il pagliaccio / e tu il bambino“) il testo giunge finalmente alla consapevolezza del protagonista, che nella figura del pagliaccio vede la spontaneità del bambino (“Sei come me“) e nel circo vede il luogo dove esprimere al meglio sé stesso (“Ma in fondo io sto bene qua / tra le mie facce e la mia falsità / trovando in quel che sono / un po’ di libertà“). Quella che sembra dunque una maschera in cui ci caliamo e che ci permette di sentirci liberi, può anche rivelarsi una finzione per noi stessi perché di fatto coincide con il nostro vero io.

 

UN’OPERA D’ARTE

chiave-di-sophia-autoritratto-circondato-da-maschere-james-ensorAutoritratto circondato da maschere – James Ensor

La maschera, come sottolineato da Oscar Wilde, può essere uno strumento per manifestare una personalità il più delle volte nascosta, ma cosa succede quando si è l’unico volto reale in un mondo di maschere? È questa la Bruxelles che vede James Ensor nel suo Autoritratto circondato da maschere, del 1899, un eterno carnevale di colori sgargianti ed espressioni grottesche in cui nessuno ha il coraggio di essere se stesso, prigioniero delle convenzioni sociali e della propria falsità. Il misantropo Ensor, ammantato di astio ma anche di struggente malinconia, scopre una agghiacciante solitudine in mezzo alla folla: paradossalmente, in un mondo dove nessuno mostra se stesso per come è, è la sincerità di chi ha il coraggio di mostrarsi a volto scoperto l’unica maschera davvero terrificante.

 

Francesca Plesnizer, Fabiana Castellino, Giorgia Favero, Federica Bonisiol, Alvise Wollner, Giacomo Mininni

 

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Le storie vere sono la rovina del cinema

Tratto da una storia vera. Sono queste le parole che stanno uccidendo il cinema. Fateci caso, i film che negli ultimi mesi stanno uscendo nelle sale italiane si dividono sostanzialmente in due categorie: i blockbuster dedicati ai supereroi e i film ispirati a vicende realmente accadute. Alcuni esempi? La macchinazione di David Grieco, Race di Stephen Hopkins, 13 hours di Micheal Bay e Colonia di Florian Gallenberger sono solo alcuni dei titoli che nei primi cinque mesi del 2016 hanno invaso i cinema di tutto il mondo. Il fenomeno è in parte dovuto a una generale mancanza di idee all’interno dell’industria cinematografica. Senza perdere tempo nella creazione di soggetti nuovi e originali, produttori e registi hanno preferito adagiarsi nella comodità di storie già pronte che necessitavano solo di piccole modifiche per essere adattate sul grande schermo. Non stiamo parlando di film storici, bellici o in costume, bensì di episodi che raccontano fatti reali poco noti al grande pubblico, in una veste che spesso rischia non solo di stravolgere la realtà storica ma anche di produrre una serie di pellicole mediocri e retoriche.

Il caso più eclatante è il recente Stonewall di Roland Emmerich. Il regista americano, abbandonati i kolossal catastrofici come Indipendence day The day after tomorrow si cimenta nel nobile intento di raccontare una delle pagine più difficili della recente storia americana: i moti di Stonewall per il riconoscimento delle libertà gay. Vicenda che nel giugno del 1969 portò a violenti scontri tra le forze dell’ordine e la comunità omosessuale di New York, guidata dalla transessuale Sylvia Rivera, che diede vita alla protesta gettando una bottiglia contro un poliziotto. Grazie alle loro lotte, in America, nacque il Movimento di liberazione gay e, con il tempo, crebbero a dismisura i diritti per le persone omosessuali. Nel suo film Emmerich rovina questo grande spunto e trasforma la Storia in una favola di formazione, in cui il bianco, rassicurante e ben educato Danny, lascia la propria casa e la propria famiglia (solo) perché costretto, e finisce nel “magico” mondo dei ragazzi che si prostituiscono da quando erano bambini, occupano luride stanze di hotel e piangono la morte di Dorothy Gale come quella di una sorella. Storie vere raccontate sempre con un punto di vista distaccato e stereotipato, senza rischiare mai di allontanarsi dal politicamente corretto, in una sorta di lunghissimo e stucchevole elogio dell’ideologia democratica pro-Obama.

Stonewall ci dimostra come la scelta di adattare storie realmente accadute sul grande schermo sia il modo migliore per uccidere il buon cinema. La settima arte nasce come elogio della finzione per antonomasia. Anche quando sembra voler raccontare la realtà, il cinema riesce sempre a superare i confini del reale. Il treno ripreso alla stazione dai fratelli Lumiere avrebbe dovuto uscire dallo schermo e investire gli spettatori, invece la locomotiva non solo sparisce oltre i confini dell’inquadratura, ma dimostra anche che il cinema è il luogo in cui la finzione prende il sopravvento. Nel buio della sala ci dimentichiamo della realtà che ci circonda ogni giorno e accettiamo di farci guidare dall’immaginazione. Tenetevi alla larga da tutti quei film che vi parlano di storie vere. Sono solo una proiezione bugiarda di un qualcosa che è successo. Quando deciderete di andare al cinema, scegliete le storie originali, scegliete di perdervi nel buio di un’inedita fantasia. Solo così riuscirete a trovare la vera magia di quest’arte.

Alvise Wollner

8½ di F. Fellini: il significato dell’esistenza tra reale e onirico

Scritto e diretto da Federico Fellini nel 1963, 8½ è considerato da molti uno dei suoi capolavori e una delle pellicole cinematografiche migliori di sempre.
È un ritratto onirico e malinconico, per molti versi autobiografico in cui il regista italiano riversa le sue sensazioni e le sue inquietudini, in una giostra emozionale dai toni fantastici e grotteschi ma profondi.

Il protagonista della storia è Guido Anselmi (interpretato da Marcello Mastroianni), un affermato regista di mezza età che sta elaborando il suo prossimo film. Sta
trascorrendo un periodo di riposo presso un centro di cure termali nel tentativo di dare nuova vita al suo spirito creativo, ormai bloccato e inaridito e cercando di dare un chiaro percorso al suo progetto cinematografico. Costantemente assediato dal produttore, dai suoi assistenti e dagli attori, che vogliono capire quale storia si accingeranno a raccontare, Guido vive le sue inquietudini e la sua insoddisfazione, cercando di fare un bilancio della sua vita, fatto di rapporti con persone reali, di fantasticherie e di sogni che si mescoleranno sempre più con la realtà. Trascorrono così giorni in cui Guido sarà sempre più turbato cercando in tutti i modi di dare un senso alla sua esistenza, come regista e come uomo.

In questo film c’è tutta l’inquietudine artistica e la crisi creativa di Fellini; il titolo stesso, 8½, altro non era che una soluzione provvisoria, poiché questa pellicola veniva dopo sei film girati interamente dal regista e altri tre “mezzi film” codiretti insieme ad altri. È forte e ben presente l’elemento autobiografico; Fellini, come Guido, ha in mente una storia ,una sceneggiatura, ma questa fa fatica ad emergere, è fatta di sogni, di pensieri e immaginazioni che difficilmente possono essere
rappresentate. Il progetto fu in balìa di una caduta, Fellini si accorse che l’idea che aveva in mente svanì com’era arrivata; fu invece grazie ad un evento esterno e quasi casuale che il regista capì di cosa voleva parlare: una storia che narrasse di un regista come lui che voleva raccontare una storia, senza ricordarsi però quale.
Ed è qui che le figure di Fellini e Guido si mescolano, diventando l’uno l’alter ego dell’altro, mescolando realtà e finzione fino a sovrapporle, a farle diventare un’unica grande storia.

La crisi del Guido regista è anche la crisi del Guido come uomo, viene raccontata a tutto tondo, cogliendo ogni attimo della sua vita, rompendo le barriere dello spazio e del tempo. Riaffiorano i ricordi dell’infanzia, il tenero incontro fantasioso con i genitori ormai morti, l’onirica e irreale scena dell’harem, in cui Guido fantastica di passare il tempo con le donne che hanno segnato la sua vita.
Il film proietta lo spettatore nella coscienza del protagonista e nel suo inconscio, dove realtà e sogno non smettono di toccarsi e di giocare tra loro, cercando di fondersi e di dare un significato dell’esistenza che Guido non smetterà mai di inseguire.

In questo girotondo di emozioni mette a nudo la sua anima, fa scorrere le sue paure e le sue bugie, che per tanto tempo l’hanno tenuto prigioniero, stanco e disilluso; il rapporto strano e ormai quasi fraterno con la moglie Luisa, la noia della sua amante e il vortice di persone che ruotano attorno a lui chiedendogli di reagire, di sapere nuovamente cosa fare, come vivere.

Investito e appesantito da un tale peso, ormai rassegnato a scappare da sé stesso e a lasciare tutto alle spalle, Guido capisce, in un “lampo di felicità”, che tutto ciò che ha passato e tutte le persone che ha incontrato, amato o deluso, l’hanno reso l’uomo che è; può finalmente chiedere perdono a chi gli ha voluto bene e tornare a vivere da uomo consapevole, dirigendo un grande girotondo festoso, con le anime della sua vita.

Una delle grandezze di questo film di Fellini sta nella sua capacità di aver messo a nudo sé stesso, in un momento di fragilità e di difficoltà ha saputo ritrovarsi come artista, come grande regista qual era ed è tuttora. Da un’idea offuscata e contorta è nato forse il suo più grande capolavoro, messo in scena come un flusso di coscienza, non sempre facile da seguire, ma potente e davvero significativo.
Con coraggio e umiltà Fellini ha deciso di alzare il sipario e mostrarsi, di rappresentare la crisi nel suo vero significato etimologico, intendendola come riflessione, valutazione, discernimento, trasformandola così in un presupposto necessario per un miglioramento, una rinascita che è tanto artistica quanto umana.

Lorenzo Gardellin