Fino all’ultimo respiro, ricordando Jean-Luc Godard

È morto il 13 settembre 2022, il 3 dicembre avrebbe compiuto 92 anni: Jean-Luc Godard, nato a Parigi nel 1930, una delle più importanti personalità della Storia del Cinema, uno dei maggiori esponenti della Nouvelle Vague, ma soprattutto un uomo, che ha scelto di inserire la parola fin in quel lungometraggio o – come avrebbe forse detto uno dei suoi amici dei Cahiers du Cinèma e fondatori della medesima corrente cinematografica, François Truffaut – in quel tourbillon che è la vita. Tra i suoi capolavori che hanno segnato la storia del cinema ricordiamo: À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) del 1961 con Jean Seberg e Jean Paul Belmondo, considerato uno dei manifesti della Nouvelle Vague; Le mépris (Il disprezzo), del 1963, basato sull’omonimo romanzo di Alberto Moravia, con Michel Piccoli e Brigitte Bardot; Bande à part, del 1964 con la celeberrima corsa al Louvre ripresa nel 2003 nell’altrettanto celeberrima scena di The Dreamers di Attilio Bertolucci.

Una morte programmata quella del regista: un suicidio assistito avvenuto in Svizzera a Rolle, in secondo piano, sullo sfondo, nelle pieghe del montaggio, come uno di quei rumori di strada o di una macchia di luce che caratterizzano le inquadrature della Nouvelle Vague che puntano a catturare l’anima delle cose. In primo piano in quei giorni, invece, i riflettori erano puntati su un altro addio, quello di e a una donna, la Regina Elisabetta.

«-Fra il dolore e il nulla io scelgo il dolore. E tu, cosa sceglieresti?
-Il dolore è idiota. Io scelgo il nulla. Non è meglio… ma il dolore è un compromesso. O tutto o niente».

All’indomani della morte di Jean-Luc Godard riecheggiano inevitabilmente queste celebri battute di À bout de souffle, scambiate tra Patricia e Michel e a loro volta citazione dal romanzo Palme selvagge (1939) del Premio Nobel William Faulkner. Artista e uomo rivoluzionario, ribelle e anticonformista, anche Jean-Luc Godard ha scelto il nulla: in quanto regista ha diretto la propria vita fino all’ultimo respiro e di fronte al dilemma, in quanto uomo, del dolore e del nulla, ha scelto il nulla. Kierkegaardianamente scagliato nell’esistenza, eliminato Dio come figura deterministica, paternalistica e consolatrice, e consapevole – come affermava Jean-Paul Sartre celebre nella conferenza L’existentialisme est un humanisme (1945) – che «L’uomo è condannato a essere libero», ha scelto il nulla ed è stato questo il suo addio, per alludere a un refrain di Million Dollar Baby (2005) di Clint Eastwood: «Tra le querce e i cedri dispersi tra il nulla e l’addio».

Jean-Luc Godard è stato un regista totale, in continua sperimentazione e contraddizione, fondatore nel 1969 di un collettivo di estrema sinistra, il Gruppo Dziga Vertov, e per il quale il cinema è prima di tutto montaggio e dovrebbe mostrare quello che non succede e che non si può vedere da nessun altra parte, neppure su Facebook – come lui stesso aveva dichiarato durante una Conferenza Stampa del Festival di Cannes nel 2018 in occasione della presentazione del suo ultimo lavoro, Le livre d’images. Il suo ultimo respiro arriva da un oltretomba lontano: i titoli dei giornali e le rapide notizie televisive sulla sua morte si sono stagliate come un frame dal buio proprio come in questo suo ultimo radicale e innovativo oggetto cinematografico.

Immagino Godard in parte come il Napoleone de Il Cinque maggio manzoniano: un uomo fatale, un uomo che ha incarnato e che ha orientato lo spirito del proprio tempo e che per questo si è paradossalmente eternato; ma comunque un uomo, un uomo nella propria finitezza e un uomo disarmato di fronte al mistero della morte, cui sceglie però di andare incontro, come quel celebre treno dei fratelli Lumière in arrivo alla stazione della Ciotat andava incontro agli spettatori.

Immagino la vita di Godard sia come la celebre corsa del piccolo Antoine Doinel nel finale di uno dei manifesti della Nouvelle Vague, Les 400 coups (I 400 colpi) del 1959 di François Truffaut, sia come quel celebre tourbillon de la vie cantato da Jeanne Moreau in un altro manifesto di tale corrente cinematografica del medesimo regista, Jules et Jim del 1962, tra leggiadria e malinconia, tra spensieratezza e fatale determinazione: la vita come un lungo piano sequenza verso un capolinea e la vita come un gomitolo la cui armonia è proprio il caos. La vita che – sia in una dimensione lineare sia in una dimensione circolare, sia in una qualche prospettiva ultraterrena sia in una prospettiva materialista – è movimento, in greco “kìnesis”. Il “cinema” ha proprio a che fare etimologicamente con la vita e questa è stata la vita di Jean-Luc Godard, da cui mi piace congedarmi affidandomi alle parole conclusive di Il grande Gatsby, «Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».

 

Rossella Farnese

 

[Photo credit Jeremy Yap via Unsplash]

banner riviste 2022 ott

La tensione tra infinito e sostenibilità del limite

Daniel Callahan, cofondatore con Willard Gaylin dell’Hastings Center di New York e Direttore dell’International Programin, critica tre approcci della pratica medica nella medicina occidentale. Innanzitutto la volontà di dominare e asservire la natura, aspirazione in base alla quale anche la stessa morte costituisce un semplice e anonimo difetto biologico suscettibile di correzione e destinato ad arrendersi ai poteri dell’egemonia della scienza; in secondo luogo, considera la sua tensione a proporsi orizzonti irraggiungibili, illimitati, non ammettendo la sola possibilità di un ‘punto d’arrivo’ soddisfacente. Infine l’autore fa luce sull’aggressivo espansionismo sociale, una tendenza invasiva ad insinuarsi in ogni aspetto della vita umana (sfociando, così, nella ‘medicalizzazione’).

Parlando di ‘medicina sostenibile’, Callahan propone uno slittamento progressivo di enfasi clinica alle cronicità, alla prevenzione sociale, dalla ricerca di una salute eterna al raggiungimento di un più maturo equilibrio tra le esigenze della natura e le prospettive della ricerca: propone, cioè, il recupero di una medicina tradizionale umanizzata. In Callahan vi è uno slancio verso un ritorno della comunità internazionale ai valori della convivialità, della sobrietà, di una medicina capace rispettare i naturali limiti biologici della dimensione umana e spirituale nella relazione terapeutica. Nel mondo della medicina di Callahan si promuove sistematicamente la stabilità, nella tensione a scongiurare la morte prematura e proteggere tutti i cittadini in maniera equa dalle malformazioni fisiche e mentali. L’autore si pone un quesito riguardo il rapporto, il legame che àncora la vita alla medicina: si chiede cioè se l’individuo debba modificare la propria concezione della medicina o piuttosto la propria concezione riguardo la vita. Callahan sostiene che una radicale revisione, riguardi e debba riguardare entrambe queste realtà in quanto:

«[…] Una vita che dipendesse per il proprio significato dai puntelli e dal progresso della medicina non […] sembrerebbe vita, a dispetto del fatto che il […] corpo continuerebbe a vivere per un po’. Una medicina che promettesse continuamente nuovi miracoli, nuovi corpi e nuovi io per veder finanziata la propria ricerca e per giustificare i propri colossali investimenti […] sembrerebbe una medicina che ha perduto la retta via, dimenticando di non essere affatto la via di accesso alla vita felice»1.

L’autore si batte contro le distorsioni introdotte da un approccio esclusivamente scientifico dell’applicazione medica, la cui fragilità risiede anche nel non dare ascolto ai punti di forza delle tradizioni e delle pratiche antiche.

«La mia tesi è che le società moderne […] hanno bisogno di una medicina “sostenibile”[…], una medicina che, sul terreno della ricerca non meno che su quello dell’assistenza, aspiri a conseguire una condizione di stabilità a un livello economicamente sopportabile, equamente accessibile e nello stesso tempo psicologicamente sostenibile, ossia tale da soddisfare la maggior parte […] dei bisogni e delle aspettative ragionevoli concernenti la salute. Quello a cui penso è un cambiamento sul terreno degli ideali e delle speranze della medicina, non solo su quello dell’organizzazione e dell’erogazione dell’assistenza sanitaria ai malati»2.

Una medicina economicamente sostenibile sarebbe, necessariamente, una medicina del razionamento e dei limiti la quale, tuttavia, si serve di essi per salvaguardare l’equità: essa porterebbe così l’individuo all’accettazione di una realtà continua e permanente del rischio (quale, per altro, si configura la natura umana), della malattia tentando di elaborare una prospettiva attraverso cui ‘proporsi’, presentarsi ed adattarsi nel miglior modo possibile. Al contrario, l’attuale espansionismo medico, sempre più emergente e senza controllo, è causa di una crescente insoddisfazione: se da un lato, infatti, l’uomo non è ancora riuscito a dominare e piegare la natura alle proprie materiali aspirazioni attraverso la medicina, dall’altro gli stessi successi dal suo progetto di dominio hanno generato una serie di nuovi problemi. La medicina moderna, nella convinzione per cui nella ricerca della salute risiede il segreto del significato della vita, ha portato a ritenere che anche la mortalità stessa, ben lontana dal dovere essere integrata e compresa in una visione equilibrata dell’esistenza, va semplicemente combattuta e rifiutata: la lotta della medicina contro la morte, l’invecchiamento e l’infermità rappresenta addirittura la sola fonte del  significato umano.

«[…] La medicina sostenibile è necessaria non solo perché non possiamo permettercene una diversa, ma anche perché essa può aiutarci a fare piazza pulita della medicina incontentabile e priva di scopi precisi prodotta dal progresso e dall’abbraccio con il modernismo. Una medicina sostenibile ci costringerà a riconsiderare il corpo e la mente, il significato sociale di medicina e assistenza sanitaria, nonché il rapporto tra la medicina e le culture di cui fa parte. Questa è la sola direzione capace di far sì che la medicina economicamente sostenibile lo sia anche psicologicamente»3.

Per Callahan l’uomo deve rendersi consapevole della necessità di modificare i propri valori, le proprie speranze e le proprie aspettative: i cambiamenti del suo modo di pensare devono investire tanto la sua capacità e possibilità di far fronte al fisiologico e inevitabile invecchiamento quanto alle malattie che minacciano la sua sopravvivenza, che incombono e costellano l’esistenza dell’individuo.

«Due sono le frontiere su cui si deve agire: una si estende lungo l’asse temporale dell’invecchiamento, e l’altra lungo quello dei bisogni individuali. Il primo e più importante passo nell’istituzione di queste restrizioni è riconoscere che entrambe le frontiere sono aperte ed infinite e che quindi non potranno mai essere definitivamente conquistate: esse infatti non ammettono alcun limite naturale conosciuto, sebbene se ne siano presi in considerazione alcuni possibili»4.

Callahan, nel sostenere la necessità di stabilire dei limiti, intende evidenziare l’importanza di tenere presenti alcune potenti tensioni, come quella che si crea tra l’accettazione della finitezza della persona in quanto tale e la umana aspirazione al progresso infinito, tra le più disparate esigenze individuali e quelle del bene comune, tra il proprio peculiare perseguimento della salute in quanto valore individuale e l’imprescindibile necessità di destinare le risorse anche ad altri settori. Oggi bisogna lavorare entro ambiti e limiti ben delineati, per stabilire priorità chiare ed inderogabili: uno spiccato senso del limite evidenzierà proprio la necessità di queste priorità.

Riccardo Liguori

NOTE:
1. Daniel Callahan, La medicina impossibile. Le utopie e gli errori della medicina moderna, tr.it a cura di Rodolfo Rini, Baldini & Castoldi, Milano, 2000, pag.18.
2. Ivi, pag. 24.
3. Ivi, pag. 319.
4. Ivi, pag. 223.

[Immagine tratta da Google Immagini]