Occidentali’s Karma: una lettura del tempo presente

L’ultima serata del festival di Sanremo ha celebrato la vittoria del brano Occidentali’s Karma di Francesco Gabbani. Sin da quel momento la canzone ha cominciato ad essere trasmessa in moltissime radio, celebrata in televisione e condivisa sui social network. Il ritmo travolgente e i passi che la caratterizzano l’hanno fatta divenire un vero e proprio tormentone. Una di quelle melodie che appena ci entrano in testa a fatica ci abbandonano.

Il successo di questa canzone e dell’uso che ne viene fatto sembra esclusivamente legato alle poc’anzi citate peculiarità di ritmo, passi e melodia. Tuttavia, a colpire l’attenzione di coloro che si occupano di pensiero e di esseri umani, non sono solamente queste caratteristiche, quanto piuttosto le parole che compongono il testo. Ponendo attenzione al brano, infatti, è possibile scorgere una lettura lucida e profonda del nostro tempo. Il presente della civiltà occidentale risulta infatti caratterizzato da un vuoto di senso che cerchiamo di colmare con ogni mezzo, senza renderci conto che riempiendolo in modo vago e superficiale lo destituiamo ancor di più del proprio senso. Ne è un esempio la rincorsa superficiale alle filosofie orientali («lezioni di Nirvana, c’è il Buddha in fila indiana») che, come affermava già alla fine del secolo scorso Francesco Guccini «da noi nascondono soltanto un vuoto di pensiero». Le religioni orientali, vendute e usufruite come pillole per medicare le ferite dell’anima, estrapolate dal profondo percorso interiore che esse richiederebbero, vengono banalizzate nella loro profondità, saggezza e spiritualità.

Seguendo il brano di Gabbani, è poi possibile evidenziare un altro tratto della nostra civiltà, vale a dire la cultura di massa («la folla grida un mantra»). Ogni aspetto dell’esistenza risulta massificato, ciascuno fa ciò che fanno gli altri, desidera ciò che gli altri desiderano. Questo è il conformismo della nostra epoca che ci rende simili a degli automi monodimensionali, tesi al consumo di ogni aspetto della vita, dal corpo alla sessualità, dal cibo alla ricerca del piacere che diventa ostacolo a se stesso. Ed è proprio qui che «l’evoluzione inciampa».

Altro aspetto sociale, emergente nel testo, riguarda la diffidenza e la paura dell’altro («mettiti in salvo dall’odore dei tuoi simili»). La nostra cultura fa dell’altro uno scarto e non una risorsa, senza capire che la gioia di vivere si celebra proprio nell’incontro con l’altro da noi. Il prossimo, il più vicino. Una società, la nostra, che inneggia all’egocentrismo, dimenticando che l’uomo è un animale sociale e politico, che per poter vivere ha bisogno dell’altro e di tutto ciò che da questa relazione deriva: riconoscimento, attenzione, cura, partecipazione, empatia, affetto, amicizia, amore. Dimensioni che caratterizzano il fondamento ontologico dell’umano e che nessun prestigio sociale, nessuna affermazione politica o nessun tipo di denaro, possono sostituire.

Altro tratto tipico del nostro tempo è, per Gabbani, l’umanità virtuale. Oggi infatti internet e i social network sembrano sostituire i veri rapporti umani, che non possono nutrirsi di virtualità, ma che spesso vengono costretti in questa condizione dall’imperio della tecnica e della tecnologia. Diversamente dall’ideologia vigente, le autentiche relazioni umane si nutrono  di incontri, parole, chimica degli sguardi, carne e fiato. Mentre l’umanità virtuale si nutre di apparenza, non di sostanza, di avere e non di essere. Oggi infatti, ciò che la società impone come condizione esistenziale necessaria è il possesso, l’immagine stereotipata di corpi perfetti e carriere di successo, lusso, sfarzi ed eccessi. Indicatori di una “bella vita”. Ma, canta Gabbani, è proprio quando «la vita si distrae», si dirige verso l’effimero, il vuoto e l’eccesso che «cadono gli uomini». Frustrando la volontà di significato e abdicando il pensiero autonomo essi vengono meno rispetto alla propria essenza. L’uomo infatti è animato dalla volontà di cercare e trovare un senso alla propria vita e nel momento in cui si adagia al già dato, al vigente, dimentica la propria essenza e smarrisce l’orizzonte della bellezza che, già per Platone, era la strada maestra verso la verità.

Già nel 1486, Pico della Mirandola nell’Oratio de hominis dignitate, affermava che all’uomo viene data la più grande delle libertà, quella di scegliere se vivere un’esistenza alla stregua delle bestie o se elevarsi a dimensioni superiori. L’uomo può scegliere se orientarsi verso la “bella vita”, fatta di istinti, superficialità, effimero, vuoti colmati con banalità e apparenza oppure orientarsi verso una vita bella condotta all’insegna dell’insaziabile ricerca dell’infinito e della bellezza celati nell’essenzialità di ogni minuscolo, ma preziosissimo, aspetto dell’esistenza.

La cultura e il pensiero sono i vettori per cambiare lo sguardo su noi stessi e sul mondo, per penetrare il mistero della nostra esistenza, per guardarlo con gli occhi della meraviglia che ci invita alla riflessione e all’adesione ai veri valori che possono dare senso alla vita. Infine l’educazione estetica, l’educazione alla bellezza, che come affermava Schiller «dovrebbe poter presentarsi come una necessaria condizione dell’umanità». Solo la bellezza infatti permette di elevarsi al di sopra del vuoto dello status quo, che il testo del cantautore toscano ha tragicamente evidenziato.

«La scimmia si rialza» conclude con fiducia Gabbani. È nelle possibilità dell’uomo infatti riemergere dalle ceneri che egli stesso ha creato, ma questo dipende dalle scelte che ogni singolo compie quotidianamente. L’uomo può elevarsi, oppure continuare a vivere come una “scimmia nuda”, un animale (poco) evoluto. A coloro che non si elevano, che rinunciano ad essere uomini, che si compiacciono di essere semplicemente scimmie nude o bipedi implumi, Schiller ricorda: «colui che non osa elevarsi al di sopra della realtà non conquisterà mai la verità».

 

Alessandro Tonon

 

[immagine tratta dal video musicale]

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Su certe incursioni intellettualistiche nella filosofia

Essendo un archivista, conservando cioè oggetti, libri, articoli di vario genere per interesse o un’eventuale utilità futura, mi capita di imbattermi in qualcosa che avevo deciso di mettere da parte per qualche motivo, ma che avevo momentaneamente dimenticato.

L’ultimo di questi oggetti ritrovati sui miei scaffali è secondo me estremamente interessante e infatti ho subito ricordato perché l’avessi messo via: si tratta di un articolo di Eugenio Scalfari tratto dalla sua rubrica bisettimanale su L’Espresso datato 3 ottobre 2013, intitolato I non credenti e la loro coscienza.

Premettiamo una cosa: Scalfari ha avuto modo di crearsi un’importante identità culturale nel corso dei decenni che né qui né altrove intendo discutere. Ma si nota anche, addentrandosi un po’ negli scritti e nelle parole di Scalfari, che i suoi successi professionali e intellettuali sembrano legittimargli la qualifica di filosofo, titolo che in qualche occasione ha rivelato di voler possedere. Ma si sa (o forse in fondo no?) che ciò che rende il filosofo tale è ‘semplicemente’ il contenuto di ciò che asserisce e non la carriera, i libri, la veneranda età. Tantomeno, probabilmente, la semplice appartenenza all’ambito giornalistico, che rimanda a un rapporto con le parole e con il pensiero tutto peculiare (e sugli attacchi ai giornali da parte dei filosofi si potrebbe scrivere un’enciclopedia).

Il genere dell’articolo in questione è un classico del giornalismo laico contemporaneo: un confronto con i credenti, cosa fin troppo frequente e posta in termini abbastanza superficiali, la gran parte delle volte. Ma l’interesse per questo pezzo nasce per un dettaglio che alla lettura non può che saltare agli occhi di chiunque: in un articolo di due colonne e mezzo che si estende a stento per una paginetta, Scalfari riesce a citare ben venticinque tra filosofi, poeti o scienziati diversi (se volete sapere quali: Voltaire, Descartes, Leibniz, Kant, Hegel, Schelling, Diderot, d’Holbac, Marx, Feuerbach, Hobbes, Darwin, Democrito, Lucrezio, Copernico, Galileo, Esiodo, Parmenide, Eraclito, Empedocle, Heidegger, Schopenhauer, Nietzsche, Einstein, Spinoza) senza contare quelli che cita più volte (il numero sale così a trentatre) e senza contare le citazioni sommarie di movimenti culturali come «l’idealismo», «la storia delle idee», «le filosofie orientali» e molti altri (il numero sale ancora e raggiunge le quaranta citazioni in una pagina!).

Assistiamo così allo scomodamento di schiere di pensatori di ogni tempo, citati uno dietro l’altro senza nient’altro che il loro nome, evocati tutti a mo’ di percorso storico-filosofico in cui la tesi di Scalfari rappresenterebbe il dignitoso e sudato punto di arrivo.

Eppure se il filosofo Scalfari avesse avuto davvero presente l’opera di qualche personaggio citato in precedenza, avrebbe notato magari con un certo divertimento che l’intera Critica della ragion pura di Kant, che nelle moderne edizioni si aggira intorno alle settecento pagine, conta in tutto solo trentaquattro filosofi citati; Essere e tempo di Heidegger, anch’essa intorno alle seicento pagine, ne conta sessantasette; la Fenomenologia dello Spirito di Hegel – stessa lunghezza delle precedenti – conta circa dodici filosofi citati!

Ma allora: quale sarà l’illuminante tesi di fondo che ha reso legittimo tanto citazionismo? La tesi, che forse riesce a qualificarsi dignitosamente per un certo tipo di giornalismo o di intellettualismo, ma sicuramente non per un aspirante filosofo è: «Io credo nel caos, non solo originario ma permanente e in perenne divenire» e ancora «Si può chiamare Dio l’energia? Certo si può con l’avvertenza che l’energia è immanente [e] sta dentro tutte le forme e anima la vita e il caos che sta dentro di loro».

Forse l’autore avrebbe dovuto dedicare più spazio alla spiegazione di tali riflessioni, anziché occupare tanta carta bianca per sfoggiare una conoscenza filosofica probabilmente poco approfondita. Ma in un simile tripudio di pseudo-cultura, un risultato certo c’è: per il lettore medio, non può che svilupparsi disinteresse, allontanamento e qualche risatina oltre alla pericolosissima illusione che basti poco, in fondo, per poter parlare competentemente di certi argomenti.

Insomma, se i filosofi fossero coloro che vivono, pensano, si arrovellano intorno a massime del genere i nostri manuali di storia della filosofia dovrebbero includere i nomi di metà popolazione mondiale. Oppure di nessuno.

Luca Mauceri

[Immagine tratta da Google Immagini]