Una mattina a scuola…

Le cose che accadono sono molte. Quelle che possono accadere, ancora di più.

Tutto quello che riusciamo a immaginarci è ipoteticamente possibile, il modo in cui potrebbe manifestarsi è addirittura infinito.

Le cose, quando avvengono, si verificano sotto forma di eventi. Di essi ne abbiamo un vasto assortimento: dire «grazie» a qualcuno, regalare un mazzo di fiori, tirare un schiaffo, perdere un treno, rispondere al telefono, scrivere un libro, e così via.

Gli eventi, però, ci fanno pensare. A volte non sappiamo quali siano i loro confini temporali o spaziali, ma siamo certi che sono avvenuti, che stanno accadendo ora o che si svolgeranno nel futuro.

«Federico si è preso il raffreddore!». Sì, ma, quando? Dove?» 

«M’innamorerò!» D’accordo, ma esattamente quando avverrà? »

Un evento può essere semplice, complesso, universale, particolare, ma a fare la differenza è principalmente il modo con cui lo si guarda. È la prospettiva da cui lo spiamo che conta maggiormente.

Evento I, Scenario I, Visione I

Scuola primaria: l’insegnante entra in classe alle 08.25 e termina la lezione alle 12.30.

Ci troviamo di fronte a un unico grande evento, con un inizio e una fine? Davvero possiamo dire che l’insegnante ha fatto lezione in un preciso luogo e in un preciso momento? E quali sono le conseguenze se considero questo evento solo da un punto di vista generale? Di certo perderò una grande quantità di elementi che mi avrebbero aiutato a comprendere meglio ciò che nei fatti è davvero avvenuto nella classe.

Già, ma cosa?

Gli accadimenti, anche quelli più semplici, non sono così innocui se si ha la pazienza di starli a guardare. Se il nostro obiettivo consiste nell’analizzare alcune dinamiche che sappiamo essere comprese all’interno di un certo evento, dunque, dobbiamo guardarci dal semplificarlo. Dobbiamo sostare fra le spaccature delle cose, dei minuti, dei secondi, dei banchi e dei gessetti, per vedere cosa funziona e cosa invece occorre lasciar andare.

Tale atteggiamento ci porta a rivalutare la nostra opinione sull’ordinarietà di certi eventi. Lo scenario I, che credevamo povero di dettagli, è invece un universo d’informazioni fondamentali per chi sa guardare, ovvero per chi sa cosa cercare.

Evento I, Scenario I, Visione II

Scuola primaria: l’insegnante entra in classe alle 08.25 e termina la lezione alle 12.30.

Ma lì dentro vi è un continuo susseguirsi di eventi, di ogni tipo, tutt’altro che slegati tra loro.

A albero, B barca, C camion; la lavagna, prima vuota, ora è piena di regoline scritte.

C’è lo starnuto di Giovanna e c’è Sara che accartoccia un foglio per far canestro nel cestino.

E poi Veronica che presta un colore a Federico, ma ecco un evento diverso dal precedente: quello in cui Federico le  chiedeva in prestito il colore.

C’è Luca che parla ininterrottamente con Vittoria disturbando i compagni di banco, ma anche quello dove, penna in mano e occhi sul quaderno, troviamo tutti i bambini concentrati a svolgere le somme sui loro quaderni a quadretti.

Carolina che dà un pizzicotto a Marco e Marco che scoppia a piangere.

 Daniele che offende i compagni, e quest’ultimi che vogliono che lui la smetta.

 Margherita che chiede di andare in bagno e Lorenzo che si avvicina alla cattedra lamentandosi per il mal di testa…

Tutti questi piccoli eventi sono dei particolari ai nostri occhi. Particolari che in egual misura dovrebbero esser presi in considerazione da chi si appresti a lavorare in classe. L’apprendimento è una cosa seria. Il buon apprendimento lo è ancora di più.

Se è vero che è meno faticoso conservare una visione base di ciò che ci circonda, gustandosi la realtà per eventi generali e separati tra loro (Visione I), è pur vero che ogni maestro che si rispetti non ignora alcun accadimento e come dice (scherzando) ai bambini: ha gli occhi anche dietro la testa! (Visione II).

Giorgia Aldrighetti

[immagine di proprietà di FCB]

L’ambiente ‘Classe’ (E quello che vi sta dentro)

«Ognuno sempre e dappertutto, più o meno coscientemente, impersona una parte… È in questi ruoli che ci conosciamo gli uni gli altri; è in questi ruoli che conosciamo noi stessi»

R. E. Park, Race and Culture

CORNICE2-02

«Che cosa ci fai qua?»

Chiedono incuriosite le maestre a G.

Sono intente a terminare la loro riunione di classe, tutte accerchiate intorno alla cattedra.

G. è appena entrata nella sua II^ B.

Si è scordata sotto il banco il quaderno per svolgere i compiti dell’indomani e la mamma l’ha accompagnata a scuola per recuperarlo.

Sono le 17.00 del pomeriggio e G. non dovrebbe essere lì. La mattina si, ma il tardo pomeriggio no. Effettivamente in quella seconda elementare manca qualcosa di essenziale; le sedie sono vuote e i pavimenti perfettamente puliti. I banchi, allineati e in ordine, non sono ricoperti d’astucci, colori o trucioli di matite e per la stanza c’è un silenzio inusuale.

C’è qualcosa di strano. La classe continua a presentare un tono magico, nonostante la sua funzione mattutina d’apprendimento sia entrata in pausa.

L’aula scolastica, a quell’ora di tardo pomeriggio, senza i bambini, senza la campanella, senza l’ora di matematica e la ricreazione perde la sua normale rappresentazione e G., senza la cartella sulle spalle, mette da parte il suo ruolo d’alunna.

CORNICE2-02

L’idea dell’ambiente “classe” ruota attorno a una serie di simboli che si ripetono ovunque, in qualsiasi scuola, in qualunque città. Riconoscerli aiuta a capire come funzionano le dinamiche scolastiche, le identità che si creano e le rappresentazioni che si inscenano.

La classe non è un “contenitore” assoluto o vuoto, ma presenta precisi confini spaziali. La porta che separa la classe dalle altre, così come il sipario in un teatro, è il simbolo dell’entrata e dell’uscita, del dentro e del fuori, del palcoscenico e del dietro le quinte. Ogni singola componente all’interno di un’aula rappresenta un elemento di un copione; ha la sua storia, la sua funzione, il suo fine.  I muri abbelliti di cartelloni delle tabelline e di lettere, le finestre, la cattedra, i banchi con le sedie: tutto ciò è indispensabile a creare l’ambientazione opportuna.

La campanella suona.

I bambini corrono dentro la porta della propria classe. C’è chi entra per primo, in silenzio, sistemando con ordine le cose sul proprio banco, c’è chi arriva rincorrendosi con qualcun altro e c’è chi viene già svogliato lanciando per terra lo zaino. C’è sempre il ritardatario, l’ultimo ad arrivare, ed ecco che infine il richiamo all’ordine della maestra dà il via allo spettacolo dell’educazione.

Si vengono a creare fin da subito una serie di interazioni che danno libera espressione al Sé di ogni bambino, composto da risa, offese, battute e spirito di narrazione:

«Sai, alla festa di compleanno di mamma…»;

«Guarda, il dente che ho perso ieri…»;

«Maestra, lui mi ha nascosto il colore arancione…».

Molto spesso si celano anche ghigni, sguardi silenziosi, gesti e posizioni del corpo che sanno dire molto di più delle parole. Tutti questi ingredienti mescolati e combinati fra di loro creano dinamiche di classe particolarmente complesse.

Ognuno di noi, inserito in un particolare contesto, personifica un ruolo e anche i bambini, in classe, finiscono per avene uno. Il ruolo, se voluto e sentito limpidamente, può divenire pretesto per esprimere la propria identità al fine di un diretto contatto con le proprie emozioni. Se imposto da qualcun altro si trasformerà però in un fardello da trascinarsi dietro, un compito, un lavoro da portare a termine. Il bambino più introverso, etichettato dagli altri come “il timido”, deve far sì che tutto quello che farà combacerà con l’immagine attribuitogli. Lo stesso vale per “Il maleducato”, “il rompiscatole” “il piagnone”, etc.

Ma la fissazione di ruolo è sbagliata.

I bambini, specialmente, sono in fase di cambiamento continuo e devono sperimentare diversi modi d’essere prima di arrivare a capire chi siano davvero, con l’obiettivo di crearsi una sana e solida identità personale.

Quand’è che a parlare è Lorenzo o il personaggio di Lorenzo? Quand’è che i bambini dicono davvero quello che pensano senza limiti all’immaginazione? Quando, invece, ripetono solo quello che maestri, compagni e l’istituzione “scuola” vogliono sentirsi dire?

Bambini totalmente assorbiti dal ruolo che gli è stato attribuito finiscono per diventare quella cosa, convincendosi di essere davvero così.  Tenderanno a soffocare il proprio vero io, compiacendo l’idea che gli altri hanno.

E in tutto ciò l’insegnante? Quest’ultimo ha un compito molto importante. Deve far sì che i bambini giochino con i vari ruoli senza saturarsi con uno in particolare. L’occhio dell’insegnante è vigile e attento. Lo sguardo, come la luce di un faro, si sofferma continuamente e ripetutamente da un bambino all’altro, senza mai dimenticarsi di tutto ciò che vi sta attorno.

Il bambino deve sentirsi libero di saggiare i propri limiti affinché a emergere e vincere sia l’originalità, non la convenzionalità.

Giorgia Aldrighetti

[Filosofiacoibambini]

La metafora è una cosa seria

Il linguaggio, sia esso verbale o non verbale, è una delle dimensioni della nostra esistenza in cui, volenti o no, costruiamo la nostra identità. Il linguaggio è qualcosa di potente, espressivo, enigmatico e non si può nemmeno ridurre a sola struttura, infatti:

L’uso della lingua non è per nulla l’uso di uno strumento. Viviamo nella lingua come in un elemento, così come i pesci vivono nell’acqua (Gadamer 1990, 89).

Se il linguaggio sta all’uomo come l’acqua sta ai pesci, le difficoltà nascono quando tentiamo di afferrarlo volendo disambiguare qualcosa che per natura è complesso e vago. Se le singole parole sono gli ingredienti per formare frasi e descrivere concetti, accade spesso che non tutte le parole rimandino a un’entità corrispondente; vi è spesso distinzione fra ciò che diciamo e ciò che intendiamo.

eeeUno degli esempi più emblematici, ma allo stesso tempo attraente di tale slittamento semantico, è l’utilizzo della metafora che costantemente intesse il nostro linguaggio. Le persone sono in grado di distinguere una frase spoglia da figure retoriche da un enunciato che invece ne è pieno, tuttavia, non c’è mai un rigido spartiacque che definisca ciò che è metaforico, letterale o convenzionale. Questo accade perché le metafore sono spesso inconsapevoli; le utilizziamo senza rendercene conto e data la frequenza d’uso altissima finiscono per saturarsi nel linguaggio stesso, proponendosi come delle normali accezioni. Eppure, in ambito neuro scientifico, non c’è nulla di più interessante di esse; analizzarle aiuta a comprendere come costruiamo le nostre mappe concettuali (embodied cognition), com’è strutturato il nostro pensiero (frame, image-schema, categorie, prototipi) e come categorizziamo la realtà.

Cosa dire delle metafore utilizzate dai bambini? In che modo le comprendono? Come le producono?

Dove e Quando le usano?

I bambini vengono considerati dei metaforizzatori competenti, ma è solo a partire dalla pubertà che essi iniziano con disinvoltura a utilizzare un complesso linguaggio metaforico (Gopnik). Tuttavia, è ovvio che il terreno viene preparato già tempo prima e durante la fase di acquisizione del linguaggio vengono gettati i primi semi delle connessioni metaforiche.

I disegni dei bambini sono i primi ad abbondare di metafore non-linguistiche; basti pensare a come costantemente personificano gli oggetti materiali utilizzando colori e immagini.

Le metafore linguistiche hanno invece a che fare con l’elaborazione da parte del pensiero e la conseguente risposta verbale. Durante un allenamento linguistico di filosofiacoibambini, giocando con le singole parole, ad un certo punto ascolto una bambina dire: «cose che si rompono, cose che si rompono… Eh, le cose si rompono quando litigano!». Aveva 4 anni e mezzo. “Le cose si rompono quando litigano” è un chiaro esempio di come, in lei, si sia accesa una proporzione semantica. Il litigio, il litigare (con un possibile risultato di rottura del legame sentimentale) – tipico degli esseri umani – viene agganciato “alle cose” concrete e inanimate, come tavoli, sedie, armadi…fcb

La scuola è senza dubbio interessata alla metafora, ma come al solito lo è solo dal punto di vista nozionistico; inseriti in una frase o in un testo i bambini devono comprendere il significato di alcuni enunciati metaforici. Se un bambino riconosce che l’espressione “mi esce il fumo dalle orecchie” va utilizzato in contesti di ira, rabbia o collera allora ha risposto correttamente, altrimenti no. Ma questo, alla lunga, diviene un problema! Si finisce sempre per dare troppa importanza alle metafore convenzionali (quelle che già esistono), tralasciando l’immensa portata di quelle non-convenzionali e creative.

Le metafore creative sono le più genuine, espressione di plasticità mentale, velocità di pensiero e continua connessione tra ciò che è formato e ciò che ancora non lo è. Numerose ricerche dimostrano che la capacità di produrre metafore creative è maggiore nel periodo prescolare e cala drasticamente nel periodo scolastico, quando, imparando le regole grammaticali i bambini cessano di usare metafore creative poiché considerate lessicalmente scorrette. D’altronde, espressioni come “volo a casa e torno a casa subito” o “Pietro è una roccia”, se prese alla lettera, sono logicamente false o come scrive Umberto Eco (1984) “chi fa metafore, letteralmente parlando mente- e tutti lo sanno”.

Ma da parola nasce parola ed è indispensabile incoraggiare i bambini a un vero e proprio viaggio delle parole; quest’ultimo li aiuterà a prendere coscienza di ciò che accade fuori e dentro di loro, mischiando immagini mentali, simboli, ricordi, situazioni esperienziali ed emozioni provate. Non c’è nulla di meglio nello stimolarli a creare connessioni personali e soggettive, nel produrre associazioni scovando il simile nel dissimile, il noto nell’ignoto, l’astratto nel concreto… Il tutto nella maniera più personale e intuitiva possibile. D’altronde, come già ci ricordava Aristotele nella Poetica:

(…) la cosa più importante di tutte è di riuscire nelle metafore. Soltanto questo infatti non è possibile desumere da altri ed è segno di dote congenita, perché saper comporre metafore vuol dire saper scorgere il simile.

Giorgia Aldrighetti (filosofiacoibambini)

[immagine 1 e 3 di proprietà di Filosofiacoibambini, immagine 2 di Katalin Jobbàgy, Three Levels of Metaphor, 2000]

Io cambio

«Lei è chi non è nessun altro»

                  Lorenzo, 10 anniCORNICE2-02

Alla domanda «Che cos’è il Tempo?» Agostino d’Ippona rispondeva: «Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so» (Le Confessioni, libro XI, cap. 14).

Effettivamente più cerchiamo di dare una risposta univoca e definitiva a questa domanda, più stimoleremo una costante “caccia al tesoro”, che non sempre potrebbe andare a buon fine. La trama intessuta di eventi che dà forma a quello che convenzionalmente chiamiamo “tempo” è una delle questioni più annose che rende protagonista la storia della filosofia, ma che inevitabilmente tocca e coinvolge altri campi disciplinari facendosi slalom fra trappole linguistiche, filosofiche e scientifiche che tuttora non smettono di suscitare stupore e curiosità nel lettore.

«Dammi tempo», «Sto perdendo tempo», «Mi sfugge il tempo» sentiamo continuamente uscire dalle bocche delle persone; ma esattamente a cosa ci riferiamo quando parliamo di “Tempo”?

L’interesse sembra coinvolgere non solo adulti, ma anche bambini.

Chi è dunque il tempo?

rrrrrLewis Carroll, chiedendoselo, in Alice’s Adventures in Wonderland non esita a indirizzare la protagonista all’incontro con personaggi dall’identità quasi onirica, enigmatica, ma rivelatoria. Nel capitolo VII la piccola Alice, su consiglio del Cappellaio Matto, è costretta ad “ammazzare” il suo tempo facendolo fermare, come hanno fatto gli altri personaggi, all’ora del tè.

«Penso che potreste impiegare meglio il vostro tempo» non esita a rimproverare la bambina al Cappellaio, spaesata dagli indovinelli senza soluzione continuamente proposti. Ma ecco inesorabile la risposta del suo interlocutore:

«Se tu conoscessi il Tempo come lo conosco io, non parleresti di lui così senza riguardo. È una Persona».

Alice in effetti, non parla e non chiede nulla al tempo; sa solo di doverlo battere studiando musica ed è convinta che l’orologio possa solo segnare le ore e non gli anni, poiché quest’ultimi ci metterebbero molto prima di cambiare. Ancora una volta arriva ferrea la risposta del Cappellaio:

«Ah, questo spiega tutto. Il tempo non sopporta di essere battuto. Ma vedi, se tu ci andassi d’accordo, lui farebbe quasi tutto quel che vuoi con l’orologio. Mettiamo che siano le nove di mattina, proprio l’ora di cominciare le lezioni: basterebbe soltanto che tu gli dicessi una parolina sottovoce, e il Tempo farebbe correre la lancetta dell’orologio in un batter d’occhio! L’una e mezza, ora di pranzo!».

Ma come vivono i bambini il tempo?

Un primo modo è sperimentarlo tramite il gioco. In questo momento il tempo diviene soggettivo e, quasi come un rituale, si trasforma in un esercizio, una ripetizione delle cose fatte durante le giornate: ci si sveglia, si fa colazione, si accudisce qualcuno, si lavora e se è sera si va a dormire… La cosa interessante è il lasso di tempo che intercorre fra questi momenti; durante il tempo di un gioco possono passare tre giorni come due anni, si può diventare adulti in un batter d’occhio o ritornare bambini all’improvviso.

Come affrontare la tematica del tempo in un laboratorio di filosofia?

filobambini1_lachiavedisophiaMolte persone sono convinte che un primo approccio potrebbe essere quello di prendere in esame la parola “tempo” facendo domande dirette ai bambini al fine di coglierne i diversi significati. «Il tempo si vede passare?» «Se ne può misurare il passaggio?» «Il tempo passa per tutti? Per le persone come per gli animali o per le pietre?» «Se non esistessero gli orologi, esisterebbe il tempo?». Tutti questi interrogativi sono senza dubbio interessanti, ma le risposte date saranno risposte convenzionali; i bambini tenderanno a dire quello che l’adulto si vuol sentir dire.

Per questo motivo Filosofiacoibambini sceglie di parlare del tempo indirettamente, non cogliendolo di petto, ma avvolgendolo dall’interno, a partire da una cosa particolare e concreta. Il tempo è, fra le tante cose, una parola vaga, un concetto ambiguo. Abbiamo una buona idea di che cosa voglia dire “essere bambini”, “essere adulti” o “essere anziani” ma ci troviamo in difficoltà nel momento in cui dobbiamo stabilire l’età esatta in cui si transita da uno stadio all’altro. A quale età si smette di essere bambini? A quale, invece, si diventa vecchi? Tutto cambia continuamente e bisogna abituarsi. Difronte al cambiamento non resta che uscire da quelle rigide categorie con cui veniamo etichettati continuamente dagli altri, o da noi stessi. I confini che delineano chi siamo noi e chi sono gli altri sono confini malleabili che cambiano di continuo.

Filosofiacoibambini lavora sul cambiamento temporale non parlando del “tempo” in sé, ma facendo intuire come le cose nel tempo non sono sempre come appaiono. Un bambino o una bambina seduta sulla cattedra, seguita dalla costante domanda «Lui/Lei chi è?», è il pretesto che muove un’ora e più di laboratorio. Con la pretesa di capire chi sia quella persona si vagliano tutte le possibilità che essa può essere: passato, presente o futuro. «È una bambina!», ma lei non è sempre stata una bambina o non lo sarà per sempre; «lei è simpatica», ma non è la simpatia. Siamo simpatici, ma è importante avere la consapevolezza di non doverlo essere sempre. «A lei piace l’hip-hop», ma lei non è l’hip-hop, non gli è sempre piaciuto e se un giorno non gli piacerà più non dovrà aver il timore di cambiare le proprie convinzioni. Questo vale per tante altre cose: sentimenti, colori e tagli di capelli, peso, altezza, stati d’animo, hobby, modi di essere… Si parte parlando di cose presenti per poi arrivare a quelle non più o non ancora presenti. Smontare e rimontare. Giocando simbolicamente con le parole i bambini sperimentano come l’atteggiamento migliore difronte al cambiamento temporale sia quello di non essere confinati entro limiti precostituiti.

Giorgia Aldrighetti

FcB team ricerca

 

Facile o difficile? «Difficile!» (Parte 1)

«Se non vi sono nuove verità da scoprire, ve ne sono di vecchie da riscoprire»
F. Strawson

CORNICE2-02

Se accettiamo che si possa fare filosofia all’infanzia (dai tre, quattro anni), la domanda che segue spontanea è:

«Come?»

«Facile!», dirà qualcuno. «La filosofia dev’essere a portata di bambino», «deve andare incontro al piccolo “filosofo”!», «deve aiutarlo a interrogarsi e capire concetti tanto densi quanto complessi, quali: l’amore, la felicità, la giustizia, l’odio…». «La filosofia deve semplificarsi affinché i bambini abbiano sempre chiaro quello che si andrà a fare, quello che succederà in classe», «…».

Ma cosa vuol dire che “la filosofia dev’essere a portata di bambino”?

Se pensiamo alla filosofia come a una disciplina complicata, che in pochi capiscono e per la quale molti han perso la testa, saremo anche tentati di credere che essa abbia poco a che fare con piccole menti in via di formazione, come quelle dei bambini. Il loro pensiero, malgrado il nostro sincero interesse, lo descriviamo ancora come semplice. Ecco perché chi, nonostante tutto, si lanciasse nell’impresa di portare la filosofia ai bambini si vedrebbe costretto a semplificare qualcosa che per sua natura semplice non è.

Ma che significa “semplificare la filosofia”?

Facciamo degli esempi: prendiamo in considerazione la matematica.

filsofiacoibambini2_lachiavedisophiaEbbene: l’algebra superiore che viene insegnata all’Università è diversa dall’algebra insegnata nei Licei, che a sua volta è diversa da quella insegnata alle Scuole Medie per diversificarsi ancora di più alla Scuola Primaria.

Perché? Perché un’espressione algebrica, come quella affrontata da uno studente di venticinque anni, non può essere portata di fronte a un bambino di dieci anni con lo scopo di “semplificarla”, cosicché la capisca?

Lo stesso vale per le altre discipline, per esempio la storia. Credete che quella insegnata ai bambini alla Scuola Primaria sia una versione semplificata di quella che insegnano quotidianamente all’Università?

No. Perché queste materie non vengono semplificate, bensì adattate all’età e alla preparazione dei soggetti che se ne avvicinano. È per questo che la matematica insegnata ai bambini, prima di portarli ad incontrare i problemi o le espressioni, passa attraverso i concetti di “dentro” e “fuori”, somma, sottrazione, numero… Ecco perché la storia che si insegna ai piccoli non è una versione semplificata di quella studiata dai grandi, ma inizia facendoli abituare al “prima” e al “dopo”.

Adattare è diverso da semplificare. L’etimologia lo chiarifica. Dal latino adaptare, adfine, scopo” e aptareaccomodare, aggiustare”; adattare sta per coordinare, adeguare, rendere atto, connettere mediante proporzione.

Perché questo discorso non sembra valere per la filosofia? Perché essa viene semplificata (male, spesso) e non, invece, adattata?

La filosofia ha poche giustificazioni, dato che per lungo tempo non ha considerato (e tutt’ora non considera) il bambino come un interlocutore degno di essere ascoltato, ovvero come un suo potenziale soggetto di studio. Detto ciò, è anche vero che parte della responsabilità sta in quei coraggiosi che pur essendosi cimentati nella disciplina non sempre l’hanno fatto nella maniera migliore.

A parziale conferma di ciò sta il fatto che tutte le pratiche filosofiche con i bambini, almeno in Italia, non sono riuscite a sedimentarsi nell’ambiente scolastico. Ancora oggi, la maggior parte delle scuole non ha mai avuto contatti con filosofi, né ha mai sperimentato tale pratica. È chiaro che se nel percorso educativo di un bambino ci fosse la filosofia, sarebbe difficile toglierla alle superiori, dove viene fatta sempre meno e dove comunque si declina nella storia della filosofia, che incuriosisce molti, piace a pochi e annoia gli altri.

Tornando a noi, capita di sentirsi dire: «Eh, ma non è facile portare la filosofia all’infanzia!». Ecco, una frase del genere è segno che chi l’ha detta non ha afferrato il punto.

Leggiamo di storie e storielle, di miti della caverna e racconti filosofici rivisitati, il tutto naturalmente semplificato e a portata di bambino. Ma il problema, abbiamo visto, si annida alla base: la filosofia, se si semplifica, rischia di essere banalizzata.

E poi, se vogliamo dirla tutta: «facilitare cosa? E a chi? E per che cosa?».

Ripetiamolo ancora: la filosofia non va semplificata, ma adattata!

Ecco perché filosofiacoibambini agisce con l’ottica della descrizione (qual è la struttura del pensiero dei bambini sul mondo?) e non della correzione o prescrizione (come si può produrre un struttura migliore?). Questo è un punto fondamentale e se ne può leggere chiaramente qua: link.filosofiacoibambini3_lachiavedisophia

Per tali motivi non dovrebbero essere usate né letture dense ontologicamente e nemmeno tematiche tanto affascinanti (amore, amicizia, bello) quanto pericolose (giustizia, bene, male) se trattate nella maniera sbagliata.

Ogni giorno, in classe, Filosofiacoibambini lavora senza bisogno di semplificare, costruendo ad hoc scenari immaginari. Trovando i giusti incastri ed equilibri, Filosofiacoibambini ha capito che la logica (cosa segue da cosa) e l’immaginazione (cosa faresti se…) sono le parole chiave per il futuro dei bambini e per la stessa filosofia.

 

 

Giorgia Aldrighetti
(FcB Team Ricerca, Università di Trento)

Facciamo che io ero un bambino di nove anni…

Serjoza si fece pensieroso, fissando il viso del portinaio già studiato fino nei minimi particolari, e in ispecial modo il mento […] che nessuno aveva visto, eccettuato Serjoza, che non lo guardava mai altrimenti che dal basso.

(L. Tolstoj, Anna Karenina)

Questo non è un autentico punto di vista dal basso, non è il punto di vista di un bambino di nove anni; è il punto di vista di un uomo oltre i quarantacinque che vuole fare il bambino di nove anni. Non siamo in basso, ci siamo abbassati.

Per Tolstoj sono passati trent’anni dall’ultima volta che ha reclinato il collo all’indietro per poter guardare un adulto in faccia. Dopo trent’anni piega le ginocchia, tocca terra e si riposiziona ad altezza bambino, si immedesima.

Facciamo che io ero un bambino di nove anni…

Il punto non risiede nella riuscita o meno dell’illusione. Poco ci interessa. Quel che importa è che a qualsiasi livello l’autore sia stato in grado di immedesimarsi nel suo bambino o nella sua bambina, resisterà sempre una distanza:      

“Il padre gli parlava sempre […] come se lui fosse rivolto a un certo ragazzino immaginato da lui, uno di quelli come ce n’è nei libri, ma niente affatto somigliante a Serjoza. E Serjoza […] cercava sempre di fingersi proprio questo ragazzo libresco.”

L’adulto osserva il bambino dall’alto, con uno scarto di centimetri che non gli è dato colmare e lo renderà per sempre miope. L’adulto guarda il bambino attraverso un filtro, un filtro che ha qualcosa della narrazione: non a caso il padre di Serjoza gli parla come ad un bambino libresco, immaginato.

Ma Serjoza è un bambino libresco e il suo vero padre, l’autore, non può fare altro che investirsi lui stesso nella parte, così come Serjoza cerca disperatamente di fare pur di compiacere le aspettative del padre-maestro.

Il capitolo ci parla dell’educazione di Serjoza. Doppiamente interessante per noi: non solo bambini, ma bambini in classe.

Il bambino di Tolstoj “sprofonda in meditazioni”: cioè, secondo gli adulti che lo circondano, si distrae. Non è un bravo studente, si perde osservando i bottoni sul panciotto del padre e dimentica i nomi dei patriarchi perché Enoch è il suo preferito e “all’assunzione di Enoch vivo in cielo si collegava tutt’un lungo ragionamento” a cui Serjoza si abbandona.

Eppure la sua anima si proclama “colma della sete di conoscenza”.

Secondo gli adulti, il problema è uno: Serjoza è svogliato.

Secondo Serjoza, i problemi sono due: quel che gli viene insegnato e il modo in cui gli viene insegnato. La materia è “inutile”; ma l’attributo “inutile” segue un aggettivo gravissimo: “noioso”. Ciò che gli viene insegnato è inutile poiché noioso.

Ed è noioso perché “il maestro non pensava quel che diceva”: Serjoza lo capisce dal tono con cui pronuncia le parole. “Ma perché si sono messi tutti d’accordo per dire queste cose sempre a un modo?”, si chiede “con tristezza”. Recidere la connessione tra apprendimento e godibilità è un delitto, ci dice Serjoza, ci dice Tolstoj. Riesce ad impedire all’insegnamento di funzionare.

Perciò al di là dello studio della materia, della filosofia coi bambini, indaghiamo a lungo la figura stessa del Filosofo coi Bambini. Il “personaggio”: che si muove, modula la voce, il tono, l’accento, gesticola, controlla ogni muscolo del viso e del corpo – in una parola, recita. Insegnare è un atto di recitazione. Non solo serve a catturare e poi mantenere viva l’attenzione per l’intera durata del laboratorio; nutre la curiosità, la partecipazione, l’entusiasmo, la voglia. Questo presuppone un’enorme quantità (e una particolare qualità) di energia.

Maestri meravigliosi lo fanno continuamente, ovunque. Per poter evitare di scrivere sulle pagelle “è bravo ma non si applica”, si applicano in prima persona. Allo stesso modo, venti Filosofi mettono in discussione il loro lavoro con un allenamento intenso, fatto di sessioni da sei ore e venticinque bambini.

E quando uno dei venticinque si perde, in realtà sono io che lo perdo. Penso a Serjoza e a quanto non possa permettermi di stancarlo, fingendo di non sentire quanto stanca posso essere io stessa di riacchiapparlo, per ogni volta che serve riaccenderlo.

Perché Serjoza è svogliato. Ma lo è soprattutto perché i suoi adulti sono svogliati.

Eugenia Bartoccini

www.filosofiacoibambini.net

«Chi sa, fa. Chi non sa, insegna»

“I migliori maestri sono quelli che ti indicano dove guardare, ma non ti dicono cosa vedere”

            CORNICE2-02

«Chi sa, fa. Chi non sa, insegna».

Questo famoso detto lascia l’amaro in bocca non solo a chi l’insegnamento lo pratica da anni, ma anche a chi si accinge a diventare, col tempo, un buon maestro. Questo detto lascia l’amaro in bocca anche per l’incoerenza presente al suo interno: «chi non sa fare, insegna», come se, insegnare non fosse anch’esso un “fare”, un operare concreto, un agire e, nel migliore dei casi, un creare qualcosa di nuovo.

Dove si insegna? Ovunque. A scuola, in palestra, in un campo sportivo, in aula, per terra… A chi si insegna? A tutti. A se stessi, ai bambini, agli alunni e perfino ai maestri stessi. Chi insegna? O meglio, cosa deve essere colui che insegna?

In ambito scolastico si discute molto su quale sia il profilo del bravo maestro e si investe gran parte del tempo a stilare una lista di buone regole. La pratica dell’insegnamento tuttavia non è una somma di tecniche da riprodurre meccanicamente. Ogni bambino è diverso, ha la propria peculiarità e il proprio tratto distintivo rispetto agli altri, quindi la produzione del suo libero pensiero non è qualcosa di standardizzato.

La figura dell’insegnante è spesso data per scontata. Si può scegliere la classe, la scuola, il tempo pieno o parziale ma il maestro, fin dalla più tenera età, ce lo ritroviamo davanti. Non sarebbe forse più importante sapere più cose possibili sulla persona che starà con i nostri figli per più di cinque ore al giorno, per nove mesi l’anno protratti nel tempo?

C’è da dire che ci sono maestri e maestri. Nonostante l’essenziale versatilità posseduta, un maestro eccellente per una certa fascia d’età non può esserlo, alla stessa identica maniera, per un’altra. Questo perché, ribadiamo, le competenze da far apprendere non sono tutto.

Problemi, addizioni, lettere maiuscole, minuscole e corsivi non sono gli unici frutti che raccogliamo dall’albero dell’istruzione, otteniamo molto di più. La qualità e quantità del raccolto dipenderà, in buona misura, dalla fortuna di aver avuto un buon maestro. Durante i fertili anni scolastici avviene infatti la naturale crescita del  rrbambino. Modi di fare, modi di vivere le emozioni, cambiamenti fisici, sperimentazione delle possibilità, necessità di praticare il dubbio e la coltivazione di interessi personali sono solo alcune delle esperienze che il maestro dovrà valorizzare.

Partendo da questo presupposto, come dovrà muoversi l’insegnante?

Innanzi tutto il saper fare del maestro è l’effetto del suo saper essere. Una sorta di socratico “conosci te stesso”. Il saper fare dell’insegnante è il frutto di anni di esperienza ed affinamento della pratica, affinché possa divenire sempre più efficace. È un saper destreggiarsi nella classe in maniera perfetta. È un camminare per i banchi quando c’è da camminare e uno stare fermo quando c’è da star fermi.

Il saper fare del maestro è studiare il fare dei bambini e guadagnare credibilità ai loro occhi. È possibile osservare molto solo guardandoli! Perché un bambino non parla se a farlo non è prima un suo amico? Perché alcuni tentennano sempre nel dire qualcosa, mentre altri agitano perennemente il braccio alzato pur non sapendo la risposta? Perché molti, quasi vivendo in un’ampolla di vetro, non riescono a gestire i loro sentimenti?

Il saper fare del maestro è accorgersi di tutti questi aspetti. È attendere anche mezzora prima di fare una domanda a un preciso bambino, o di contro, è non lasciare tempi di attesa.

Il saper fare del maestro è coordinare la classe così come farebbe un maestro d’orchestra; far capire con lo sguardo, usare i gesti per richiamare l’attenzione e dare la parola. Il tutto senza mettere in imbarazzo chi sbaglia.

Il sapere fare del maestro è passare ininterrottamente dal semplice al complesso. La classe è la somma dei suoi alunni, ma i singoli bambini (diversi gli uni dagli altri) sono gli elementi che compongono l’unicità di quel gruppo classe.

Il saper fare del maestro è sincronizzarsi sui ritmi dell’ambiente scolastico. La sua voce non dovrà essere piatta e ripetitiva, ma risonante e ritmica. Le parole, immagini e pensieri dei bambini sono simboli che non vanno interrotti urlando o sbattendo la mano contro la cattedra, ma dovranno essere accompagnati finché il loro ragionamento non avrà preso forma.

Il saper fare del maestro….

 

Giorgia Aldrighetti

(FcB Team Ricerca, Università di Trento)

«Facciamo finta che…»

“Così il nostro gioco non finiva mai, e neppure ci veniva a noia, perché ogni volta che ci ritrovavamo con atomi nuovi ci pareva che anche il gioco fosse nuovo e quella fosse la nostra prima partita.”

(Italo Calvino, Giochi senza fine)

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bambini

Armano soldatini di ferro e li preparano alla battaglia, fingono di mettere a bollire l’acqua sul fornello di plastica e accomodano sulle seggioline gli amici peluche per prendere il tè delle cinque. Usano pentole capovolte e con bottigliette schiacciate compongono note musicali; allestiscono pareti di cartone – attaccate con il nastro adesivo – e le decorano con i pastelli per poter mettere in scena il loro spettacolo…

«Stanno solo giocando» si sente ingenuamente uscire dalle bocche delle loro mamme, senza pensare che in quel “solo” si nascondono un’infinità di mondi fantastici che sono lì, ad attendere che qualcuno li veda, li scopra e li sperimenti tramite, appunto, il gioco. I bambini sanno distinguere perfettamente la sottile linea che differenzia la realtà dalla finzione, divenendo esperti attori e attrici nell’interpretare i giochi della loro fantasia.

Il gioco, tratto distintivo dell’infanzia, è un simbolo che porta alle spalle secoli GIOCOdi storia e – tra un nascondino, una finta festa di compleanno e un facciamo finta di… – si svelano le più veritiere immagini archetipiche. Nel gioco simbolico si è al contempo se stessi, ma anche “altro”. Durante il tempo di un gioco si sperimenta tutto ciò che l’adulto realizzerà nel corso della vita. Ci sarà complicità e cooperazione, solitudine e allontanamento, sfida, inganno, imitazione, sottomissione alle regole, ma anche ribellione e fuga. Ci sarà il tentativo di dar senso alle regole morali della vita collettiva del mondo reale, ma anche la destrezza di modificare a proprio piacimento le “regole del gioco”.

È raro sentir dire dai bambini “non    voglio giocare”, ma tuttalpiù si sentirà un “non voglio più giocare a questa cosa”. Ed ecco che continuamente si passerà da un gioco all’altro, riadattando la scenografia e mettendosi addosso la pertinenza del nuovo personaggio da far entrare in scena.

I bambini sanno perfettamente giocare da soli e creano da sé ciò di cui hanno bisogno; ecco perché non esitano nemmeno un secondo a far di un cucchiaio uno specchio. Ma i giochi sono anche strumenti creati dagli adulti per i bambini; ed è qui che nasce l’eleganza e lo stile della costruzione. Prendi un gioco, osservalo attentamente, scrutane i dettagli e scoprirai se il fine per il quale è stato creato è riuscito nell’intento o no.

Appare infatti che lo scopo per il quale vengono creati i giochi sia cambiato. Sembra che l’essenzialità della funzione simbolica sia passata in secondo piano e anziché creare giochi “aperti” che stimolano fantasia ed esplorazioni possibili, se ne creano altri “chiusi” che obbligano a godere dell’acquisto in un’unica maniera.

Entrare in un qualunque negozio di giocattoli, per un bambino, è sempre un’esperienza fantastica e ricca di stupore; tutte quelle cose in vendita lo fanno viaggiare in un universo di possibilità non ancora realizzate. Ma l’adulto dovrebbe far attenzione alla qualità e alla quantità del messaggio ludico. Scatole grandi per giochi piccoli; plastica e cartone che una volta scartati fanno tenere il giochino nel palmo di una mano. Alle sfumature tenue, calme e rilassate prendono il posto colori sgargianti che attirano immediatamente, ma al contempo inquietano, agitano e ben presto stufano. Costruzioni con le quali costruire l’impossibile, ma accompagnate da foglietti illustrativi che spiegano step by step che cosa montare e che cosa tralasciare. Bambole che danno ben cinque risposte diverse, ma ci obbligano a fare solo cinque domande. Giochi talmente pieni di dettagli e particolari che si fatica perfino a capire cosa si potrebbe aggiungere o togliere. Personaggi dall’identità e caratteri perfettamente delineati che fanno dire: «io sono così, punto». Catturano l’attenzione, ma chiudono l’immaginazione.

Non c’è nulla di diverso fra due bambini che fingono di esser pesci e vivere in fondo al mare, a un adulto intento a scrivere un romanzo d’avventura. O ancora, da una ragazza, seduta sul divano, che immagina cosa sarebbe successo se fosse uscita di casa quella sera. In tutti questi casi si vagliano situazioni possibili e controfattuali, per poi decidere il da farsi. La differenza è che i bambini, con il gioco, possono permetterselo di farlo sempre. Perché quello è il loro “lavoro”. E l’adulto che ben volentieri usa timbri di voce poco melodiosi – quando non se ne presenta assolutamente la necessità – non dovrebbe interrompere la magia e l’autonomia di quel fervore giocoso. Non dovrebbe ostacolare i bambini con comandi del tipo: “No, sbagli!”, “Non devi!” o “Fai così”; e nemmeno col ricatto del “Continua a farlo e non ti compro quella cosa”.

È facendo così che, la suggestione data dal loro facciamo finta di finirà per sbiadire…

Giorgia Aldrighetti (FcB Team Ricerca, Università di Trento)

«Maestro, arrabbiarsi tanto fa male alla salute» (Il violoncellista Gōshu, Miyazawa Kenji)

<p>Filosofiacoibambini</p>

A scuola si fantastica. Elémire Zolla precisa: «si è condannati a fantasticare» (Storia del fantasticare, 1964). Nelle classi piene di cartelloni, mattonelle, polvere di gesso; lungo i corridoi semideserti o invasi da improvvise quanto attese ricreazioni; nei giardini dove si corre, ci si afferra, si scava e più raramente si trova qualcosa; davanti alle macchinette del caffè o nell’ufficio del Dirigente Scolastico.

Ma nessuno fantastica impunemente, né a scuola, né da nessun’altra parte. È così, punto e basta. È così anche se nessuno ce l’ha mai detto. Come la gravità: funziona anche se non siamo d’accordo. Anche se nessuno ci ha mai fatto assaporare la differenza che corre tra fantasia e immaginazione. Anche se ci hanno riempito le orecchie di parole quali “creatività”, “ingegno” e via di seguito, come se sapessero di cosa si tratta. Si parla di “fantasia”, si chiacchiera di Arte, si finge di sapere cosa sia Poesia, dimostrando abilità, educando alla profondità (ma che sia straordinaria, nientemeno). Ma la vita è la verità. E la vita è Campanella che alza la mano. E «subito altri quattro o cinque scolari lo imitano. Anche Giovanni sta per farlo, ma la sua mano si ferma a mezz’aria» (Una notte sul treno della Via Lattea, Miyazawa Kenji). La verità delle cose piccole. La verità dei piccoli. La loro e basta.

Banalizzare la filosofia, idealizzare il bambino, mercanteggiare sul prezzo di un’attività che non ha prezzo. Si tratta di una pratica indispensabile, punto. Un momento tranquillo, durante il quale sedersi a inanellare pensieri colorati su fili resistenti ai rovesci della vita. Sono bambini è vero. Ma sono anche le persone più intuitive, suggestionabili, immaginative, divertenti e allegre del pianeta. Se non loro per primi, chi altro dovrebbe mettersi a riflettere su ciò che ci circonda? E sugli abissi e le vette che ci attraversano?

La filosofia coi bambini non si impara. Alla filosofia coi bambini si può venire semplicemente introdotti. La porta che affaccia sul giardino è socchiusa. Nessuno è lì ad aspettare. Varcando la soglia, da soli, si nota come ogni foglia, ogni rametto, ogni granello di polvere si trovi sistemato con cura. I bambini sono già filosofi. Ce lo ricorda Epicuro, di cui si narra che, piccolo, stanco dei maestri, si avvicinò all’arte marziale del pensiero.

Alla filosofia coi bambini si arriva percorrendo sentieri tortuosi di bosco. Ma anche lastricati semplici, autostrade. Quando poi la si osserva, è come vedersi spalancare davanti agli occhi la porta della camera dei tesori. Il filosofo è concentrato, presente. Le lusinghe lessicali, le belle frasi, le facili conclusioni non lo abbacinano mai, neppure di striscio. A lui interessa che l’arte venga praticata e che l’allenamento prosegua senza sosta. Anche perché di risultati in filosofia non v’è traccia e la più grande soddisfazione resta racchiusa, da sempre, nel dimostrare d’essersi irrimediabilmente sbagliati. Beato colui che dopo aver costruito con cura il castello di carte della sua conoscenza alla fine saprà ribaltarlo con un soffio di mano!

Filosofare, filosofeggiare. Che brutte parole. Star seduti a raccontarsi i propri pensieri, dentro bar o sale da tè. Primedonne che a poco a poco prendono la parola argomentando, anzi, filosofando sui perché, sulle cause (finali, semmai efficienti, di sicuro mai materiali). E il discorso che vira inesorabilmente sul vago. E vagheggia la giustizia, l’amore, l’amicizia, la lontananza, il sacro, il profano. Chiaroveggenti in fila per venire illuminati dalla grazia di un riflettore. Per non parlare di quanti, con la scusa di saper leggere una storia, s’improvvisano a far domande ai bambini. Nervosi personaggi, madonnari disabbigliati, apprendisti lanciatori di coltelli dalla punta arrotondata.

«Maestro, arrabbiarsi tanto fa male alla salute». È vero. Ma l’universo, pur obbedendo all’amore di quanti (e sono tanti) si spendono per un’estetica dell’insegnamento, andrebbe comunque sarchiato, innaffiato e liberato dalle foglie vizze. Il castello di carte cadrà, comunque, allo scoccare della prima risata sincera. Su questa certezza fondiamo il futuro e ci alleniamo a essere filosofi e maestri, attenti all’altrimenti e non paghi del quieto vivere.

Carlo Maria Cirino 

Filosofiacoibambini

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Perché Filosofiacoibambini?

Nel leggere un post sul web intitolato “La filosofia nella scuola elementare” decido di farne una veloce Sentiment Analysis per vedere le opinioni degli utenti. Scorro i commenti che dimostrano curiosità, interesse e fiducia nel progetto, leggo con perplessità le opinioni sarcastiche, passo i commenti polemici e poco pertinenti dettati dalla non lettura informata del post e infine mi soffermo su quelli critici. In quest’ultimi scorgo più che altro paura, insoddisfazione, divergenza di vedute e poca chiarezza rispetto a cosa voglia dire effettivamente portare la filosofia all’infanzia.

FilosofiacoiBambini non è la sola pratica filosofica che si occupa di ciò, ma è quella che più mi sento di portare avanti. Vediamone alcuni punti.

#1 FILOSOFIA? BAMBINI

La questione del linguaggio è una tematica che mi sta particolarmente a cuore. Scrive M. Black “se la grammatica ci insegna qualcosa di filosoficamente rilevante bisogna trattarla con maggior rispetto”. C’è, infatti, un forte dibattito dettato dalla necessità di trovare quel termine corretto che unisca la parola “filosofia” ai destinatari di tale pratica, ossia i bambini. Ecco perché nel punto di domanda in #1 si troveranno varie preposizioni, ognuna delle quali, volta a sottolineare alcuni aspetti ed escluderne altri. Non posso fare a meno di notare che spesso la differenza terminologica altro non è che una presa di posizione, con il solo fine di differenziarsi dagli altri “addetti ai lavori”. In linea con M. Black mi sento di dire che il linguaggio, rappresentando la realtà, è parte della realtà esso stesso; le terminologie utilizzate non devono perciò avere pretese universali e metafisiche. Importante è adattarsi alle regolarità e irregolarità che l’esperienza ci fa scoprire, quindi è necessario che la lingua sia idonea a esprimere ogni cosa com’è o come potrebbe essere.

#2 APERTURA ALLA RICERCA

Martha Nussbaum nel volume Non per profitto parla di uno squilibrio tanto dannoso quanto attuale: la crisi mondiale dell’istruzione. A sottolineare il disagio di tale situazione sono le parole che accompagnano il suo discorso: “crisi strisciante” e “crisi silenziosa”. FilosofiacoiBambini, consapevole di ciò, pur agendo in svariati contesti, privilegia lo svolgimento della pratica filosofica nelle scuole (dall’infanzia alla primaria), che restano le migliori palestre per la mente. Proprio nella scuola dovrebbe esserci la costanza di portare avanti un percorso ben strutturato per vederne gradualmente i frutti. Le varie situazioni non sono sempre uguali; si incontrano sempre difficoltà nel momento in cui setting rigidi non si aprono alla fiducia del rinnovamento. Dietro ai laboratori svolti c’è una strutturata ricerca sperimentale – da parte di persone motivate e preparate – volta a osservare molte variabili, tra cui: diverse personalità nelle classi, componenti emotive, tendenze comuni, standardizzazione delle risposte, linguaggio usato, tipologie di ragionamenti, velocità di feedback, dinamiche di gruppo, etc. Il tutto viene monitorato con video, appunti e altro materiale. Ci teniamo costantemente aggiornati, progettiamo, sperimentiamo allenamenti nuovi con il fine di diffondere il metodo utilizzato in più luoghi possibili; scriviamo, partecipiamo a convegni e conferenze per presentarne i risultati.

#3 SHARING FILOSOFICO

In un mondo connesso, lo è anche la filosofia. Creazione, condivisione e diffusione sono tre parole chiave che FilosofiacoiBambini cerca di realizzare al meglio. L’accelerazione

delle dinamiche sociali nell’era dei social media porta con sé nuove esigenze e nuovi bisogni di comunicazione. Per esempio, visitando quotidianamente la pagina Facebook, Twitter e sito web, i genitori, gli insegnanti, o chi semplicemente è interessato potranno avere piccoli scorci su che cosa effettivamente si fa in classe. Si cerca di rendere fruibile, in tempo reale, le esperienze che quotidianamente sperimentiamo pubblicando post, articoli, aggiornamenti sugli spostamenti dell’associazione, riflessioni, foto, pensieri, informazioni logistiche, squarci di laboratori e così via. La velocità e la praticità dell’online permettono di cogliere al balzo varie tipologie di feedback da parte degli utenti e quindi gestire al meglio il passaggio funzionale di informazioni.

#4 RICETTIVITA’ AL CAMBIAMENTO

Rivoluzione è anche Evoluzione. È necessario essere ricettivi nel senso etimologico di “atto a ricevere”; capire quello che è stato per reggere bene le nuove esigenze. Fare filosofia coi bambini equivale a captare il cambiamento del tessuto sociale in maniera critica; i bambini di oggi non sono più quelli di ieri, non guardano più gli stessi cartoni animati, i giochi sono cambiati, le relazioni anche, le esperienze quotidiane sono più che mai diversificate e gli input che ricevono sono triplicati. Bisogna capire quali sono i nuovi bisogni in modo tale da lavorare qualitativamente su essi. Per fare ciò, è indispensabile includere nello studio tutte le varie realtà che circondano il bambino; da qui la necessità di una formazione rivolta anche agli insegnanti e ai genitori.

#5 PRATICA DI CREATIVITÀ

Leggendo i commenti del post di cui parlavo all’inizio mi soffermo su: “insegnamento che a quell’età sarebbe assurdo”, “fughe in avanti”, “creazione di una generazione di disadattati”. Vorrei rispondere che la pratica filosofica rivolta all’infanzia non è una filosofia dell’ipse dixit, non è sostituzione ad altre materie, ma integrazione e ampliamento; non è settorialità di vedute, ma apertura interdisciplinare a 160 gradi, non è ragionamento astratto, ma dialogo e ascolto sulle cose “a portata di bambino”; essa non è necessaria ma possibile, quindi realizzabile. In questo modo i bambini si abituano al pensiero logico, a quello trasversale, migliorano le funzioni esecutive, verbalizzano concetti, collegano campi semantici diversi, dimostrano capacità di problem solving e spesso li ritroviamo a ragionare “in team” nel momento in cui prendono decisioni comuni. Essendo liberi di pensare, diventano liberi di agire.

Carlo Maria Cirino -filosofiacoibambini

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