La “casa” che Bruno Ganz ha costruito

«Mettiamola così: pochi fanno tutto il viaggio senza proferire verbo. Le persone sono sopraffatte da una voglia strana e imminente di confessarsi in queste situazioni. Tu procedi pure allegramente ma non credere che mi dirai qualcosa che non ho già sentito prima». Inizia con queste parole il nuovo film di Lars von Trier e, non  a caso, a pronunciarle è l’attore svizzero Bruno Ganz in uno dei suoi ultimi ruoli prima della morte, avvenuta a Wädenswil, in Svizzera, lo scorso 16 febbraio.

La casa di Jack (in uscita al cinema giovedì 28 febbraio) non è un film come tutti gli altri. La recente dipartita dell’attore svizzero lo ha trasformato in una sorta di testamento cinematografico che ci permette di capire ancora più a fondo la grande importanza che Bruno Ganz ha avuto per il cinema contemporaneo. In La casa di Jack l’attore svizzero interpreta Verge, enigmatico Virgilio dei nostri tempi, il cui compito è quello di indurre alla catabasi l’anima di Jack, metodico serial killer interpretato da Matt Dillon alla ricerca continua di un ideale di perfezione estetica generata dall’orrore. Bruno Ganz ascolta e commenta con misurato distacco il racconto di una vita segnata dall’efferatezza, sempre giustificata dalla speranza di un fine superiore, mirato a raggiungere il Sublime attraverso la violenza.

La casa di Jack, per essere raccontata, dovrebbe riempire interi trattati di cinema. Nelle immagini di von Trier continuano a coesistere genio e follia in maniera così razionale e perfetta da diventare disturbante. In questa discesa negli inferi della psiche umana, Bruno Ganz si inserisce alla perfezione come un indimenticabile co-protagonista, in un ruolo capace di diventare simbolo di un’intera carriera. Figlio di un operaio svizzero e di madre italiana, Ganz ha debuttato al cinema nel 1960 con il film Der Herr mit der schwarzen Melone dimostrando fin da subito il suo talento. Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders è il capolavoro che lo consacra in tutto il mondo mentre, soprattutto in Italia, deve gran parte della sua fama al film Pane e tulipani di Silvio Soldini e all’interpretazione di Adolf Hitler ne La caduta di Oliver Hirschbiegel. Grande amante del teatro di Bertolt Brecht, Bruno Ganz ha sempre incarnato la figura di un attore che oggi si fatica a trovare in giro. Maschera enigmatica immediatamente riconoscibile, è stato in grado di spaziare dal comico al tragico, dai ruoli di comprimario al talento di sostenere un intero film sulle sue spalle. Mai classificabile come un “tipo”, sempre pronto a lasciare il segno sulla scena anche quando era chiamato a interpretare ruoli di pochi minuti come comparsa. La vita e le opere di Bruno Ganz dovrebbero guidare i nuovi attori del cinema emergente verso la consapevolezza di come si possa essere misurati e incisivi al tempo stesso, divertiti e malinconici in pochi sguardi. Opposti che danno vita a una carriera in cui non è l’attore a diventare immortale grazie a un personaggio, ma sono i ruoli che ha interpretato nel corso di una vita intera a renderlo imperituro. La casa di Jack ce lo ricorda in maniera ineluttabile, regalandoci un’ultima grande prova di cinema attoriale ormai fuori dal tempo.

 

Alvise Wollner

 

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Il vero motivo per cui l’ecologismo-ambientalismo fallisce

Rimango sempre sorpreso quando parlo con qualcuno dell’ambiente e delle cosiddette crisi che lo riguardano. Penso sia un dato percettivo comune quello di essere colpiti da quanta poca curiosità suscitino nelle altre persone queste tematiche, sempre che si possegga una sensibilità tale da permettere il sorgere di queste riflessioni. Ma non è questo ciò che mi sorprende. O meglio, ciò che mi sorprende è la causa del disinteresse comune nei confronti di quelle questioni.

Se volgiamo il nostro sguardo alle più grandi campagne di sensibilizzazione ambientale o alle semplici dissertazioni di un qualsiasi ecologista ci rendiamo immediatamente conto di come la tecnica argomentativa sia miseramente fallace. “Salviamo il pianeta”, “Difendiamo l’ambiente”, “Aiutiamo il mondo”. Tutti slogan condivisibili ma inutili, perché presuppongono qualcosa che non si può far finta di non accorgersi mancare se non in tutti almeno in molti: la sorgente empatica.

Si fa presto a dire che l’empatia sia assente nelle persone ma ciò che è necessario fare è chiedersi il perché di questo difetto. Io credo che l’empatia sia connaturata all’uomo; questo significa che ognuno la prova, dal medico volontario in Africa al comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Ciò che è diverso nelle persone, quindi, non è tanto il fatto di provare o meno empatia ma la situazione in cui scatta questo meccanismo.
Cos’è l’empatia? Cerchiamo su Google: Wikipedia sentenzia che è la «capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui», definizione deludente. Treccani già si dà più da fare: «Capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro». Ma è – a sorpresa – il dizionario di Google a cogliere meglio la questione: «In psicologia, la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva». Da questa definizione possiamo ricavare due lezioni. Innanzitutto il fatto che colui verso il quale possiamo provare empatia non è un generico “altro” ma «un’altra persona»; in secondo luogo, il fatto che provarla non significa automaticamente mettere in gioco dei sentimenti o delle emozioni.
Colleghiamo ora tutto ciò con la nostra questione.

Per quel che riguarda la prima lezione, pensare di coinvolgere chiunque attraverso l’empatia nei confronti di qualcosa senza trasformare questo qualcosa in un qualcuno, crea una situazione nella quale si richiede uno sforzo al destinatario del messaggio che non tutti sono disposti o in grado di fare.
Per la seconda, anche se quello primo step funzionasse, non si è ancora coinvolto emotivamente l’interlocuture, ma lo si è solamente interessato alla questione. Perché all’empatia segua un movimento emotivo di “avvicinamento” credo sia necessaria l’educazione.

Combiniamo ora le due: credere di riuscire a coinvolgere qualcuno facendo provare “pena” nei confronti di qualcosa ottiene l’esatto opposto: il totale disinteresse.

Ma non è ancora questo ciò che mi sorprende. Se scaviamo ancora più a fondo possiamo raggiungere quello che è il punto nevralgico della questione: l’egoismo. Non siamo abbastanza egoisti.
Potrebbe sembrare una frase paradossale e provocatoria ma non è assolutamente così. A ben guardare, infatti, ogni tentativo di salvare il pianeta, l’ambiente, il mondo altro non è che un tentativo – in ultima istanza – di cercare di mettere in salvo la nostra pellaccia. Ed è proprio su questo perno che bisogna far leva. Perché, in realtà, ciò che tutti – tutti – abbiamo a cuore di salvare non è quella particolare specie di animale, di pianta, quella particolare foresta, quel tratto di mare, l’ambiente, il mondo, ma noi stessi.
Inoltre, alla Terra, presa per se stessa, credo che poco importi dei cosiddetti “danni” operati dall’uomo: il pianeta che abitiamo si stima essersi formato circa 4,5 miliardi di anni fa. Ha sopportato – per quello che sappiamo – eruzioni vulcaniche inimmaginabili, piogge di meteoriti, sconvolgimenti superficiali, e non, devastanti; credere che noi possiamo danneggiarlo mi fa sorridere per quanto ci sovrastimiamo: non dobbiamo salvare il mondo, dobbiamo preservare noi stessi.

Rendersi conto che la propria vita è in pericolo: questo sì che ci smuove, purtroppo. Dico purtroppo per un motivo, egoista anche questo. Siamo talmente poco empatici ed educati alle emozioni che nemmeno l’idea di altre persone fa nascere in noi un sentimento di vicinanza e di aiuto. Questo significa che neanche la razza umana può essere un motivo di cambiamento di comportamento, ma neppure i nostri connazionali o il nostro vicino; nemmeno i nostri figli. No, neanche loro: distruggere l’ambiente significa creare condizioni peggiori per le future generazioni ma non mi pare che questo faccia la benché minima differenza.

Dovremmo essere più egoisti in quanto specie. La specie umana dovrebbe essere più egoista e pensare più a se stessa. Non per il rinoceronte, non per la tigre, non per le foreste, non per gli oceani ma per i nostri stessi figli, per noi stessi. Salvare l’ambiente significa salvare noi stessi, togliamo questo adesivo che abbiamo appiccicato sopra la verità e mostriamola! Magari con vergogna (per qualcuno necessariamente con vergogna) ma questa è la realtà. Meno individualismo e più collettivismo; si potrebbe dire meno nazionalismo e più internazionalismo, forse, intendendo con nazionalismo un singolo Individuo nazionale; ma questa è un’altra storia.

Ultimo appunto: fortunatamente, altre specie possono beneficiare di queste considerazioni, se messe in pratica. Questa è un una cosa fantastica – che ci dice molto su quanto la natura sia collegata tra le sue parti – che io personalmente valorizzo enormemente. Anzi, qualcuno potrebbe addirittura agire per altro oltre che per l’uomo ma non possiamo pretendere che la maggior parte agisca in questo modo. Non con questa società. Non con questi ideali. Non in questo tempo.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Photo credit qinghill]

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Il denaro non dorme mai: la filosofia della finanza

«Il denaro è una puttana che non dorme mai! È gelosa, le devi dare attenzioni e se non stai attento, un giorno ti svegli e non la trovi più»1.
Come può esserci filosofia dove tutto è accrescimento di potere, irresponsabilità e minimo senso morale come nella finanza? Ci dovremmo chiedere cosa sia in effetti la filosofia, ma diventerebbe un discorso troppo articolato.

La finanza, essendo una appendice dell’economia reale, o almeno così nacque a metà Seicento e ufficialmente nell’Ottocento, ha una propria linea di pensiero. Molte sono le teorie d’applicazione alla realtà, da utilizzare come facciata rispetto al rigoroso sistema di numeri su cui si fonda.
Una delle più spietate e contradditorie è rappresentata dall’economista Friedman2, e interpretata a livello cinematografico da Gordon Grekko in Wall Street: i soldi non dormono mai del 1987:

«È vostra la compagnia, è vero, vostra di voi azionisti, da voi fregati da questi burocrati e i loro pranzi d’affari e liquidazioni d’oro. La Tender Carta ha 33 vicepresidenti acquisiti e ognuno guadagna oltre 200.000 dollari l’anno, io ho passato gli ultimi due mesi ad analizzare cosa facciano tutti e ancora non riesco a capirlo. Sembra la sopravvivenza degli incapaci. Per me o si funziona o si è eliminati […]. Io non sono un affossatore di compagnie, ne sono piuttosto un liberatore»3.

Il paradosso, nella prima fase del discorso tenutosi davanti a centinaia di azionisti dell’azienda Teldal Carta con la presenza dei vicedirettori, risiede nel tentativo da parte del protagonista di ribellarsi all’élite. Quelle che ora appaiono le vittime di un gioco truccato, diventeranno a distanza di pochi anni i peggiori criminali dell’alta finanza. Una rivoluzione da un sistema ingiusto ad un altro ancora più ingiusto, ma quanto meno diverso.
Così ci viene proposto, ma forse è meglio lasciare da parte i giudizi morali e concentrarci su le dinamiche interne.
Il punto focale risiede nel cambio di testimone: se prima l’azienda apparteneva alle cariche istituzionali, ora passa nelle mani degli azionisti, cioè di coloro che immettono nel sistema produttivo risorse finanziarie, credendo che l’azienda possa crescere. Una sorta di scommessa che può produrre ricchezza contingente a proprio rischio e pericolo. Loro dovrebbero essere riconosciuti, sempre secondo tale filosofia, come i veri proprietari dell’azienda, seppur vengano messi da parte ancora una volta gli operai che hanno la funzione di far muovere la ditta specifica sui binari reali.
Poi l’affondo finale:

«Il punto centrale è che l’avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l’avidità è giusta, l’avidità funziona, l’avidità chiarifica, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo. L’avidità in tutte le sue forme: l’avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha improntato lo slancio in avanti di tutta l’umanità. E l’avidità, ascoltatemi bene, non salverà solamente la Teldar Carta, ma anche l’altra disfunzionante società che ha nome America»4.

C’è un cambio di precetti morali. L’avidità risulta essere la base per ogni forma di aspirazione nel lavoro come nella vita. È forse avido di sapere il filosofo? È forse avido d’amore l’amante? È forse avido di competenze il cadetto? Siamo forse tutti avidi di vivere?

Comunque sia nella teoria di Friedman potremmo aggiungere che, diminuendo i poteri e i compensi dei capi che avevano solo una funzione di rappresentanza, le azioni avrebbero potuto salire aumentando di conseguenza i profitti degli azionisti. Infatti, tramite i dividendi che si basano su l’andamento delle quotazioni ovvero su la loro conseguente attrattiva di nuovi azionisti, avrebbero portato un bottino sempre più abbondante. È come allungare con l’acqua la limonata per poterne vendere di più, abbassando i costi di produzione.
Il problema sorge nel momento in cui non ci sia freno all’ingordigia. Quando non si contano più i danni diretti o indiretti provocati a lavoratori, ambiente o alla stessa azienda a lungo termine.

Un’altra conseguenza è la diminuzione degli investimenti per innovazione e sviluppo della stessa azienda. I fondi per ricerche e accrescimento infatti, verrebbero meno come successe ad alcune realtà economiche, dato che la percentuale maggiore dei ricavi andrebbe come premio agli investitori delle quotazioni. Il danno ricadrebbe a discapito dei nuovi orizzonti di investimento e di occupazione, unici fattori tra l’altro per imprimere effetti positivi su l’economica reale.
Non è un caso che il mito secondo il quale più il mercato azionario cresce più l’economia ne beneficia è stato smentito negli ultimi anni, soprattutto dopo la crisi del 2008 e dopo una scrupolosa comparazione tra salari e andamento dei consumi rispetto alla crescita delle quotazioni finanziarie. È vero piuttosto il contrario: quando la borsa crolla, la segue a ruota l’apparato economico.
I diritti degli azionisti risultano così squilibrati rispetto al peso della bilancia e la ricompensa per il rischio assunto nell’investendo risulta altamente iniquo.
Un nuovo squilibrio dunque che ci porta al punto di partenza.

Forse, il problema alla base di tutto è la stessa merce di scambio ovvero il denaro. Locke ad esempio, un pensatore inglese di fine ‘600, lo descrisse come un tacito accordo che fece dell’ineguaglianza una invenzione dell’uomo e non della natura. Per Gekko è solo qualcosa che non si vede, dove qualcuno vince e l’altro perde. Il denaro in questo caso né si crea, né si distrugge. Semplicemente si trasferisce da una intuizione ad un’altra, magicamente. E il capitalismo è il suo massimo.
Fortunatamente non è solo una questione di economia ma anche di legge: cambi la legge, cambi l’andamento.

Infine, c’è da chiedersi se è solo avidità personale di denaro o desiderio di accumulo illimitato la motivazione verso tutto questo. Ancora una volta Gekko risponderebbe al di là del senso comune:

«Non sono importanti i soldi, è la competizione. È giocare la partita e vincere. È solo questo»5.

Peccato che sia solo un film, e non la vita reale.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE
1-3-4-5. Citazioni dal film Wall street, 1987, regia di Oliver Stone.
2. Milton Friedman, Brooklyn, 31 luglio 1912 – San Francisco, 16 novembre 2006: economista statunitense, esponente principale della scuola di Francoforte.

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