La scrittura come “ars combinatoria”. Trinomi fantastici per situazioni insolite

I bambini di 5a E sono disposti a cerchio, seduti sui tappetini della palestra. Ognuno estrae dal quaderno un foglio bianco su cui scrive tre parole. Sono parole casuali, le prime che vengono loro in mente dopo l’ascolto di una storia filosofica. Pentola, ombra, nuvole. Lista, pensiero, cosa. Ontologo, quadri, campanello. E così via.
Giada ha scritto le tre parole in un batter d’occhio e, dopo averne ritagliata una, si alza in piedi. Le diamo un grosso gomitolo rosso che all’estremità esterna ha legato un sassolino blu. Giada posa il sassolino sul suo tappetino e, lentamente, srotola il gomitolo attraversando il cerchio, fino ad arrivare da Elisabetta, che nel frattempo si è alzata. Elisabetta riceve da Giada la parola ritagliata, lascia il suo posto a Giada e ripete l’operazione: srotola un altro po’ di gomitolo e porta una delle sue tre parole a Giacomo. Giacomo, a sua volta, porta una parola a Jamal, questo ne porta una ad Alice e così via, finché l’ultimo compagno torna al sassolino blu.

I bambini, che hanno letto la nuova parola ricevuta, sciolgono il cerchio e si disperdono ai confini della palestra, dove iniziano a pensare. Inventano una breve storia, con quelle tre parole, e la scrivono sul quaderno.
L’ombra della cosa. Una cosa gigante e terribile faceva un’ombra sul pavimento di quella stanza semibuia. Io tremavo come una foglia. Mi feci coraggio e presi la matita con la punta affilata e andai di là. Dietro quell’ombra gigante e terribile si nascondeva un’enorme… pentola.
Ma che fifone, Giacomo! Hai paura di una pentola? Senti un po’ cosa ho scritto io – prosegue Giada – Nella mia testa ho tanti pensieri, una lista di pensieri. Penso alle cose spaventose come i draghi, i serpenti, i fantasmi. Penso alle cose divertenti come le caramelle, i coriandoli, le feste di compleanno. Penso alle cose noiose come pranzare con le zie, fare i compiti, guardare i quadri alle mostre.
– Adesso tocca a me, sentite! – irrompe Alice – Quando l’ontologo suona il campanello di casa sua, nessuno gli apre. Beh certo, vive da solo! A volte ha proprio la testa sulle nuvole.

I bambini della 5a E leggono a turno e ridono insieme.

Inventare una situazione a partire da tre parole è un tipico esercizio di scrittura creativa, una sorta di “attrezzo da ginnastica per le idee” che, tra gli altri, viene proposto anche dalla giornalista e saggista Annamaria Testa nel suo Minuti scritti1, testo che la stessa autrice definisce una «guida utile a percorrere molte tracce di pensiero». Tale esercizio si basa sulla consapevolezza che la creatività sia ars combinatoria.

Quella dell’associare ed organizzare elementi separati è un’abilità che coltiviamo ogni giorno. Si pensi all’uso del linguaggio: scegliamo parole e le mettiamo in ordine, secondo certe regole. E in questo processo, l’obiettivo può cambiare: ad esempio, possiamo scegliere di suscitare curiosità oppure di annoiare.
Come si combinano parole per creare qualcosa di ordinario, così si possono combinare parole anche per creare qualcosa di insolito. Discernere, scegliere e combinare diventano così gli ingredienti per inventare.

Lo scriveva anche Gianni Rodari quando, ne La grammatica della fantasia, teorizzava il binomio fantastico, cioè un esercizio per dare vita a una storia inventata a partire da due parole casuali:

«Occorre una certa distanza tra le due parole, occorre che l’una sia sufficientemente estranea all’altra, e il loro accostamento discretamente insolito, perché l’immaginazione sia costretta a mettersi in moto per istituire tra loro una parentela, per costruire un insieme (fantastico) in cui i due elementi estranei possono convivere. Perciò è bene scegliere il binomio fantastico con l’aiuto del caso. Le due parole siano dettate da due bambini, all’insaputa l’uno dell’altro; estratte a sorte; indicate da un dito che non sa leggere in due pagine lontane del vocabolario» (G. Rodari, La grammatica della fantasia, in G. Rodari, Opere, 2020).

 

Qualora le parole risultino semanticamente lontane, il loro accostamento apparirà insolito, strano. È proprio quando le parole si liberano dai loro significati quotidiani, dalle loro catene letterali, per estraniarsi e spaesarsi, che la storia creata susciterà interesse e curiosità, risultando straordinaria ed efficace.

La Valigia del filosofo 

NOTE
1. A. Testa, Minuti scritti. 12 esercizi di pensiero e scrittura, Rizzoli, Milano, 2013.

[Photo credit La Valigia del filosofo]

“Chi ha rotto la credenza?”. Tra causalità e correlazione

A guardarlo bene, il mondo può sembrarci una struttura complessa in cui diversi elementi interagiscono con relazioni di varia natura. Tra queste relazioni sopravanza la causalità: giorno dopo giorno pianifichiamo e interpretiamo parte della nostra esperienza attraverso leggi causali e anche l’immagine scientifica del mondo1, nella sua ricerca di modelli esplicativi e predittivi, invoca spesso il nesso causale.
Che la nostra vita sia piena di perché, i bambini lo sanno bene. Ma non è altrettanto intuitivo l’accesso alla natura di tale quesito metafisico. Per guidare i bambini nell’analisi e nella comprensione delle relazioni causali, può essere utile2 innanzitutto chiarire cosa la causalità non è. Causalità, ad esempio, non è correlazione. In altre parole, se all’aumentare di una variabile aumenta o diminuisce un’altra variabile, non significa che siamo in presenza di un nesso causale.
Per chiarire, riportiamo un dialogo tratto da una storia di fantasia:

– Ad agosto vendo moltissimi gelati, perché fa caldo e la gente vuole rinfrescarsi.
– E d’inverno? – chiese Achille.
– L’inverno è una stagione orribile! – Protestò il gelataio, rabbuiandosi.
– Sai, ieri mia mamma si è tagliata i capelli. Se li taglia sempre ad agosto! – gli sorrise Achille, per cambiare argomento nel tentativo di rasserenare il venditore.
– Sì, lo avevo notato. Quando tua madre si taglia i capelli io vendo più gelati!

In questo particolare dialogo appare evidente che il legame tra il taglio di capelli e la vendita di gelati sia di semplice correlazione, non di causalità: non si può dire che quel taglio dei capelli comporti un aumento delle vendite di gelato. Si potrebbe forse dire, invece, che entrambi questi eventi abbiano tra le loro rispettive cause l’aumento delle temperature che si verifica in estate.

Per capire cos’è quel qualcosa in più che consente ad una relazione tra eventi di essere causale, i bambini creano nuovi esempi con un gioco di carte illustrate. Dopo aver ricevuto alcune regole, i bambini provano a creare un legame che non colleghi due eventi alla maniera del dialogo precedente, ma che sia di causalità: una carta dovrà fungere da causa e un’altra da effetto. Per ampliare le possibilità di risposta e favorire la libera immaginazione dei bambini, le carte illustrate sono poco realistiche e si prestano a molte interpretazioni.
Dopo aver indagato la natura del nesso causale, i bambini sono guidati nella scomposizione di tale legame nei suoi elementi principali, i cosiddetti relata causali3, ossia di quelle entità tra cui si può dire che esista un nesso causale, la causa, ossia il motivo per cui succede una certa cosa, e l’effetto, cioè ciò che la causa produce. A introdurre questa fase può essere utile un episodio narrativo come questo:

Achille stava giocando nel giardino della nonna quando per sbaglio calciò la palla verso la finestra che la nonna aveva accidentalmente lasciato aperta. La palla era entrata in soggiorno e aveva colpito la sedia gialla. La sedia gialla era caduta sulla sedia rossa che era caduta sul tavolo che strisciando aveva spinto la sedia blu che aveva colpito la credenza rompendone un cassetto.
Inutile dire che la nonna si era arrabbiata col nipotino, accusandolo della rottura del cassetto. Achille invece avrebbe voluto incolpare la nonna, che aveva lasciato la finestra aperta, ma ritenne più prudente incolpare una delle sedie, e il verdetto era caduto sulla sedia blu.
Chi ha rotto la credenza?

Di fronte a storie di questo tipo è difficile trovare un comune accordo: un bambino risponde «la palla», perché senza quella non sarebbe avvenuto il danno, un altro risponde «sia Achille sia la nonna», perché le persone sono dotate di intenzione, mentre gli oggetti sono inanimati e quindi privi di vero potere causale; un altro ancora «la sedia blu», essendo l’oggetto che ha materialmente rotto il cassetto, un altro «Achille, la nonna, la palla, la finestra, il tavolo e le sedie», perché tutti questi elementi insieme hanno concorso alla realizzazione del danno, ma c’è anche chi dice «nessuno», non essendoci stata intenzionalità nell’incidente.
Una situazione narrativa così articolata dà modo ai bambini di analizzare in modo un po’ più complesso il nostro problema metafisico. Ad esempio può emergere non solo la classica visione per cui esistono solo due relata, una causa c e un effetto e tali per cui «c causa e», ma anche quella per cui le relazioni causali hanno la forma «c causa e piuttosto che e4.

Al di là del loro numero, poi, un’altra osservazione che può emergere è quella che si basa sulla tipologia dei relata considerati. Parliamo di causalità singolare quando ad essere connessi sono eventi particolari, dotati di una precisa collocazione spaziotemporale. Ad esempio «il fatto che Giuliano abbia fumato quattro pacchetti di sigarette senza filtro al giorno per venticinque anni è causa del suo tumore ai polmoni5. Si parla, invece, di causalità generale quando si mettono in rapporto tipi diversi di eventi, come nella frase «il fumo causa il tumore ai polmoni».

Considerazioni come queste possono essere visualizzate concretamente per mezzo di grafici quali il modello a rete: i relata sono rappresentati dai nodi e la relazione causale dalle frecce. I bambini, dopo aver imparato a leggere e creare modelli di questo tipo, diventano in grado di interiorizzarli e di personalizzarne alcuni criteri. Rafforzare l’apprendimento tramite la creazione di criteri visivi stimola la loro capacità di evidenziare l’entità di una causa rispetto ad un’altra e, in generale, facilita l’abitudine a interpretare con più chiarezza il nesso di causalità.

 

La valigia del filosofo

 

NOTE:

1. W.S. Sellars, Philosophy and the Scientific Image of Man, in Frontiers of Science and Philosophy, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 1962.
2. Questo è quanto La valigia del filosofo, progetto di logica e filosofia per bambini e ragazzi nato in Toscana nel 2015, si propone di fare con i suoi laboratori.
3. Per motivi di semplicità, consideriamo in questo articolo i relata come eventi individuali, ossia cose che accadono in una precisa regione di spazio-tempo, tralasciando le altre interpretazioni.
4. B. Van Fraassen, The Scientific Image, Oxford University Press, Oxford 1980.
5. R. Campaner, Causalità e cause, in A. Coliva, Filosofia analitica. Temi e problemi, Carocci, Roma 2007.

 

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Segno, dove vai?

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Segno, dove vai? è il nome del laboratorio de La valigia del filosofo1 pensato per i bambini dai tre ai cinque anni, che ha per tema la scoperta del segno e della forma. Il percorso didattico, progettato a partire dagli assunti teorici fondamentali della pedagogia di Bruno Munari, si prefigge come obiettivo principale quello di incrementare nei bambini la capacità di interpretare criticamente, per poi elaborare in modo personale, codici espressivi di natura visiva. Il laboratorio si articola in una serie di ‘esercizi mobili’, che possono essere integrati e adattati in base alle esigenze creative dei bambini. Così assume la forma di un allenamento, in cui il gioco con segni e forme curvi, spezzati o misti, disegnati o ritagliati su cartoncino colorato, si concretizza in elaborati grafico-materici.

Nel momento in cui i bambini, di fronte a un pezzo di carta strappato in modo casuale, si divertono nel dire: “è a forma di…!”, il gioco offre lo spunto per una riflessione sulla differenza concettuale tra segni e forme che rappresentano qualcosa di concreto, come una torta di compleanno o un cespuglio ingarbugliato, e segni e forme puri, il cui significato non emerge in modo già determinato da loro stessi. È proprio l’interazione con elementi visivi che rappresentano solo se stessi a stimolare maggiormente la creatività: senza un riferimento univoco alla realtà concreta, i bambini sono coinvolti in un processo di ricerca di senso più profondo, che rende necessario il dialogo e il confronto reciproco per stabilire interpretazioni condivisibili. Nell’elaborazione di codici espressivi a partire da
stimoli visivi privi di un riferimento stabile alla realtà concreta, la riflessione coinvolge il più delle volte la sfera emotiva e dello stare insieme.

Segno, dove vai? presenta, in forma propedeutica, molti elementi di continuità rispetto ai laboratori rivolti ai bambini più grandi, in particolare rispetto al laboratorio di logica e filosofia Officina Frullapensieri. Per questo, ci sembra interessante confrontare due attività che fanno parte dei due percorsi didattici.

Uno degli esercizi che proponiamo in Segno, dove vai?, consiste nel tracciare un segno da un lato di un cartoncino colorato al suo lato opposto non con la matita o con il pennarello, ma con le forbici. Il cartoncino viene così diviso in due parti e sovrapposto a un cartoncino di colore diverso. Se i due margini del cartoncino tagliato vengono tenuti vicini, come per ricomporne l’unità iniziale, ciò che il bambino vede è un segno fine, quasi impercettibile. Possiamo renderlo più marcato distanziando di qualche millimetro i due pezzi tagliati: il segno è più spesso, sembra fatto con un pennarello a punta grossa. Allontanando ancora un po’ i margini… “Sembra un fiume con tanta acqua tra le
montagne!”. E ora che è più largo che lungo, possiamo ancora dire che sia un segno? Certamente no! “Ora è a forma di animale!”. Ma quando è avvenuto il passaggio dal segno alla forma, se è stato così graduale?

Una delle attività dell’Officina Frullapensieri prevede l’interazione dei bambini con un oggetto concreto un po’ ingombrante, di polistirolo e cartoncino: si tratta di una fedele riproduzione della credenza della nonna di Achille, dai cassetti grandi, dipinti con colori vivaci. Achille è un bambino un po’ sbadato e spesso capita che, mentre gioca a pallone a casa della nonna, prenda male la mira e rompa un cassetto. La sua storia e quella della credenza, ogni volta restaurata da un precisissimo falegname, introduce la riflessione sul tema dell’identità e della persistenza nel tempo. Ogni volta che un cassetto si rompe, viene sostituito da uno nuovo, perfettamente uguale all’originale. Una volta che tutti i cassetti originali sono stati sostituiti da cassetti nuovi, la credenza è sempre la stessa, oppure no? E se, dopo i cassetti, anche il resto del mobile originale viene sostituito con una pezzo nuovo? La maggior parte dei bambini, nella fase finale dell’attività, tende a rispondere che no, la credenza non è più la stessa, “perché non è fatta dello stesso legno del mobile vecchio!” Ma la storia e il gioco in cui i bambini staccano e attaccano i cassetti sulla credenza di polistirolo, hanno generato, intanto, un dibattito acceso, perché, nel cercare una risposta, sono emersi nuovi punti di vista. Quand’è che la credenza ha smesso di essere quella originale e si è trasformata in quella nuova, se è stato sostituito un pezzo alla volta?

Le due attività brevemente descritte, pur svolgendosi attraverso modalità e linguaggi diversi, hanno in comune l’elemento concettuale della progressività graduale. Nella prima, questo elemento ha la funzione di introdurre i processi di astrazione e di definizione dei concetti; nella seconda, quella di rendere più profonda la riflessione sul
concetto di identità. In entrambi i casi, attraverso la creazione di un processo graduale, i bambini sperimentano in modo diretto gli aspetti problematici interni alla riflessione. Secondo noi, proprio la capacità e il desiderio di soffermarsi nella problematicità, contribuiscono a rendere tale la meraviglia di una scoperta filosofica.

 

La valigia del filosofo

 

NOTE
1. La valigia del filosofo è un progetto di logica e filosofia per bambini e ragazzi nato nel 2015, a cura di Elisa Dalla Battista e Francesca Lurci.

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Tra lonfi e bacche rosse

Era arrivata l’ora di tornare a casa. Salutammo tutti e, valigia alla mano, lasciammo la locanda. La bambina ancora una volta si offrì come nostra guida e prendemmo a est, verso il faggeto.

Dentro il bosco tirava un filo di vento e sul terriccio tremolavano macchie di luce. Passammo buona parte del cammino a osservarle mentre cambiavano forma e dimensione. A mano a mano che procedevamo, si facevano più rade perché il bosco diventava più fitto. D’intorno, gli alberi divenivano più alti e sottili.

Nel cuore del faggeto c’erano alcuni cespugli con bacche rosse o blu, e qualche animaletto che correva qua e là. Ad un certo punto sentii un verso grave e furibondo e domandai cosa fosse. La mia amica disse che sembrava un barrito, ma la bambina la corresse: è un barigatto1!

Che animale è il barigatto? Chiesi.

Non è un animale, è un verso! Mi rispose. Il verso del lonfo. D’estate i lonfi vengono qui, nel faggeto, per rifugiarsi dal caldo. È normare quindi sentirne i barigatti.

Ah i lonfi certo, capisco, rispose la mia amica. E che cosa sono?

Guarda laggù, quello è un lonfo! E se guardate bene, ci disse, davanti al lonfo c’è un cespuglio pieno di bacche rosse.

Le mangia? La interruppi.

No, ma d’estate il bosco si riempie di queste bacche rosse, e ogni volta che si riempie di bacche rosse arrivano anche i lonfi.

Quindi il profumo o il colore delle bacche attira i lonfi? Chiese la mia amica.

No, diciamo che è più una coincidenza che un rapporto causale. Cioè, non è che la comparsa di quei frutti sui cespugli comporti l’arrivo di lonfi. Piuttosto, si può dire che i due eventi abbiano una causa simile per la quale si ritrovano a essere nello stesso luogo nello stesso periodo dell’anno. Le bacche rosse maturano in estate e proprio in quel periodo dell’anno i lonfi arrivano al faggeto, per ripararsi dal caldo torrido.

Ci avvicinammo al lonfo con cautela: la bambina ci aveva detto di evitare cionfi o lugri, altrimenti il lonfo ci avrebbe sicuramente sbidugliate e arrapignate, o, che era molto peggio, botaliate e criventate. Comunque aveva proprio un’aria buffa, questo lonfo.

Dopo un po’ salutammo il curioso animale e continuammo per la nostra strada. Quando uscimmo dal faggeto ci ritrovammo dove la nostra avventura era iniziata, nel largo prato della città senza nome2. Era passata già una giornata.

Che bella giornata! Disse la mia amica.

Posammo la valigia sul prato, quella valigia che ci eravamo portate alla locanda, la valigia del filosofo.

Chissà, continuò lei, cosa sarebbe successo se avessimo preso con noi un’altra valigia, ad esempio la valigia degli oggetti all’incontrario.

Sarebbe stata ben più strana! Te lo immagini un mondo all’incontrario? Disse la bambina. La gente che cammina nel cielo, le nuvole nel mare a nuotare… Nel mondo all’incontrario, poi, io non sarei più una bambina, anzi forse è meglio dire che non sarei ancora una bambina, dato che tutti nascerebbero anziani e morirebbero neonati.

E altro che valigia del filosofo! Irruppe una voce che subito continuò: lì ci sarebbe stata una aigilav led ofosolif!

Scoppiammo a ridere alle parole di quel bambino che avevamo incontrato il pomeriggio del giorno prima, proprio lì, nella città senza nome.

La valigia del filosofo

 

NOTE:

1 Cfr. Il Lonfo in Fosco Maraini, Gnosi delle fanfole (1978)

Il Lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce,
sdilenca un poco e gnagio s’archipatta.
È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.
Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa legica busia, fa gisbuto;
e quasi quasi in segno di sberdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui, zuto
t’ alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.

2 Cfr. Dove trovammo la valigia del filosofo.

Crostate rubate

Era tarda sera e ci fermammo a dormire alla locanda. Saremmo rientrate a casa l’indomani.

Non c’erano tende né persiane e la luce ci svegliò molto presto. Quando arrivò l’ora della colazione, ci presentammo nella sala. La bambina, che era solita frequentare la locanda, si accorse subito che al menù della colazione mancava la cosa più importante: le crostate!

Quasi l’avesse letta nel pensiero, la locandiera entrò nella sala insieme alla cuoca e gridò. Chi ha rubato le crostate?.

Forse non c’era bisogno di gridare, pensai, dato che non c’era per nulla confusione ed eravamo, in sala, soltanto quattro: al nostro tavolo io, la bambina e la mia amica, e nel tavolo in fondo quel bambino che avevamo incontrato il giorno prima nella città senza nome1. Ad ogni modo, ci voltammo verso la locandiera con aria curiosa. Il bambino fu il primo ad avanzare un’ipotesi, e lo fece con un tono che rispondeva alla gentilezza della cuoca.

Forse ti sei dimenticata di essere una cuoca, stamattina, e ti sei scordata di prepararle, le crostate.

Ma la cuoca non soffriva di amnesie, quindi l’ipotesi era da escludere. E aveva usato una marmellata di ribes rossi che sarebbe scaduta il tredici novembre del duemiladiciotto, gracchiò.

Risolverò questo caso! Continuò il bambino. Forse allora le ha mangiate la cuoca, le crostate. Sì, magari stamattina non voleva soltanto cucinare cose buone e mangiare, come fanno i cuochi, gli avanzi dei pasti. Probabilmente stamattina aveva molta fame e si era pappata tutto!

Non è possibile, gli ricordò la bambina, ineccepibile. La cuoca è celiaca e quelle crostate contengono glutine.

Mmm… Forse oggi è il Giudigiugno?

Cos’è il Giudigiugno? Intervenne la mia amica.

È un giorno di giugno in cui le persone lanciano le torte giù dalle finestre e dai balconi per centrare i passanti, spiegò la bambina.

No comunque, oggi non è il Giudigiugno, rispose la bambina. E poi, puntualizzò, le torte che si lanciano il Giudigiugno devono contenere la panna montata. Non mi risulta che le crostate abbiano la panna!

Forse, allora, qualcuno ci ha fatto uno scherzo e ha nascosto le crostate ai ribes rossi nella cassaforte dietro al quadro dell’anatra2!

Veramente quell’anatra è un coniglio, comunque no, è impossibile: qui non ci sono passaggi segreti, disse la bambina dopo aver scostato il quadro.

Allora qualcuno per dispetto deve averle dipinte di… di… verde, e averle messe su quella lunga tovaglia verde con la quale adesso si mimetizzano!

Scrutammo la tavola e spostammo la tovaglia: era leggera e non vi era nulla su di essa.

Ho capito! Si fece serio. Ci dev’essere stato un equivoco. La donna delle pulizie ha scambiato il cestino delle crostate con quello del bucato e le crostate sono finite in lavatrice. Mamma mia, speriamo di no!

Tranquillo, neanche questo è possibile perché la lavatrice è vuota. Hai comunque tantissima fantasia, dissi io.

A volte riesco a credere a sei cose impossibili, prima di fare colazione3.

Invece, irruppe la mia amica, è possibile che manchi qualcuno, tra noi?

C’era effettivamente un ospite ancora, tra coloro che non si erano già svegliati. Era uscito senza fare colazione, o così ci aveva detto. La locandiera insinuò che doveva essere stato lui, anche perché ogni volta che alla locanda si sforna una torta, lui non si tira mai indietro. Come aveva fatto a non pensarci prima e com’era lampante questa prova, esclamò rimproverandosi.

Sembravano non esserci dubbi, ma la bambina osservò: non siamo un po’ troppo frettolosi? Non è detto che, se finora è sempre accaduto così, anche stavolta non faccia eccezione. Non c’era scritto da nessuna parte, dopotutto.

L’osservazione della bambina non faceva una piega e fu molto apprezzata. Ma ancora di più fu apprezzata la cuoca, che era già tornata in cucina a imbastire una nuova pasta frolla.

La valigia del filosofo

 

NOTE:

1 Cfr. Dove trovammo la valigia del filosofo.

2 Cfr. Zuppe larghe un metro.

3 Cfr. L. Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, cap. V.

 

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Zuppe larghe un metro

Arrivammo finalmente alla locanda: il gioco1 l’aveva vinto la bambina, seconda la mia amica e io ultima. La locanda aveva un’insegna triangolare e si chiamava “I tre piatti”. Dentro c’erano tre sale, oltre alla cucina, s’intende. Ci accomodammo nella prima, nel tavolo a sinistra, che era di forma triangolare.

Arrivò il cameriere e, senza nemmeno salutare, ci disse che il coperto sarebbe venuto a costare più dei piatti e che questi, come già avevamo intuito, erano tre. La bambina rispose che non c’era problema e anzi, avremmo potuto farne anche a meno, dato che l’avevamo portato con noi, il coperto2. Tirammo fuori la tovaglia da picnic ricamata a mano, tre calici di cristallo, un mucchio di forchette di plastica, qualche piatto e anche la bottiglia di aranciata. Ordinammo una zuppa, una pizza e un piatto del giorno.

Mentre aspettavamo la cena, la mia amica fece un commento sul quadro appeso alla parete. Che bell’anatra, disse.

Io guardai il coniglio nel dipinto e corressi la mia amica: che bel coniglio, volevi forse dire!

Ma scusa, dove lo vedi il coniglio? Rispose lei. Capisco tu abbia fame, ma quello un coniglio proprio non è!

Mi aveva fatto quel commento perché il piatto del giorno, che avevo ordinato io, prevedeva le tagliatelle al ragù di coniglio.

La bambina si mise a ridere e noi la guardammo perplesse.

È una figura ambigua, un’immagine cioè che può essere interpretata in due modi alternativi: come un’anatra, disse rivolgendosi a lei, o come un coniglio, disse guardando me.

Arrivarono finalmente i tre piatti. La bambina, fissando la zuppa della mia amica, tirò fuori la lingua e storse il naso.

Che c’è? Le chiese la mia amica.

Perché prendi la zuppa se non è buona? Chiese la bambina.

Certo che è buona.

Non può esserlo, è una zuppa!

Ma certo che può esserlo: è una di quelle cose che funzionano col metro!

Col metro? Intervenni io.

La mia amica fece cenno di sì con la testa e continuò, sicura di sé: per esprimere un giudizio su certi tipi di situazioni, usiamo il metro.

Continuavo a non capire, dunque la mia amica fu costretta a spiegarsi meglio:

Pensa al metro che srotoli ogni volta che devi aggiustare dei calzini. Devi metterci sopra una toppa e per capire quanto lunga serve prendi le misure col tuo metro, no? Ecco, è come se ogni uomo avesse un metro, per misurare alcune cose, un proprio metro personale che è diverso dai metri degli altri. In questo modo il risultato delle mie misure può essere diverso da quello che ottenete voi con le vostre misure.

Se ci pensi, disse allora rivolgendosi alla bambina, è come se io misurassi la bontà della zuppa con un metro diverso da quello che usi tu. Il mio metro dice che è un piatto che mi piace mangiare, mentre il tuo metro dice il contrario.

Ma ci sono delle situazioni per le quali non usiamo metri? Chiese la bambina.

Beh, se prendessi la frase «I lati di un quadrato sono uguali tra loro», è chiaro che nessuno la metterebbe in dubbio: tutti, ma proprio tutti, penserebbero sia una proposizione incontestabilmente vera.

Ho capito! Esclamò la bambina. Come la pizza, che piace proprio a tutti!

La valigia del filosofo

NOTE:

1 Cfr. Scelte obbligate, strade possibili.

2 Ivi.