Il Codex di Luigi Serafini: illustrare l’impossibile

Topi tripli, uccelli ricorsivi e isole all’occhio di bue. Figure curiose, stranianti e misteriose costellano il Codex Seraphinianus, la celebre enciclopedia immaginaria di Luigi Serafini1.
Sono minerali, vegetali e animali, ma anche macchine, architetture e costumi. Tutte cose impossibili, fotografate tassonomicamente dalla china e dalle matite colorate dell’autore. L’assurdità delle illustrazioni, enigmatiche e sfuggenti, irreali e surreali, apre all’ambiguità semantica. E la polisemia, si sa, rappresenta l’orizzonte entro cui si muove liberamente, quindi creativamente, la facoltà immaginativa.

Siccome una delle vie di accesso alla filosofia è proprio l’immaginazione, quando La valigia del filosofo introduce ai bambini argomenti di ontologia2 spesso intraprende questo sentiero.
È una strada, per l’appunto, poco lineare, piena di curve e di bivi. E le sue bivalenze e digressioni, come insegna Tristram Shandy3, sono ciò che la rende imprevedibile e interessante.

Apriamo una pagina del Codex rivolgendola alla classe e chiediamo ai bambini di descriverci cosa vedono.
Esserini rossi piccoli come formiche, una specie di lucertola o di varano, con una lingua molto stretta e lunga! – Interviene Roberta.
C’è un filo attorcigliato sulla coda, anzi è proprio la coda fatta così, e questo filo esce dalla bocca passando però dentro il corpo! – Puntualizza Elia, orgoglioso della sua osservazione.
Ha un ago al posto di una zampa e sta cucendo il suo nido per terra – Risponde sottovoce Riccardo.
Non è per terra, è nell’acqua! Vedi, ha anche le zampe palmate – Polemizza Elia, che vuole sempre avere l’ultima parola.

A partire da figure fantastiche come quella mostrata, i bambini disegnano sul quaderno del filosofo tanti altri animali di loro invenzione. Qualcuno, che pensa di non essere bravo con gli animali, illustra una serie di piante immaginarie. Altri ancora si dedicano alle macchine impossibili. E così via, ognuno crea la sua voce enciclopedica.

Quando, al termine dell’opera, i bambini interpretano le immagini di un compagno, senza che questo abbia spiegato loro nulla, sembra emergere una verità: ogni figura disegnata presenta più riferimenti di quanti previsti da ciascun piccolo autore.
Alleniamoci a trovarne ancora, giochiamo a interpretare. Interpretare è una parola che per parente sembra avere l’inventare. Si tratta di esercitare l’immaginazione cercando una situazione nuova a cui un certo disegno può accedere. È un esercizio che incontra la curiosità dei bambini, ne attiva l’interesse e alimenta quel senso di libertà interiore che il bambino respira di fronte alle infinite possibilità di interpretazione che le esperienze gli suggeriscono. Ed è un esercizio che, percorrendo sentieri curvi e sperimentandone nuove ramificazioni, zigzag e imprevisti sottopassi, può sicuramente divertire. Oltre che essere propedeutico a nuovi quesiti filosofici.

Quante cose astratte possono esistere? Quali cose astratte possono esistere? Le cose astratte che esistono per te possono essere le stesse cose astratte che esistono per me? Sono domande che questo incontro di laboratorio, spontaneamente genera da sé, attraverso questa ed altre zigzaganti attività.

 

La valigia del filosofo

 

NOTE:
1. Luigi Serafini è un artista, architetto e designer italiano, nato a Roma nel 1949. Nel 1981 ha pubblicato per la casa editrice parmense Franco Maria Ricci il Codex Seraphinianus.
2. Intendiamo per “ontologia” quella branca della filosofia che si occupa di studiare cosa esiste.
3. L. Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, Gentiluomo, Mondadori, Milano, 2005 (1759).

[Photo credit La valigia del filosofo]

abbonamento2021

Esistere di più, esistere di meno

«Che cosa esiste?» – ci chiediamo, fin da bambini. E se la domanda resta sempre la stessa, via via che cresciamo le possibilità di risposta si moltiplicano e si assottigliano. Forse perché, nel tentativo di rispondere alla domanda «che cosa esiste?», ci accorgiamo presto di quanto sia importante cercare di capire innanzitutto se il concetto di esistenza sia o meno univoco.

Nella Metafisica Aristotele afferma che l’«essere si dice in molti modi»1, benché sempre in relazione a un unico principio, e una buona parte della storia della metafisica può essere letta all’insegna delle diverse declinazioni a cui questa tesi è stata sottoposta. Alcuni filosofi contemporanei, ad esempio, negano che «esistere» possa avere più di un significato, mentre altri la pensano diversamente. A tal proposito, il filosofo Achille Varzi distingue almeno tre posizioni2. Secondo la prima, entità di tipo diverso possono esistere secondo forme o modalità diverse: ad esempio, per il filosofo Gilbert Ryle i corpi materiali esisterebbero in un «senso diverso» da quello in cui esistono le entità mentali3. La seconda posizione nega che tutte le asserzioni esistenziali abbiano la stessa portata: il filosofo Rudolf Carnap, ad esempio, è portavoce del profondo divario tra questioni esistenziali «interne» ed «esterne» a una data struttura linguistica4. Secondo la terza posizione, detta realismo interno, non si può parlare di esistenza in senso assoluto, in quanto sarebbe ingenuo pensare di poter fornire un’immagine del mondo che non rifletta nessun pregiudizio dello schema concettuale a cui facciamo riferimento5.

A problemi ontologici di questo tipo sono dedicati alcuni incontri di laboratorio del progetto di logica, filosofia e narrazione per bambini e ragazzi La valigia del filosofo. Alcune attività legate al tema dell’esistenza animano i primi incontri dei percorsi didattici officina Frullapensieri e officina delle idee, rivolti rispettivamente ai bambini dagli 8 agli 11 anni e ai ragazzi dagli 11 ai 14 anni. La scelta di iniziare il viaggio alla scoperta di alcuni dei temi fondamentali della filosofia analitica a partire dalla domanda su ciò che esiste nasce dal desiderio di impostare il percorso didattico in un preciso quadro di riferimento, in cui possa emergere l’importanza, per fare filosofia, di approfondire il rapporto tra linguaggio e ciò che, appunto, riteniamo faccia parte della realtà in cui viviamo.

Le attività di brainstorming su ciò che i bambini pensano che possa essere scritto nel catalogo universale, un elenco di entità che, secondo loro, esistono, sono spesso molto divertenti. Nell’ascoltare il modo in cui motivano le loro scelte, si può capire quali siano le loro più o meno timide posizioni filosofiche. Più la discussione si fa accesa, più i bambini cercano basi solide per sostenere le proprie tesi, il più delle volte riuscendo ad accogliere l’invito a considerare il punto di vista degli altri. Ed ecco che le argomentazioni via via costruite a sostegno delle diverse posizioni filosofiche contribuiscono chiaramente alla formazione di un’idea condivisa: per dire che una cosa esiste, dipende da cosa si intende.

Nella nostra esperienza non abbiamo mai incontrato un bambino di orientamento talmente scettico da mettere in dubbio l’esistenza degli oggetti materiali, ossia di quelle entità concrete con cui ci troviamo a interagire ogni giorno. Se tra i filosofi vi sono molte discordanze, è anche vero che generalmente si trovano d’accordo nel supporre che il nostro mondo comprenda almeno gli oggetti materiali che per definizione sono ordinari, concreti e tangibilissimi.

Ma quando si parla di nuvole, ombre e baci, ecco che arrivano le diatribe:

– Si possono disegnare!

– Ma non si possono toccare!

– Eppure si possono vedere!

– I baci no!

– Ma si possono sentire!

È sorprendente osservare quanto la capacità filosofica dei bambini riesca a cogliere in modo intuitivo quelle distinzioni alle quali i filosofi hanno da sempre dedicato la loro attenzione nel tentativo di definire il concetto di esistenza. A volte, e non di rado, i bambini arrivano ad ammettere gradi di esistenza, nelle cose. La diatriba qui sopra, ad esempio, si risolse con un bell’e va bene, facciamo che esistono, ma un po’ di meno!

 

La valigia del filosofo

 

NOTE:
1. Cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 2, 1003b.
2. A.C. Varzi, Metafisica. Classici contemporanei, Laterza, Bari 2008, pp. 6-7.
3. G. Ryle, Il concetto di mente, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 17-18.
4. R. Carnap, Il neoempirismo, Utet, Torino 1969, pp. 626-652.
5. H. Putnam, La sfida del realismo, Garzanti, Milano 1987, pp. 28-33.

copertina-abbonamento-2020_nuovo

Sillogismi in officina

In ogni officina che si rispetti si ripara o si costruisce qualcosa e può sempre capitare di creare qualcosa di nuovo accostando pezzi che mai, prima, avremmo pensato che potessero trovare un legame. Ogni luogo delle invenzioni e delle scoperte è un’officina. Ma servono strumenti adatti e funzionanti alla perfezione!

Cosa si può costruire con le frecce di cartoncino colorato che animano il gioco durante l’ultimo incontro dell’Officina delle idee?1 Sono grandi ma leggere, non sembrano strumenti adatti per lavorare su oggetti pesanti. E ciascuna porta con sé una scritta. Che siano istruzioni? Non esattamente, o forse sì: “CONTRADDITTORIETÀ. Di due proposizioni contraddittorie, esattamente una è vera mentre l’altra è falsa”. Oppure: “SUBCONTRARIETÀ. Due proposizioni subcontrarie non possono essere entrambe false.2 Al termine del gioco i ragazzi hanno attaccato le frecce alla parete della classe, in modo tale da ricostruire correttamente il “quadrato delle opposizioni”. Viste così, le frecce si rivelano strumenti efficaci per imparare a costruire buoni ragionamenti. Collocate all’interno del “quadrato delle opposizioni”, indicano i rapporti logici che intercorrono tra due enunciati categorici3 di tipo diverso, che hanno lo stesso soggetto e lo stesso predicato. Durante la riflessione che accompagna il gioco, iniziamo a prendere confidenza con alcuni tipi ragionamento immediato. Dario, per rendere più chiaro ai compagni il concetto di contraddittorietà, afferma: «se è vero che tutti i gatti sono pigri, allora non è vero che qualche gatto non è pigro». Per subcontrarietà, invece, i due  enunciati “Qualche gatto è pigro” e “qualche gatto non è pigro” non possono essere entrambi falsi, pur potendo essere entrambi veri. 

Ma quando un ragionamento può essere considerato un buon ragionamento? Dal nostro punto di vista, rispondere a questa domanda presuppone avviare la riflessione sulla differenza tra la forma logica del ragionamento e i significati degli enunciati che lo compongono, con i loro valori di verità. Acquisire familiarità con quei particolari tipi di ragionamenti chiamati da Aristotele sillogismi permette ai ragazzi di mettere a fuoco proprio questa differenza. 

Un sillogismo è un’inferenza mediata in cui, dati due enunciati categorici (la premessa maggiore e la premessa minore), è possibile derivarne un terzo (la conclusione). Un sillogismo è un processo argomentativo valido soltanto se la verità delle premesse implica necessariamente la verità della conclusione. 

Scriviamo alla lavagna alcuni esempi di sillogismi pensati dai ragazzi nel modo classico, seguendo lo schema in stampatello: 

la-valigia-del-filosofo

Quando lo spazio della lavagna è quasi del tutto riempito, Alice esprime un dubbio: «in generale ho capito come funziona, ma c’è qualcosa che mi sfugge. Come posso concludere che tutte le rose sono profumate partendo dal fatto che tutti i fiori sono profumati, se questo non è vero? Esistono molti fiori che non sono profumati!» I ragionamenti che appaiono più solidi, quelli che tutti sono pronti a definire buoni ragionamenti, sono solo due: quelli che portano alla conclusione a partire da premesse indubitabilmente vere. I ragazzi, confrontando  le loro idee, iniziano a tracciare in modo autonomo una distinzione tra i sillogismi che è carica di significato e che deve soltanto essere precisata. 

Allora questo pensare senza preoccuparci della verità degli enunciati di partenza è stato inutile? Tutti i sillogismi che prendono avvio da premesse false o di cui non possiamo conoscere il valore di verità sono sbagliati? Assolutamente no! La validità del sillogismo consiste unicamente nella sua correttezza formale; affinché tale correttezza sussista poco importa se, di fatto, le premesse da cui il sillogismo prende avvio sono vere o false. Se un sillogismo è valido soltanto se la verità delle premesse implica necessariamente la verità della conclusione, possiamo sempre assumere che le premesse siano vere. E non è un imbroglio! D’altra parte, basta immergerci nella lettura di una storia di fantasia per credere alla verità di enunciati che nel mondo reale riterremmo falsi, senza che, per questo motivo, sia modificata la nostra capacità di distinguere nel racconto i ragionamenti corretti da quelli sbagliati.

Il dubbio di Alice nasceva dalla necessità di avviare il ragionamento a partire da enunciati veri e i compagni non trascurano il suo valore. Al termine di questo breve viaggio nella teoria dell’argomentazione i ragazzi definiscono buoni ragionamenti soltanto i processi argomentativi validi, costruiti a partire da premesse vere. 

 

La valigia del filosofo

 

NOTE:
1. L’Officina delle idee è il percorso didattico da La valigia del filosofo dedicato ai ragazzi della Scuola secondaria di primo grado.
2. Cantini, P. Minari, Introduzione alla logica, Le Monnier Università, 2009, p.70 – 71.
3. Gli enunciati categorici sono enunciati della forma “S è P”, dove S ha la funzione di soggetto e P di predicato. Cfr. Gatti pigri, gatti contraddittori, La Chiave di Sophia n. 11 Anno V. 

[Tutte le immagini sono realizzate da La valigia del filosofo]

copertina-fb

E tu chi sei? Il concetto di identità alla prova del tempo

Le nostre vite prendono forma in un flusso di continui cambiamenti, all’interno del quale sappiamo muoverci quotidianamente in modo naturale, spesso senza dover riflettere sulla sua presenza. Nei cambiamenti che sentiamo coinvolgere il nostro pensiero e la nostra sfera emotiva, ma anche in quelli che riguardano gli oggetti materiali, non percepiamo una minaccia all’idea della persistenza nel tempo dell’identità. La memoria, come un filo teso tra passato e presente, restituisce un’idea immediata di identità come qualcosa di unico e di unitario. Niente ci impedisce di pianificare le nostre azioni future e di stabilire relazioni autentiche con gli altri, perché nel cambiamento riconosciamo quei punti fissi che permettono di non mettere mai in discussione il fatto che le cose, pur cambiando, restino loro stesse.  

“Questa convinzione si fonda a sua volta su un bisogno ineluttabile: il bisogno di trovare dei punti fermi nel flusso continuo di trasformazioni che ci circondano, l’esigenza di stabilizzare ciò che stabile non è”. Come giustificare, dunque, lo status ontologico ed epistemologico dei punti fermi che rendono naturale l’idea che l’identità delle cose sopravviva al cambiamento? Li possiamo riconoscere come puri elementi della realtà? Oppure, in quale misura sono il prodotto di dispositivi mentali che rispondono all’esigenza di stabilità?

A partire dalle esigenze del senso comune e dal principio teorico, che apparentemente ben vi si accorda, secondo il quale due cose sono identiche se possiedono le stesse caratteristiche, possiamo problematizzare il concetto di identità. E possiamo dare spazio a una sua caratterizzazione meno granitica rispetto a quella a cui, forse, pensiamo abitualmente. In questo senso, il punto di vista offerto da Lewis Carroll nel dialogo tra Alice e il Bruco in Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, è un invito, rivolto ai bambini e agli adulti, a soffermarci sulle incongruenze che emergono quando si dà per scontato che l’identità sopravviva al tempo e al cambiamento.

Alice, di fronte alla domanda «E tu chi sei?» che il Bruco le rivolge all’inizio del loro incontro, non sa cosa rispondere: aver cambiato più volte statura nel corso di quell’incredibile giornata l’ha resa terribilmente confusa. L’idea che dà sostanza al suo disorientamento, se estesa a tutte le cose, è racchiusa in questa domanda fondamentale: “come può una medesima entità godere di proprietà diverse e tra loro incompatibili?”. Il Bruco potrebbe non aver capito come mai i cambiamenti vissuti da Alice siano capaci di mettere in crisi la sua identità semplicemente perché ritiene che proprietà diverse – in questo caso le diverse stature di Alice – non siano in realtà incompatibili, se possedute in momenti diversi. Il riferimento a proprietà temporali rappresenta una risposta plausibile alla domanda nell’ambito del dibattito contemporaneo di stampo analitico. È ragionevole, tanto da sembrare ovvio, osservare che non esiste alcuna incongruenza nel fatto che la mia gatta oggi fosse assonnata alle 6.30 del mattino e vivace stasera, alle 20.15. Potrei descrivere la copertina del libro che ho sul tavolo attraverso queste due proprietà temporali, evitando così ogni incompatibilità: dai-colori-accesi-nel-1978 e sbiadita-nel-2019. Ma rimane discutibile quanto l’inserimento dell’elemento temporale direttamente nelle proprietà che determinano l’identità degli oggetti sia una valida soluzione del problema, e non, invece, soltanto una sua riformulazione.

Sembra che la mente del Bruco, nella sua assonnata sicurezza, non sia sfiorata da alcun dubbio riguardo la realtà oggettiva dei punti fissi e la stabilità dell’identità attraverso il cambiamento. Alice, che invece non ha più la certezza che il cambiamento non sia capace di sgretolare l’identità, gli rivolge queste parole:

«Forse perché lei non ha ancora fatto la prova» […] «Ma quando si dovrà trasformare in crisalide – e le capiterà un giorno o l’altro – e poi da crisalide in farfalla, vedrà che si sentirà un po’ confuso anche lei

La trasformazione del Bruco in farfalla fornisce lo spunto di riflessione per dubitare delle proprietà temporali come risposta convincente al problema che stiamo indagando. Immaginiamo che il Bruco abbia un gemello con cui condivide le stesse caratteristiche e che, per questo, può essere considerato identico a lui: stesso colore verde acceso della pelle, stessi occhiali sul naso, stesso timbro profondo della voce! Certamente tendiamo a sostenere in modo spontaneo che il Bruco, trasformandosi in farfalla, resterà la stessa entità e, d’altra parte, che il Bruco e il suo gemello siano entità distinte. Ma, non appena la riflessione diviene più sottile, emergono aspetti contraddittori e sembra impossibile rintracciare una via diretta per definire il concetto di identità come qualcosa di stabile nel tempo.

Così, vogliamo lasciare il lettore con una domanda: non c’è un’incongruenza nell’identificare il Bruco con la farfalla, che ha caratteristiche incompatibili rispetto alle sue, e nel dare grande valore, invece, alla diversità tra il Bruco e il suo gemello, che ci sembrano identici?

 

La valigia del filosofo

 

NOTE
1. Cfr. Achille Varzi, L’identità nel cambiamento, 13 Maggio 2006, Roma. Guarda il video.
2. Ibidem.
3. Cfr. L. Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, in M. D’Amico (a cura di), Il mondo di Alice, Bur, Milano, 2006, cap V.

Una modalità per acquisire competenze filosofiche in classe

La scuola pubblica italiana prevede l’insegnamento della storia della filosofia unicamente al triennio dei licei e di alcuni istituti tecnici1. Ma fare filosofia non è soltanto studiarne la storia, né si può dire che i bambini non siano in grado di filosofare2.

Per integrare l’impronta storicistica e gentiliana di cui risente l’insegnamento della filosofia in ambito scolastico con altri approcci filosofici e per estendere le competenze filosofiche ad altri livelli di istruzione scolastica, sono state, nel tempo, proposte diverse attività extracurricolari. In quest’ottica la Philosophy for Children & Community, programma educativo ideato negli anni Settanta dal filosofo americano Matthew Lipman, risulta ancora oggi una delle proposte più interessanti, tanto che il 30 agosto 2017 il Centro di Ricerca sull’Indagine Filosofica, l’associazione di promozione sociale e culturale impegnata nella diffusione della P4C, ha siglato con il MIUR un Protocollo d’Intesa triennale riguardante l’educazione al pensiero critico e la didattica dell’inclusione3.

Il programma educativo della P4C si ispira alla «comunità di ricerca» deweyana4. In contrapposizione al paradigma standard della pratica educativa, che prevede una teoria dell’apprendimento lineare dove l’insegnante trasmette al discente il sapere attraverso una serie di passaggi obbligati, il modello proposto da Lipman prevede che l’educazione sia il risultato di una democratica partecipazione attiva dei membri della comunità.
Per favorire l’indagine filosofica nella comunità di ricerca, l’insegnante deve avere un ruolo direzionale, ma non direttivo: dev’essere un «facilitatore» abile nel promuovere il dialogo, stimolare l’approfondimento del lavoro di gruppo garantendone l’autonomia nel suo processo di ricerca e monitorare la validità della discussione e della ricerca5.
Il focus dell’educazione non sta, quindi, nel risultato, ma nel processo di co-costruzione della conoscenza. Ciò che è auspicabile è che la comunità di ricerca arrivi a pensare con gli stessi movimenti che rappresentano le procedure del processo stesso: il dubbio, la produzione di idee suscettibili di valutazione e la creazione di una credenza condivisa.
Va evidenziato che la conclusione dell’indagine filosofica non prescinde dal contesto, che ne garantisce validità: ogni passaggio del processo di ragionamento, infatti, non ha valutazione assoluta e la metodologia è fallibile. Una comunità di ricerca, muovendosi in un dato contesto sociale, imparerà, oltre ad apprezzare le potenzialità garantite dall’accordo intersoggettivo tra i membri, anche ad abitarne le problematicità.

Le sessioni di Philosophy for Children, che tra i loro fini hanno quello rendere la classe una comunità di ricerca, seguono questi obiettivi. La loro struttura, dunque, riflette quella dell’indagine. Come nell’indagine si parte da una situazione indeterminata di dubbio, anche la sessione di P4C incomincia da una situazione che suggerisce dubbi e domande, e che è data dalla lettura di un testo-pretesto, una pagina di un apposito testo narrativo6. Alle fasi successive della ricerca filosofica, durante le quali si circoscrive un ambito di discussione, si discute il tema e se ne valutano le conseguenze, corrispondono altrettante fasi della sessione di P4C. Sebbene il punto di arrivo non abbia la pretesa di approdare ad una credenza assoluta, la situazione, rispetto all’inizio, risulta rischiarata.

Una classe che si proporrà come obiettivo quello di diventare una comunità di ricerca, imparerà a discutere in modo rigoroso, democratico e riflessivo, coltivando le dimensioni critica, creativa e valoriale del pensiero che, per Lipman, rappresentano l’aspetto primario del processo educativo.

 

La valigia del filosofo

NOTE
1. Qui per un approfondimento delle indicazioni nazionali.
2  Cfr. J. Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1964.
3. Qui per la consultazione del protocollo.
4 Cfr. J. Dewey, Esperienza e educazione, La Nuova Italia, Perugia, 1993.
5 Cfr. M. Lipman, Educare al pensiero, Vita e Pensiero, Milano, 1991.

[Photo Credit: Samuel Zeller on Unsplash.com]

banner-pubblicitario_abbonamento-2018

La vocazione per la totalità (e per il riso)

“Mio nonno ridendo si confessava”, dice un noto detto. Di certo, anche le riflessioni più complesse, tribolate, approfondite e serie, spesso scaturiscono meglio da una sana e dissacrante frecciatina che da un polveroso volume filosofico. Sulla filosofia e sui filosofi esistono caterve di battute geniali e che effettivamente riescono in modo efficace a “catturare l’essenza” meglio dei cosiddetti metodi tradizionali. Una delle ultime che mi è capitato di sentire è:

“Perché studiare filosofia?
Grecia: per vivere una buona vita
Inghilterra: per capire il mondo
Germania: per cambiare il mondo
America: sapevate che i laureati in filosofia hanno il salario medio più alto di tutti gli umanisti?”

Impossibile che non sopraggiunga alla mente, a chi mastichi da un po’ la filosofia, una qualche altra battuta sulla filosofia americana o sull’approccio culturale in cui la filosofia è inserita specialmente oltreoceano (certo, pur sempre nell’immagine mentale che abbiamo di essa). Non è certo questo il luogo per disquisire sulle differenze tra la filosofia europea (cosiddetta “continentale”) e quella americana/anglosassone (cosiddetta “analitica”), che nel corso del ‘900 sono andate separandosi in modo, secondo me, al limite dell’irreparabile. Però possiamo capire cosa ci viene trasmesso di serio da una battuta del genere. 

Oggi si sente un gran dire che la filosofia sia un beneficio, una “marcia in più”, se inserita in modo trasversale in un contesto più ampio e diverso da essa. Studiare un po’ di filosofia all’interno di un percorso diverso può infatti far comprendere in modo diverso quanto appreso, vederlo da un altro punto di vista, arricchire quanto si sa. Ma appunto questo significa relegare la filosofia a mero potenziometro disciplinare: non si tratta più di intenderla come sguardo per la comprensione delle cose nella loro totalità (nella battuta sopra “la vita”, “il mondo”) ma di metterla come optional d’oro inquadrato in una situazione in cui la totalità, quanto compresa, è compresa da altro (scienza, economia, credenze popolari, interdisciplinarietà). E magari, come nella battuta, suggerire tra le righe anche una supposta legittimità e una tentata valorizzazione data dal tono preciso e statistico della domanda. Non si tratta di screditare tale tendenza, tra l’altro ricca di benefici, ma di criticare il posto che oggi si pensi debba occupare la filosofia.

Ho tirato in ballo la denominazione di filosofia analitica in questo contesto non a caso. La filosofia analitica già alla sua nascita ha voluto escludere che ci fosse un qualcosa come “la totalità” di cui occuparsi: la totalità sarebbe un concetto metafisico come tutti quelli di cui è necessario sbarazzarsi per guadagnare terreno invece nella realtà del mondo interpretato scientificamente. La filosofia diviene dunque strumento (solitamente logico) per la lubrificazione dei meccanismi che altre discipline utilizzano ed escogitano per il mondo, dimenticando invece il ruolo tutto proprio e soprattutto la sua natura di vera e propria vocazione e non di strumento utilizzabile a convenienza.

Non siamo troppo seriosi però! L’ironia è da sempre ottima compagna della conoscenza e se c’è chi ne ride, c’è chi sente e comprende la situazione appena descritta. Si torni ad avere quindi meno marce per correre e più occhi. E si sappia anche riderne.

Al grido americano, “Make philosophy great again”!

 

Luca Mauceri

 

[Photo credits: Fabio Rose su Unsplash]

banner-pubblicitario_la-chiave-di-sophia_rivista

Tra parole e immagini

Grandi carte da gioco colorate ordinate sul pavimento della palestra e le espressioni concentrate dei bambini, attenti a non scivolare col pennarello mentre scrivono, o forse disegnano, i loro pensieri su fogli trasparenti. È questo uno dei momenti che compongono il percorso didattico Le meraviglie che Alice trovò, pensato per avvicinare i bambini alla lettura dei celebri romanzi carrolliani Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò e per introdurre, giocando, la riflessione su alcuni dei principali temi filosofici e logici in essi contenuti. Le carte da gioco nel Paese delle Meraviglie si muovono e interagiscono con Alice, animando il suo mondo. La Regina di Cuori ha un carattere davvero difficile, è così irascibile! Il Cinque e il Sette, invece, litigano sempre in un modo così buffo!

Le carte che escono dalla nostra valigia, per fortuna, riescono a stare decisamente più ferme. Prendono vita da ciò che dicono i bambini e ci aiutano a ricostruire la storia. Nel nostro mondo non possono essere diverse di carattere, ma hanno differenti funzioni: ci sono carte soltanto da leggere e carte da osservare, con le illustrazioni originali di John Tenniel. Ci sono, poi, carte che contengono il disegno di un oggetto e qualche parola, in alcuni casi una frase: sono le carte di picche, quelle che servono per costruire un ponte tra il nostro mondo e quello di Alice. Gli oggetti disegnati appartengono al vissuto di ciascun bambino. Un orologio, una tazza di tè, una rosa. Il modo in cui sono disegnati permette un confronto con le tavole di Tenniel, volto a mitigare gli aspetti di difficoltà nella lettura di immagini che possono sembrare ormai distanti dalla loro sensibilità.

È il Coniglio Bianco che, estraendo frettolosamente l’orologio dal taschino, dice tra sé «sono in ritardo!»: le parole o le frasi che accompagnano gli oggetti forniscono gli spunti per individuarne il legame rispetto a una situazione o a un personaggio incontrato da Alice. E, nel contempo, introducono un tema filosofico, come quello del tempo, sul quale i bambini sono invitati a sviluppare una riflessione personale, da condividere con gli altri. Cosa vuol dire essere in ritardo? Ci sono cose che per abitudine facciamo in fretta, ma che dovremmo fare con più calma? Di fronte al sei di picche, poi, possiamo chiederci se i discorsi strampalati del Cappellaio Matto, che confondono così tanto le idee ad Alice, siano davvero soltanto parole senza senso. Proviamo a riflettere, per esempio, sul significato di alcune inversioni: siamo proprio sicuri che il significato dell’affermazione «mi piace quello che ho» sia equivalente a quello di «ho quello che mi piace»?

I temi filosofici che emergono seguendo Alice nelle sue avventure sono molti e di varia natura. Alcuni, prettamente logici, introducono giochi linguistici, altri conducono all’approfondimento di questioni che riguardano il vissuto dei bambini, le loro emozioni e le loro esperienze quotidiane. Così, dopo una fase di scambio e di dialogo sui vari temi, ciascun bambino crea un calligramma, a partire dai disegni e dalle parole delle carte di picche. Attraverso il segno grafico viene consolidato il nesso tra oggetti e personaggi che popolano l’universo fantastico di Alice e il mondo reale della vita di ogni giorno, in modo libero e più o meno profondo. Le modalità di creazione di un calligramma sono descritte ai bambini in modo semplice, inizialmente senza riferimenti esterni alla storia di Alice: lo stesso Lewis Carroll dispone le parole che il Topo rivolge ad Alice a formare una coda lunga, tortuosa e via via sempre più sottile. Ed è questo il primo calligramma che presentiamo ai bambini: una poesia le cui parole sono stampate sulla pagina del libro in modo da creare graficamente l’immagine di un oggetto, la coda, che ha a che fare con il contenuto semantico della poesia stessa. Il nesso tra universo fantastico e realtà, ma anche la sensibilità filosofica dei bambini, emergono nei loro calligrammi in modo più o meno evidente e personale, perché viene lasciata loro la possibilità di scegliere tra due diverse modalità di elaborazione. Attraverso la prima, più tradizionale, “è la parola a disegnare se stessa”, denotando l’oggetto cui si riferisce a livello semantico e, nello stesso tempo, connotandolo visivamente1. In questo esercizio, solo apparentemente banale, il bambino potrà usare una quantità più o meno grande di parole: nel caso della rosa, per esempio, le potrà dare forma soltanto con la parola «rosa», o potrà introdurre anche le parole «petalo», «gambo», «spina». Con la seconda modalità, quella che auspichiamo sia scelta, le parole si legano ad esprimere un pensiero filosofico2. Speriamo che l’oggetto cui danno forma, che appartiene sia al mondo di Alice sia al vissuto dei bambini, da ora in poi porti con sé nuovi significati.

La valigia del Filosofo

 

NOTE:
1. L’artista svedese Thomas Broomé usa le parole come texture per disegnare gli oggetti da esse denotati, ottenendo effetti visivi davvero sorprendenti.
2. In questo caso il riferimento è al poeta francese Guillaume Apollinaire, uno dei più conosciuti autori di calligrammi, ma anche a Lewis Carroll e alla sua coda del Topo.

 

 

banner-pubblicitario_abbonamento-rivista_la-chiave-di-sophia_-filosofia