La filosofia è morta. Viva la filosofia

«Chi si vuole sotterrare nella polvere dell’antichità, quando il corso del suo tempo ad ogni istante lo avvolge e con sé lo trascina?».

Questo scriveva un giovane Schelling all’ex compagno di studi Hegel. I due filosofi, insieme con il poeta Hölderlin, avevano condiviso il percorso di studi presso lo Stift, il seminario protestante dell’Università di Tubinga, dal 1788 al 1793. Il corsivo è dello stesso Schelling: il suo tempo. L’autore vuole far cadere l’attenzione dei lettori sul tempo in cui loro stessi vivono, con il quale possono (e devono) confrontarsi.

Nell’elaborazione del proprio sistema filosofico – da alcuni concepito come una sorta di ideal-realismo – Schelling non lascia spazio alla storia, concentrando il proprio interesse al rimando di ogni determinazione molteplice all’unità dell’Assoluto. Ma sarebbe errato concepire la citazione iniziale come una negazione dell’importanza del passato. La frase infatti prosegue così: «Vivo e mi muovo al presente nella filosofia».

Questa citazione può fornire un punto di partenza per alcuni interrogativi, proprio riguardanti il presente e il significato di fare filosofia oggi. Una possibile concezione, alla luce delle citazioni di Schelling, è quella di una filosofia viva, in grado di volgere il proprio sguardo in avanti, confrontandosi con il mondo e cercando di dare risposte ai problemi dell’uomo nella contemporaneità. Una Filosofia, in altri termini, non limitata a una filologia fine a se stessa. Una Filosofia che, utilizzando le categorie fornite dai pensatori del passato, si superi continuamente. Un movimento incessante che segue il divenire del mondo nel suo modificarsi e si adatta alle sue pieghe. Questo, nell’epoca della cosiddetta post-verità, non deve però tradursi in un’impossibilità conoscitiva, in un relativismo distruttivo, che nega ogni acquisizione del pensiero umano.

Dicevamo, alcune domande sull’oggi: la Filosofia accademica, in Italia, si muove «al presente»? Oppure ha fissato il proprio sguardo verso ciò che è passato? La risposta definitiva, a una questione di portata tale da investire lo statuto stesso della filosofia, potrebbe non essere mai trovata. Limitiamoci a qualche spunto di riflessione. Consideriamo i tre migliori «mega atenei italiani» (oltre 40.000 immatricolazioni) secondo la Classifica Censis 2019/20, ovvero Bologna, Padova e Firenze (link alla Classifica Censis). I piani di studio della Laurea Triennale in Filosofia sono accomunati da due fattori: massiccia presenza di insegnamenti afferenti al settore disciplinare storico e, per la quasi totalità degli insegnamenti, didattica frontale.

E ancora: quale impatto ha oggi la Filosofia sulla società? È ancora in grado di apportarvi cambiamenti? Come viene percepita dal pubblico non specialistico? Ha ancora un significato “essere filosofi” oggi? Domande che, qui, rimarranno senza risposta. A una prima occhiata sembra che la Filosofia abbia abdicato a una delle proprie ragioni di vita, quella di indirizzare l’umanità verso un futuro migliore. E come potrebbe? I dati dell’Associazione Italiana Editori «rilevano che l’indice di lettura di libri colloca l’Italia nelle posizioni di coda del ranking internazionale»: leggiamo poco, troppo poco perché la filosofia venga considerata più di un vezzo elitario (link ai dati AIE).
Di fronte a questo panorama poco confortante, due sono state le reazioni, entrambe “estreme”. Da una parte, i filosofi si sono ritirati nelle torri d’avorio dei propri dipartimenti. L’esito è stato una ricerca tanto più parcellizzata quanto più inabile a fornire coordinate per orientarsi nel presente. Dall’altro lato, i “volti noti” della filosofia si sono rivelati niente più che opinionisti televisivi, politici o politicanti.

La serie di domande potrebbe continuare all’infinito, anche in senso contrappuntistico: per fare filosofia non è però necessario conoscere tutto il panorama della storia della filosofia precedente? Quale alternativa può mai esserci alle lezioni frontali nelle discipline umanistiche? Ma davvero facciamo filosofia per cambiare il mondo?

Non può essere che tutta la filosofia del passato si sia rivelata una cattedrale nel deserto. Ci sono luoghi, fisici e non, lontani dall’accademismo, che praticano una filosofia viva, attiva e fattiva. Una parte del mondo accademico ha (forse) rinunciato a quella legittima pretesa: che la filosofia sia in grado di elaborare visioni orientative in un mondo che cambia sempre più rapidamente. Assumiamo questo come constatazione, come punto di partenza. Per fare cosa? Certo è che, per dirla nuovamente con Schelling, «qui c’è ancora parecchio da fare».

 

Edoardo Anziano

 

NOTE
Le citazioni di Schelling sono tratte da G.W.F. Hegel, Epistolario, 1785-1808, p. 107, citato in Borghesi, Massimo, L’età dello spirito in Hegel, Roma: Edizioni Studium, 1995.

[Photo credit Giammarco Boscaro via Unsplash]

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La ricetta antica per vivere cento anni: l’esempio della Grecia classica

Diversi elementi mi convincono del fatto che sugli antichi Greci abbia agito una qualche forma di benedizione cosmica. L’energia e l’ispirazione che gli uomini di quel tempo emanavano e che hanno sigillato nelle loro gesta e nelle loro opere, la forza e sincerità dei loro pensieri, delle loro arti e dei loro gusti – persino il loro uomo medio aveva gusto, azzardava Nietzsche – risuonano a distanza di millenni. Chi si avvicina alla cultura greca avrà sempre la sensazione di poterne trarre nuove forze e nuova linfa per i nostri tempi.

Chi fosse come il sottoscritto, caratterizzato da una morbosa curiosità verso le vite e i fatti dei più vari personaggi del passato, potrebbe notare un dettaglio molto curioso: in epoca antica, l’età degli uomini di una certa cultura alla fine della loro vita era altissima, a maggior ragione se comparata ai livelli medi di quei tempi. È vero che la Grecia antica ha conosciuto una vita media ben più alta rispetto ai periodi passati e a molti successivi, come ricorda anche l’interessante studio medico “The length of life and eugeria in classical Greece1. La qualità molto buona della loro vita, fatta di buon cibo, clima mite, attenzione all’esercizio e al benessere del corpo, repulsione per i lavori pesanti, cultura raffinata e con un basso contrasto tra vita dell’ego e tabù sociali, comunque non poteva garantire un’aspettativa di vita superiore ai 60-70 anni per buona parte della popolazione.

Eppure, solamente scorrendo le date di nascita e morte di personalità intellettuali di spicco, notiamo che non si discostano affatto da quelle di oggi, ovvero di vite che hanno attraversato millenni di progresso scientifico e tecnologico.

Vediamo qualche esempio: Euripide è morto a 78 anni; Platone a 80; Diogene il Cinico a 89 (dopo una vita segnata dalla volontaria miseria totale); Sofocle e Democrito a 90; Isocrate a 98; Gorgia all’incredibile età di 108 anni, grazie, a sua detta, al «non aver mai compiuto nulla per far piacere ad un altro»2.

Tutti questi personaggi, come molti altri ancora, hanno vissuto vite molto diverse: c’è il nobile ritirato, il vecchio guerriero, l’asceta povero, l’accademico severo e viaggiatore. La loro veneranda età sembra essere l’unico filo che li congiunga, se non considerassimo il loro contributo intellettuale. Tutti infatti in un modo o nell’altro, sono stati dei geniali esempi per lo sviluppo della cultura occidentale, grazie alle loro irripetibili menti. Può significare che in qualche modo l’uso raffinato e continuo della mente possa offrire opportunità di longevità?

Se intendiamo l’esercizio del pensiero in senso opposto all’odierno stare chini sui libri, probabilmente sì. Non era infatti nulla di solamente cerebrale a muovere quelle menti. Essi erano capaci di vivere la totalità degli impulsi e degli stimoli dettati dalla natura: non leggere soli dentro una casa, ma insieme sulle rive di un ruscello, o passeggiando al sole fuori dalla città; non calcolare davanti a schermi o fogli di carta, ma osservare in prima persona gli eventi naturali e congetturare sulla riproduzione degli animali o sulla formazione della grandine; non soffocare la vita sotto principi moralistici, ma essere la vita stessa, il suo moto, la comunità che la porta avanti. Ed ecco dunque che ricercare non significava solamente leggere o esercitarsi, ma affinare lo sguardo, acuire i sensi, imparare a discutere, mantenersi in forma, sviluppare un gusto, dialogare, assecondare le voglie, partecipare, provare in prima persona, mettersi in gioco, imparare a sopportare dolori fisici e psicologici e molto altro. La saggezza diveniva forma di vita integrale e la cura per la mente non era diversa dalla cura per il corpo, come l’attenzione a se stessi non era separata dall’attenzione per gli altri (a parte per Gorgia, forse).

In questo modo l’uomo si poneva nei confronti della natura in un atteggiamento collaborativo-interrogante: riconosceva la vita e la natura come fonte unica e continua di ogni bene, di ogni male, di ogni opportunità, di curiosità, nonché di soluzioni nascoste in un groviglio di misteri, con la sola guida del proprio intuito e della propria capacità deduttiva per venirne fuori. La società era modellata dal vento della vita e non costruita in antitesi ad essa. Forse – seguendo la traccia dei contemporanei Freud e Nietzsche – abbiamo ancora molto da sdoganare e ricordare, del nostro rapporto con la natura e della nostra capacità di conviverci? Non dovremmo ripensare alcune abitudini della vita contemporanea alla luce di queste evidenze? I ritmi della quotidianità, i tempi e modi del lavoro, l’impostazione sociale, la salubrità delle città, l’incoraggiamento creativo, necessiterebbero di un rapporto rinnovato e più immediato verso il mondo in quanto tale, per una vita non si sa se più lunga ma certamente migliore.

Nessuno può pronunciarsi sulle proprie sorti, né attendersi stravolgimenti sociali immediati, ma si può sempre iniziare a fare almeno di sé, per un benessere che sia realmente tale, non solo pensatori, ma forme di vita pensante.  

 

Luca Mauceri

 

NOTE
1. Si tratta dello studio dell’endocrinologo Menelaos B. Batrinos, The length of life and eugeria in classical Greece, in “Hormones” 2008, 7(1):82-83.
2. DK 82A11.

[Photo credit pixabay.com]

Lo spazio della filosofia nella cultura di massa: intervista a Simone Regazzoni

Esattamente un mese fa eravamo presi dagli ultimi dettagli per il nostro evento Pop Filosofia. Una serata con Socrate & Co. e stavamo aspettando l’arrivo dei nostri due relatori d’eccezione, Tommaso Ariemma e Simone Regazzoni. Al primo avevamo già dedicato una lunga intervista firmata da Giacomo Dall’Ava mentre abbiamo atteso l’inizio dell’evento sorseggiando uno spritz e ponendo qualche domanda questa volta a Simone, chiedendogli qualcosa di più sui suoi studi. In cantiere ha ben tre libri (ma non ci sentiamo autorizzati ad anticiparvi nulla!) mentre in passato si è occupato di temi interessanti e sempre attuali come la pornografia, ma anche di serie televisive, cosa che l’accomuna al collega Tommaso. Infine, da veri Potterheads (quasi tutta la redazione lo è!) abbiamo parlato di quel mondo incredibile creato da J.K. Rowling e di tutto quello che la saga di Harry Potter è stata in grado di insegnare.

Simone Regazzoni è docente di Estetica all’Università di Pavia ed è direttore editoriale della casa editrice genovese “Il melangolo”. Ecco finalmente per voi i passaggi principali della nostra lunga e piacevole chiacchierata.

 

La sessualità è un tema che è stato fatto proprio dai pensatori occidentali dall’antichità fino alla contemporaneità, si pensi per esempio alla mitologia di Platone, alle scoperte in ambito psicoanalitico di Freud, o alle speculazioni filosofiche di Foucault. Si può dunque ricongiungere la “pornosofia” a questa tradizione, come tassello ultimo di una lunga serie di interrogativi e indagini attorno al tema della sessualità? Come può l’erotismo avere una valenza d’indagine filosofica, secondo un’ottica pop-filosofica?

Il tema della sessualità è da sempre al contempo presente e tuttavia rimosso all’interno della filosofia; dico presente e rimosso perché la modalità della sua presenza è diversificata: è un tema che sì viene affrontato, ma non nel suo lato più reale e perturbante. È evidente che in Platone abbiamo la dimensione dell’eros, ma quando egli distingue tra un eros pandemos e un eros uranios sta definendo due livelli: uno dove eros ha una dimensione filosofica intellettuale, di elevazione, e un altro meramente corporeo che la filosofia lascia cadere fuori dal proprio discorso. Pensiamo al cuore del Simposio, dove tutti i discorsi costruiti perfettamente sull’eros vengono messi in scacco dall’ingresso dell’amante che è ubriaco ed eccitato: troviamo infatti Alcibiade che fa una dichiarazione d’amore sconveniente a Socrate. Penso anche ad un grande filosofo, che è stato anche mio maestro, Jacques Derrida, che diceva che se Heidegger fosse stato ancora vivo gli avrebbe chiesto che cosa ne fosse della sua vita sessuale; questo perché i filosofi non parlano della loro vita sessuale, possono solo speculare sulla sessualità. Derrida per esempio è un filosofo che ha dichiarato (ed è uno dei pochi) di aver parlato e descritto in maniera dettagliata il proprio pene all’interno di testi filosofici. Heidegger invece ha avuto una storia d’amore con una sua studentessa, Hannah Arendt; questo, che può essere declinato come una sorta di pettegolezzo filosofico, in realtà ha avuto un’importanza essenziale per Heidegger perché in quegli anni scriveva Essere e Tempo; forse non l’avrebbe scritto senza quella relazione amorosa/sessuale/erotica con Hannah Arendt.

La pornografia in tutto questo come entra? Secondo me essa è interessante per due elementi. Il primo è che è uno dei fenomeni più diffusi dal punto di vista della massa − solo il calcio compete con la pornografia. Per questo motivo incide sul livello di immaginario, di educazione sentimentale, di costruzione della soggettività e quindi è un fenomeno sociale rilevantissimo. Dall’altro punto di vista (quindi non solo sociologico ma anche filosofico) è interessante perché è l’unico spazio dove la carnalità dei corpi viene messa in scena; se dobbiamo cercare un corrispettivo pittorico dobbiamo pensare a Francis Bacon o a Egon Schiele. Dunque c’è questo doppio interesse: uno filosofico sul tema della carne (sul quale lavoro), ma anche un interesse in quanto fenomeno pop di massa che può permettere di intercettare le menti dell’immaginario; il mio libro infatti è un libro di filosofia ma anche di filosofia pop.

Un filone su cui insisto molto in questo libro è un lavoro di analisi del rapporto tra corpo e carne, poiché mentre l’erotismo è la dimensione del corpo nella massima potenza, la pornografia disgrega il corpo; pensiamo al dettaglio anatomico che è il focus centrale del film pornografico, il momento del godimento che deve essere captato… siamo al di là del corpo. Quindi il tema della carne, che per esempio la fenomenologia ha indagato, qui lo troviamo messo in scena anche nella sua forma più cruda. Evidentemente non si tratta di nobilitare la pornografia, ma di osservarla in quanto rappresentazione filmica della carnalità: questo è lo spazio della pornografia; che poi la sua valenza di fruizione sia di tipo masturbatorio è pressoché inevitabile, ma questo non significa che non abbia interesse. Sempre più poi quello spazio cinematografico limite che è la pornografia è penetrato in altre forme cinematografiche: Lars Von Trier prende degli spunti pornografici e li inserisce nei suoi film, così come Scorsese; anche il cinema cosiddetto “alto” quando deve lavorare su certi temi inserisce stilemi al limite. Quando gerarchizziamo i film lo facciamo secondo il tipo di effetto che hanno sul corpo: tanto più il film è intellettuale e tanto meno si inseriscono elementi corporei, mentre tanto più un film fa ridere, piangere o godere e più vengono inseriti elementi corporei, facendo abbassare la scala. La pornografia è considerata al limite della cinematografia perché non c’è alcuna possibilità di fruizione puramente intellettuale.

 

Che cosa significa pornosofia? Come afferma nel suo libro, essa ha come oggetto il tema di “fiction”: in quanto riflesso della società contemporanea, può la pornosofia diventare dunque la chiave di lettura del nostro presente? Che cos’è quindi il pop porno, in cui gli attori, come lei stesso afferma, «fingono di fare ciò che in realtà fanno»?

L’altro tema a mio avviso importante nella pornografia è la creazione di uno spazio di indistinzione tra realtà e fiction, perché la pornografia è insieme recitazione e performance corporea; tanto più la pornografia è di qualità, e cioè prevede degli attori, tanto più questa performance è ipercodificata e regolata. Al contempo però non può non avere un momento di realtà, che è quello del godimento − ovviamente si tratta di del godimento maschile perché sulla realtà del godimento femminile, anche sulla realtà vera, nessuno può mettere la mano sul fuoco, quindi ci potrebbe sempre essere un momento di finzione. Su quello che viene chiamato cumshot della pornografia ed appartiene all’atto maschile, quello è il momento indispensabile perché ci sia il porno; nel caso invece ad esempio dei film solo lesbo c’è tutta la “mitografia” della eiaculazione femminile che deve dare un corrispettivo. Tutto questo per dire che in ogni caso è necessario che vi sia un elemento di reale, e dunque è una delle poche rappresentazioni di fiction che prevede un momento di reale che debba in qualche modo lasciare il suo segno sullo schermo. Questo dato ci dice delle cose molto interessanti, soprattutto rispetto all’interazione che abbiamo sempre di più tra realtà e fiction: abbiamo sempre più bisogno di una finzione che abbia elementi di reale, al contempo la realtà è sempre più costruita, infatti non c’è elemento di cronaca o politico che non abbia una dimensione di storytelling e di narrazione. Quindi la pornografia ha in qualche modo anticipato l’intersezione tra questi due spazi.

Il secondo elemento è che la pornografia può darci a leggere la società e sicuramente i fenomeni interessanti di tale società. Pensiamo al fatto che non c’è uomo politico che non abbia una retronarrazione sessual-porongrafica e che grandi eventi politici del Novecento hanno avuto questa connotazione − cito per esempio Bill clinton che deve confessare se ha avuto o no un rapporto sessuale con Monica Lewinsky e deve andare a parlare di fronte agli Stati Uniti interi di questo dato. La dimensione di erotizzazione del corpo politico oggi è evidentemente qualcosa di ineliminabile: non c’è leader politico dove dietro non vi sia uno storytelling che prevede una erotizzazione del suo corpo. Quindi gli elementi che noi abbiamo trovato in questo tipo di fiction rientrano altrove − caso esemplare in Italia è quello di Silvio Berlusconi: non c’è stata una rappresentazione del suo corpo che non abbia avuto un sovraccarico di immaginario assolutamente pornografico, per quanto possa essere stato creato ecc. Quindi questo è sicuramente uno degli elementi che circolano oggi nello spazio pubblico e politico.

Concludo non a caso il libro sul rapporto tra democrazia e pornografia, perché poi l’altro elemento essenziale è: è possibile pensare uno spazio democratico che vieti la pornografia? Oggi non è possibile pensarlo. Quindi paradossalmente questa cosa di livello bassissimo, assolutamente volgare, le cui qualità estetiche non sono quasi mai eccelse (perché poi nella maggior parte dei casi la qualità della produzione è bassa), è certamente uno degli elementi che contraddistinguono uno spazio democratico, cioè il diritto di mostrare il godimento; in modo speculare invece non c’è spazio totalitario che non preveda la rimozione della pornografia. Quindi che rapporto c’è? Un filosofo come Alain Badiou dice che la democrazia (ma lui la critica in questo) è lo spazio dei corpi e del loro godimento; in questo riprende Platone e la critica platonica alla democrazia, ma in questo senso noi possiamo pensare che c’è un intimo legame tra spazio democratico e circolazione di un immaginario di tipo pornografico, inteso nel senso di ostentazione dei corpi e del loro godimento.

 

Addentriamoci ora in un altro tema, per noi molto interessante. Nel suo libro La filosofia di Harry Potter lei dà molta importanza al contrasto tra il mondo magico e quello dei cosiddetti babbani. Questa dicotomia favorisce il discorso riguardante l’alterità, ciò che è altro da noi e il relativo incontro che esperiamo. Che cosa può insegnarci il mondo di Harry Potter riguardo al concetto socialmente condiviso di normalità e del suo rapporto con la stranezza?

L’interesse per una saga come quella di Harry Potter può essere molteplice. Uno degli elementi è quello collegato alla domanda e cioè il fatto che la natura del romanzo di Harry Potter lo rende sui generis, tenta di mostrare il contrasto con una supposta “normalità” per codificare come spazio quello dettato da alcune regole, comportamenti morali e politici, in opposizione ad uno spazio altro che invece viene a mostrare il limite del precedente, quello della “normalità”, e lo rivalorizza. Il mondo dei Babbani è un mondo che si vorrebbe presentare come l’unico possibile ma questa normalità in realtà viene vissuta come una sorta di prigione; ecco che la scoperta del mondo magico è la scoperta di un’altra via per un altro mondo possibile. Si realizza in questo senso il passaggio tra i vari mondi, passaggi che permettono ai soggetti di trovare un mondo in cui possano aumentare le proprie potenzialità dell’esistenza. Dall’altro lato è interessante il fatto che lo spazio del mondo sia una sorta di multiverso che mette in discussione non solo il paradigma della normalità ma anche il paradigma della razionalità come l’unica chiave per interpretare il mondo; è ovvio che se il mondo è uno ed è retto da quelle leggi sarà uno strumento privilegiato, ma nel momento in cui si mostra che quel mondo è solo una nicchia accanto ad altre, ebbene allora dovremmo utilizzare altri strumenti.

Questa saga è anche molto interessante perché non arriva a rigerarchizzare i mondi, il mondo magico e quello vero e razionale. A questo punto non ci interessa più farlo, sono mondi che si compenetrano l’uno con l’altro e non l’uno affianco all’altro, sono pieni di passaggi all’interno e sono ripiegati l’uno nell’altro. Ci sono persone che sanno muoversi in entrambi utilizzando risorse differenti, per esempio Hermione Granger è una giovane maga molto razionale ma che deve anche sapere utilizzare la stranezza più assoluta, ma penso anche a Luna Lovegood che come personaggio è considerata una pazza ma in realtà ha semplicemente un altro modello di lettura della realtà e in certi contesti la lettura stramba, sfocata, fuori fase, permette addirittura di vedere pezzi di realtà che altri non vedono, ed è il caso delle creature “invisibili” ma che in realtà ci sono (i Thestral, ndR). Tutto questo è un tentativo di rompere con la chiusura della normalità per contrapporre quello che oggi la filosofia e la sociologia chiamano un sistema ad alta complessità: il mondo Hogwarts  è davvero un mondo ad alta complessità e il divenire soggetti di questi maghi è il dedicarsi ad attraversare la complessità con strumenti differenti, perché è vero che loro usano la magia (che è fatta di atti linguistici), ma usano anche la tecnica (e il padre di Ron Weasley ne è un esempio).

Cito inoltre Foucault nel testo per mettere in discussione il paradigma della normalità. Nello spazio normale dei Babbani per esempio ci sono le figure degli zii, che sono figure di aurea mediocrità per i quali qualsiasi persona che si allontana dal paradigma di normalità è un pericolo, una minaccia − lo zio di Harry è una minaccia, Harry stesso è una minaccia e così via. Tutto questo ci fa rivedere la dimensione della soggettività e ci fa riscoprire un altro tipo di etica. È inoltre in questo spazio accettato nella sua molteplicità che la relazione con l’altro non è semplicemente quella “l’altro è un nemico”, ma nemmeno quella finta buonista per cui “l’altro è una ricchezza” che anche nella sua diversità ci farà sempre bene. Pensiamo alla figura di Dobby, l’elfo domestico e dunque brutto esteticamente, distante dalla sensibilità di Harry, tuttavia il loro rapporto d’amicizia non si concretizza subito perché è una ricchezza, anzi, Dobby causa subito dei danni a Harry perché la distanza è molta. Ora il problema è che il rapporto con l’alterità ha un suo reale disturbante, ovvero l’elfo è disturbante, ma proprio a partire da questo si deve tessere un rapporto vero di riconoscimento e di amicizia, che non si costruisce sul fatto che l’altro mi dà ricchezza e quindi lo accetto, sarebbe troppo facile! Sarebbe la facile tolleranza per cui io tollero l’altro anche se è diverso esteticamente ma mi arricchisce e non mi crea problemi. L’altro è invece quello che io non riuscirò mai fino in fondo a comprendere, che ha delle regole davvero molto distanti da me e con cui tuttavia devo trovare il metro con cui misurare la giusta distanza. Su questo per esempio si fonda anche l’amicizia dei tre protagonisti con Hagrid, un mezzogigante che ama creature pericolose: è un’amicizia rimane solida non perché in qualche modo viene addomesticata ma perché loro si assumono la responsabilità di un certo rischio, la possibilità di essere feriti dall’altro, e quindi in questo senso vi è davvero un altissimo livello di riflessione sull’alterità in Harry Potter.

 

Abbiamo trovato molto interessante il capitolo in cui parla dell’atto etico e della figura pedagogica di Silente, il preside di Hogwarts. Crediamo che abbia colto una delle emergenze educative odierne quale l’abbattimento di un autoritarismo ancora vigente. Il consiglio e l’accompagnamento spesso si trasformano in coercizione ritornando dunque ad una visione di normalità anche nelle aspettative evolutive. Crescere secondo certe norme sociali condivise per sentirsi adeguati e giusti mentre la vera tendenza dovrebbe assumere dei caratteri libertari. Che cosa ne pensa e che cosa potrebbe suggerirci il vecchio Albus?

Il vecchio Albus secondo me non suggerendoci quasi niente ci ha detto tutto. È un tipo di impostazione pedagogica quella di Hogwarts in cui il soggetto deve allenarsi a diventare di più, dove l’allenamento, nel senso di ripetizione, errore, confronto con i pericoli, non ha mai eliminato nessun pericolo a questi ragazzi, infatti non sono protetti da nessuno, anzi paradossalmente Silente si occulta nel momento di maggior pericolo. In una narrazione di quel tipo poteva essere che il mago più potente fosse presente a risolvere i problemi, invece fin dall’inizio della saga i momenti di pericolo sono affrontati da questi ragazzi, che paradossalmente si misurano con questo pericolo e crescono ed imparano proprio in questo modo. Molto spesso poi si trovano ad affrontare un pericolo per infrazione di una regola: “non dovete andare in quella parte di Hogwarts”, “non dovete fare questo”, eppure poi non c’è nessuno lì ad impedirglielo. Non è un’educazione banale perché in questo modo sta al soggetto capire come rapportarsi a delle regole; un soggetto etico è qualcuno che valuta l’esistenza di contesti in cui l’etica non è semplicemente l’adeguarsi ad una norma, ma si deve saperla trasgredire, cioè reinterpretare nel modo giusto per rispondere in maniera adeguata a ciò che accade; altrimenti si rischia di trovarsi nella situazione di chi dice “io l’ho fatto perché le regole erano quelle”, che poi era la risposta data da Eichmann al processo di Gerusalemme. Le regole esistono inevitabilmente, il soggetto etico è quello che le valuta, capisce quali può applicare e sceglie che altre le deve trasgredire, prendendosene le responsabilità. Ad Hogwarts un’autorità come Silente non è qualcosa che compromette ed è soffocante, ma qualcosa a cui potranno comunque rivolgersi, e non è un caso che loro certe esperienze gliele raccontino. A questi racconti poi Silente risponde con poche parole, il che significa: io non ti dico niente però tu sai che io ci sono, prova la tua strada, sbaglia, rischia, trova il tuo modo giusto per farlo, confrontati con la tua solitudine. Per questo Silente è stato per loro un grande maestro, anche quando Harry soffriva per il suo silenzio. A questo proposito cito solo una delle sue frasi più importanti sull’etica: “quando e se vi troverete a scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile, ricordatevi del vostro amico Cedric Diggory”. Etica non è tra ciò che è bene e ciò che è male: è tra ciò che è giusto e ciò che che è facile, ovvero fare la cosa giusta è fare la cosa non facile; in questo senso la via delle regole potrebbe essere anche la via più semplice.

Albus Silente è questo personaggio. Aggiungo che c’è un altro elemento interessante, poiché lui dovrebbe essere la figura positiva per eccellenza della saga ma in realtà nell’ultimo libro viene fuori, tramite una biografia, la sua fascinazione in età giovanile per il lato oscuro. Questo significa che non era un uomo perfetto, ma perché non ci sono uomini perfetti: non lo era il padre di Harry e nemmeno lo era Silente. Dopo un iniziale rifiuto, Harry giunge ad una conclusione: “io so questo”, e finalmente non c’è una visione idealizzata del maestro, è un uomo che gli ha saputo insegnare molte cose, con cui si è confrontato con le sue debolezze e paure, senza contare il fatto che Silente muore, dunque non è il grande mago infallibile. La grande innovazione di J. K. Rowling è questo personaggio luminoso ma con il suo lato oscuro, perché ciascuno ha le proprie problematiche; incarna una pedagogia che non è anarchia ma costruzione ed esperienza della libertà.

 

Dal mondo magico a quello politico. Lei di politica ha avuto modo di occuparsi sia attraverso i suoi scritti (ricordiamo La decostruzione del politico. Undici tesi su Derrida del 2006 e Derrida. Biopolitica e democrazia del 2012), che in prima persona, avendo militato nel Partito Democratico. Cosa ne pensa di un governo retto dai filosofi, come immaginato negli scritti di Aristotele?

L’idea di un governo retto dai filosofi la trovo pericolosa perché in realtà si tratta di una idea di intellettualizzazione della politica che deve essere subordinata ad una forma di sapere. Non è in linea con la concezione dello spazio democratico a cui sono affezionato, poiché nello spazio democratico non c’è una teoria delle élites per la quale sono solo le élites stesse a poter governare. La democrazia è invece lo spazio del governo del popolo attraverso la rappresentanza, quindi qualsiasi elemento che dica che c’è uno spazio di intellettualizzazione della politica è un rischio per la democrazia. È evidente che la degenerazione della democrazia può essere dietro l’angolo e tuttavia la degenerazione di questi anni è dovuta all’illusione che i tecnici possano salvare lo spazio politico nei momenti di crisi. In realtà abbiamo visto che il momento in cui i tecnici vanno al governo sa essere rischioso, questo non perché i tecnici siano peggiori ma perché ai tecnici manca quel tipo di legittimazione democratica. Preferisco un governo che faccia i suoi errori ma che sia stato eletto democraticamente. Questo perché anche la supposta “scienza” che dovrebbe conoscere le cose, ovvero la scienza di tipo economico, oggi dobbiamo considerarla oggettiva; eppure la scienza economica non ha previsto la grande crisi dal 2001 in poi, anche perché questo è un paradigma di lettura, pensare che se mettiamo in atto quella siamo salvi è un’ingenuità assoluta. Quindi diffiderei di un governo di filosofi, ma se piuttosto c’è un governo in cui ci sono anche filosofi mi sta bene. Io ormai ho una certa età ma a me un filosofo come Cacciari sarebbe piaciuto vederlo in un governo di centro-sinistra. Io penso che i filosofi possano dare un contributo, ma un governo di soli filosofi non lo considererei né lo sognerei.

 

Concludiamo, come sempre succede nelle nostre interviste, con la domanda un po’ banale e un po’ difficile: che cos’è per lei filosofia?

Utilizzerò una formula: per me filosofia è non rinunciare a niente nello spazio o nel tempo. Dico questo perché ci sono altre forme di sapere di cultura ecc, ma secondo me la filosofia non ha a che fare con la cultura né con il sapere. La formula socratica del “sapere di non sapere” non è da banalizzare, è importante restare in un orizzonte di non sapere, perché devo avere una libertà radicale di pensiero. Il pensiero della filosofia, per me, è l’unico pensiero che non rinuncia a niente perché non ha una forma di espressione privilegiata: le ha sondate tutte, dalla poesia, all’autobiografia, dalla lettera al saggio universitario e al diario, ecc. Non ha un oggetto privilegiato di interrogazione, può interrogare qualsiasi cosa e anche il nulla, la si può fare su oggetti inanimati, come quando Sartre scopre la fenomenologia e dice “ah, quindi si può fare filosofia anche su un cocktail”… quindi non c’è nulla a priori su cui non possa interrogarsi. Non ha inoltre un metalinguaggio già definito, perché ciascun filosofo ha il suo linguaggio anche tecnico ma non c’è il metalinguaggio della filosofia. In questo senso davvero non rinuncia a niente, compresi i rischi del pensiero, non ha un pensiero edificante, non rinunciare a niente vuol dire anche se vogliamo non rinunciare al lato oscuro, per esempio Heidegger, che è uno straordinario filosofo, è stato nazista? Sì, non si può ridurre questo a “no ma per due mesi per sbaglio, un anno, mezzo anno, ma lui capiva un altra cosa”… no, lui ha avuto (a suo modo) un rapporto con il nazismo che entra anche nei testi filosofici, e ora che sono pubblicati i quaderni neri lo vediamo ancora di più. Scopriamo tutto questo e allora Heidegger non è più un grande filosofo? Non credo, Heidegger resta un grande filosofo, che la filosofia si arrangi; in questo senso la filosofia non rinuncia a niente, non rinuncia neanche a prendersi i rischi estremi, e non c’è nulla quindi di meno rassicurante di un filosofo.

 

La Redazione

 

[Immagine tratta da repubblica.it]

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Miraggio Marx: quel che resta dello spettro marxista, nell’era della rivoluzione impossibile

In una delle scene finali del film, Karl, Friedrich, Jenny e Mary sono seduti attorno al tavolo: stanno rivedendo per l’ultima volta la bozza de Il Manifesto del Partito Comunista, ormai prossimo alla pubblicazione. Leggono e rileggono l’attacco di quel pamphlet che cambierà le sorti del mondo, coazione a ripetere. Alla fine, Karl si decide: tira uno striscio nero sulla parola «fantasma» e ci scrive sopra «spettro». La differenza è un riverbero sottile che attraversa le epoche: fantasma viene dal greco phaínō, «mostro», spettro invece dal latino spectrum, «visione». Uno spettro s’aggira per l’Europa, non certo un fantasma.

Ho visto Il Giovane Karl Marx di Raoul Peck l’altra sera, in un monosala di periferia che resiste – Dio sa come – alla forza scorticante dei grandi centri di proiezione. Una ventina gli spettatori presenti, le teste bianche davanti a me, i posti scelti a piacimento secondo la regola aurea del chi prima arriva meglio alloggia.

Il film viene distribuito in Italia nell’anno in cui si celebrano i duecento anni dalla nascita di Marx, avvenuta il 5 maggio 1818 a Treviri, allora nuovo ombelico di un’Europa restaurata dal Congresso di Vienna. Ho visto il film dopo aver letto di tutto sui giornali, che intorno al duecentesimo anniversario di nascita di Marx hanno profuso fiumi d’inchiostro e di bite: c’è chi ha definito il suo pensiero una catastrofe per il movimento operaio e sindacale, chi ne ha sottolineato la solita, incredibile attualità, e chi invece ne ha rivendicato la proprietà filosofica, mettendo fuorigioco in un colpo solo il Marx economista e sociologo.

Per quanto mi riguarda, esco dal cinema con la sensazione di aver impegnato due ore di vita in un film che vale la pena vedere, nonostante la parzialità ineludibile di ogni tentativo di misurarsi con le biografie dei giganti. Ennesimo delitto di hýbris, avranno pensato i detrattori delle agiografie laiche, attirando sul film le smorfie dei vecchi intellettuali sinistroidi ormai in decadenza o dei bigotti tutto-forma della critica cinematografica. Il film, in realtà, dichiara da subito e con estremo candore l’intento pedagogico di celebrare il teorico della modernità senza classi, proprio oggi che annaspiamo in un presente senza nome, privi di cardini ideologici su cui appendere gli sforzi delle nostre misere esistenze.

«Da sempre i filosofi non fanno che interpretare, interpretare tutto il mondo. Ora è venuto il momento di cambiarlo» fa dire il regista al suo giovane Marx, in una scheggia di pellicola che poi è la cifra di tutta la sua vicenda umana. Possono le idee cambiare la storia? Qui Marx, secondo un’interpretazione ormai accettata dal senso comune e dunque poco valida a spiegare l’esistente, non ha dubbi: la storia non è che lo svolgersi dei rapporti di produzione economica, il resto è nuvola vuota. Ciò che davvero conta è la divisione della società in classi, assimilabili grossomodo al doppio tempo verbale di un participio: dominati e dominanti.

Poco importa se questi indossano, nello sfogliarsi delle ere, maschere diverse: servi e padroni, sudditi e re, proletari e borghesi, poveri e ricchi. Solo la maturazione di una coscienza comune nella classe dei dominati potrà evocare le forze esoteriche della rivoluzione, unico tramite per spezzare la struttura dei rapporti di sfruttamento e disuguaglianza che regge l’edificio sociale. No, dunque, per Marx la sovrastruttura delle idee non può svellere in alcun modo la struttura profonda dei rapporti di produzione economica: secoli di filosofia dello Spirito marciscono sotto la muffa della critica marxiana.

C’è però un’interpretazione diversa delle visioni filosofiche di Marx, nota ai pochi che hanno prestato orecchio alle Cose dette da Pierre Bourdieu, attento revisore della critica marxiana: «[…] i gruppi – le classi sociali, ad esempio – sono da farsi»1. Le cose sociali del positivismo sociologico non sono in realtà che involucri vuoti, gusci privi di materia fintanto che non si comincia – direbbe Max Stirner, padre simbolico dell’Edipo Marx – a «fare filosofia col martello».

Il proletario marxiano infatti non esiste in sé, come dato del campo sociale. Bisogna piuttosto renderlo socialmente attivo, esercitando un effetto di teoria capace di imporre una certa «visione delle divisioni» lungo cui scorre la linfa vitale del conflitto di classe. L’ingegnere sociale Marx è dunque riuscito a comminare al corpo molle della società la sua visione delle divisioni, spectrum tremendo ed errante all’origine di un secolare lavorio di applicazione politica che da Vladimir Il’ič Ul’janov arriva sino a Xi Jinping. La forma però, è sempre inferiore all’idea, e il sogno infantile di Marx è naufragato nella degenerazione ideologica della sua ipostatizzazione storica.

La biografia giovanile tracciata da Peck si ferma al momento dell’idea, tralasciando la goffa sperimentazione politica che ne seguirà. Meglio ancora, la pellicola del film si spegne nell’esatto momento in cui l’idea – ancora purissima, intonsa – diventa parola scritta su carta, al chiaro d’una candela. È il passaggio più mistico dell’intera parabola marxiana, oggetto di culto per gli sparuti discepoli ancora capaci di intravedere il miraggio dell’oasi che ci aspetta alla fine del deserto.

 

Alessio Giacometti

Alessio Giacometti è del 1992 ed è laureato in Sociologia e Ricerca Sociale. Ha studiato in Cina e Regno Unito, oggi lavora come nell’ufficio stampa e comunicazione di una grande azienda pubblica.

 

NOTE
1. Orthotes editore, Salerno 2013. p. 167

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Platone ed “Ergo Proxy”, o: i filosofi alla guida dello Stato

Si scrive “Ergo Proxy”, si legge “Platone”. No, non è una frase semiseria, questa. È, al contrario, un tentativo serio di lettura trasversale. Sì, può sembrare alquanto ironico da parte chi scrive sottolineare che tale tentativo di analisi incrociata sia tra un anime giapponese, quale appunto Ergo Proxy, ed uno dei padri del pensiero filosofico occidentale, Platone, un confronto che avviene sul terreno – questa è l’interpretazione di chi scrive – politico, in merito al concetto di Stato e di governante perfetti.

«Abbiamo convenuto che doti peculiari di questa natura sono prontezza d’apprendere, memoria, coraggio e magnanimità»1: così dichiara Socrate nella Repubblica in merito alle virtù dell’uomo di Stato perfetto. Quest’ultimo è, poi, anche sincero, ama oltre ogni dire la verità, ossia le idee immutabili2. Uomini siffatti, continua Platone, i quali contemplano razionalmente il mondo delle idee, si può dire forse che non cerchino costantemente di migliorare le proprie esistenze rendendosi all’altezza del contemplato3? Ovviamente. E se dovessero trovarsi alla testa di uno Stato, persone simili tenteranno magari di corrompere la “cosa pubblica” con iniquità varie4? È impossibile, per il pensatore greco. No: il filosofo che si trovi alla guida della polis compirà ogni sforzo per scrivere una costituzione ispirata da ciò che è assolutamente buono, giusto e bello5. Pertanto: i filosofi devono poter governare perché solo in tal modo può nascere uno Stato perfetto.

Davvero, però, l’azione di governo dei reggitori potrebbe essere continuamente priva di criticità qualsivoglia? È un’utopia. Precisamente: proprio quest’ultima è rappresentata nell’anime Ergo Proxy. Ma si tratta di un’utopia “irreale”, per così dire. Perché il mondo che è raccontato dall’opera audio-visiva è devastato, sconquassato da una catastrofe apocalittica che ha spazzato via gran parte dell’umanità, e l’intera vita vegetale ed animale. I sopravvissuti allo sfacelo generale si sono rifugiati in grandi città-stato autonome (chiamate dome) difese da enormi cupole isolanti, entro le quali hanno ricostruito la loro civiltà. Ed è proprio in una di queste poleis, chiamata Romdo, che vi è il governo dei filosofi. Essi amministrano la città-stato in vece del Proxy, una creatura immortale che dovrebbe essere l’artefice della rinascita del mondo, la quale è però scomparsa. In altre parole, i reggitori guidano l’entità statuale affermando di conoscere la volontà di questo ente superiore celato – le idee, nel lessico platonico.

Tutte le leggi in vigore a Romdo mirano alla salvaguardia del sistema, ossia all’equilibrio socio-politico della polis. Esse prescrivono un rigido codice comportamentale per gli abitanti e, qualora essi non vi si conformino, vengono espulsi. Ma quelle regole sanciscono l’assoluto controllo di ogni emozione; solo, in altre parole, sacrificando del tutto la propria emotività, abbracciando la pura razionalità delle leggi “sistemiche” dei filosofi, gli esseri umani della città-stato possono sopravvivere nel mondo post-apocalittico. Un’esistenza all’apice della civiltà in cambio di una mutilazione della propria umanità: ecco il sacrificio che gli abitanti di Romdo devono essere pronti a compiere, sacrificio che, essendo imposto dalle leggi dei filosofi, è anche eticamente motivato. Male oggettivo che indossa la maschera di bene oggettivo, che cela la sua vera fisionomia di oggettiva violenza giustificata: come non si può cogliere qui la degenerazione platonica dello Stato perfetto, causata dalla reggenza di filosof traviati?

«Saranno avari delle loro ricchezze, […] la brama che li domina li renderà prodighi di quelle altrui; coglieranno in segreto i loro piaceri […] educati dalla violenza, perché hanno trascurato la Musa vera che accompagna la dialettica alla filosofia, e apprezzato più la ginnastica della musica»6: così Socrate definisce il carattere di un filosofo corrotto, di un uomo timocratico che abbia trascurato la contemplazione delle idee per dedicarsi all’acquisto avido di ricchezze, onori e all’invidia di quelli altrui; per dedicarsi all’intemperanza nei piaceri; per dedicarsi, infine, al guerreggiare7. E, infatti, la guerra è ciò a cui i reggitori degenerati trascinano lo Stato del quale siano i governanti, riconosce Platone: «dissomiglianza e anomalia […]: quando e dove queste si producano, sempre danno luogo a guerra e inimicizia»8. Quando, in altre parole, una polis sia retta da timocrati, là è il conflitto, tanto con le altre città-stato, quanto entro i suoi confini. Proprio come accade anche a Romdo, in Ergo Proxy, quando gli abitanti si ribellano alle leggi dei filosofi e, durante una lotta armata, ne abbattono infine il regno – ennesimo parallelo con La Repubblica platonica che permette di affermare, come è stato sottolineato esplicitamente ed è emerso implicitamente, che sia davvero possibile una lettura unitaria e trasversale delle due opere.

 

Riccardo Coppola

NOTE
1. Platone, La Repubblica, a cura di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 208.
2. Cfr. ivi, pp. 197-198.
3. Cfr. ivi, pp. 214-215.
4. Cfr. ivi, p. 204.
5. Cfr. ivi, pp. 198; 214-215.
6. Ivi, p. 265.
7. Cfr. ibidem.
8. Ivi, p. 264.

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Call for papers: il Festival di Filosofia di Ischia lancia il tema ‘Valori: Continuità e cambiamento’

La Filosofia, il Castello e la Torre, Festival Internazionale di Filosofia di Ischia giunto alla sua III edizione lancia la sua Call for papers: Valori continuità e cambiamento è il tema conduttore dell’edizione 2017. Bene, Bellezza, Verità, Giustizia, Uguaglianza, Libertà, Potere, Sicurezza, Dignità, Fratellanza, questi alcuni tra i concetti chiave su cui si vuole incentrare la discussione pubblica.

Chiamati ad intervenire con una relazione dalla lunghezza massima di 500 parole non sono solo i filosofi ma chiunque senta di poter contribuire allo sviluppo del tema con una riflessione appartenenti alle quattro sezioni di intervento proposte: Ti esti? Cos’è il Valore?, Teorie dei Valori, Il valore dei valori: utilità e applicazioni, Arte e Valori. 

Ischia International Festival of Philosophy 2017 riporta la Filosofia alla sua funzione fondamentale e molto più legata alla dimensione pratica: interrogarsi sui valori.

«Affrontando il vasto campo dell’agire umano, e dunque della filosofia pratica e dell’etica, occorre adesso concentrarsi sul nesso – di continuità o discontinuità – tra teoria e prassi. L’emergere di nuove dinamiche sociali, dovuto tra l’altro ai mutamenti demografici e all’alterarsi della composizione sociale, rende necessario mettere a tema la questione della convivenza tra individui e tra popoli, soprattutto alla luce dell’ideale di un’Europa libera, unita e pacifica, in cui purtroppo le differenze culturali fanno fatica a convivere.

In quest’ottica s’intende porre un interrogativo sui valori che metta congiuntamente a tema il tratto storico del loro costituirsi e il richiamo alla trascendenza che essi sembrano costitutivamente incarnare, sia che li si concepisca come universali a priori semplicemente da riconoscere, sia che li si intenda come il segno dell’irriducibilità ultima tra epoche e culture differenti. Alla luce di queste domande potrà forse essere ripensato il senso stesso del “dare valore” tanto nella sua funzione positiva che nella sua portata critica. Allora è proprio nei valori che bisogna “custodire valore”. Nell’alterità il valore si riconosce come tale, nell’alterità di un valore non conosciuto ma riconosciuto. Ogni persona, cultura, nazione rappresenta e presenta un valore di diversità con il quale rapportarsi. Considerare queste diversità e rendere degno lo spazio dell’ascolto e della coesistenza è forse l’unico gesto che ci porterà alla condivisione più armoniosa. L’appartenenza è unica, l’essere umano è unico perché abitante di un unico spazio.»

Come partecipare? Inviando la propria proposta di relazione a ischiafilosofest@gmail.com, con una breve biografia; potrete essere selezionati per intervenire direttamente durante il Festival. 

Per scaricare la Call for Papers integrale clicca qui 

Per scaricare l’approfondimento sul tema Valori, continuità e cambiamento clicca qui

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Chiamati ad intervenire sul tema sono anche i giovani pensatori tra i 16 e i 23 anni: nasce la call Young Thinkers Festival, Become a Philosopher!

Per tutti i giovani con una forte attitudine al pensiero filosofico, quest’anno il Festival di Ischia vuole lanciare delle sessioni intere di intervento ai ragazzi e ai giovanissimi filosofi. È sufficiente presentare una proposta di relazione, da soli o in gruppo, per poi discuterne con i coetanei e adulti durante le giornate del Festival. Un modo nuovo e dinamico per permette a giovani studenti di filosofia e non solo di intervenire con una propria riflessione davanti al pubblico, riportando così la Filosofia alle sue origini: in piazza. 

Per scaricare la Call Young Thinker Festival, Become a Philosopher clicca qui

Per maggiori informazioni visita il sito La Filosofia, il Castello e la Torre

Elena Casagrande

[Immagini di proprietà di Ischia International Festival of Philosophy]

Anche le piante hanno un’anima

L’opinione per cui le piante hanno un’anima non è nuova in filosofia. In tempi antichi, l’aveva per esempio già espressa il “maestro di coloro che sanno”, Aristotele. Il grande filosofo greco, nel suo trattato Sull’anima, aveva infatti sostenuto l’esistenza di ben tre tipi di anima: quella razionale, propria dell’uomo; quella sensitiva, propria degli animali; e infine quella vegetativa, propria delle piante.

Altri pensatori, dopo Aristotele, hanno, consapevolmente o meno, seguito le sue orme, attribuendo un’anima o qualche forma di coscienza e consapevolezza ai vegetali. Un tentativo particolarmente interessante in questo senso è rappresentato da un libretto pubblicato più di un secolo e mezzo fa dal fisico e filosofo Gustav Theodor Fechner: stiamo parlando di Nanna, o l’anima delle piante (1848).

L’obiettivo dichiarato di Fechner è quello di oltrepassare il materialismo della sua epoca e fare spazio a una visione che veda il cosmo come un tutto vitale, animato in ogni sua parte. Comunemente, ricorda Fechner, la natura viene concepita come un aggregato di materia di per sé inanimata e incosciente, con il risultato che «le creature animate appaiono in mezzo al resto della natura solo come circoscritte isole di anima nel­l’oceano universale dell’inanimato e del morto». Secondo Fechner, invece, «tutta la natura [è] animata da Dio» e «da questa animazione nulla nel mondo, né pietra, né onda, né pianta [è] escluso».

Quella che Fechner propone è dunque una vera e propria “rivoluzione copernicana” rispetto al senso comune. Per millenni – ricorda lo scienziato – si è pensato che la Terra fosse immobile, e il sole le girasse intorno, mentre ora invece sappiamo che è il sole a stare fermo e che è la terra a ruotargli attorno. La messa in discussione del geocentrismo tolemaico è stata certamente una grande conquista per il sapere umano; ma adesso, secondo Fechner, è arrivato il momento, per la scienza, di fare un altro passo avanti, smentendo un ulteriore pregiudizio: quello per cui gli esseri umani (o gli animali in genere) sarebbero esseri privilegiati e superiori rispetto alle piante, in quanto unici detentori possibili dell’anima. Dobbiamo insomma prepararci a cambiare radicalmente il nostro punto di vista sull’uni­ver­so, e cominciare a pensare che l’anima si possa trovare anche in corpi fisici molto difformi da quelli umani o animali, come appunto sono quelli delle piante.

Certo, interrogarsi sulla presenza o meno dell’anima nelle piante può sembrare un’occupazione sterile, ma Fechner è agguerrito e pronto a ribattere colpo su colpo per dimostrare la necessità e la validità delle sue ricerche. «A chi passa per la mente di pensare sul serio ad un’anima delle piante? Se si attribuisce loro un’anima i più lo prendono per un gioco concettuale», egli si lamenta; ma poi passa all’attacco: «se molti respingono [l’idea dell’]anima delle piante perché non vedono che importanza essa possa avere, io devo invece [assolutamente] esigerla [come parte integrante del mio sistema di pensiero], […] perché ritengo che senza di essa rimarrebbe nella natura un vuoto gigantesco».

Secondo Fechner è del tutto assurdo pensare che di fronte all’immensa varietà di corpi fisici che Madre Natura è riuscita a produrre, essa, dal punto di vista “spirituale”, si sia poi limitata a creare anime soltanto per gli animali: «le conformazioni dell’anima», egli scrive, «sono tanto numerose quanto lo sono le conformazioni corporee […]. [Se] la natura, nella sfera della corporeità, non ha esaurito col regno animale la possibilità di diversi piani di struttura e di vita, perché essa ha anzi col regno vegetale aggiunto un nuovo ordine di corpi, per quale ragione dovrebbe essa essere [invece] rimasta indietro nel campo dell’anima?».

E aggiunge: «Perché non ci dovrebbero essere, oltre alle anime che camminano, gridano, mangiano, anche anime che silenziosamente fioriscono e spandono odori, e appagano la loro sete nell’assorbimento della rugiada, i loro impulsi nello spinger fuori le gemme e le loro ancor più alte brame nella ricerca della luce? Io non so perché il camminare e il gridare debba, a preferenza del fiorire e dello spandere odori, essere ritenuto quale [esclusivo] depositario della psichicità; non so perché la forma elegantemente costrutta e bellamente ornata d’una pianta sia meno degna di albergare un’anima dell’informe corpo d’un lombrico».

Dopo aver comparato la struttura di piante e animali, averne notato le somiglianze e aver esposto tutte le prove che lo inducono a pensare che anche in esse vi sia un principio vitale analogo a quello che alberga negli animali, rispondendo nel mentre – e peraltro in modo audace e brillante – alle principali obiezioni che possono essere rivolte contro la sua visione delle cose, Fechner conclude dicendo: «ad un attento esame mi sembra che tutto ciò che si può essenzialmente esigere per la presenza dell’anima, si trovi nelle piante proprio altrettanto quanto negli animali. Tutte le differenze tra le une e gli altri, in quanto struttura e manifestazioni di vita, richiedono soltanto di collocare le piante in una sfera diversa d’anima […]; ma non già escluderle [del tutto] dal [possesso del­l’]a­ni­ma».

Ciò che risulta da tutto questo discorso è che non c’è nessuna “piramide”, “scala” o “gerarchia” tra gli esseri: «le piante non si sottordinano agli animali come esseri inanimati, ma si coordinano ad essi come una specie diversa di esseri animati, o si sottordinano solo riguardo alla specie dell’ani­ma­zio­ne». «La semplice gradualità discendente», scrive Fechner, «è inadatta a rendere il rapporto complesso in cui gli organismi stanno l’uno rispetto all’altro e, comunque si cerchi di disporli, le piante non si potranno mai collocare senz’altro sotto gli animali; ed anche se [per assurdo] ci si riuscisse, si dovrebbe pur sempre attribuire ad esse un’anima d’un grado più basso, sensibile, ma non mai negarla loro totalmente».

Il messaggio finale del libro di Fechner è chiaro: uomini, animali e piante sono tutti esseri senzienti e pertanto stanno tutti sullo stesso piano: nessuna di tali forme di vita “vale di più” delle altre o ha il diritto di credersi padrona delle altre specie e di usarle come se fossero meri strumenti a sua disposizione da sfruttare e sopprimere crudelmente. Tutti i regni della natura concorrono egualmente, ognuno agendo e “pensando” a modo proprio, a mantenere in essere il grande cerchio della vita, che avrà la possibilità di perdurare nel­l’e­si­sten­za solo se ogni tipologia di viventi svolgerà la funzione che è chiamata per natura a esercitare al suo interno.

Il suggerimento che ci proviene dalla lettura di questo suo saggio è allora: cerchiamo di evitare di distruggere il delicato equilibrio creato con tanta sapienza dalla Natura nel corso di milioni di anni soltanto per trarne nell’immediato dei facili profitti economici che potrebbero però avere conseguenze ambientali disastrose a lungo termine, e sforziamoci di non danneggiare gli altri esseri viventi credendoci superbamente superiori a essi. Anche quelli apparentemente meno somiglianti a noi potrebbero infatti essere abitati da una qualche bellissima e sviluppata forma di psichicità. L’ani­ma, in fin dei conti, può nascondersi non solo dietro ai volti dei nostri simili, ma anche all’in­ter­no di corpi fatti di radici, foglie e fiori profumati.

Gianluca Venturini

BIBLIOGRAFIA:
G.T. Fechner, Nanna o l’anima delle piante, a cura di G. Moretti, trad. di G. Rensi, Adelphi, Milano 2008 (1a ed. orig. 1848)

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Crostatus

Iniziamo da ciò da cui ogni torta inizia: la ricetta.

Non è importante che sia scritta a mano su un bel quaderno ad anelli (come nel nostro caso), che sia sullo schermo del televisore o del computer, che sia su una rivista di cucina o, più semplicemente, l’abbiate sentita dalla nonna: quello che ci interessa è che ogni volta che prepariamo una torta ci confrontiamo con un modello di riferimento.

Anche se a ben vedere più che a un modello – quello sarà piuttosto la torta che abbiamo assaggiato e che vogliamo imitare – la ricetta somiglia a una lista di prescrizioni, a un elenco di regole seguendo le quali si può ottenere quanto promesso dal titolo. È una sorta di guida.

Ma cosa facciamo quando seguiamo una ricetta? Quale rapporto s’instaura tra noi e la nostra guida? Quale, invece, tra quest’ultima e la nostra torta fumante?
Per evitare di risultare banali nei post futuri, cerchiamo di esserlo in questo: troviamo qualche analogia con la musica – musica classica, per l’esattezza. Ecco che il cuoco è il musicista, la ricetta lo spartito e la torta il brano eseguito.
Mettiamo che il paragone funzioni e domandiamoci: chi è il compositore? Viene spontaneo rispondere che è colui che ha scritto la ricetta e cioè, a seconda dei casi, la nonna, un’amica, una presentatrice televisiva, un pasticcere rinomato… Se il ragionamento fila, allora noi non possiamo che essere gli esecutori, ossia coloro che traducono in vibrazioni fisiche lo spartito e lo rendono fruibile al pubblico, che rendono commestibili le parole della ricetta. Certo, qualcuno di noi sarà più abile, altri meno – così come ci sono pianisti bravi e pianisti pessimi – ma cucinando non faremmo che riprodurre fedelmente una partitura culinaria.

Eppure, chiunque abbia preparato un dolce almeno una volta nella sua vita sa che le cose non vanno esattamente così. Qualche volta non abbiamo abbastanza farina, qualche volta ci scappa del burro in più, qualche volta decidiamo di sostituire un ingrediente con un altro, qualche altra l’ingrediente lo eliminiamo del tutto… Sarebbe come se, durante un valzer di Chopin, un pianista decidesse di suonare delle note diverse da quelle scritte dal compositore polacco, o le evitasse deliberatamente.
Durante la preparazione di una torta avviene, infatti, una ricomposizione della ricetta, una ridefinizione della guida di riferimento. Il pasticcere non è mai soltanto un esecutore, bensì è un compositore a sua volta. Ecco perché quando cuciniamo assomigliamo piuttosto a degli improvvisatori, a dei jazzisti: abbiamo un canovaccio, una struttura – più o meno rigida a seconda dei casi –, che ci guida lungo la nostra performance, ma il resto è affidato alla nostra verve estemporanea, che è a sua volta l’esito della nostra pratica e delle nostre esperienze passate.

La ricetta è la descrizione di un ideale irrealizzabile. Serve solo da sfondo alle manifestazioni concrete – e tutte diverse tra loro – che sono le nostre torte; e queste manifestazioni concrete spesso portano a modificare quella che era la costruzione ideale: facendo la crostata ci accorgiamo che quattro pere sono più che sufficienti ed ecco che andiamo a modificare il nostro quaderno ad anelli e, laddove c’era scritto sei, mettiamo un bel quattro.
Nel cucinare c’è una continua e sostanziale rimessa in discussione delle premesse. Esperimenti sull’onda della felicità, improvvisazioni dettate dalla dimenticanza, errori ai quali è troppo tardi per rimediare, deviazioni repentine causate da vuoti frigoriferi imprevisti… sono tutti aspetti che portano a riconsiderare i parametri di riferimento e a modificare le regole della ricetta. Ma, allo stesso tempo, sono ciò che permette di mantenerla viva.

Le improvvisazioni di oggi saranno ciò che guiderà le improvvisazioni future.

Ma facciamo attenzione e non abbandoniamoci a facili entusiasmi. La libertà di cui gode il cuoco – come anche quella di cui gode il jazzista – non deve essere ingenua e mettere in secondo piano l’obiettivo di ogni vero pasticcere: la ricerca della perfezione ideale. È pur sempre con in mente la crostata perfetta che si impasterà la più prelibata delle crostate. Il grande jazzista e il grande pasticcere tendono al loro ideale con la stessa sistematicità e la stessa perseveranza del grande filosofo.
Ecco perché su questo blog non vedrete nessun binomio scontato tra cucina e filosofia, ma piuttosto tra pasticceria e filosofia. Perché quello di cui siamo convinti è che la pasticceria non sia solo fonte di godimento estetico e sensoriale, ma sia attraversata da congiunture logiche che la rendono profondamente filosofica.

Come diceva il buon Kant:
«Il cielo stellato sopra di me, la crema pasticcera dentro di me».

CROSTATUS PERE, CIOCCOLATO E NOCI

Ricetta Crostatus Aristortele - La chiave di SophiaPersone: 8
Tempo di preparazione: 40 min. + 6 ore in frigorifero

INGREDIENTI

Per la “Pasta Frolla Elementare”:
• 250 gr farina deboluccia
• 125 gr burro morbido
• 100 gr zucchero semolato
• 20 gr tuorlo d’uovo
• 1 uovo intero
• 2 gr lievito per dolci
• 1 pizzico di sale
• Aromi (vaniglia, scorza di limone, scorza d’arancia)

Per la crema pasticcera al cioccolato:
• 250 ml latte fresco
• 63 gr zucchero semolato
• 40 gr tuorlo d’uovo
• 28 gr farina 00
• una stecca di vaniglia
• 150 gr cioccolato fondente (75% massimo)
• 100 ml panna fresca
• 2 pere
• 150 gr gherigli di noce

PREPARAZIONE

«Melius deficere quam abundare», Anonimo latino.

1. La PFE, Pasta Frolla Elementare:
1.1 Amalgama velocemente il burro con lo zucchero;
1.2 Aggiungi tuorli e uovo un po’ alla volta;
1.3 Incorpora nel composto gli ingredienti secchi:
1.3.1 Farina;
1.3.2 Lievito;
1.3.3 Sale;
1.3.4 Aromi;
1.4 Fai una sfera;
1.5 Metti a riposare in frigo per almeno sei ore;
1.6 Gli ingredienti sono le cose;
1.6.1 Le cose sono i mattoni;
1.6.2 La pasta frolla è lo stato di cose elementare su cui si costruisce il Crostatus.

2. La CLPC, Crema Logico-Pasticcera al Cioccolato:
2.1 Scalda il latte con la vaniglia;
2.2 Mescola e frusta in una boule:
2.2.1 Farina;
2.2.2 Zucchero;
2.2.3 Tuorli;
2.3 Quando il latte bolle aggiungi il composto della proposizione 2.2;
2.4 Lascia bollire per due minuti continuando a frustare;
2.5 A parte fai la ganache al cioccolato:
2.5.1 Metti a bollire la panna;
2.5.2 Versa la panna bollente sul cioccolato tritato e lentamente amalgama;
2.6 Aggiungi la ganache al composto della proposizione 2.4;
2.7 Metti a raffreddare in frigo in un contenitore basso e con la pellicola a contatto;
2.8 Ogni domanda senza risposta è priva di senso;
2.8.1 Ogni domanda priva di senso è un grumo;
2.8.2 Ogni domanda logica ha una risposta;
2.8.3 La Crema Logico-Pasticcera non ha grumi;
2.8.3.1 L’Enigma non v’è;

3. Il Mistico. Pere e Noci:
3.1 Sbuccia e taglia a cubetti le pere;
3.2 Sbriciola i gherigli di noce;
3.3 Non come è fatto il Crostatus, è il Mistico, ma che esso è;
3.3.1 Le Pere e le Noci mostrano se stesse nel Crostatus;
3.3.1.1 Pere e Noci sono l’ineffabile;

4. Composizione del Crostatus:
4.1 Fai rinvenire la PFE utilizzando il mattarello;
4.2 Dividila in due parti;
4.2.1 Stendi una parte sulla tortiera e lascia in frigo per un paio d’ore;
4.2.2 Stendi il resto della pasta e lascia ugualmente riposare in frigo su un pezzo di carta forno;
4.3 Incorpora alla CLPC il Mistico;
4.4 Versa la CLPC-mistica sulla PFE della proposizione 4.2.1;
4.5 Ricopri il Crostatus con la parte di PFE della proposizione 4.2.2;
4.6 Inforna a 180° per 15-20 minuti.

5. Tutto ciò che non si può infornare, si deve congelare.

Aristortele

Come ragioniamo quando agiamo

La filosofia, si sente dire, insegna a pensare. Ma cosa s’intende dire quando ci si esprime in tal modo?
Per capirlo è necessario prima esaminare cosa vuol dire pensare. Ci hanno provato diversi filosofi esaminando la questione sotto vari aspetti. Ad esempio Kant, che con la sua distinzione tra giudizi analitici a priori, a posteriori e sintetici a priori continua a far inorridire generazioni di studenti, e di cui oggi – sospiro di sollievo – non parliamo. Utilizziamo invece la distinzione introdotta da Peirce, che distingue tre tipi di ragionamenti: deduttivo, induttivo e abduttivo.

Il ragionamento deduttivo è usato dalle scienze esatte, come la matematica e la logica. Queste raggiungono la verità in modo definitivo e meccanico. Partendo da assiomi o da principi ultimi, arrivano a conclusioni altrettanto vere. Nei termini dello stesso Peirce, in questi casi, abbiamo come premesse una regola, ad esempio: la somma degli angoli interni di un qualsiasi triangolo è 180, e un caso: questo triangolo disegnato alla lavagna. Come conclusione un risultato: Questo triangolo ha come somma degli angoli interni 180.

Al contrario nel caso dell’induzione partiamo da un caso: “piove”, e da un risultato: “esco e per strada scivolo”. Se la cosa si ripete e se sono mediamente intelligente, inizierò a pensare che ci sia sotto una regola del tipo: “quando piove le strade sono scivolose”. È evidente che abbiamo già di molto sporcato la purezza della verità dell’inferenza deduttiva. Ci sono infatti buone possibilità che io sia in errore servendomi di questo tipo di ragionamento. Esso è il metodo proprio delle scienze naturali come la fisica, la biologia etc. La possibilità di errore è radicalmente intrinseca a queste scienze, al punto che Popper ha con successo proposto di utilizzarla come criterio definitorio di ciò che è scienza: una scoperta scientifica quindi, deve portare con sé la possibilità di principio di essere negabile da nuove osservazioni.

Il terzo tipo di ragionamento, l’abduzione, è quello utilizzato principalmente nella vita di ogni giorno, in situazione, nel concreto. Esso fra tutti è il più lontano dalla luce della verità: è il più rischioso dei metodi. Si basa sull’applicazione di una regola: “Se c’è odore di pane nell’aria deve esserci del pane nelle vicinanze” ad un risultato: “sento effettivamente, entrando in casa, il dolce aroma del pane appena sfornato” in modo da ottenere un caso: “in qualche modo deve essere comparso del pane in casa mia”. Il problema di questo tipo di ragionamento, risiede proprio nel fatto che benché il risultato sia certo, forse stiamo applicando ad esso la regola sbagliata. Rimanendo sull’esempio di prima, potrebbe darsi il caso che il mio coinquilino abbia deciso di provare un bizzarro nuovo profumo, o l’odore potrebbe venire dall’appartamento del vicino.
Cosicché se sentendo l’odore di pane mi metto a cercarlo, agisco in forza di un’interpretazione della situazione; in poche parole sto scommettendo sull’efficacia dell’utilizzo della regola nel particolare contesto. È inutile dire che questo tipo di scommessa, come ogni vera scommessa, non si basa completamente su una decisione ragionata, ma è esito di una sorta di sesto senso – una razionalità silenziosa perché precosciente – presente in ognuno di noi.

Torniamo allora alla domanda che ci siamo posti all’inizio: “cosa vuol dire che la filosofia insegna a pensare?”. Alla luce di questi brevi chiarimenti, possiamo concludere che la filosofia ci aiuta senza dubbio ad affinare il ragionamento deduttivo, in parte quello induttivo e in generale a riflettere su questi meccanismi nell’insieme. Ma oltre a ciò, l’insegnamento della filosofia consiste anche nel capire il funzionamento del ragionamento abduttivo, tenendo a freno certe interpretazioni superficiali e deleterie che finiscono per avere effetti negativi sulla vita di tutti i giorni. Sicché quell’imparare a pensare, è in certa misura, imparare a vivere.

Francesco Fanti Rovetta

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Festivalfilosofia: la Filosofia torna alle sue origini riscoprendo il valore della Piazza

Anche quest’anno il comune delle città di Modena, Carpi e Sassuolo ha dedicato tre giornate, dal 16 al 18 settembre, alla filosofia, invitando sul palco i grandi pensatori, nazionali e internazionali, della nostra contemporaneità.

L’agonismo è stato il tema centrale non solo delle lectio magistralis tenute in occasione di questa sedicesima edizione del Festival, ma anche di laboratori e concerti in piazza, attività e giochi per i bambini, nonché spettacoli di danza e teatro che hanno animato le piazze di queste tre cittadine dell’emiliano.

Festivalfilosofia 2 - La chiave di SophiaLe vetrine dei negozi, come ogni anno, presentavano cartellini rossi e bianchi – i colori del Festivalfilosofia – con gli aforismi dei più noti pensatori che si sono espressi in termini di agonismo e conflitto, ma anche di pace e riconciliazione.

Sì, perché per agonismo non si intende unicamente quella forma prettamente negativa di antagonismo distruttivo tra due o più individui in conflitto, ma soprattutto quell’energia positiva che può avere origine dal confronto della competizione.

Il filosofo Andrea Riccardi ci ha parlato di un antagonismo che muove guerre mondializzate spingendo l’individuo a lottare per la pace. Remo Bodei, direttore del Comitato Scientifico del festival, si è concentrato piuttosto nella lotta più feroce di tutte: quella contro se stessi, ovvero contro le infinite possibilità e scelte che l’esistenza ci offre e che talvolta ci spingono a rincorrere un ideale di perfezione che, come ha sostenuto la filosofa Michela Marzano durante la sua lectio sul “Management dell’esistenza”, non fa altro che imprigionarci in una “gabbia dorata”.

Quella in cui viviamo è senza dubbio una società della competizione, una società in cui il sano agonismo rischia sempre più frequentemente di trasformarsi nell’esaltazione dell’egoismo individualistico. Se da un lato come sostiene bene il filosofo francese Georges Vigarello, lo sport è diventato una sorta di mito che permette di “credere e far credere” («croire et faire croire») nelle immagini di un nuovo tempo presente cui è possibile conformarsi, attraverso la proiezione di un ideale sociale spesso rincorso con sacrifici e sforzi e che spezza la società in falliti e vincitori, dall’altro lato Massimo Recalcati esprime il suo “elogio” del fallimento tentando di spiegare come le cadute e le fasi di “fallimento sociale” siano necessarie per ritrovare la giusta direzione da seguire, permettendo dunque a ciascuno di riempire di senso la propria vita.

Festivalfilosofia 1 - La chiave di Sophia

Questi sono solo alcuni degli incontri che hanno dato respiro alle piazze di Modena, Carpi e Sassuolo, facendo ritrovare persone provenienti da tutte le regioni d’Italia, unite da una stessa passione. Un’occasione questa per condividere e ascoltare, riflettere e confrontarsi, ritrovando nel proprio piccolo il senso profondo del fare filosofia attraverso lo stare insieme.

Un’occasione, quella del festival, per far capire come questo amore-per-il-sapere può toccare un pubblico più amplio, e come ognuno può dare il suo piccolo contributo. Un’occasione per ascoltare ed ascoltarsi. Per respirare la magia delle parole e per ritrovare quelle che abbiamo perduto.

Un’occasione, quindi, che permette di arricchirsi di nuovi spunti e di incontrare quei grandi maestri conosciuti attraverso i libri dell’università, oppure di ascoltare dal vivo quelli che ci hanno accompagnato nel nostro percorso di studi. Quelli che abbiamo amato e perché no, anche poco apprezzato. Riconquistandoci poco a poco con le parole, e donandoci un pezzetto della loro storia attraverso un pensiero diventato vicino, incarnato, non più distante e astratto.

Ognuno lasciando una traccia di sé e del proprio vissuto. Frammenti di esistenze ricuciti insieme dal filo rosso del pensiero. Un pensiero che talvolta si ingarbuglia, facendosi complesso e intricato, e che balbetta per poi sciogliersi davanti ad un pubblico capace di accoglierlo e “abbracciarlo”.

Perché in fondo che cosa significa fare filosofia se non assaporarne le infinite sfaccettature e declinazioni, facendola diventare una pratica quotidiana?

Ogni anno il Festivalfilosofia cerca di trasmetterci, attraverso delle pillole tematiche, il valore contemporaneo di una pratica che può entrare nelle case di tutti, invitando ciascuno all’uso del ragionamento critico.

Malgrado il maltempo di venerdì scorso, le lezioni sembrano aver registrato un numero di presenze da record, e un tale successo non fa che ben sperare per la prossima edizione.

Non ci resta quindi che attendere il prossimo settembre, anno dedicato alle “arti”, la nuova parola tematica del festival.

Sara Roggi