Una parola per voi: grandezza. Maggio 2019!

“Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,

muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
nè sa quando una simile
orma di piè mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.”

Alessandro Manzoni, Il Cinque Maggio

Manzoni dedica una poesia piena di fervore e movimento al quinto giorno del mese di maggio, giornata che, nel 1821, vede la fine di un personaggio che Hegel avrebbe definito cosmico-storico: Napoleone Bonaparte. Si dice che Manzoni scrisse la poesia di getto, sconvolto e ispirato dalla notizia della morte del grande (nel bene e nel male, ma lo sappiamo: “ai posteri l’ardua sentenza”) condottiero e imperatore francese. Manzoni lo definisce romanticamente “uom fatale”, l’uomo del destino, che ha cambiato il fato non solo della Francia ma dell’Europa intera. In quel “Ei fu” iniziale c’è il profondo rispetto per un personaggio che ha incarnato la storia. Attonita è la terra nell’apprendere della sua morte, non profferisce parola e medita sugli ultimi attimi di vita di Napoleone. Il suolo si domanda quando “una simil orma di piè mortale” calpesterà la sua violenta polvere. Se ne va a maggio, Napoleone, in un mese irruento come lui, spesso caratterizzato da una temperatura calda e passionale e da uno slancio in avanti, verso l’estate che arriva, verso il futuro. Maggio, come Napoleone nell’elogio manzoniano, è grandezza e pienezza, è la gloria della primavera che si erge e prende piede.

Ricordando questa imprescindibile figura storica, riuscite a pensare a dei libri, a un film, a una canzone o a un’opera d’arte, che celebrino la grandezza di un personaggio, reale o immaginario, di cotale portata? Un “uom fatale”, che fa e disfà, che impugna le redini e cambia il suo destino e quello altrui? La parola per voi di questo mese è “grandezza”.

 

UN LIBRO

gatsby-la-chiave-di-sophiaIl grande Gatsby – Francis Scott Fitzgerald

Manifesto degli Stati Uniti della cosiddetta Jazz Age e dei Roarin’ Twenties, The Great Gatsby (1925) è un disilluso e impietoso ritratto a specchio della upper class americana degli anni che precedono la crisi del ’29 e di molti aspetti della tumultuosa vita di Fitzgerald: l’alcol, pervasivo e onnipresente, simbolo di benessere e di trasgressione al proibizionismo, la sfrenata e patinata vita alto-borghese, l’ascesa sociale, l’amore e l’incomunicabilità con la moglie, Zelda Sayre, trasposta nella ricca e viziata Daisy. Long Island, 1922: Nick Carraway, agente di borsa, si stabilisce dalla provincia vicino alla sfarzosa villa dell’eccentrico e misterioso Jay Gatsby, con cui stringe una singolare amicizia. Gatsby è più grande dell’umano: sin da ragazzo organizza le sue giornate con una precisa scansione oraria impegnandosi in buoni propositi; ambizioso, conquista per vie lecite e illecite ricchezza e prestigio, e culla il sogno impossibile, perché «non si può ripetere il passato», di rivivere la passione di un tempo con la cugina di Nick, Daisy, di cui è immensamente innamorato.

UN FILM

imitation-game-chiave-di-sophiaThe imitation game – Morten Tyldum

Tratto dalla storia vera del leggendario criptoanalista Alan Turing, il film racconta la serrata lotta contro il tempo condotta dal matematico e dalla sua squadra durante la Seconda Guerra Mondiale per decifrare il codice segreto nazista denominato “Enigma”. Il film è un ritratto onesto del geniale Alan Touring, personaggio decisamente complesso che l’attore Benedict Cumberbatch interpreta magnificamente. Senza dubbio uno dei migliori film del 2014 e restituisce in maniera contemporaneamente cruda e poetica la storia della drammatica e toccante vita del genio britannico.

UN’OPERA D’ARTE

tiziano-la-chiave-di-sophiaCarlo V a cavallo – Tiziano

Il grande artista cadorino Tiziano Vecellio venne chiamato nel 1548, all’apice della sua carriera e della sua fama, a recarsi nella città di Augusta per eseguire alcuni importanti ritratti dell’imperatore Carlo V. Lo scopo era quello di celebrare la grandezza umana e militare dell’imperatore asburgico, colui che, per la prima e unica volta nella storia, ha potuto governare un territorio così vasto da essere definito “impero su cui non tramonta mai il sole”, esteso dall’Europa alle colonie spagnole dell’America Latina. Questo monumentale dipinto su tela, alto oltre tre metri e oggi conservato al museo del Prado a Madrid, raffigura Carlo V seduto a cavallo all’indomani della sua storica vittoria contro i protestanti nella battaglia di Muhlberg. Esso è certamente il più importante tra i ritratti che Tiziano dedicò all’imperatore, poiché è l’unico ad avere la forma di ritratto equestre (celebrativo per antonomasia) ed è quello che meglio di tutti comunica la grandezza, politica e morale, del grande imperatore, strenuo difensore del Cristianesimo contro il luteranesimo allora dilagante tra le popolazioni tedesche.

UNA CANZONE

viva-la-vida-la-chiave-di-sophiaViva la vida – Coldplay

“I used to rule the world / Seas would rise when I gave the word / Now in the morning I sleep alone / Sweep the streets I used to own” (“Governavo il mondo intero / i mari si alzavano al mio comando / Adesso mi sveglio e sono solo la mattina / spazzo le strade che erano mia proprietà”). Il re fittizio del grande successo dei Coldplay (correva l’anno 2008) ha vissuto momenti di grande gloria ma è caduto in disgrazia: qualcosa della sua storia ci richiama al Napoleone con cui abbiamo iniziato la nostra ricerca artistica nella grandezza. Il ricordo del potere e la miseria del presente si alternano in una canzone ricca e coinvolgente che nasconde un messaggio di critica ad ogni autoritarismo, cui segue sempre una ricerca di libertà da parte del popolo (del resto, in copertina all’album troviamo proprio La libertà che guida il popolo, opera di Delacroix in riferimento alla rivoluzione francese). Ma qui si entra nella psicologia del personaggio, che dopo essersi apparentemente goduto il suo potere arriva alla comprensione di come tutto sia fuggevole: “One minute I held the key / Next the walls were closed on me / And I discovered that my castles stand / Upon pillars of salt and pillars of sand” (“Un attimo prima avevo in mano le chiavi / quello dopo le mura mi si chiudevano addosso / e ho capito che i miei castelli si reggevano / su pilastri di sale, pilastri di sabbia”). La canzone si chiude con un momento quasi silenzioso dopo i fasti e le campane del ritornello, alcuni lunghi secondi di calma e di compianto, che sono come un abbandono, quasi un “mortal sospiro”.

 

Francesca Plesnizer, Rossella Farnese, Martina Notari, Luca Sperandio, Giorgia Favero

 

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Il denaro non dorme mai: la filosofia della finanza

«Il denaro è una puttana che non dorme mai! È gelosa, le devi dare attenzioni e se non stai attento, un giorno ti svegli e non la trovi più»1.
Come può esserci filosofia dove tutto è accrescimento di potere, irresponsabilità e minimo senso morale come nella finanza? Ci dovremmo chiedere cosa sia in effetti la filosofia, ma diventerebbe un discorso troppo articolato.

La finanza, essendo una appendice dell’economia reale, o almeno così nacque a metà Seicento e ufficialmente nell’Ottocento, ha una propria linea di pensiero. Molte sono le teorie d’applicazione alla realtà, da utilizzare come facciata rispetto al rigoroso sistema di numeri su cui si fonda.
Una delle più spietate e contradditorie è rappresentata dall’economista Friedman2, e interpretata a livello cinematografico da Gordon Grekko in Wall Street: i soldi non dormono mai del 1987:

«È vostra la compagnia, è vero, vostra di voi azionisti, da voi fregati da questi burocrati e i loro pranzi d’affari e liquidazioni d’oro. La Tender Carta ha 33 vicepresidenti acquisiti e ognuno guadagna oltre 200.000 dollari l’anno, io ho passato gli ultimi due mesi ad analizzare cosa facciano tutti e ancora non riesco a capirlo. Sembra la sopravvivenza degli incapaci. Per me o si funziona o si è eliminati […]. Io non sono un affossatore di compagnie, ne sono piuttosto un liberatore»3.

Il paradosso, nella prima fase del discorso tenutosi davanti a centinaia di azionisti dell’azienda Teldal Carta con la presenza dei vicedirettori, risiede nel tentativo da parte del protagonista di ribellarsi all’élite. Quelle che ora appaiono le vittime di un gioco truccato, diventeranno a distanza di pochi anni i peggiori criminali dell’alta finanza. Una rivoluzione da un sistema ingiusto ad un altro ancora più ingiusto, ma quanto meno diverso.
Così ci viene proposto, ma forse è meglio lasciare da parte i giudizi morali e concentrarci su le dinamiche interne.
Il punto focale risiede nel cambio di testimone: se prima l’azienda apparteneva alle cariche istituzionali, ora passa nelle mani degli azionisti, cioè di coloro che immettono nel sistema produttivo risorse finanziarie, credendo che l’azienda possa crescere. Una sorta di scommessa che può produrre ricchezza contingente a proprio rischio e pericolo. Loro dovrebbero essere riconosciuti, sempre secondo tale filosofia, come i veri proprietari dell’azienda, seppur vengano messi da parte ancora una volta gli operai che hanno la funzione di far muovere la ditta specifica sui binari reali.
Poi l’affondo finale:

«Il punto centrale è che l’avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l’avidità è giusta, l’avidità funziona, l’avidità chiarifica, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo. L’avidità in tutte le sue forme: l’avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha improntato lo slancio in avanti di tutta l’umanità. E l’avidità, ascoltatemi bene, non salverà solamente la Teldar Carta, ma anche l’altra disfunzionante società che ha nome America»4.

C’è un cambio di precetti morali. L’avidità risulta essere la base per ogni forma di aspirazione nel lavoro come nella vita. È forse avido di sapere il filosofo? È forse avido d’amore l’amante? È forse avido di competenze il cadetto? Siamo forse tutti avidi di vivere?

Comunque sia nella teoria di Friedman potremmo aggiungere che, diminuendo i poteri e i compensi dei capi che avevano solo una funzione di rappresentanza, le azioni avrebbero potuto salire aumentando di conseguenza i profitti degli azionisti. Infatti, tramite i dividendi che si basano su l’andamento delle quotazioni ovvero su la loro conseguente attrattiva di nuovi azionisti, avrebbero portato un bottino sempre più abbondante. È come allungare con l’acqua la limonata per poterne vendere di più, abbassando i costi di produzione.
Il problema sorge nel momento in cui non ci sia freno all’ingordigia. Quando non si contano più i danni diretti o indiretti provocati a lavoratori, ambiente o alla stessa azienda a lungo termine.

Un’altra conseguenza è la diminuzione degli investimenti per innovazione e sviluppo della stessa azienda. I fondi per ricerche e accrescimento infatti, verrebbero meno come successe ad alcune realtà economiche, dato che la percentuale maggiore dei ricavi andrebbe come premio agli investitori delle quotazioni. Il danno ricadrebbe a discapito dei nuovi orizzonti di investimento e di occupazione, unici fattori tra l’altro per imprimere effetti positivi su l’economica reale.
Non è un caso che il mito secondo il quale più il mercato azionario cresce più l’economia ne beneficia è stato smentito negli ultimi anni, soprattutto dopo la crisi del 2008 e dopo una scrupolosa comparazione tra salari e andamento dei consumi rispetto alla crescita delle quotazioni finanziarie. È vero piuttosto il contrario: quando la borsa crolla, la segue a ruota l’apparato economico.
I diritti degli azionisti risultano così squilibrati rispetto al peso della bilancia e la ricompensa per il rischio assunto nell’investendo risulta altamente iniquo.
Un nuovo squilibrio dunque che ci porta al punto di partenza.

Forse, il problema alla base di tutto è la stessa merce di scambio ovvero il denaro. Locke ad esempio, un pensatore inglese di fine ‘600, lo descrisse come un tacito accordo che fece dell’ineguaglianza una invenzione dell’uomo e non della natura. Per Gekko è solo qualcosa che non si vede, dove qualcuno vince e l’altro perde. Il denaro in questo caso né si crea, né si distrugge. Semplicemente si trasferisce da una intuizione ad un’altra, magicamente. E il capitalismo è il suo massimo.
Fortunatamente non è solo una questione di economia ma anche di legge: cambi la legge, cambi l’andamento.

Infine, c’è da chiedersi se è solo avidità personale di denaro o desiderio di accumulo illimitato la motivazione verso tutto questo. Ancora una volta Gekko risponderebbe al di là del senso comune:

«Non sono importanti i soldi, è la competizione. È giocare la partita e vincere. È solo questo»5.

Peccato che sia solo un film, e non la vita reale.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE
1-3-4-5. Citazioni dal film Wall street, 1987, regia di Oliver Stone.
2. Milton Friedman, Brooklyn, 31 luglio 1912 – San Francisco, 16 novembre 2006: economista statunitense, esponente principale della scuola di Francoforte.

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Il sapere critico della filosofia per parlare di cinema: intervista a Enrico Magrelli

I cineasti, sosteneva Gilles Deleuze, «sono paragonabili a pensatori, più che ad artisti. Essi pensano, infatti, con immagini-movimento e con immagini-tempo, invece che con concetti». Il collegamento tra cinema e filosofia è antico e negli ultimi anni sempre più fertile; abbiamo deciso di approfondirlo tra le suggestive mura in mattoni di un cinema berlinese ricavato da un ex birrificio insieme a Enrico Magrelli, direttore artistico dell’Italian Film Festival di Berlino. Magrelli, uno dei volti e delle voci più note della critica cinematografica italiana, fattosi conoscere al grande pubblico attraverso i suoi articoli su riviste (Filmcritica, Cienma e Cinema, Cineforum) e sui quotidiani del gruppo L’Espresso e il programma radiofonico Hollywood Party, è infatti laureato in filosofia in indirizzo estetico alla Sapienza di Roma; una passione che ha lasciato segni profondi nel suo modo di parlare di cinema.

 

In che modo lo studio della filosofia l’ha aiutata nella sua carriera di critico cinematografico?

Credo sia stato utile soprattutto l’allenamento a ragionare, a smontare e ricomporre le idee e i giudizi, la capacità di mettersi in una posizione dialettica. Da studente ho fatto diversi esami con Emilio Garroni, che si è occupato molto di Kant. Ecco: avere un approccio critico nei confronti delle categorie concettuali con cui interpretiamo la realtà, in modo tale da saperle anche rinnovare, è fondamentale per parlare di cinema.

 

Da sempre la filosofia si è interessata al cinema, negli ultimi anni con particolare intensità. Sempre più filosofi ricorrono a film anche popolari per illustrare le proprie teorie (l’esempio più eclatante in questo senso è probabilmente Slavoj Žižek). Ritiene questo metodo interessante o crede che una lettura “filosofica” finisca per snaturare il cinema imponendogli categorie che non gli appartengono?

Ritengo che siano un processo e una tendenza molto interessanti. Del resto, come la filosofia è una disciplina che ragiona, tra l’altro, sul sapere, sulle forme simboliche sul pensiero stesso, sul come e sul perché stiamo al mondo, così il cinema è un dispositivo attraverso il quale le varie culture si autorappresentano e in tal modo si interrogano su loro stesse.  I film sono, talvolta, oggettivazioni del pensare o addirittura, nei casi migliori, modalità del pensare. Cinema e filosofia sono accomunati dal tentativo di ragionare su ciò che è invisibile, che non riusciamo a cogliere, per renderlo visibile, accessibile, comprensibile, decrittabile. Perciò credo che interpretazioni filosofiche siano del tutto legittime; di sicuro alcuni film evocano determinate teorie, pur senza spiegarle.

 

Se i filosofi si sono da subito dedicati al cinema, tale interesse non pare del tutto ricambiato. Certo ci sono stati film su alcuni grandi pensatori (Liliana Cavani su Nietzsche, Rossellini su Cartesio ecc…), ma paiono fenomeni isolati. Come mai i registi non sembrano attingere spesso a fonti filosofiche?

È normale, il regista fa il regista, che è un altro mestiere. Ci sono poi autori che si occupano direttamente di filosofia, come Terrence Malick, che ha anche tradotto Heidegger. Ma questo non sempre è un bene. Malick ad esempio, soprattutto negli ultimi film, rischia di sovraccariche troppo di senso le sue opere fino a svuotarle. A mio parere il buon cinema, quello che ha poi un contatto più forte con la filosofia, è capace di portare il pubblico a mettersi in discussione, a porre delle domande anziché offrirgli delle risposte.
Se poi i registi non si rivolgono spesso a testi filosofici è anche perché non mi pare che la filosofia sia in una fase particolarmente vitale.

 

Se, come ha suggerito, il cinema spesso non offre risposte, qual è il ruolo del critico?

Lo sforzo dovrebbe essere quello di sintonizzarsi ogni volta con il film che si sta vedendo, evitando di servirsi sempre della stessa gabbia concettuale. Bisogna saper mettere in crisi alcuni “pregiudizi” e rinnovare le proprie griglie interpretative; imparare, ad ogni film, a vedere di nuovo.
Altro elemento fondamentale è avere una profonda conoscenza del cinema. Spesso quando ho occasione di tenere seminari dedicata alla critica consiglio, soprattutto ai più giovani, di vedere tutti i film possibili. Perché solo così si può imparare a padroneggiare il linguaggio cinematografico, in modo da saper cogliere elementi innovativi, cogliere il rispetto o la trasgressione di uno standard narrativo e riconoscere, nelle citazioni, i prestiti, i debiti, gli omaggi nei confronti di altri film.  Solo una ampia memoria cinematografica aiuta a definire le evoluzioni, i collassi o le regressioni estetiche.

 

Nella critica, italiana in particolar modo, trovo però che ci sia sempre meno uno sforzo di interpretazione dei film. È d’accordo? E come mai succede?

Assolutamente d’accordo. Il discorso critico, di cui ci sarebbe un bisogno assoluto, si è indebolito, inflaccidito. Oggi spesso la critica sfocia nella cronaca, diventa solo racconto della trama, si cristallizza in giudizi da senso comune. O, peggio, il critico diventa una sorta di tifoso. Sarebbe auspicabile una critica della ragion critica nell’era contemporanea.
 

Come diceva, lo sviluppo tecnologico (ad esempio piattaforme come Netflix, lo streaming, i social) ha provocato profondi mutamenti nel cinema. Secondo lei si tratta più di un rischio o di un’opportunità?

Il cinema non è mai stato qualcosa di solido, con dei confini ben definiti, ma ha avuto decine e decine di metamorfosi e tutte le volte sembrava dovesse finire. Quando è arrivato il sonoro molti pensavano “Aiuto, è finita”. E così sé accaduto con l’arrivo del colore. Oggi siamo di fronte a una nuova trasformazione, una polverizzazione del cinema: il film si divide in più pezzi, frammenti, frattali che si trovano sul web, si può interrompere una visione e riprenderla giorni dopo, si può veder non in sala ma sullo schermo minuscolo dello smartphone (una vera e propria perversione dello sguardo). È una galassia in cui stanno cambiando i parametri e i confini ma questo non è per forza negativo. Come dicevo prima, bisognerebbe sforzarsi di ridefinire alcune categorie. Il cinema ha però anche grande vitalità, capacità di reinventarsi. Basti pensare al recente sviluppo delle serie televisive, che di fatto attualizza quel desiderio di narrazione tipico dei romanzi a puntate dell’Ottocento e di una parte del cinema muto.

 

Veniamo ora al contesto di questa intervista, ossia l’Italian Film Festival di Berlino, che presenta al pubblico tedesco una selezione dei migliori film italiani dell’anno precedente. Come sta il cinema italiano oggi?

Molto bene, c’è una grande vitalità e tanti giovani autori riscoprono il piacere di connettersi con il pubblico. Spesso c’è comunque un problema nel numero degli spettatori in sala, anche perché la figura stessa dello spettatore sta subendo una mutazione profonda. Fino a vent’anni fa il cinema era un modo privilegiato per passare il tempo libero ma soprattutto fare i conti con il mondo esterno. Ora lo stato delle cose è radicalmente diverso.

 

A questo proposito credo che la mia generazione, e ancor di più quella successiva, crescendo più con Netflix che con la televisione possa acquisire un gusto della visione diverso. Forse migliore?

Forse hai ragione, anche se una cosa che spesso manca su queste piattaforme, e che invece sulla tv resiste, con una certa fatica, sono i film del passato. Noto che spesso le nuove generazioni non sono abituate a certi ritmi, vedere un film in bianco e nero sembra quasi una pratica archeologica. Ma questo è in realtà un esercizio molto utile, soprattutto per il critico. Bisogna saper vedere anche film che si trovano noiosi. Anzi, in questi casi è più facile evitare di sprofondare nel film e si possono rintracciare meglio i temi affrontati, lo stile della messa in scena, l’architettura formale.

 

Chiudiamo con una domanda che facciamo a tutti i nostri ospiti: cos’è per lei filosofia?

Una capacità di interpretare la realtà non chiudendola in una gabbia dorata preesistente ma riuscendo a sollecitarla, pronti a modificare le proprie categorie a seconda di ciò che si ha di fronte. Una rigorosa flessibilità quotidiana. Un esercizio di interpretazione complesso, che è quello che dovrebbe fare anche la buona critica cinematografica. E che oggi ci servirebbe molto.

 

Lorenzo Gineprini

 

[Photo credits Lilia Andreotti]

Una parola per voi: passato. Gennaio 2019

«Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.»

da Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald.

Gennaio, primo mese dell’anno, simboleggia sempre un nuovo inizio. Tuttavia, ogni nuovo inizio porta inevitabilmente con sé un bilancio, ossia uno sguardo a ciò che c’è stato prima, un volgersi indietro, verso il passato.

“Passato” è la parola per voi scelta per questo gennaio 2019, tratta dalla frase che chiude il romanzo Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, pubblicato nel 1925. A parlare è Nick Carraway, narratore e amico di Jay Gatsby, il facoltoso innamorato che fa di tutto per riavere la sua Daisy. La battuta conclusiva di quest’opera letteraria evoca la speranza e la naturale spinta in avanti, verso l’avvenire, che caratterizza l’essere umano. Al contempo però, mette in luce anche una sua caratteristica del tutto opposta: l’uomo tende a tornare indietro, facendosi trasportare da una corrente contraria. “Risospinti senza posa nel passato”, scriveva Fitzgerald: non possiamo impedirci di ripensare a chi siamo stati, a quello che abbiamo fatto. I ricordi non ci abbandonano mai – sia che siano lieti, sia che siano infausti. Cosa saremmo, in fondo, senza il nostro passato? E come potremmo costruire il nostro futuro o alimentare i nostri progetti, senza la memoria di ciò che siamo stati?

Ecco per voi una selezioni di libri, film, canzoni e opere d’arte che riflettono sull’importanza del volgere lo sguardo al passato – specie prima di compiere un salto in avanti.

 

UN LIBRO

la-chiave-di-sophia-il-cimitero-di-pianoforti-peixotoIl cimitero dei pianoforti  – José Luis Peixoto

“Saudade”, direbbero i portoghesi. Un padre muore. Può così ripercorrere la sua vita, fatta, come tutte le esistenze, di gioie e dolori, rischiarata dalla passione e dall’amore, funestata dall’alcol. Un figlio, Francisco Lázaro, maratoneta portoghese, fa lo stesso. Mentre corre la maratona alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912, ricordi e pensieri sul presente si intrecciano in un flusso di coscienza che si arresterà al trentesimo chilometro. Due persone si raccontano. Entrambe morte. Entrambe fortemente legate ai vivi.

 

UN LIBRO JUNIOR

caccia-alla-tigre-dai-denti-a-sciabola-chiave-di-sophiaCaccia alla tigre dai denti a sciabola – Pieter Van Oudheusden, Benjamin Leroy 

“Vieni, andiamo indietro nel tempo. Andiamo fino a un tempo di molto tempo fa e ancora prima”. Inizia così questo bellissimo album illustrato che, come avrete capito, vi porterà al tempo degli uomini preistorici. Se voi foste uno di loro vorreste di sicuro andare a caccia della temuta tigre dai denti a sciabola come vorrebbe fare Olun, il piccolo protagonista del racconto. Riuscirà a trovarla? Divertitevi a scoprire tutti i particolari delle illustrazioni di questa storia, adatta ai bambini dai 4 ai 6 anni all’incirca.

 

UN FILM

la-chiave-di-sophia-lettere-di-uno-sconosciutoLettere di uno sconosciuto  Zhang Yimou

Ci vuole tempo, per un paese, per guarire dalla propria storia, e la Cina di oggi ancora tenta di venire a patti con gli effetti a lungo termine del maoismo e della Rivoluzione Culturale. Zhang Yimou racconta queste ferite attraverso la storia di Feng Wanyu, che lo stesso giorno, ogni mese, va alla stazione attendendo il ritorno del marito, un intellettuale che il regime ha arrestato e deportato anni prima. Al ritorno dell’uomo, però, Feng, ormai malata, non è in grado di riconoscerlo. Starà al marito, Lu, calarsi da estraneo nel mondo della moglie, prigioniera del proprio passato, e rivivere con lei anni di umiliazioni, tradimenti e solitudine, ma anche di speranza e di tenacissimo amore.

 

UNA CANZONE

la-chiave-di-sophia-incontro-radici-gucciniIncontro – Francesco Guccini

Appartenente all’album Radici (1972), Incontro narra di un rendez-vous tra Guccini e una sua amica, professoressa di ginnastica, trasferitasi prima in America poi a Berlino, la quale fece ritorno in Italia dopo il suicidio del suo compagno durante le festività natalizie. Con una scrittura cinematografica, per immagini veloci (E correndo mi incontrò lungo le scale; il sole che calava già rosseggiava la città; auto ferme ci guardavano in silenzio; carte e vento volan via nella stazione..), Incontro è un’occasione di bilancio, tra rievocazioni nostalgiche e constatazione dei cambiamenti avvenuti (quasi nulla mi sembrò cambiato in lei; eran belli i nostri tempi; ti ho scritto è un anno, mi han detto che eri ancor via).  Un brano “color nostalgia” sospeso tra la nebbia modenese e il vagone di un treno, avvolto come miele dalla tristezza e dalla bellezza della verità (Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno).

 

UN’OPERA D’ARTE

la-chiave-di-sophia-giosue-mostra-a-mose-il-vitello-doro-ludovico-carracciGiosuè mostra a Mosè il vitello d’oro  Ludovico Carracci, 1610 circa

La tentazione di guardare al proprio passato è sempre forte, specialmente nei momenti di cambiamento, durante i quali la nostra forza di volontà tesa verso un futuro incerto può per un attimo vacillare, lasciando che la nostra debolezza faccia appello a una sorta di istinto di sopravvivenza che riconduce a ciò che risulta già noto e accomodante. Questa antitesi tra passato da lasciarsi alle spalle, pieno di errori ma anche di certezze, e futuro denso di imprevisti e sacrifici si dispiega in modo evidente nell’episodio biblico dell’adorazione del vitello d’oro, ben raffigurato nel dipinto di Ludovico Carracci conservato nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. Durante il viaggio verso la terra promessa, il popolo ebraico approfitta della breve assenza di Mosè, recatosi sul Sinai per ricevere i comandamenti, per creare un idolo pagano, il vitello d’oro. Quest’ultimo viene elevato a divinità con conseguente abbandono dell’unico Dio in grado di liberare dalla schiavitù. Ciò scatena l’ira di Mosè, che al suo ritorno dal Sinai, vedendo il suo popolo caduto nel grave errore di ritornare per inerzia al proprio passato, scaglia a terra le tavole della legge distruggendole.

 

Francesca Plesnizer, Sonia Cominassi, Federica Bonisiol, Giacomo Mininni, Rossella Farnese, Luca Sperandio

 

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Una parola per voi: focolare. Dicembre 2018

La parola per voi scelta per questo mese di dicembre è “focolare”. Lo stato d’animo attorno al quale ruoteranno i libri, le opere d’arte, i film e le canzoni selezionati per voi, è tratto da una celebre poesia di Giuseppe Ungaretti intitolata “Natale”.


Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare.

Ungaretti scrisse questa poesia durante il periodo natalizio del 1916, mentre trascorreva la sua licenza di guerra presso un suo caro amico a Napoli. Sorvolando lo stato d’animo malinconico del poeta, che non ha né voglia né forza di festeggiare il Natale col sorriso sulle labbra dopo aver vissuto le atrocità della guerra, approfondiremo le ultime due strofe, in particolare la parola “focolare” che chiude la poesia: «Qui/non si sente/altro/che il caldo buono/Sto/con le quattro/capriole/di fumo/del focolare». Questo, per molti di noi, è il vero significato del Natale, ciò che dà un senso a questa festività in origine pagana, diventata poi la “regina” delle festività cristiane. Per quanto la vita possa risultare amara, in quella che riconosciamo come “casa” (che sia la nostra, quella della nostra famiglia d’origine, quella d’un parente o d’un amico) percepiamo un “calore buono”, benevolo, rassicurante, capace di lenire le nostre ferite e fornirci una tregua. Ci troviamo attorno a un focolare (anche metaforico) che emana un fumo allegro, speziato, profumato di gioie, amore e affetto, un fumo che il poeta descrive con quelle parole, “quattro capriole”, per indicarci che purtroppo, come la vita, come ogni felicità, è qualcosa di effimero, destinato a passare. Ma adesso quel calore pregno di buoni sentimenti e speranze è qui, lo possiamo tenere stretto a noi, interiorizzarlo nella nostra anima, farci cullare da esso, in questo nuovo Natale alle porte.

Ecco la nostra selezione, in linea con la parola del mese:

 

UN LIBRO

paula-chiave-di-sophiaPaula  Isabel Allende

L’ambientazione è diversa dal classico quadretto familiare i cui membri siedono dinanzi ad un camino ascoltando le storie dei vecchi. L’ospedale in cui Paula viene ricoverata per una grave malattia è il capezzale dove la madre Isabel si reca creando magicamente un focolare intimo, fatto di storie di dolore, esilaranti e di speranza. Un fuoco narrativo a cui Isabel dà origine per distrarre la morte, per allontanarla un poco dal profondo stato di coma in cui versa Paula. Un fuoco evocatore della sua intera famiglia affinché circondi Paula e l’aiuti a non perdersi lungo il confine della vita.

UN LIBRO JUNIOR

il caso del dolce di natale chiave di sophiaIl caso del dolce di natale (e altre storie) – Agatha Christie

Prendete un investigatore. Aggiungete un Natale in campagna. Metteteci un principe e un rubino rubato. Glassate con un gioco all’omicidio, e servite fumante. Cosa convincerà Poirot a lasciare il solitario, ma comodo, caminetto (a gas!) di casa, per indagare anche a Natale? Riuscirà a risolvere il caso, e soprattutto: capirà qual è il vero spirito del Natale? Una raccolta di sei imprevedibili racconti, frutto di una penna geniale che, dietro la semplicità stilistica, nasconde cura dei dettagli e volontà di stupire: una miscela perfetta di suspence e linearità. Adatto dai 12 anni in su.

UN FILM

il-cacciatore-chiave-di-sophiaIl cacciatore  Michael Cimino

Il Cacciatore è considerato uno dei capolavori del genere cinematografico di guerra, seppur ne parli poco. Come Ungaretti si trova di fronte a contrasto emotivo, rappresentato dalla condizione abietta dei ricordi di guerra in contemporanea all’arrivo del Natale, così nel film i protagonisti appena rientrati dal Vietnam si presentano deboli e speranzosi di poter ritrovare un loro proprio equilibrio. Focolare non è solo casa e famiglia, ma anche comunità. Una comunità che deve essere in grado di favorire la ricerca del proprio posto nel mondo. Purtroppo, non tutti i protagonisti del film riescono a trovare il loro, tant’è vero che alcuni perderanno se stessi. Per Ungaretti la soluzione furono le quattro capriole di fumo; in questo film invece è l’amicizia.

UNA CANZONE

chiave-di-sophia-tiromancinoImmagini che lasciano il segno  Tiromancino

Se la parola “focolare” rimanda all’insieme di relazioni ed affetti che compongono quella che riconosciamo come “casa” (ovunque essa sia e in qualsiasi forma essa si proponga), questa canzone del 2014 può fare da sottofondo a un momento di scambio e condivisione tra genitori e figli. Scritta e interpretata da Federico Zampaglione, la canzone è una dedica alla figlia Linda, diventata “la ragione che lo muove, l’essenza della sua esistenza, la sua motivazione”. Una canzone dalla sonorità sempre fresca, che propone agli ascoltatori una piacevole presa di coscienza da parte del cantante riguardo l’importanza che la figlia ha per la sua vita.

UN’OPERA D’ARTE

lecture de la bible chiave di sophia focolareLa lecture de la Bible – Jean-Baptiste Greuze (1755)

Il concetto di focolare viene sempre associato a situazioni e ambienti che riuniscono un gruppo intimo di persone in un contesto di calore materiale o figurato. Esso viene così a identificarsi come momento di condivisione e di unione, spesso inteso in ambito familiare. Quello che viene raffigurato nel dipinto dell’artista francese Greuze è proprio uno di questi momenti, vale a dire quello in cui il padre di famiglia, circondato da moglie e figli al completo, siede a un tavolo per leggere un passo della Bibbia. La scena, di efficace realismo, si svolge all’interno di una casa scarsamente arredata, dove la crudezza dei muri freddi sembra farla da padrona. Tuttavia il forte senso di calore, abilmente trasmesso dal pittore mediante l’uso di tonalità calde, emerge dallo stretto legame affettivo esistente tra i familiari: un legame sacro quanto le parole pronunciate dal pater familias chino sopra la sua Bibbia, verso il quale i volti attenti dei figli manifestano un senso di profondo rispetto.

 

Appuntamento al prossimo mese, con la prossima parola!

 

Francesca Plesnizer, Sonia Cominassi, David Casagrande, Simone Pederzolli, Federica Bonisiol, Luca Sperandio

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Incomunicabilità e precarietà dei sentimenti: l’esistenza in La Notte di Antonioni

Some of these days / You’ll miss your honey / Some of these days/ You’ll feel so lonely… una voce femminile calda e avvolgente risuona in un bistrot di Bouville. Le note di questa canzone, che verrà reinterpretata nel corso del tempo da voci leggendarie del jazz, da Louis Armstrong a Ella Fitzgerald, sono l’unico specchio su cui si riflette Antoine Rouquetine, il protagonista del romanzo sartriano La Nausea. Solo lasciandosi trasportare da questa melodia il sentimento di nausea che lo attanaglia sembra lasciarlo libero, anche se solo momentaneamente: la musica riesce a condurlo per un attimo dalla contingenza dell’esistente alla necessità dell’essere.

Anelito all’essere, davanti a un’esistenza che si mostra nella sua frammentarietà e nel suo carattere assurdo, irrazionale. È proprio questo ciò che accomuna Rouquetine ai personaggi dei film di Antonioni, da La Notte a L’Eclisse, passando attraverso L’avventura.

È facile che la noia quotidiana di una vita costruita con impegno ti trascini in un vortice dove le domande non trovano più posto e dove tutto viene travolto da una meccanicità disumanizzante. Qui le relazioni umane diventano precarie e tu resti lì e vedi scorrere la tua vita dall’esterno, come una cassa di risonanza per un ego ormai troppo ingombrante.

È proprio attraverso il concetto di noia che passano le interpretazioni cinematografiche e letterarie di autori che nel secondo dopoguerra si sono scontrati con un “malessere interiore”, di cui hanno cercato di indagare l’origine, dandone ciascuno una personalissima chiave di lettura.

Un male che si origina da una struttura socio-economica, quella borghese neocapitalista, che sul trionfo di un progresso solo apparente ha costruito i propri idoli e, inevitabilmente, i propri fantasmi.

«Quante cose si finiscono per sapere se si resta un po’ soli. E quante cose restano da fare… Mi viene il sospetto di essere rimasto un po’ ai margini di un’impresa che invece mi riguardava. Non ho avuto la forza di andare in fondo». La Notte di Antonioni si apre con le parole di Tommaso, l’amico di famiglia, sul letto di un ospedale prima di morire. È proprio quella consapevolezza a scatenare in Lidia, donna colta dell’alta borghesia milanese, una profonda crisi interiore. Quest’ultima infatti, percepisce la precarietà di una relazione sentimentale ormai finita, che la lega solo apparentemente al marito.

È proprio la fredda indifferenza di Giovanni Pontano, marito di Lidia, scrittore e intellettuale pienamente integrato nel sistema, a incarnare la precarietà del sentimento. Giovanni barcolla sulla superficie della vita, senza viverla mai fino in fondo e, in questo suo incedere incerto e silenzioso, guarda con occhi spenti e stanchi la donna con cui ha trascorso buona parte della propria vita.

I personaggi dei film di Antonioni sembrano vivere un sonno senza fine; inerti rimangono sospesi in una compostezza che non ha più nulla di umano. Simile a fantocci, agiscono, ma sembrano non percepire il peso delle azioni e del proprio essere, come se a muoverli fosse un burattinaio che magistralmente tiene le fila di quelle vite, alle loro spalle. Il vagare di Lidia è l’emblema dell’angoscia esistenziale: assalita da un senso di inquietudine, la donna si allontana dalla libreria dove il marito sta presentando il suo ultimo libro, ritrovandosi a vagare in una Milano distrutta e desolata. In queste scene, il regista lascia spazio a un’acuta analisi psicologica e introspettiva della donna, ormai consapevole della propria infelicità di fronte a una relazione senza senso.

Uomini e donne separati dalla noia, in una solitudine esasperata da una vita che sembra non appartenere ad essi veramente. Questi i ritratti costruiti da Antonioni. Qui, i sentimenti rivelano la fragilità umana, ciò che marca il labile confine tra essere ed esistere. Lidia, così come Vittoria, giovane protagonista di L’Eclisse, sperimentano quel senso di estraneità rispetto al compagno di una vita ed è proprio da questo nulla tormentato che cercano di fuggire, trovando però solo angoscia e solitudine. “Ci sono dei giorni in cui avere in mano una stoffa, un ago, un libro, un uomo è la stessa cosa” – con queste parole Vittoria confida all’amica tutta la sua disperazione.

Sembra che così come Rouquetine, anche i personaggi immortalati da Antonioni desiderino “essere”, ma si scontrano con un esistere che non possono che accettare e vivere passivamente.

Un’angoscia che rivela tutta la reversibilità delle emozioni e dei legami, ratio anche del film L’Avventura, come lo stesso regista dichiara nel 1976 durante un’intervista al Corriere della Sera: “il dolore dei sentimenti che finiscono o dei quali si intravede la fine nel momento in cui nascono”.

Non resta allora che continuare a far suonare la propria melodia, seguire quel ritornello capace anche solo per un attimo di condurci al di là del silenzio assordante di un’esistenza per sua natura incomprensibile alla razionalità umana.

 

Greta Esposito

 

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«Chiamami col tuo nome», ma anche no. Il legame tra nome e identità

Chiamami col tuo nome: un film che, anche sulle pagine online di questa rivista (questo è l’articolo) è stato definito: “Un inno alla bellezza”. Può darsi.
Non mi interessa commentare la pellicola, ma mi si consenta di prender spunto da essa per una riflessione. Spostiamo direttamente la nostra attenzione sulla frase eponima che, è noto, recita: “Chiamami col tuo nome ed io ti chiamerò col mio”.
Credo che la maggioranza degli spettatori abbia visto in questa dichiarazione di Oliver a Elio un’espressione d’un amore talmente profondo da culminare addirittura nella perdita della singolarità a favore dell’alterità.
Che bello: io sono te, tu sei me…

A me si gela, francamente, il sangue nelle vene: una battuta del genere, da sola, riassume tutti i pregiudizi, e i malgiudizi, ruotanti attorno la comprensione dei rapporti umani, specialmente quelli implicanti un dispendio sentimentale.
Certo non ho nulla contro il film di Guadagnino o il libro di Aciman: mi oppongo, però, al messaggio sotteso. Ritengo non sia accettabile, neppure come trasposizione estetica, che l’amore sia dipinto come appiattimento di due creature l’una sull’altra, un reciproco scambio d’esistenze o identità.

Dietro alla dichiarazione di Oliver v’è una visione distruttiva dei rapporti interpersonali spacciata per amore; in realtà, è la narrazione d’un suicidio della seità che, generalizzato, porta all’atomizzazione della società: un così subdolo, tornante verso il baratro di una società totalitaria che neppure Orwell avrebbe mai osato immaginare.
Senza nome, o col nome d’altri, siamo non bestie, ma cose, e le cose non si rapportano tra loro, neppure amano.

La cessione a terzi del proprio nome è un gran rifiuto fatto per viltade che, in nessuna maniera, neppure con l’amore, può esser compensato. Cambiare il proprio nome con quello d’un altro non è un dono, ma al contrario è un autostupro, la distruzione d’un dono: il più sommo, quello della singolarità. E senza di essa, c’è il nulla.
Il nome è tutto ciò che io sono, e sono solo io.
Il nome è la mia “etichetta”, il termine a cui referente semantico sono io in quanto concreta incarnazione della mia storia e del mio futuro, la designazione di qualcuno in quanto quell’uno; è l’unica parola della lingua che designa solamente me, non altri. È sano egoismo messo in una catena fonica fatta di storia, possibilità e psicologia; ciò che mi salva dalla massa e fa di me non carne, ma concettualità.
Regalandolo o cambiandolo, io non regalo o cambio me qui e ora, ma metto all’asta la rete di rapporti, di pensieri, di azioni che ho intessuto, e intesserò, lungo l’asse del tempo; mi sono ucciso al mondo e al tempo.

Pensare che i rapporti siano una sorta di adæquatio me ad alteritatem così profonda da sfociare nell’equazione Io = Tu = Me, all’interno della quale, evidentemente, nomi e storie singole sono perfettamente inutili, significa non avere rispetto né di sé, né del prossimo.
Per aver rapporti umani occorre essere in due; come possiamo credere ch’essi possano darsi, se noi in quanto singoli semplicemente diventiamo (l’)altro? Sono le sostanze chimiche a unirsi tra loro per formare un composto nuovo, perdendo le caratteristiche iniziali.
Ma noi siamo esseri umani. Esistiamo. E, soprattutto, abbiamo una dignità.

Diffidate di chi dice che rapportar-si agli altri è sinonimo di perder-sé. Ogni rapporto positivo è esaltazione della propria ipseità nell’alterità, non annullamento o fusione.
Ogni sentimento buono, principalmente l’amore, è uno sguardo gettato verso un Non-noi che ci piace e senza il quale, pur restando Noi, risultiamo tuttavia un po’ peggiori; perché si realizzi tale sguardo, però, io devo essere ciò che sono, con il mio nome e la mia personalità: se mi svendo non sto amando, sto praticando masochismo.

Se dunque Chiamami col tuo nome ci insegna qualcosa, è esattamente come non ci si deve rapportare agli altri, cioè sostituendosi-a e facendosi-sostituire-da loro.
L’invito è di non dare mai per scontata la propria seità e i modi attraverso cui si manifesta: amici miei, avete un passato e un avvenire riassunti nel vostro nome: non cedetelo, mai.
È l’unica cosa che resterà di voi, incisa, un dì, s’una lapide di marmo e s’una targhetta d’ottone sopra una bella cassa di acero.

 

David Casagrande

 

[Photo Credit: Unsplash.com]

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Bellezza, verità e cinema del reale. Al via la 5° edizione del SoleLuna Treviso DocFilm Festival

Giunto al tredicesimo anno di vita e alla quinta edizione trevigiana, dal 10 al 16 settembre 2018, torna a Treviso, presso la suggestiva Chiesa di San Gregorio Magno e la sede di TRA – Treviso Ricerca e Arte a Ca’ dei Ricchi, il Sole Luna DocFilm Festival, un’occasione unica per assistere alla proiezione gratuita di film documentari e incontrare autori internazionali.

Il Festival, insignito di uno tra i massimi riconoscimenti conferiti dallo Stato a un evento culturale, la Medaglia del Presidente della Repubblica, ha scelto come simbolo, per la tredicesima edizione, il Gelsomino Grandiflorum, un fiore indossato dallo staff in segno di solidarietà a chi scappa da guerra e miseria in cerca di una nuova vita e condiviso con gli ospiti della rassegna. Scelta altrettanto rilevante che va nella medesima direzione di solidarietà e di dialogo interculturale è la citazione di Ermanno Olmi per l’esergo del catalogo trevigiano: «Auguro a tutti di qualsiasi razza, religione o cultura, di provare sentimenti di pace nei confronti di ogni uomo così da mostrare a noi stessi e al mondo che la violenza non potrà mai restituire giustizia».

Delle 40 proposte cinematografiche in programma 28 sono quelle selezionate per il concorso, già presentate con successo durante l’edizione palermitana (2-8 luglio 2018). Il concorso si articola in tre sezioni: Human Rights, dedicata ai diritti fondamentali dell’uomo, The Journey, storie di viaggio reali e simboliche e Short Docs, riservata ai cortometraggi. La selezione è stata curata dalla Presidente dell’Associazione Sole Luna – Un ponte tra le culture, Lucia Gotti Venturato, dal videomaker Bernardo Giannone, e dai direttori artistici del Festival Chiara Andrich e Andrea Mura, con cui abbiamo avuto il piacere di chiacchierare per l’occasione.

 

© Beccarella PhotographyCome considerate il rapporto tra bellezza e verità? Il docufilm in quanto cinema del reale come può coniugare il bello con il vero senza scadere o nel lirismo estetizzante o nell’eccessivamente crudo e talvolta scandaloso?

Andrea Mura: La domanda non è tra le più semplici e richiederebbe spazio e tempo, che qui non abbiamo, ma proveremo a rispondere lo stesso. Ammesso che i concetti in campo, bellezza, realtà e verità, siano da ascriversi in un dominio soggettivo e di impossibile oggettivazione, partiamo dal presupposto che il cinema sia rappresentazione e che dunque sia sempre interpretazione soggettiva della realtà. È più vero il fatto di cronaca in sé o la sua rappresentazione artistica? La “realtà” di un telegiornale o quella esperita dall’uomo della strada? Tornando al Festival e ai film selezionati, il nostro criterio di giudizio prevalente è quello di cercare un’armonia tra fattori estetici (fotografia, musiche, scelte di regia) e contenuti, dalle questioni di genere all’ambiente, da problematiche sociali attuali a fatti storici che hanno ancora ripercussioni nel presente. I film che preferiamo sono quelli che riescono a trovare un equilibrio tra questi vari aspetti tali da dare al film una consistenza e un’importanza che ci va di mostrare al pubblico del Sole Luna.

Al centro di quest’edizione alcune tematiche quali il racconto autobiografico e il rapporto padre-figlio: Before my Feet touch the Ground di Daphi Leef, in concorso per la sezione Human Rights e in proiezione l’11 settembre alle ore 20.00 a TRA, è ad esempio la storia in prima persona della giovane video editor israeliana da donna ingenua a icona nazionale celebre e controversa che nel luglio 2011 dà inizio a un movimento di protesta contro la politica abitativa e per la giustizia sociale; El color del camaléon di Andrés Lübbert, in concorso per la sezione The Journey e in proiezione il 13 settembre alle ore 20.00 a TRA, è invece un ritratto psicologico del padre del regista, Jorge, che scava insieme al figlio nelle profondità del proprio passato incompiuto quando, durante la dittatura di Pinochet, viene costretto a lavorare in modo estremamente violento per i servizi segreti cileni riuscendo però a scappare a Berlino Est e a diventare cameraman di guerra.

saltoIn quest’edizione SoleLuna dà quindi particolare rilievo alle donne, ad esempio con la collaborazione con la rassegna Endorfine Rosa Shocking, ideata e curata da Lara Aimone e dedicata a film su donne nello sport e con la proiezione del corto Salto di Maryam Haddadi: quale messaggio e quali obiettivi guidano le scelte artistiche per quest’edizione?

Chiara Andrich: La questione femminile ha sempre un posto centrale all’interno della selezione del SoleLuna perché in molti paesi del mondo – e spesso anche nel nostro – le donne vivono in una condizione di subalternità nei confronti degli uomini e sono soggette a vincoli di natura culturale. Allo stesso tempo però le donne sono forti, esseri che resistono e continuano a lottare a bassa voce, e che danno la vita. Molte sono le protagoniste femminile dei documentari presentati al Festival, ricordo tra tutte le straordinarie Primrose Sonti e Thumeka Magwangqana in Strike a rock di Aliki Saragas, due none sudafricane che lottano per il miglioramento delle condizioni di vita a Marikana. Indimenticabile la delicata figura di Patricia nel cortometraggio di Giulio Tonincelli, una giovane levatrice che sta imparando a diventare midwife nel villaggio di Kalongo in Uganda. E ancora la protagonista e regista di In the name of…, Eirleen Kardany, che racconta il suo essere donna, moglie, madre e figlia divisa tra pese di origine, la Malesia, e di adozione, la Norvegia, schiacciata dal peso di vivere con l’Islam da donna moderna.

Ci sono degli ambiti poi poco frequentati dalle donne, uno di questi è lo sport e quest’anno il festival affronta questa tematica in diversi film. Nel cortometraggio in concorso, appunto, Salto di Maryam Haddadi la giovane nuotatrice iraniana Zahra Hosseinzadeh racconta le difficoltà di essere un’atleta donna sotto la Repubblica islamica. Allo stesso modo la protagonista di Girl Unbound di Erin Heidenreich deve ricorrere al travestimento per giocare a squash sotto il regime talebano in Pakistan. E ancora, un’altra protagonista è Martina Caironi del documentario Niente sta scritto di Marco Zuin, l’atleta paralimpica più veloce al mondo.

Inoltre, forse perché lo staff del Festival è composto quasi interamente da donne, siamo particolarmente sensibili alla questione dei ruoli femminili nel mondo del cinema e cerchiamo spesso di valorizzare anche le autrici e le professioniste donne che lavorano come direttrici della fotografia e montatrici in un ambiente poco aperto al femminile.

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Altro tema che emerge dalla selezione dei docufilm 2018 è la costruzione e l’affermazione dell’identità, dal corto La Pureza di Pedro Vikingo a Sydney di Tristan Altchison in concorso per la sezione Human Rights, perché considerate il tema dell’identità un aspetto chiave per i diritti dell’uomo?

Andrea Mura: La Pureza e Sydney affrontano la questione dell’identità di genere e li presenteremo in collaborazione con il Coordinamento LGBTE di Treviso. Il cortometraggio La Pureza affronta il tema della transessualità infantile, regalandoci in pochi minuti il ritratto di cinque bambini che affrontano il passaggio da un genere all’altro. Sydney and Friends parla invece di una ragazza nata intersessuale e delle sue battaglie per essere riconosciuta e accettata nella sua famiglia e comunità. Riteniamo che sia doveroso in un festival come il nostro, che si occupa di diritti umani, dare spazio a quelle storie che affrontano tematiche di genere, di ricerca della propria identità sessuale, al di là dei pregiudizi e dei moralismi e che hanno al centro il rispetto della libertà individuale, punto cardinale della dichiarazione dei diritti dell’uomo. Senza libertà di scelta, di espressione, di rispetto delle inclinazioni proprie e altrui, non c’è apertura verso l’altro, il diverso da sé, e la società che ne deriva è intollerante e ottusa. Per questo riteniamo doveroso parlare di identità, libertà, diversità, intesi tutti come tasselli per una società più giusta.

 

Concludiamo con le parole della direttrice artistica del Festival che ci introduce alcune peculiarità di questa ricchissima quinta edizione trevigiana, come i tre appuntamenti di Cinema in cantina, proiezioni in cantina, dal Castello di Roncade alla Cantina Pizzolato di Villorba, alla Tenuta Santomè di Biancade, di documentari sul mondo del vino accompagnate da degustazioni, o il workshop per filmakers e tecnici audio Da Godzilla a Tarkovskij. Il Festival, come ogni anno, dà particolare rilievo alla musica: ogni serata si aprirà infatti con un concerto d’organo. Imperdibile anche la mostra fotografica Dieci anni e ottantasette giorni di Luisa Menazzi Moretti, visitabile a TRA fino al 23 settembre, dedicata ai giustiziati nel braccio della morte di Livingstone, in Texas.

Chiara Andrich: In questa edizione abbiamo voluto dare spazio a dei film su un aspetto molto vicino al territorio dove operiamo: il mondo del vino raccontato attraverso il cinema. Con la collaborazione del nostro main sponsor Consorzio del Prosecco Doc proietteremo tre film sul vino in altrettante cantine, con un omaggio ad Ermanno Olmi con il suo Le rupi del vino e due film, Red Obsession degli australiani Warwick Ross e David Roach e Barolo boys di Paolo Casalis e Tiziano Gaia. Cercando sempre di coniugare cinema e territorio presenteremo tre documentari prodotti da autori veneti: Marco Zuin, Cristian Cinetto, Federico Massa e Andrea Azzetti.

Sulla stessa scia presenteremo il libro Veneto 2000 il cinema. Identità e globalizzazione a Nordest alla presenza degli autori Farah Polato, Giulia Lavarone, Marco Bellano, Rosamaria Salvatore. In collaborazione con Soundrivemotion diamo poi spazio anche quest’anno alla formazione nei mestieri del cinema attraverso il laboratorio Da Godzilla a Tarkovskij – La funzione della musica e del sound design nel cinema e nel video.

Il laboratorio, teorico ed esperienziale, è rivolto a filmakers, musicisti, tecnici audio, studenti e appassionati.
Uno spazio speciale è riservato dunque quest’anno alla musica. Il Festival si aprirà ogni giorno con un concerto eseguito all’organo costruito dal Callido nel 1769 per la Chiesa di San Gregorio Magno. La chiusura del Festival è affidata all’abilità di Filippo Perocco, che, spaziando nel repertorio contemporaneo da György Ligeti a John Cage, ci condurrà alla scoperta visiva di pellicole poco note di inizio ‘900.

 

Programma completo: qui

Rossella Farnese

[immagini concesse da SoleLuna Treviso DocFilm Festival]

 

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