“Ready Player One” è un viaggio ai confini della realtà

Chiunque sia entrato in un cinema almeno una volta negli ultimi quarant’anni, non può non essersi imbattuto anche solo in uno dei trentadue lungometraggi diretti da Steven Spielberg. Il regista americano è parte integrante di quella schiera di autori le cui opere sono entrate di diritto nell’immaginario collettivo di milioni di persone. Al di là dei gusti personali che, di volta in volta, possono farci amare o meno i suoi film, Spielberg ha il pregio di voler continuare a sperimentare le nuove vie del cinema nonostante abbia raggiunto la soglia dei 72 anni d’età. Il suo nuovo gioiello si chiama “Ready Player One” ed è un viaggio fantasmagorico che anticipa il futuro guardando al passato.

Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore statunitense Ernest Cline, “Ready Player One” racconta di un’avventurosa caccia al tesoro per la conquista di Oasis, uno sterminato universo virtuale in cui, nel 2045, gli abitanti della Terra si rifugiano per sfuggire alla desolazione e ai problemi della vita reale. I temi chiave su cui si basa il nuovo film di Spielberg sono essenzialmente due: il primo è quello della rilettura del passato per imparare a comprendere il futuro che ci attende. Il secondo riguarda l’eterna diatriba sui possibili sviluppi della realtà virtuale e sull’importanza di continuare a instaurare rapporti autentici e reali in un mondo sempre più dominato dalla tecnologia. Il primo dei due nodi tematici appena citati, viene sciolto da Spielberg attraverso l’utilizzo smodato del citazionismo che raggiunge l’apice nella seconda delle tre prove per la conquista di Oasis. Il tema della realtà virtuale contrapposta al reale è invece la parte più debole della storia, dal momento che non riesce mai a sfociare in un ragionamento approfondito sull’importanza del carattere umano, contrapposto al progresso della realtà virtuale.

Nel pensiero filosofico contemporaneo, la problematica della realtà esterna ha assunto una valenza prevalentemente gnoseologica. La riflessione neopositivistica, per esempio in Carnap, ha invece etichettato i contenuti e le soluzioni proposte in passato come risposte a uno pseudoproblema, in quanto non suscettibile di verifica sperimentale. Nella riflessione successiva al neopositivismo il problema della realtà è stato variamente discusso all’interno del rinnovato dibattito sul realismo, illustrando come la contrapposizione con una dimensione virtuale stia assumendo sempre più rilevanza nella nostra quotidianità. Il fatto che questi temi restino solamente accennati in “Ready Player One” costituisce il vero punto debole di un film che merita comunque di essere visto per lo spettacolo che offre agli occhi dello spettatore. Una colossale visione futurista che non può non lasciare a bocca aperta anche chi di cinema non se ne intende. “Ready Player One” è l’immagine di una realtà alla deriva che ci ricorda quanto sia necessario tenere a mente le parole del drammaturgo George Bernard Shaw, il quale sosteneva che «senza l’arte, la crudezza della realtà renderebbe il nostro mondo del tutto intollerabile».

A questo link potete trovare il trailer del film, al cinema da mercoledì 28 marzo.

 

Alvise Wollner

 

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“Chiamami col tuo nome” è un inno alla bellezza

C’è una sorta di classicismo contemporaneo nella vibrante estetica che pervade le immagini del nuovo lungometraggio di Luca Guadagnino, Chiamami col tuo nome. Miglior film ai Gotham Awards di quest’anno, l’opera del regista siculo racconta l’appassionata relazione estiva tra un giovane diciassettenne e uno studente universitario di origini americane in un idilliaco borgo del Nord Italia, a pochi chilometri di distanza da Crema.

Il viaggio di Chiamami col tuo nome inizia nel gennaio del 2017 con la presentazione, in anteprima mondiale, al prestigioso Sundance Film Festival e da lì, visto il successo riscosso oltreoceano, intraprende un trionfale cammino attraverso alcuni dei festival più importanti a livello internazionale, arrivando a essere uno dei grandi nomi nella corsa ai prossimi premi Oscar. Il merito di un simile risultato è dovuto in gran parte al talento di Guadagnino nell’offrire allo spettatore l’immagine di un’Italia che oggi non esiste più, immersa nella bellezza dell’arte antica e nella memoria storica di un passato a dir poco ingombrante (una delle scene chiave del film è girata davanti a un monumento dedicato alle vittime della Grande Guerra). Come ne La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, l’immagine dell’Italia rimane sempre sospesa in bilico tra il cliché del Paese da cartolina e una location pervasa da insanabili contraddizioni che diventano lo specchio del carattere dei personaggi sul grande schermo.

La perfetta ambientazione anni Ottanta, le pedalate estive dei due protagonisti nella campagna cremasca e una colonna sonora impreziosita da ben tre indimenticabili canzoni del cantautore Sufjan Stevens sono i veri punti di forza del film che debutta nelle sale italiane giovedì 25 gennaio. Per chi non conoscesse ancora la filmografia di Guadagnino, Chiamami col tuo nome diventerà facilmente un film indimenticabile per la sensibilità con cui viene raccontata la trama e la cura dei dettagli con cui è stata preparata ogni inquadratura. Per chi invece ha già imparato a conoscere e amare il lavoro del regista siciliano dai precedenti Io sono l’amore e A bigger splash, questa trasposizione del libro dello scrittore statunitense André Aciman risulterà un piccolo passo indietro rispetto ai lavori precedenti di Guadagnino. Chiamami col tuo nome è infatti un inno alla bellezza a cui manca spesso quella componente di sublime cinematografico in grado di assurgerlo dal semplice status di ‘bel film’ a capolavoro. La pura estetica senza pulsione rischia molte volte di trasformarsi in un semplice esercizio di stile ed è un pericolo a cui i personaggi del film vanno più volte incontro, a differenza delle splendide statue elleniche nascoste nelle acque del Lago di Garda, perfette e misteriose nella loro immutabile ieraticità. Raccontando la bellezza, Guadagnino regala momenti di grande cinema nel momento in cui mette in scena il dolore e la paura del non essere accettati e corrisposti, un sentimento che i suoi personaggi incarnano alla perfezione mentre ardono nella passione di una calda estate lombarda. In quei momenti Chiamami col tuo nome non si limita a essere una semplice storia d’amore ma diventa un film capace di parlare al cuore di ognuno di noi.

 

Alvise Wollner

 

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“Orecchie”: la riscossa del cinema italiano

In una stagione cinematografica a dir poco altalenante, il cinema italiano ha dato finora ben pochi segnali di vita sia a livello artistico che economico. Con l’arrivo del mese di maggio però la situazione sembra destinata a cambiare: sono diversi, infatti, i titoli degni di nota presenti in sala in queste settimane che rischiano però di passare inosservati senza un buon passaparola che li promuova. Basti pensare al caso dell’eccellente documentario di Michele Rho, Mexico! Un cinema alla riscossa, uscito in appena sette cinema in tutta Italia. Una sorte che purtroppo rischia di ripetersi anche per Orecchie, il nuovo film di Alessandro Aronadio, presentato in anteprima, lo scorso settembre, alla settantatreesima Mostra del cinema di Venezia.

Prodotto da Biennale College, Orecchie è uno dei lavori più originali di quest’annata cinematografica. Un road-movie pedestre, fortemente caratterizzato da un’intelligente vena comica e da situazioni a dir poco paradossali. Tutto ha inizio una mattina con il suono di un fastidioso fischio alle orecchie percepito da Lui, un uomo sull’orlo di una crisi esistenziale, costretto a intraprendere un indimenticabile viaggio a piedi attraverso le strade di Roma per scoprire l’identità di Luigi, suo fantomatico amico, venuto a mancare poche ore prima. Partendo da una sceneggiatura impeccabile, dove i tempi comici e narrativi sono calcolati alla perfezione, Aronadio costruisce la sua odissea capitolina valorizzando le impareggiabili eccentricità di un’umanità tanto singolare quanto grottesca. Enfatizzando le nevrosi che caratterizzano buona parte del nostro tempo, Orecchie racconta con leggera intelligenza quel senso di inadeguatezza che tutti noi abbiamo provato almeno una volta nella vita. Il disagio provocato dal sentirsi inadatti traspare tutto negli occhi espressivi e stralunati di Daniele Parisi, straordinario interprete intorno a cui ruotano una serie di indimenticabili personaggi secondari, su cui svettano Rocco Papaleo (in versione sacerdote fuori dagli schemi) e Piera Degli Esposti, nel ruolo di una direttrice sagace e senza scrupoli.

Pur nella sua semplicità, Orecchie colpisce nel segno perché è un prodotto che mancava da tempo al nostro cinema. Grazie ad alcune trovate stilistiche piuttosto raffinate, come l’utilizzo dell’immagine ristretta dello schermo che si allarga di pari passo con il procedere della storia, fino al tema del surrealismo come chiave interpretativa del nostro presente, Aronadio regala al pubblico un film delicato e prezioso, in cui si ride di gusto ma allo stesso tempo si riflette su sé stessi e sulle proprie paranoie. Il fischio alle orecchie diventa così metafora di un malessere contemporaneo che si può curare solo lavorando su noi stessi e sull’accettazione di un presente dominato sempre più dall’assurdo. “Secondo lei c’è ancora speranza per il mondo?” E’ la domanda che apre il film. La risposta, categorica, è un secco “No”. Alla fine della proiezione di Orecchie, invece, provate a chiedervi: “C’è ancora speranza per il cinema italiano?” La risposta potrebbe lasciarvi piacevolmente sorpresi.

Alvise Wollner

[Immagine tratta da Google immagini]

 

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Café Society: il nostalgico presente di Woody Allen

“La filosofia non è altro che una particolare forma di nostalgia”, parola del poeta e filosofo tedesco Novalis. Stando a questa affermazione, si potrebbe dire che Café Society, nuovo film scritto e diretto da Woody Allen, sia una delle pellicole più filosofiche degli ultimi anni.

Dopo aver aperto con successo l’ultima edizione del Festival di Cannes, la pellicola è arrivata nelle sale italiane poche settimane fa, sancendo il ritorno in grande stile del regista statunitense dopo una lunga serie di passi falsi (Irrational man, Magic in the moonlight e To Rome with love). Nel corso degli ultimi anni in molti erano giunti alla conclusione che l’Allen delle origini e di Match Point fosse ormai solo un ricordo lontano. Niente di più falso:  ciò che ancora oggi riesce a rendere il cineasta americano uno dei più grandi maestri del cinema contemporaneo è la capacità di saper restare al passo con i tempi, pur riproponendo sempre gli stessi temi forti della sua filmografia. Café Society si presenta quindi come un film a due facce. La prima parte, ambientata nella dorata Hollywood degli Anni 30, si distingue per un ritmo leggero e disimpegnato, volutamente privo di spessore. E’ il tempo dei primi amori per Bobby Dorfman e per la giovane segretaria Vonnie, due sconosciuti prima uniti e successivamente divisi da un amore che sembra perfetto, ma che è destinato a non realizzarsi mai. Allen racconta i suoi innamorati in maniera poco incisiva, affidandosi molto alle prove attoriali del pregevole cast e alla fotografia impeccabile di Vittorio Storaro, capace di restituirci l’atmosfera dorata della Hollywood di quel tempo. Nella frivola e opportunistica Los Angeles, Allen non riesce però a esprimere al meglio il suo cinema e così, seguendo le orme del suo innamorato protagonista, si trasferisce a New York. Qui ritrova la vera essenza della storia, costruendo un meraviglioso omaggio dedicato alla forza del passato che ritorna e all’accettazione del rischio di diventare le persone che non avremmo mai voluto essere. Il passato non si può cancellare, Allen lo sa e si crogiola spesso nell’idea di inseguire e raccontare tempi storici ormai lontani dalla nostra attualità. Un’epoca in cui lui stesso avrebbe voluto vivere e che il cinema gli permette ora di esplorare. Woody Allen guarda al passato ma allo stesso tempo si adegua al presente e, per la prima volta in carriera, gira un film in digitale e non in pellicola, lascia spazio a due degli attori più promettenti del cinema americano (Jesse Eisenberg e Kirsten Stewart) e porta lo spettatore a una vivida catarsi nostalgica. Dietro l’apparente spensieratezza e l’allegro cicaleccio della società dei caffè, si nasconde una storia universale, fatta di fantasie romantiche e speranze disattese, nate nella luce rosea di un’alba a Central Park e infine perse e svanite per sempre nel fragoroso frastuono di un cenone di Capodanno. Una commedia dal piacere negato che sembra tradurre in immagini le parole e il pensiero di un grande autore del passato come Arthur Schnitzler: “È la nostalgia a nutrire la nostra anima, non l’appagamento. Il senso della nostra vita è il cammino, non la meta. Perché ogni risposta è fallace, ogni appagamento ci scivola tra le dita, e la meta non è più tale appena è stata raggiunta”.

Alvise Wollner

Spotlight: un caso che merita l’Oscar

Diciamolo subito: quest’anno la notte degli Oscar si preannuncia come un evento al di sotto delle tradizionali aspettative. Certo, c’è attesa per la vittoria (ormai certa) di Leonardo DiCaprio, ma tra i film in gara è davvero difficile trovare una grande pellicola, capace di distinguersi nettamente dalle altre, sbaragliando la concorrenza. I candidati sono tutti validi, ma sembrano destinati a regalare poche sorprese durante la serata delle premiazioni. Mad Max – Fury Road, da un punto di vista estetico e cinematografico, è il migliore tra i dieci selezionati dell’Academy, ma il vincitore potrebbe essere (un po’ a sorpresa) un film allo stesso tempo classico e coraggioso: Il caso Spotlight.

Dimenticatevi il cinema inteso come arte. Nell’opera di Tom McCarthy non troverete i piani sequenza del virtuoso Alejandro González Iñárritu e nemmeno la grande estetica tipica della filmografia di George Miller. Scordatevi l’azione e i colpi di scena tipici dei legal-thriller o dei film polizieschi. Il caso Spotlight non è nulla di tutto ciò. Non è un film che vi terrà incollati alla sedia, non vi regalerà una messa in scena indimenticabile e vi racconterà una storia che vi farà sentire molto a disagio. Nonostante questo però è l’opera che, più di molte altre, merita di vincere l’Oscar come miglior film. I motivi sono diversi: Spotlight è un film solido, costruito su un’ottima sceneggiatura che riporta alla luce un tema scottante come quello della pedofilia nella Chiesa cattolica, in un periodo in cui la nostra contemporaneità è segnata dal complesso dibattito sulle unioni civili. Spotlight non costruisce storie inventate, ma si serve della finzione scenica per raccontare la realtà. Il film di McCarthy è una lucida e quasi documentaristica ricostruzione della realtà dei fatti che nel 2002 portarono alla scoperta di uno dei più grossi casi di pedofilia al Mondo per merito della redazione del Boston Globe. Spotlight non giudica mai i protagonisti della sua storia, ne rimane oggettivamente distaccato e con una visione giornalistica racconta in modo preciso e dettagliato la sua versione dei fatti.

La regia, studiata e precisa, lavora qui per sottrazione quasi a voler scomparire per focalizzare tutta l’attenzione sulla vicenda narrata. Lodevole l’intero cast (Mark Ruffalo e Stanley Tucci su tutti) che si mette al servizio dei fatti, interpretandoli con accorato sentimento, senza eccessi o manierismi di alcun tipo. Il modello di riferimento è l’inarrivabile Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula, primo esempio di cinema-giornalistico capace di raccontare la verità attraverso la finzione. Spotlight deve molto a un film come quello, ma allo stesso tempo riesce a superarne l’eredità, basandosi sulla potenza della trama e sull’inconfutabilità delle prove portate alla luce sul grande schermo. Uno scoop cinematografico in piena regola che merita di veder riconosciuto il suo valore. Nel 1977 il film di Pakula si portò a casa ben quattro premi Oscar. Oggi, a quasi quarant’anni di distanza, non sarebbe immeritato dare la statuetta a un film, magari non perfetto o esaltante, capace però di ricordarci quanto sia importante ricercare e divulgare la verità delle cose.

Alvise Wollner

Star Wars e la filosofia della Forza

Tanto tempo fa, in una galassia chiamata Via Lattea, un uomo di nome George Lucas superò i confini della cinematografia per creare una storia che, nei 38 anni a venire, avrebbe rivoluzionato per sempre l’immaginario collettivo di milioni di persone. Parlare del fenomeno Star Wars, riducendolo a una semplice serie di film, significa commettere subito un enorme errore di partenza. Fin dalle sue origini infatti, la saga ha subito dimostrato un’incredibile capacità nel saper diventare un fenomeno sociale di culto, oltrepassando le comuni barriere di giudizio generalmente erette dalla critica. Analizzati da un punto di vista critico-tecnico i sette film della serie hanno ben poco di speciale (fatta eccezione per l’episodio IV) rispetto a capolavori fantascientifici come 2001: Odissea nello spazio Blade Runner, ma pur essendo blockbuster ben fatti tecnicamente e poco più, sono riusciti a rimanere impressi nell’immaginario collettivo per la loro capacità di raccontarci la nostra Storia attraverso una metafora tanto semplice quanto efficace.

Che i nemici siano i vietcong degli anni Settanta o i terroristi dell’Isis pronti a mettere a soqquadro il mondo occidentale, l’universo bipolare di Star Wars ha dato vita a personaggi che possono essere sempre collegati alla nostra realtà. L’eterno confronto tra Bene e Male, la lotta tra ordine e disordine, la fascinazione del Bene per il Lato Oscuro e così via, sono solo alcuni degli aspetti che ci appassionano di più e ci fanno percepire questa saga come parte integrante dei nostri vissuti. Dietro a Star Wars si nasconde un vero e proprio universo filosofico che parte dal superamento del complesso di Edipo (con la vicenda di Luke Skywalker) e arriva all’esaltazione del superuomo fanta-nietzschiano, impersonato dalla figura mitica del cavaliere Jedi. Trentotto anni dopo quel lontano 1977, la Forza torna sugli schermi di tutto il Mondo, a dimostrazione del fatto che la storia di Star Wars è un percorso di autocoscienza da far intraprendere anche alle nuove generazioni. Poco importa se la Disney ha rimaneggiato gli immaginari che i fan più accaniti considerano intoccabili. Quello che vi possiamo dire è che il regista J.J. Abrams e la sua equipe di infaticabili professionisti si sono basati moltissimo sulla prima storica trilogia, prendendone i concetti più importanti  per dare nuova linfa alla Forza, soddisfacendo così l’attenzione dei fan più esigenti con una serie di imperdibili citazioni. Con Star Wars il cinema oltrepassa le categorie di genere e ambisce all’immortalità artistica grazie a un’idea che non passerà mai di moda. Fino a che esisterà un pubblico, questa saga non si fermerà perché in fondo la Forza siamo tutti noi che guardando quelle immagini sullo schermo, da semplici spettatori ci sentiamo persone un po’ più speciali.

Alvise Wollner

Selezionati per voi – Gennaio 2015

Iniziare un anno è come iniziare un nuovo libro. Leggerai sempre qualcosa di nuovo, che ti è estraneo. Rileggerai qualcosa che hai già vissuto. Sognerai un racconto migliore, pagina dopo pagina. Odierai il finale peggiore, perché non ti sentirai in grado di sperare.

Ma arriverai ad essere la somma di te stesso ad un qualcosa in più. Non importa quanto la ritroverai in te o negli altri, diventerà parte del tuo io.
Per un nuovo viaggio, per un nuovo anno, per un nuovo libro.

La relazione – Andrea Camilleri
Per iniziare all’insegna dell’alta tensione. Per iniziare con domande su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Per iniziare con l’idea di giustizia e la concretezza di corruzione.
Uscita prevista: 2 gennaio.

Una più uno – Jojo Moyes
Per iniziare con l’amore che arriva tra i soggetti meno scontati. Per iniziare con le (a)tipiche tematiche familiari. Per iniziare con le difficoltà di una madre sola ed i suoi sacrifici. Per iniziare con la solitudine che accomuna.
Per iniziare con un’Autrice che stupisce, con semplicità e chiarezza.
Uscita prevista: 2 gennaio.

Numero zero – Umberto Eco
Per iniziare con un grande tra i grandi. Per iniziare con una lettura calata negli anni ’90 che ci racconta la “macchina del fango” e ci parla di alcuni misteri del nostro paese. Per iniziare con una lettura che lascia tante domande e concede risposte schiette, quasi crude. Attesissimo, pronto ad evocare misteri come Gladio, la P2, la morte di Papa Luciani, il terrorismo rosso ed altro ancora. Per iniziare guardandosi un po’ indietro, non senza ricongiungerlo al nostro tempo.
Uscita prevista: 9 gennaio.

Cecilia Coletta

Le festività natalizie stanno per concludersi dopo aver lasciato molti di noi sazi ed appagati. Gennaio allora non diventa solo l’inizio di un nuovo anno tutto da vivere, ma anche l’occasione per andare al cinema e godersi i primi giorni del 2015 insieme a storie interessanti, capaci di farci riflettere su molti argomenti.

“Big Eyes”: Tim Burton è senza dubbio una garanzia quando si parla di cinema d’autore, capace di attirare in sala un gran numero di spettatori. Dopo una serie di clamorosi flop, il regista torna alla regia con un dramma ispirato ad una storia realmente accaduta che unisce pittura e cinema. Si parla di una coinvolgente frode artistica avvenuta alla fine degli Anni 50. Protagonisti assoluti: l’immenso Christoph Waltz e la bionda Amy Adams che danno un valore aggiunto ad una storia accattivante ed intrigante. USCITA PREVISTA: 1 GENNAIO.

“Hungry Hearts”: L’Italia che più ci piace vedere sul grande schermo è di sicuro quella diretta da Saverio Costanzo che finalmente riesce a portare nelle nostre sale il suo ultimo, acclamato lavoro, presentato ai festival di Venezia e Toronto. Una storia forte ed intensa dal respiro internazionale, per raccontare la vicenda di una maternità travagliata e del ruolo fondamentale che i genitori hanno nella crescita dei propri figli. Sofferenza e riflessione raccontate da un grande maestro. USCITA PREVISTA: 15 GENNAIO.

“Still Alice”: L’hanno già definito come il film che regalerà l’Oscar 2015 all’intramontabile Julianne Moore. Una storia che punta dritta al cuore e ai sentimenti, raccontando la perdita progressiva della memoria da parte di una stimata linguista universitaria che da un giorno all’altro si vedrà costretta a perdere tutte le certezze che credeva di aver conquistato nell’arco di una vita intera. Emozioni garantite e lacrime assicurate. USCITA PREVISTA: 22 GENNAIO.

Alvise Wollner

A Christmas Carol

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Ci sono alcune cose che si ricordano nitidamente per tutta la vita. Non importa quanti anni passino, le ricordiamo perfettamente, come se fossero accadute soltanto ieri.

Avrò avuto pochi anni davvero, avrò avuto gli anni della spensieratezza, ed erano quegli anni in cui ci si riesce ad entusiasmare la mattina di Natale, quegli anni in cui i giochi sono preziosi oggetti di felicità, quegli anni in cui quando ti leggono un libro o ti raccontano una storia, questa ti edifica e ti accompagna – da qualche parte o soltanto dentro te stesso – per sempre.

Proprio in quegli anni apparentemente lontani, ricordo bene questo periodo di feste, ricordo che lo aspettavo per un motivo ben preciso: mio padre mi leggeva sempre una storia, un racconto che per me era il racconto dei racconti, era quello che mi faceva piangere e credere che il mondo fosse un bel posto, o che quantomeno la bontà esistesse in ognuno di noi.

“Il canto di Natale”, romanzo breve di Charles Dickens, uscito nel 1843, entra davvero nel cuore di tutti, e nel mio ci è entrato per darmi soltanto grandi insegnamenti di vita.

Ebenezer Scrooge; l’avaro in termini materiali e spirituali. Rappresenta chi nel Natale non ci crede più, rappresenta chi misura la vita in materialismo, rappresenta chi pensa di non aver più nulla da dare e vuole soltanto ricevere.
E’ un uomo che di sentimenti non ne ha, un uomo che ha scordato cosa sia un cuore, che tiene l’amore a distanza di sicurezza.
Eppure nella notte di Natale qualcosa lo sconvolge: gli appaiono tre spiriti. Quello del Natale passato, quello del Natale presente e quello del Natale futuro.
Certe immagini sconvolgono la sua durezza, davanti a certe situazioni si sceglie quasi sempre di cambiare prospettiva.
E’ il cambiamento, è come svegliarsi da un lungo sonno dopo tanto tempo, è come aver guardato dentro se stessi e volersi cancellare per diventare migliori.

Il romanzo di Dickens è il romanzo di Natale per tanti, troppi motivi. Perché a Natale vediamo chi è meno fortunato di noi, lo notiamo molto di più rispetto alla gran parte dell’anno. Penso al piccolo Tim, e ricordo quanto piangevo soltanto ad immaginarlo; emanava una felicità che chi ha tutto non è quasi più capace di trasmettere.
E’ il romanzo del “miracolo di Natale”: in questo periodo dell’anno si è capaci di cambiare, si è propensi a mettersi in discussione, è il momento di mettersi in dubbio ed è il momento di dire la verità.
Dickens, mettendo in risalto il divario tra classi sociali nella vecchia società inglese, regala un classico d’Autore, uno di quelli che non ti stancheresti mai di leggere.

Un classico che fa sognare i bambini, fa crescere gli adolescenti e fa riflettere gli adulti.

Cecilia Coletta

Il semplice fatto che al Mondo esistano ventidue diverse versioni cinematografiche de “Il canto di Natale”, dovrebbe farci riflettere sull’importanza unica che questa storia ha avuto nel corso degli anni. Una fascinazione, iniziata già con gli albori dell’industria cinematografica e che si è poi protratta fino ai giorni nostri. Tra tutti questi adattamenti per il grande schermo, oggi abbiamo deciso di scegliere le tre versioni che nel corso degli anni ci sono sembrate più significative, vale a dire: il primo film ispirato alla storia, la versione cartoon realizzata dalla Disney ed infine l’ultimo adattamento in ordine cronologico, diretto da Robert Zemeckis.

Se si pensa che il romanzo breve di C. Dickens venne pubblicato nel 1843 e che l’invenzione del pre-cinema si ebbe solo nel 1895, il fatto che la prima versione cinematografica de “Il Canto di Natale” sia stata realizzata nel 1908, è un dato davvero significativo per capire il successo e l’impatto emotivo che la storia ebbe fin da subito su migliaia di lettori. Oggi purtroppo di questa prima pellicola sappiamo ben poco. Si tratta infatti di un brevissimo cortometraggio muto, realizzato e prodotto dalla Essanay Film Manufacturing Company, negli studi di Chicago. La pellicola era di una sola bobina, quindi estremamente breve, ma fu distribuita nelle sale a partire dal 9 Dicembre del 1908. Il dato interessante è che il nome del regista non è nemmeno menzionato, neppure alla fine dei tradizionali titoli di coda, mentre è esplicitato fin da subito che l’autore del racconto originario è Charles Dickens. Una curiosità interessante per farci capire come all’epoca la Letteratura avesse ancora una forte componente autoritaria rispetto al cinema. Nel 1910 venne realizzato un nuovo cortometraggio sullo stesso tema, ma anche in questo caso i registi non vennero accreditati nei titoli di coda.

Ben più fortunata invece la storia del rapporto tra il Canto di Natale e quelli che vengono comunemente definiti come cartoni animati. Dai Muppets alla Barbie, passando per i Puffi, ognuno di questi celebri personaggi ha avuto almeno una propria versione della storia dickensiana. La più celebre e fortunata resta però “Il Canto di Natale di Topolino”, diretto nel 1983 da Burny Mattinson. In questo adattamento Topolino interpreta il ruolo di Bob Cratchit e Paperon de’ Paperoni quello di Ebenezer Scrooge (“Scrooge McDuck” è infatti il suo nome originale). Molti altri personaggi Disney, in primo luogo dall’universo di Topolino, Robin Hood e Le avventure di Ichabod e Mr. Toad, vennero distribuiti poi per tutto il film. Questo fu il primo cortometraggio della serie Mickey Mouse prodotto in oltre 30 anni. Con l’eccezione delle riedizioni, Topolino non era apparso nelle sale cinematografiche dall’uscita del corto Topolino a pesca del 1953. Il film fu nominato per un Oscar al miglior cortometraggio d’animazione ai Premi del 1984, ma perse a favore di Sunday in New York. Era la prima nomination per un cortometraggio di Topolino da “Topolino e la foca” del 1948.

Una storia, quella tra Dickens e i cartoni animati che ebbe sempre molto successo rispetto alle versioni con gli attori in carne e ossa. Merito anche del tema pedagogico e della morale più adatta ad un pubblico di minori, tipici di questa storia. Concetto questo, sfruttato anche dal celebre regista Robert Zemeckis (“Forrest Gump”, “Flight”) per adattare “Il Canto di Natale” alla tecnica innovativa della performance capture già sperimentata dal regista nel precedente “The polar express”. Siamo nel 2009 e il film richiese un costo pari a 190 milioni di dollari, riuscendo però ad incassarne oltre 320 in tutto il Mondo. L’ennesima dimostrazione di come, anche a distanza di un secolo dal primo adattamento cinematografico, la storia di Dickens riesca sempre a conquistare generazioni di spettatori e soprattutto di lettori. Parlando di amore e generosità, ma soprattutto focalizzandosi sulla morale secondo la quale ognuno di noi può cambiare il suo animo e aprirsi agli altri se lo vuole, “Il canto di Natale” è un capolavoro che rimane ancora oggi un paradigma ideale per raccontare e descrivere l’affascinante rapporto tra la Letteratura ed il Cinema.

Alvise Wollner

[Immagini tratte da Google Immagini]