Sogni e motori – Intervista a Matilda De Angelis

Ha solo 21 anni, ma il suo curriculum vanta già un Nastro d’argento e un Premio Flaiano come miglior attrice esordiente. Due premi conquistati dopo essere apparsa una sola volta sul grande schermo. Niente male per una ragazza che fino a due anni fa non aveva nemmeno preso in considerazione l’idea di poter diventare un’attrice. Matilda De Angelis però è fatta così: è una ragazza con una personalità debordante, che va ben oltre i minuti confini del suo corpo. Pratica e determinata ha iniziato la sua carriera come cantante dei Rumba De Bodas, ma la folgorazione sulla via della recitazione ha cambiato per sempre la sua vita. Oggi Matilda è una delle attrici più promettenti d’Italia, ha da poco terminato le riprese della seconda stagione della serie di Rai 1 Tutto può succedere e del film Youtopia, il nuovo lavoro del regista Berardo Carboni. Per cercare di comprendere più a fondo il suo pensiero e i segreti di Veloce come il vento, il film che le ha regalato fama e successi, abbiamo deciso di intervistare Matilda chiedendole di raccontarci la sua personalissima filosofia di vita:

-Non è un segreto il fatto che il ruolo di Giulia De Martino ti sia stato assegnato dal regista Matteo Rovere in maniera tanto improvvisa quanto inaspettata (Matilda era stata contattata mentre stava finendo di prendere la patente, n.d.r.). Ami affidarti alla casualità anche nella vita di tutti i giorni o sei una ragazza che preferisce avere sempre tutto sotto controllo?
Tendenzialmente amo avere tutto sotto controllo. Sono un’amante dell’ordine e della precisione. Molte volte penso che questo mio bisogno di controllare ogni cosa derivi dalla paura di non essere all’altezza di qualcosa di inaspettato, che potrebbe cogliermi impreparata in ogni situazione. Prima dell’inizio delle riprese di Veloce come il vento ero terrorizzata all’idea di intraprendere un percorso cinematografico senza mai essermi preparata a farlo. L’ossessione per il controllo mi ha quasi costretta a rinunciare al film. Fortunatamente sono anche una persona molto determinata e superare i miei limiti è una sfida che pongo a me stessa tutti i giorni, perciò alla fine mi sono convinta. Devo ammettere comunque che le più grandi soddisfazioni della mia vita sono arrivate sempre da grandi sorprese, incontri fortuiti e chiamate inaspettate, arrivate al momento giusto.

Veloce come il vento è un film che tocca temi profondi e per nulla scontati, dall’importanza di saper diventare adulti, alla capacità di prendersi dei rischi per proteggere le persone a noi più care. Quali sono gli aspetti del copione che ti hanno conquistata sin dall’inizio?
Il copione era scritto davvero bene. Col senno di poi non ne ho visti così tanti, a una fase preliminare di scrittura, scritti con tale precisione e cura. Sono rimasta colpita dal racconto romantico di una famiglia disfunzionale, che si ricongiunge solo grazie alla forza dell’amore e della fratellanza. Mi sono appassionata subito al rapporto tra Loris e Giulia, così distanti tra loro, opposti ma complementari, complici nella disgrazia ma destinati a scoprire il vero valore della fratellanza. Ho trovato bellissima l’idea di raccontare le vicissitudini di una ragazza di diciassette anni che, nonostante tutto, ha la forza di caricarsi sulle spalle tutte le responsabilità che la vita le ha imposto. Penso sia una bella rivincita per noi donne il fatto di non dover aspettare sempre il principe azzurro, riuscendo a diventare eroine e padrone di noi stesse.

Veloce come il vento potrebbe essere definito un “film in lingua”, nel senso che i protagonisti mettono spesso in risalto le loro origini, fortemente legate al territorio della provincia emiliana. Quanto ha significato per te il fatto di essere nata in quelle terre e che rapporto hai con Bologna, la città in cui vivi e sei cresciuta?
Effettivamente Veloce come il vento è un film in lingua nel senso che in molti tratti, i personaggi di Loris (Stefano Accorsi) e Tonino (Paolo Graziosi) parlano proprio in dialetto romagnolo, una lingua che nella mia città si sente sempre meno. Sono stata molto contenta di aver contribuito, attraverso questo film, a raccontare qualcosa della mia terra. I motori fanno davvero parte della nostra cultura, è qualcosa che si respira nell’aria sin da piccoli, qualcosa di tipico quanto i tortellini e la piadina. Bologna invece è una città a parte, molto simile a un grande porto. Una città universitaria attraversata in continuazione da tantissimi ragazzi provenienti da ogni parte d’Italia. E’ un luogo che offre tanto ai giovani e nel quale è facile sentirsi a casa dopo poco tempo. Una città che io amo definire “un laboratorio”, nel senso che non ha la grande vita mondana di Milano o di Roma, non è una città “palcoscenico” ma è comunque un luogo pieno di vita in cui ci sono innumerevoli opportunità per coltivare l’arte in tutte le sue forme.

-Cosa ti piacerebbe che gli spettatori ricordassero di Giulia De Martino dopo aver visto il film?
Mi piacerebbe che di Giulia gli spettatori ricordassero la sua infinita forza e determinazione, ma anche quella purezza e quell’ingenuità strappatele troppo presto dalla vita. E’ incredibile osservare come questo personaggio riesca a nascondere le fragilità tipiche della sua età sotto un’armatura di cinismo e durezza. E’ una ragazza che combatte, che si attacca alla vita con le unghie e con i denti per salvare tutto quello che le rimane di una famiglia allo sfascio. E’ una coraggiosa e mi piacerebbe che questo coraggio venisse ricordato da tutti perché è proprio il motivo per cui io mi sono innamorata subito di lei.

-Un’altra tua grande passione è la filosofia. Secondo la tua giovane esperienza, dove si possono trovare gli insegnamenti di questa materia in due arti come il cinema e la musica?
Mi ricordo che mi colpì molto quando, alle superiori, la mia professoressa di filosofia mi parlò di Schopenhauer. Il suo pensiero diceva che l’arte era l’unico strumento che l’uomo (inteso sia come artista che come osservatore) possedeva per astrarsi momentaneamente dalla propria condizione materiale e innalzarsi a una dimensione quasi spirituale, al di fuori dello spazio, del tempo e della corporalità. Partendo da questo concetto mi sono convinta del fatto che la filosofia che risiede all’interno della musica, della scrittura, del teatro e dell’arte in generale sia proprio questa: la possibilità di andare al di là del qui e ora, viaggiando attraverso altri piani e altri spazi. Anche a livello culturale, in un momento come quello che stiamo attraversando adesso, di paura nei confronti di ciò che è altro da noi, di diverso, di non conosciuto, in un momento in cui spesso non è facile immaginare un futuro pieno di speranza, l’arte ha il compito di aiutare le persone, di farle vivere momentaneamente al di là dei propri problemi. L’arte ha il dono di elevare il nostro spirito oltre la normalità del quotidiano e il fatto che l’attore faccia parte di questo meraviglioso meccanismo, mi rende davvero orgogliosa di aver scelto questa professione.

A questo link potete trovare il trailer ufficiale di Veloce come il vento

 Alvise Wollner

[Immagine di Matilda De Angelis]

Inno alla (pazza) gioia

C’è un filo sottile e inaspettato che unisce il regista Paolo Virzì a Victor Hugo, uno dei più grandi autori della letteratura francese. Quel collegamento è composto da una serie di parole che, rilette oggi, sembrano essere state scritte per descrivere alla perfezione La pazza gioia, uno dei film più riusciti degli ultimi mesi. Parole che compongono una frase, divenuta aforisma, e che suonano esattamente in questo modo:  “La più grande gioia della vita è la convinzione d’essere amati.”

Beatrice Morandini,  mitomane logorroica, e Donatella Morelli, madre abbandonata, fragile e introversa, sono due donne disperatamente bisognose d’affetto e attenzioni. Entrambe pazienti dell’istituto terapeutico Villa Biondi, sui colli toscani, si ritrovano a unire i loro tragici vissuti in una rocambolesca fuga on the road, destinata a stravolgere per sempre le loro esistenze. Non capita spesso, al cinema, di trovare un uomo che sappia raccontare con delicatezza e intelligenza l’universo femminile. Paolo Virzì ci riesce grazie al contributo fondamentale di Francesca Archibugi (sceneggiatrice del film) e della compagna di vita Micaela Ramazzotti, qui alla sua miglior interpretazione in carriera. Il film è stato lodato da pubblico e critica, ma c’è da dire che per gran parte della sua durata, La pazza gioia dà l’impressione d’essere un film fastidiosamente mediocre. Molti elementi della messa in scena (dall’interpretazione di un’eccessiva Valeria Bruni Tedeschi, alla scelta di un tema ad alto tasso di banalizzazione) rischiano più volte di rovinare il film di Virzì. Grazie a un finale indimenticabile però, il regista toscano riscatta la sua storia e la trasforma in uno dei lavori più meritevoli di quest’annata.

locandinaNella scena chiave in cui Donatella confessa il proprio terribile passato a Beatrice, il film inizia a sprigionare tutta la sua potenza e ci trascina in un coinvolgimento emotivo che va ben oltre la comune catarsi spettatoriale. Ognuno di noi ne La pazza gioia arriva a immedesimarsi in maniera estrema nel disperato bisogno d’amore e libertà provato dalle due protagoniste. La sofferenza che le attanaglia è tale da farci sperare, fino all’ultimo fotogramma, in una loro possibile “salvezza”. Nonostante la vita abbia fatto di tutto per privarle della felicità, Beatrice e Donatella sono due donne che non vogliono rinunciare al loro diritto alla gioia. Ed è in questo che risiede la loro pazzia: nel saper sperare e gioire laddove tutti noi “normali” ci saremmo arresi. La pazza gioia è una riflessione sulla perdita della ragione, ma al tempo stesso è anche un’opera che ci porta a ragionare su quanto importante sia il nostro diritto alla felicità.  Non è un film perfetto, ma è di sicuro un film necessario per la sua spiazzante capacità di farci vivere attraverso le emozioni. Da un distaccato divertimento iniziale, fino a un’amara riflessione sui concetti di normalità e diversità, in un finale che ci lascia con il volto rigato di lacrime e ci fa sentire finalmente tutti uguali, nel buio magico di una sala cinematografica.

Alvise Wollner

 

Le storie vere sono la rovina del cinema

Tratto da una storia vera. Sono queste le parole che stanno uccidendo il cinema. Fateci caso, i film che negli ultimi mesi stanno uscendo nelle sale italiane si dividono sostanzialmente in due categorie: i blockbuster dedicati ai supereroi e i film ispirati a vicende realmente accadute. Alcuni esempi? La macchinazione di David Grieco, Race di Stephen Hopkins, 13 hours di Micheal Bay e Colonia di Florian Gallenberger sono solo alcuni dei titoli che nei primi cinque mesi del 2016 hanno invaso i cinema di tutto il mondo. Il fenomeno è in parte dovuto a una generale mancanza di idee all’interno dell’industria cinematografica. Senza perdere tempo nella creazione di soggetti nuovi e originali, produttori e registi hanno preferito adagiarsi nella comodità di storie già pronte che necessitavano solo di piccole modifiche per essere adattate sul grande schermo. Non stiamo parlando di film storici, bellici o in costume, bensì di episodi che raccontano fatti reali poco noti al grande pubblico, in una veste che spesso rischia non solo di stravolgere la realtà storica ma anche di produrre una serie di pellicole mediocri e retoriche.

Il caso più eclatante è il recente Stonewall di Roland Emmerich. Il regista americano, abbandonati i kolossal catastrofici come Indipendence day The day after tomorrow si cimenta nel nobile intento di raccontare una delle pagine più difficili della recente storia americana: i moti di Stonewall per il riconoscimento delle libertà gay. Vicenda che nel giugno del 1969 portò a violenti scontri tra le forze dell’ordine e la comunità omosessuale di New York, guidata dalla transessuale Sylvia Rivera, che diede vita alla protesta gettando una bottiglia contro un poliziotto. Grazie alle loro lotte, in America, nacque il Movimento di liberazione gay e, con il tempo, crebbero a dismisura i diritti per le persone omosessuali. Nel suo film Emmerich rovina questo grande spunto e trasforma la Storia in una favola di formazione, in cui il bianco, rassicurante e ben educato Danny, lascia la propria casa e la propria famiglia (solo) perché costretto, e finisce nel “magico” mondo dei ragazzi che si prostituiscono da quando erano bambini, occupano luride stanze di hotel e piangono la morte di Dorothy Gale come quella di una sorella. Storie vere raccontate sempre con un punto di vista distaccato e stereotipato, senza rischiare mai di allontanarsi dal politicamente corretto, in una sorta di lunghissimo e stucchevole elogio dell’ideologia democratica pro-Obama.

Stonewall ci dimostra come la scelta di adattare storie realmente accadute sul grande schermo sia il modo migliore per uccidere il buon cinema. La settima arte nasce come elogio della finzione per antonomasia. Anche quando sembra voler raccontare la realtà, il cinema riesce sempre a superare i confini del reale. Il treno ripreso alla stazione dai fratelli Lumiere avrebbe dovuto uscire dallo schermo e investire gli spettatori, invece la locomotiva non solo sparisce oltre i confini dell’inquadratura, ma dimostra anche che il cinema è il luogo in cui la finzione prende il sopravvento. Nel buio della sala ci dimentichiamo della realtà che ci circonda ogni giorno e accettiamo di farci guidare dall’immaginazione. Tenetevi alla larga da tutti quei film che vi parlano di storie vere. Sono solo una proiezione bugiarda di un qualcosa che è successo. Quando deciderete di andare al cinema, scegliete le storie originali, scegliete di perdervi nel buio di un’inedita fantasia. Solo così riuscirete a trovare la vera magia di quest’arte.

Alvise Wollner

Lui è tornato: il risveglio (im)possibile di Adolf Hitler

Cosa accadrebbe se Adolf Hitler si risvegliasse oggi nel cuore della Germania e iniziasse a comportarsi esattamente come fece nel 1933? La domanda, piuttosto inquietante, è stata posta nel 2012 dallo scrittore tedesco Timur Vermes che ha dato vita a uno dei romanzi più riusciti degli ultimi anni,  trasformato oggi in un adattamento cinematografico pronto a sbarcare sugli schermi italiani e sulla piattaforma digitale Netflix.

Lui è tornato. E’ questo il titolo di un vero e proprio miracolo artistico che riesce nell’intento di farci riflettere sulle tante contraddizioni del nostro presente. Il film, diretto da David Wnendt, ci mostra un mondo in cui la politica è allo sbando per colpa di persone che badano solo ai loro interessi, in cui i cittadini si lamentano per i molteplici sbarchi di migranti e richiedenti asilo, mentre la televisione propina di continuo programmi di cucina o reality basati su trash e volgarità. È il nostro mondo, starete pensando, ma se a farvi notare tutte queste cose fosse l’autore del Mein Kampf in persona, voi come reagireste? La risposta che il film dà è a suo modo geniale: sfruttando il genere poco conosciuto del mokumentary (ossia una storia di finzione raccontata attraverso lo stile di un documentario), Wnendt riesce a rendere giustizia alle pagine del romanzo di Vermes, raccontando la nuova ascesa di un Führer (interpretato magistralmente da Oliver Masucci) che torna a farsi amare dal popolo che egli stesso aveva condotto alla rovina durante la Seconda Guerra Mondiale. Aiutato da un giovane e fallito regista televisivo, che in lui vede solo un attore da proporre come novità al suo network per non essere licenziato, il nuovo Hitler inizia a girare le città della Germania, ascoltando l’opinione della gente che gli parla del proprio malcontento. I video del suo ritorno iniziano così a essere diffusi in Rete e da lì le televisioni cominciano a vedere in lui un enorme potenziale per la conquista dello share. In un contesto del genere, per amore della propaganda, il Führer è anche disposto a farsi trattare come un comico da baraccone pur di raggiungere il suo scopo. Del resto, chi mai potrebbe credere di trovarsi di fronte al vero Hitler? Peccato però che la realtà superi di gran lunga la finzione, e così l’epifania collettiva dei protagonisti rischierà di arrivare troppo tardi, rendendo inevitabile il ripetersi della Storia.

Lui è tornato è un film che contiene al suo interno molteplici insegnamenti. Non si tratta di una semplice opera satirica che deride o ironizza una delle pagine più buie dell’umanità. È piuttosto un vero e proprio pugno in faccia ai tantissimi perbenisti ipocriti che affollano il nostro tempo, sbandierando il politically correct mentre cercano di imporre a tutti la loro convinzione di essere nel giusto. Lui è tornato azzera i confini tra giusto e sbagliato. È un film che mina le nostre certezze perché non è un deprecabile lavoro di propaganda o una banale condanna verso le dittature. È un grido d’allarme che ci avvisa che proprio in momenti di enorme crisi come quelli che stiamo vivendo, personaggi determinati e con una precisa ideologia politica, come quella di Hitler, possono fare proseliti. Il fatto che Lui è tornato sia stato scritto, pensato e diretto in Germania potrebbe portarci a pensare che il popolo tedesco abbia compreso appieno la gravità di ciò che è stato commesso in passato. La realtà dei fatti è però ben diversa. Vermes e Wnendt ce lo dicono chiaramente: il confine tra una grottesca finzione e la realtà dei fatti sta diventando, giorno dopo giorno, sempre più labile. Spetta solo a noi non addormentarci di nuovo nel sonno della ragione.

 

Alvise Wollner

 

lui

Un momento di follia: essere padri sul grande schermo

“Non esiste un buon padre, è la regola. Non bisogna prendersela con gli uomini, bensì con il legame di paternità. E’ quest’ultimo a essere marcio.” Le affermazioni provocatorie del filosofo Jean-Paul Sartre, scritte nell’opera Le parole, del 1963 non sono forse il modo migliore per celebrare l’odierna festa dedicata ai papà, ma sono sicuramente un ottimo spunto per parlare di un’opera che mette al centro della sua narrazione le innumerevoli sfaccettature della figura paterna, vale a dire: Un momento di follia, il nuovo film diretto dal francese Jean-François Richet.

Rifacimento aggiornato dello splendido Un moment d’égarement, diretto nel 1977 da Claude Berri, il film si presenta come una patinata commedia che nasconde un cuore di dramma a sfondo familiare. Le premesse, c’è da dire, sono ottime: dagli splendidi paesaggi della Corsica in estate, passando per un cast che alterna star del calibro di Vincent Cassel a giovani promesse del cinema francese come la splendida Lola Le Lann, per arrivare infine a una storia di torbida passione che rasenta l’incesto. Due amici di mezza età decidono di trascorrere le vacanze insieme, portando con loro le figlie adolescenti. Uno ha appena divorziato, l’altro è in piena crisi coniugale. La loro amicizia sembra essere l’unica cosa certa, ma quando il neo scapolo si farà sedurre dal fascino della figlia (minorenne) del suo migliore amico, le cose prenderanno una piega del tutto inaspettata. Un momento di follia si inserisce nel filone di pellicole che raccontano i lati più oscuri dell’essere padre. Si comincia con la leggerezza e la volontà di crescere bene i propri figli e si finisce per commettere errori che potrebbero diventare irreparabili. Una paternità piena di problemi non solo a causa dei comportamenti dei figli ma anche per l’irresponsabilità dei genitori. Richet purtroppo perde una grande occasione e finisce per girare un film con troppi difetti. Sprecando le ottime premesse iniziali, la sua opera non raggiunge mai i livelli del film a cui si ispira, molto più esplicito e provocatorio già nel 1977. Nella nuova versione tutto sembra pudico e controllato, la regia non rischia nulla, la fotografia attribuisce una patina da fiction televisiva alle immagini e la sceneggiatura raggiunge spesso momenti di grossolana banalità. L’unico a salvarsi è un ottimo Vincent Cassel che, arrivato alla mezza età, riesce a unire alla perfezione il suo lato scapestrato con il fascino del padre vissuto. Un ruolo che l’attore francese ha sentito molto vicino, anche se ai giornalisti ha più volte dichiarato che non potrebbe mai essere nella vita reale un padre-seduttore. “Come genitore sono simile al mio personaggio, sono aperto. Oggi abbiamo la fortuna di poter essere dei papà-mamma. La femminizzazione dell’uomo ha dei lati interessanti: c’è una vicinanza con i bambini che un papà all’antica non aveva. Ho sempre desiderato che le mie figlie mi conoscessero meglio di come io conoscevo mio papà. Oggi c’è una prossimità possibile perché ci sono donne con le palle e uomini che non seguono più le regole di un tempo.”

Un momento di follia è solo l’ultimo caso di un genere, tipico nel cinema straniero, che tende a demonizzare la figura paterna esaltandone più i difetti, rispetto ai pregi: film come Shining, Il Petroliere Star Wars ne sono una chiara dimostrazione. Non è un caso invece che il cinema italiano abbia raccontato negli anni tutta un’altra versione di questa figura: dal recente La ricerca della felicità al più datato La vita è bella, i papà del grande schermo italico hanno avuto spesso una connotazione positiva, diventando così lo specchio di un popolo e di un Paese che non perde mai l’occasione per celebrare il suo amore nei confronti dell’istituzione familiare.

Alvise Wollner

Spotlight: un caso che merita l’Oscar

Diciamolo subito: quest’anno la notte degli Oscar si preannuncia come un evento al di sotto delle tradizionali aspettative. Certo, c’è attesa per la vittoria (ormai certa) di Leonardo DiCaprio, ma tra i film in gara è davvero difficile trovare una grande pellicola, capace di distinguersi nettamente dalle altre, sbaragliando la concorrenza. I candidati sono tutti validi, ma sembrano destinati a regalare poche sorprese durante la serata delle premiazioni. Mad Max – Fury Road, da un punto di vista estetico e cinematografico, è il migliore tra i dieci selezionati dell’Academy, ma il vincitore potrebbe essere (un po’ a sorpresa) un film allo stesso tempo classico e coraggioso: Il caso Spotlight.

Dimenticatevi il cinema inteso come arte. Nell’opera di Tom McCarthy non troverete i piani sequenza del virtuoso Alejandro González Iñárritu e nemmeno la grande estetica tipica della filmografia di George Miller. Scordatevi l’azione e i colpi di scena tipici dei legal-thriller o dei film polizieschi. Il caso Spotlight non è nulla di tutto ciò. Non è un film che vi terrà incollati alla sedia, non vi regalerà una messa in scena indimenticabile e vi racconterà una storia che vi farà sentire molto a disagio. Nonostante questo però è l’opera che, più di molte altre, merita di vincere l’Oscar come miglior film. I motivi sono diversi: Spotlight è un film solido, costruito su un’ottima sceneggiatura che riporta alla luce un tema scottante come quello della pedofilia nella Chiesa cattolica, in un periodo in cui la nostra contemporaneità è segnata dal complesso dibattito sulle unioni civili. Spotlight non costruisce storie inventate, ma si serve della finzione scenica per raccontare la realtà. Il film di McCarthy è una lucida e quasi documentaristica ricostruzione della realtà dei fatti che nel 2002 portarono alla scoperta di uno dei più grossi casi di pedofilia al Mondo per merito della redazione del Boston Globe. Spotlight non giudica mai i protagonisti della sua storia, ne rimane oggettivamente distaccato e con una visione giornalistica racconta in modo preciso e dettagliato la sua versione dei fatti.

La regia, studiata e precisa, lavora qui per sottrazione quasi a voler scomparire per focalizzare tutta l’attenzione sulla vicenda narrata. Lodevole l’intero cast (Mark Ruffalo e Stanley Tucci su tutti) che si mette al servizio dei fatti, interpretandoli con accorato sentimento, senza eccessi o manierismi di alcun tipo. Il modello di riferimento è l’inarrivabile Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula, primo esempio di cinema-giornalistico capace di raccontare la verità attraverso la finzione. Spotlight deve molto a un film come quello, ma allo stesso tempo riesce a superarne l’eredità, basandosi sulla potenza della trama e sull’inconfutabilità delle prove portate alla luce sul grande schermo. Uno scoop cinematografico in piena regola che merita di veder riconosciuto il suo valore. Nel 1977 il film di Pakula si portò a casa ben quattro premi Oscar. Oggi, a quasi quarant’anni di distanza, non sarebbe immeritato dare la statuetta a un film, magari non perfetto o esaltante, capace però di ricordarci quanto sia importante ricercare e divulgare la verità delle cose.

Alvise Wollner

Amore in assenza: Tornatore e La corrispondenza

Costruendo un immaginario controcampo narrativo al suo ultimo film (La migliore offerta), Giuseppe Tornatore ritorna alla regia per raccontare una storia d’amore e mistero incentrata su due concetti molto affascinanti: la tecnologia e l’assenza. Se nell’opera precedente infatti, la figura sfuggente e misteriosa era la donna, in La corrispondenza è il protagonista maschile a interpretare il ruolo di grande assente nella storia.

Sullo sfondo grigio di due Paesi come l’Inghilterra e la Scozia, si amano e si cercano Jeremy Irons e Olga Kurylenko. Innamorati divisi nella realtà, ma uniti dal sottile e ambiguo filo della tecnologia. Sottotraccia c’è un mistero tutto da svelare che rischia, ancora una volta, di compromettere un amore che avrebbe potuto essere idilliaco. Il concetto più interessante dell’opera è proprio quello di voler raccontare una storia d’amore per assenza. Una relazione a distanza che si nutre necessariamente dell’ausilio tecnologico, dando vita a una riflessione tutt’altro che banale. E’ davvero possibile amare qualcuno senza mai vederlo in carne e ossa? E soprattutto: l’immagine dell’innamorato filtrata attraverso lo schermo di un computer  può restare sempre vivida e concreta o rischia di trasformarsi in un simulacro idealizzato e ingannevole? In questi quesiti l’undicesimo film del regista siciliano sfiora la riflessione filosofica d’attualità, ma a livello stilistico il cinema di Tornatore non progredisce. Messo a confronto con La migliore offerta, suo ideale contrappunto, La corrispondenza non regge neanche lontanamente il paragone. In primis, a livello attoriale, la performance di Jeremy Irons non è paragonabile a quella dello straordinario battitore d’asta interpretato da Geoffrey Rush, ma anche a livello tecnico e stilistico il film lascia insoddisfatto lo spettatore più esigente.  Ciò che nel lavoro precedente era un punto di forza, rischia qui di trasformarsi in una serie di elementi godibili ma, in qualche modo, già visti. Dalla passione nostalgica di Nuovo cinema Paradiso al ritmo raffinato di La leggenda del pianista sull’oceano, Tornatore ci ha insegnato che il cinema italiano può ambire a livelli artistici internazionali. Ne La corrispondenza la sua vis poetica si affievolisce, confezionando un buon prodotto privo però di quel sentimento che ha permeato molte sue opere precedenti. Come i due protagonisti del film si amano senza vedersi, anche Tornatore sembra dirigere senza immedesimarsi fino in fondo nella storia. E’ un’occasione sprecata ma si sa, il cinema come l’amore è fatto da un continuo alternarsi di alti e bassi, presenze e mancanze, allontanamenti che ambiscono in continuazione a ritorni ancor più intensi.

Alvise Wollner