Il valore dell’amico secondo Aristotele

“Meglio soli che male accompagnati” dice un detto, forse è vero.
Ma cosa ci rende più felice di avere dei buoni amici sui quali contare?
Dell’amicizia vuole parlare questo promemoria filosofico, senza smancerie, ma con un pizzico di affetto.

«Nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, neppure se avesse tutti gli altri beni messi insieme»1.

Un amico è importante, diciamolo senza giri di parole. È la prima relazione extrafamiliare che ci rende davvero felici, a dirlo è lo stesso Aristotele nel corso, in particolare, del libro VIII dell’Etica Nicomachea. Aristotele riconosceva il suo legame alla virtù perché l’amicizia è per l’uomo un’importante fonte di felicità che lo riconduce al bene, forse la più grande. Secondo il filosofo un uomo che non ha amici nella sua vita è irrimediabilmente e inevitabilmente triste.

L’etimologia di amico (φίλος in greco) ha un triplice significato – primo tra tutti l’essere pari. Il termine viene individuato per la prima volta nell’Iliade e va ad indicare in primis l’essere compagni di guerra, ma non solo. L’aggettivo va ad indicare anche una persona degna, della quale bisogna prendersi la massima cura, di un “ospite gradito” come afferma il professor Carlo Natali, forse il massimo esperto di Aristotele e tra i massimi di Filosofia Antica. Solo in un terzo momento assume una terza accezione, ossia l’amico si colora di un connotato molto prossimo alla nostra idea di amicizia e di tenerezza.

La philia (φιλία) greca è l’amore costituito da affetto e piacere, di cui ci si aspetta però un ritorno.

L’amicizia aristotelica contempla inoltre una triplice accezione, che possiamo ritrovare sempre più attuale proprio oggi. Aristotele riconosce che vi può essere una ricerca verso l’utile, amicizia di minor valore, paragonabile alle conoscenze di bisogno pratico per ottenere favori; un’amicizia basata sul piacere invece si colloca tra l’utile e il bene, ma è ancora troppo finalizzata ad un obiettivo, lo stare bene, e risulta essere superficiale; la philia più grande è invece quella basata sul bene.
La prima è tipica dell’età adulta e della vecchiaia, periodi di vita in si perde d’interesse le relazioni, si guarda al proprio comodo e a ciò che è più conveniente. È invece tipica dell’età giovanile l’amicizia basata sul piacere. Chi non ha avuto tanti amici in adolescenza e usciva con gruppi di amici per passare il tempo?

Solo l’amicizia rivolta al bene, ed è una stessa ripetizione, fa stare bene l’uomo. Aristotele nell’Etica Nicomachea lo ricorda: l’amicizia vera è la più rara perché richiede tanto tempo per essere messa alla prova e consolidata. Si tratta di un legame fraterno (in termini moderni) che si basa di fatto sul bene reciproco e sulla fiducia.

«Il desiderio di amicizia è rapido a nascere, l’amicizia no. L’amico è un altro se stesso»2.

Ciò su cui ti lascio riflettere ora è semplice: in questo momento chi ti è davvero amico?

Tra tanti, solo poche persone ti staranno vicino, ti incoraggeranno, ti terranno la mano nella tua battaglia quotidiana. In tutti quei momenti in cui ti troverai in difficoltà, forse in quelli avrai più chiaro chi ti è amico. Chi ti deride una volta, ti parla alle spalle, ti invidia, non vuole il tuo bene, nonostante le tante belle parole che ancora risuonano in aria in tua presenza.

Riconosci e tieniti stretti i veri amici, un altro anno ti aspetta e in questo mondo bisogna proteggere chi ti vuole bene e coloro ai quali tu vuoi bene, non dimenticarlo.

 

Al prossimo promemoria filosofico

A presto

 

Azzurra Gianotto

 

NOTE
1. Aristotele, Etica a Nicomachea, libro VIII, 1155a 5-6; 1156b 31-32, Editori Laterza, Bari 1999
2. Aristotele, Etica a Nicomachea, libro VIII, 1156b 32; 1166a 31, Editori Laterza, Bari 1999

 

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Di cosa parliamo quando parliamo di amore?

Agàpe, eros, filìa, stèrgo: quando gli antichi Greci parlavano di “amore” distinguevano, attraverso l’uso di diversi termini, l’amore come scelta e dono, l’amore come attrazione sensibile e intellettuale, l’amore come amicizia e l’amore come affetto domestico e stima.

What we talk about when we talk about love? è il titolo della raccolta di racconti di Raymond Carver, pubblicata nel 1981, tradotta in Italia per Garzanti nel 1987 e nel 2009 per Einaudi con il titolo originario di Principianti senza i numerosi interventi di taglio dell’editor della casa editrice Knopf, Gordon Lish, a metà tra legittima revisione editoriale e efferato delitto letterario.

Diciassette racconti brevi, emblemi dell’essenzialità e del cosiddetto stile minimalista e stilizzato di Carver che esplorano con un linguaggio asciutto, scabro, cinematografico e ordinario l’amore nella grigia quotidianità.

Vibra nelle centotrentaquattro pagine un senso di angoscia e di inquietudine, quella suspense del nonsense della banalità della routine in cui non accade nulla eppure qualcosa sembra che stia per accadere imminente. Una chiaroscurale epica del quotidiano da cui emana la grazia della vita in sé e forse quando parliamo di amore parliamo di questo perché Carver non affronta il tema dell’amore ma ci gira intorno davanti a un bicchiere di gin come nel racconto, omonimo della raccolta, dove due coppie – forse di attori – chiacchierano attorno al tavolo della cucina e si domandano se forse l’amore è quello in nome del quale l’ex compagno di una delle due donne la picchiava fino a tentare di ammazzarla e poi di ammazzarsi mentre le dichiarava di amarla, o raccontano di un vecchietto scampato a un incidente che si dispera perché non riesce a vedere sua moglie attraverso le fessure degli occhi del gesso che gli ricopre il volto.

«In effetti che ne sappiamo noi dell’amore? – ha proseguito Mel – Secondo me, siamo tutti nient’altro che principianti, in fatto d’amore»: nella postmodernità liquida – per citare Bauman – consumistica, frenetica e omologante di fronte al motore della vita, l’amore appunto, l’uomo non può che dichiararsi principiante e sperimentare, cioè immergersi da spettatore ed emergere da spettatore; voglio dire che, secondo me, è venuta meno la preliminare, o anche posteriore, capacità di indagine o di empatia per cui sembra che quando parliamo di amore parliamo dell’apeiron di Anassimandro, un nauseante o insapore frullato cosmico con l’etichetta “amore” svuotato di sostanza. Gli antichi Greci invece distinguevano, riflettevano, volevano capire di cosa parlavano, erano assettati del mot juste e un termine solo per ciò «che move il sole e l’altre stelle» per gli antichi Greci, ignari della grazia cristiana, non poteva bastare. E se l’amore è un gioco non si può essere sempre principianti: troppo facile questo gioco e poco stimolante! La vita moderna, quella ad esempio dei due personaggi in copertina in una cucina a bere caffè e lavare le stoviglie, quella dei Nottambuli di Hopper per intenderci, è così: frenetica e senza senso, apparentemente dinamica e veloce ma spaventosamente vuota per cui quando si tenta la definizione di “amore” ci si limita a una descrizione di quadretti di non sense. L’uomo moderno ha ancora forse le domande ma la pretesa della risposta è troppo: la capacità di analisi era dei Greci, la grazia senza ragione dei Cristiani, e la postmodernità è una sorta di caos primigenio, condizione, a mio avviso, ideale, perché senza ideali e senza morali, una principiante tabula rasa baconiana in cui i punti interrogativi sono tanti e le risposte individuali.

Credo quindi che leggere questo Carver in una prospettiva verticale – per citare l’altra sua opera di successo – possa essere un’operazione degna di essere intrapresa: farsi assorbire dal vuoto e uscirne non svuotati e sonnambuli ma affascinati dalla grazia della vita.

 

Rossella Farnese

 

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