Sulle sfide della contemporaneità. Intervista a Salvatore Natoli

Salvatore Natoli è uno dei pensatori più importanti del panorama filosofico contemporaneo. Classe 1942, ha insegnato all’Università Ca’ Foscari di Venezia, all’Università degli Studi di Milano e all’Università degli Studi Milano-Bicocca. La sua riflessione si è concentrata nel corso degli anni in particolare sulla filosofia del dolore, di cui abbiamo parlato in modo più esteso anche nell’intervista che trova spazio ne La chiave di Sophia #9 – Il paradosso della felicità. Tra le sue numerosissime pubblicazioni segnaliamo: L’arte di meditare. Parole della filosofia (2016), Le verità del corpo (2012), L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale (2016), La felicità. Saggio di teoria degli affetti (2017).
Qui di seguito vi riportiamo alcuni passaggi della nostra preziosa conversazione.

 

Nel suo scritto del 2016 Il rischio di fidarsi (Il Mulino, 2016) lei evidenzia come la disposizione a dare più o meno fiducia al prossimo dipende da psicologie individuali che tuttavia si attivano entro forme di vita fatte di riti e culture di appartenenza. Quali sono le modalità di costruzione e dispiegamento della fiducia?

In questo libro illustro come ci sia un ventaglio di modi di darsi, partendo da una dimensione originaria del formarsi della fiducia, così come del formarsi di una morale, che avviene sempre dentro una cultura antecedente, dentro una comunità, ma prima di tutto dentro una relazione fondamentale: quella della relazione primaria madre-bambino. Anche il formarsi del sentimento di fiducia avviene dentro una relazione, in modo più originario nel rapporto con la mamma, ad esempio, che ti rassicura. Se un bambino non è stato rassicurato l’incertezza se la porta dietro, guarderà con sospetto il mondo. Nel caso opposto, invece, avrà sperimentato un rapporto benefico gratuito, senza chiederlo. Una caratteristica della fiducia è la gratuità. Il formarsi originario della fiducia ha bisogno della condizione originaria della rassicurazione. Nonostante l’esperienza primaria si va comunque incontro nella vita a delusioni, a problemi non risolvibili, a persone che ostacolano tutto e tradiscono. Inoltre, ci possono essere delle complicazioni, dimensioni legate all’impegno e alla promessa che possono venire disattese. Impariamo così che ci sono persone non degne di fiducia. Nell’affidarsi, perciò, abbiamo un criterio, basato sull’affidabilità delle persone. Nelle piccole comunità le persone affidabili diventavano famose grazie al fatto di aver dato prova nel tempo della loro affidabilità e acquisivano conseguentemente potere e dignità. Dunque, l’affidabilità cresce nella dimensione temporale, attraverso la prova di qualcuno che si dà come elemento soggettivo, storico. È così che la dimensione della fiducia si struttura. Tornando alla dimensione assicurativa, la fiducia nelle istituzioni, ci si aspetta che garantiscano quello che promettono: qui si ha la dimensione funzionale della fiducia. Un certo ente può dare prova di come si è comportato nella sua storia, in questo caso la fiducia diventa una prestazione. Infine, c’è la fiducia incondizionata, che non si realizza nel compito che assegni a qualcuno e che costui porta a compimento. La fiducia incondizionata avviene a fronte dell’improbabile, con qualcuno che in qualsiasi momento sta con te. Questa è l’amicizia, cosa rara, direi. E qui il movente è l’affetto. Aristotele disse che gli amici non hanno bisogno di legge, perché ne anticipano addirittura il bisogno. Con l’amico la fiducia è garantita!

 

Secondo lei, a proposito dei giovani d’oggi e della loro propensione a essere individualisti e poco fiduciosi nei confronti delle istituzioni, del mercato, della religione e del futuro, come può un giovane riavvicinarsi alla dimensione della fiducia incondizionata, soprattutto in un contesto politico e sociale come quello odierno?

La cosa non è facile, ma la natura, in senso ippocratico, si cura da sé. Certi comportamenti come l’autosufficienza, alla fine non pagano e si cominciano a vedere gli aspetti di malattia, patologici. Quindi, stranamente, per sanarsi bisogna partire dal dolore, dagli esiti dannosi dei nostri comportamenti. Questo oggi viene nascosto, perché l’ideologia del self-made, dell’autosufficienza, è questo velo che maschera tanto dolore che c’è nella società. Se in qualche modo c’è qualcuno che squarcia questo velo, allora si capisce che quanto noi crediamo essere liberatorio di fatto è perdente. Bisogna lavorare su questo, è uno dei compiti della filosofia, questo deve fare.

 

Professore, prendiamo ora il concetto di limite. Pensando al caso del “transumanesimo”, il quale ritiene desiderio naturale e antico come l’uomo la ricerca dell’immortalità, tanto da affermare che chi rinnega tale desiderio è un nichilista. È possibile recuperare in contesto contemporaneo una logica del limite?

L’immortalità era connessa non tanto all’infinità del soggetto, che rimaneva pur sempre nel limite e se ne usciva era perché entrava in una dimensione cosmica. La sparizione del limite avveniva in quei casi in quanto veniva spostato in una dimensione cosmica, un po’ come nelle grandi filosofie orientali. Pensiamo all’onda, anche se presa individualmente, essa non è diversa dall’acqua. L’immortalità, nel cristianesimo o almeno in una certa sua dimensione, era l’assorbimento in Dio ed era un tema centrale; essa compariva anche nelle culture della metempsicosi, dove si credeva nella reincarnazione in una vita superiore o inferiore, a seconda della condotta morale.
Nel contemporaneo, invece, il concetto di immortalità vede l’infinità come giocata in rapporto al limite, che non viene negato. Si tratta di una diversa formulazione del limite, che viene inteso come singola determinazione finita, quindi la morte come estremo confine.  In questo caso vi è una fissazione del limite, che non viene spostato come nei modelli di immortalità precedenti, ma connesso alla responsabilità della gestione del governo della propria esistenza. Peccato che l’immortalità non è qualcosa di dimostrabile, semmai di desiderabile. Per quanto mi riguarda, si può anche vivere perfettamente bene assumendo come misura la realizzazione di sé nel tempo della propria esistenza.

 

 

La Redazione

 

[Photo credit Panta Rei, tuttoscorre.org]

la chiave di sophia 2022

 

FIDUCIA COME CURA DELLA PAURA

Il nostro mondo è stato sconvolto dalla crisi economica che ha avuto inizio nel 2008, una crisi che è ben presto diventata anche una crisi valoriale, il panorama dei fenomeni che disgregano la comunità è radicalmente cambiato. I mezzi di comunicazione ci informano ogni giorno che se da un lato gli omicidi e le grandi rapine sembrano in diminuzione dall’altro si registra un aumento dei furti, scippi e altre aggressioni di relativa scarsa entità, che provocano però malessere e diffidenza diffusi. Se l’avvenimento doloso, come ad esempio un furto in appartamento, colpisce qualcuno di distante si riesce con facilità a relativizzare, ma quando riguarda noi ci investe profondamente, quando lo scippo viene perpetrato nel nostro quartiere, quando colpisce la nostra vicina di casa o un nostro parente ci sentiamo coinvolti in prima persona e ci spinge all’attivazione di misure difensive molto spesso sproporzionate rispetto alla minaccia. Pur essendomi sempre ritenuto molto di sinistra, molto incline a dare fiducia al prossimo e tendenzialmente restio a farmi prendere dai pregiudizi quando uno sconosciuto un po’ trasandato, magari anche di colore, mi si avvicina alla stazione ferroviaria mi metto già sulla difensiva, è qualcosa di istintivo che provo a mitigare con la razionalità, ma che mi vede comunque chiuso rispetto all’altro o prevenuto. Tutte le volte che qualche persona mi si avvicina magari con un aspetto un po’ trascurato devo fare appello a tutta la mia razionalità per provare ad analizzare la situazione, eppure nel passato quando mi è capitato davvero di essere stato rapinato o minacciato da qualche balordo ho sempre pensato che si trattasse di una eccezione, che in realtà gli esseri umani sono fatti per aiutare gli altri e non per danneggiarli.

Bisognerebbe pensare alla dimensione educativa delle persone a cui siamo stati sottoposti tutti fin dall’inizio della nostra vita, soprattutto nell’ambiente familiare. Che cosa insegniamo ai bambini circa i rapporti con il mondo esterno? A fidarsi di tutti o a non fidarsi di nessuno? O a fidarsi solo di chi si conosce? Quante volte vi hanno detto di non accettare caramelle dagli “sconosciuti”? L’educazione ci insegna a diffidare degli “sconosciuti”. Perché abbiamo così paura di correre il rischio di essere delusi pur di sperimentare nuovi rapporti?

Ogni tanto faccio una passeggiata in un parco vicino a casa, mi godo qualche pomeriggio di sole fumando una sigaretta su una panchina e osservando le persone che passano, tra la moltitudine di persone in cui ci si imbatte ci sono ovviamente anche genitori con bambini. Di recente ho assistito a una scena molto significativa. La scena vede protagonista un bambino piccolo, forse di tre anni, che corre intorno a una fontana stringendo con fierezza un robot colorato, sotto gli occhi attenti di una giovane madre seduta su una panchina poco distante dalla mia. Il bambino a un certo punto si orienta verso i giochi per bambini diretto alla scaletta di uno scivolo, nella sua corsa abbandona il giocattolo a terra poco distante dalla madre. Questa, messasi subito in allarme poiché aveva avvistato l’avvicinarsi guardingo di un altro bambino, avvisa immediatamente il figlio della minaccia “Giulio, guarda che così te lo rubano!”. Mi ha fatto pena Giulio, così piccolo e già così gravato dalle incombenze della proprietà. Un finale triste per questa scena. Quanto sarebbe stato bello se la mamma di Giulio avesse lasciato l’altro bambino godere del giocattolo e fosse intervenuta solo se Giulio avesse mostrato il desiderio di riappropriarsene? Ancora meglio: quanto sarebbe stato bello che la mamma di Giulio avesse incoraggiato il bambino a condividere il robot giocattolo con il nuovo amichetto? Quanto sarebbe stato bello sentirle pronunciare non un monito, ma un bel “Perché non giocate insieme?”.

La fine della società intesa come comunità di pari inizia il suo declino quando il primo uomo pronunciò: Questo è mio! L’inizio della comunità e l’avvento del capitalismo

Friedrich Engels

Da Aristotele a Engels, ma anche recenti studi psicologici ci indicano che i comportamenti altruistici sono sostanzialmente innati, come del resto la natura cooperativa degli esseri umani. Sono iscritti nel nostro DNA e tale indole compare in età molto precoce.

L’uomo è un animale sociale

Aristotele

Ciò non esclude che possano esistere altri comportamenti di tipo egoistico di natura innata che rispondono al bisogno di autoconservazione, di autoaffermazione e di possesso. Si tratta di due facce della stessa medaglia che costituiscono anche la massima contraddizione degli esseri umani tra ego riferimento e bisogno dell’altro, degli altri. Nel binomio tra Fiducia e Paura è racchiusa tutta la complessità della natura umana e dal loro equilibrio dipenderà il nostro star bene al mondo. Entrambi gli aspetti vengono plasmati dall’educazione. Per quanto riguarda la Fiducia e quindi l’altruismo se alcuni circuiti non vengono attivati in certi momenti critici c’è il rischio che si atrofizzino e che le persone restino imprigionate nell’isolamento dettato dall’ego riferimento. Per la paura e l’egoismo l’educazione dovrà incaricarsi di mettere in atto strategie che limitino l’attivazione di reazioni irrazionali o sproporzionate. Che fatica la Fiducia! Ma ne vale la pena, perché una vita all’insegna dalla Paura e dove prevale la diffidenza forse non vale nemmeno la pena di essere vissuta e può dirsi vivere davvero?

Matteo Montagner

Fede nella realtà

Cos’è che ogni mattina ci fa svegliare e alzare dal nostro letto? Cos’è che ci manda avanti, giorno dopo giorno, in questo mondo da noi tanto criticato e tanto malvissuto? Interrompete per un attimo le quotidiane critiche e lamentele nei confronti di quanto v’è offerto e che sta tutto attorno a voi. Vi pongo questo invito per farvi comprendere quanto sia assordante la chiacchiera ininterrotta che si viene a creare con le vostre voci, fatte di ‘perché’ che stanno ovunque. “Perché perché perché perché perché… Ho l’impressione che sulla terra sprechiate troppo tempo a chiedervi troppi perché. D’inverno non vedete l’ora che arrivi l’estate. D’estate avete paura che torni l’inverno. Per questo non vi stancate mai di rincorrere il posto dove non siete: dove è sempre estate.”

I vostri sono gli stessi ‘perché’ che cita Novecento, protagonista del film La leggenda del pianista sull’oceano, ovverosia un continuo ciclo di insoddisfazione, di inadeguatezza che spinge l’uomo a domandare senza tregua, a porsi sia fisicamente sia mentalmente in uno stato di moto. Non v’è l’ombra di alcuna possibile quiete in tutto ciò, come non v’è nemmeno il senso di questo nostro movimento nel caso in cui ci soffermassimo a riflettere su di esso. Infatti, posti in tal modo non riusciremmo a rispondere alle mie domande all’inizio del testo, o meglio, il tutto si risolverebbe in un lungo silenzio imbarazzante, ove una risposta vorrebbe poter essere in grado di uscire dalle nostre bocche. Ci ritroveremmo davanti a qualcosa di immenso ed incomprensibile come sa essere il mondo, la realtà che ci circonda. Si tratta di una realtà che non è affatto promettente, non segue forzatamente una logica o una regola che la bilanci tra bene e male, giusto e sbagliato, consegnandoci ad un’esistenza di giudizio e classificazione. Noi lo vorremmo, forse ne siamo anche convinti, ma è un errore fatale che ci fa attendere quel bene che cerchiamo e al quale tendiamo, ma vediamo le cose da una prospettiva offuscata e inadatta. Ebbene siamo così costantemente in movimento tra le nostre indecisioni e insoddisfazioni, tanto da ricadere in una immobilità verso quello che è il nostro fine, credendo questo nostro attendere la quiete del bene che dobbiamo raggiungere, o che comunque raggiungerà noi. Capovolgendo, dunque, la nostra condizione arriviamo alla risposta data dall’affermazione di Cesare Pavese “Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”.

Questa realtà non ci ha difatti promesso nulla, non ci è stato assicurato niente ma noi lo attendiamo lo stesso, rendendoci ciechi di fronte alla vita e alla realtà stessa. Si, alla realtà poiché essa non richiede una fiducia a priori, bensì un atteggiamento di fede che si sviluppi attimo dopo attimo, andando a formare quella che è la nostra via. È il presente che permette la formazione del futuro, un qui ed ora che va a determinare secondo la nostra volontà quello che sarà il nostro avvenire. La meta che scorgeremo non sarà da interpretare come un qualcosa a noi dovuto, qualcosa di predestinato, facente parte di un disegno per noi, bensì il risultato delle nostre azioni, del nostro esserci resi attivi nei confronti della vita. L’attesa, difatti, ci avrebbe consegnato ad un’infinita passività, una speranza teleologica irrealizzabile, proprio perché priva del suo elemento motore, priva di noi come soggetto. È qui che si vede la possibilità che rappresentiamo, il nostro essere soggetti infiniti che danno consequenzialmente l’oggetto e il mondo circostante, un mondo nostro che dobbiamo imparare a vedere e prendercene cura. Un mondo che sarà secondo la nostra visione e in cui dovremo porre la nostra fede, perché vissuto attivamente da noi e solo da noi, rendendolo sempre costantemente la nostra potenza più grande e bella.

Cos’è che mi fa alzare ogni giorno, dunque? Ebbene si tratta della fede che ho nella realtà, ovverosia una realtà che viene vissuta da me e che avrà da offrirmi nient’altro che il risultato di quanto da me fatto o detto. Sarà una realtà mia e di cui mai mi pentirò, anche dopo aver scelto tante vie sbagliate e dolorose, ma che mi porteranno comunque al bene che cerco, e chissà che esso alla fine non risulti essere qualcosa che ho sempre avuto davanti ma che non ho mai voluto veramente vedere.

Alvise Gasparini

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Vogliamo parlare di guerra? Eliminiamo ogni forma di finalismo: il punto di vista di Bobbio

È l’ormai lontano 1979 quando Norberto Bobbio, con lo scritto Il problema della guerra e le vie della pace, cerca di dimostrare con decisione l’insostenibilità di qualsiasi tipo di giustificazione della guerra. Con le sue pagine egli vuole affermare la necessità di un totale abbandono non solo di questa pratica, ma anche, in senso più generale, della violenza e di ogni suo tipo di manifestazione. Al centro della sua analisi vi è il fatto che gli armamenti delle varie potenze mondiali si sono sviluppati, durante il secolo scorso, fino a raggiungere un livello tale per cui, se si dovesse ricorrere al loro utilizzo, si potrebbe compromettere la stessa esistenza dell’uomo sulla terra. Un’affermazione di questo genere a molti potrebbe sembrare esagerata o addirittura infondata: è proprio questa la preoccupazione che tanto assilla Bobbio, ovvero la mancanza di una “coscienza atomica”. Il livello di sviluppo tecnico e militare a cui siamo giunti è in grado di esporci, infatti, alla possibilità di una guerra termonucleare, la quale, non potendo assolutamente essere paragonata alle guerre che finora si sono verificate, ci pone di fronte ad una vera “svolta storica”.

Perché una guerra di tal tipo è da considerare come una guerra nuova e dunque da rifiutare con assolutezza? A detta di Bobbio, non è affatto a causa dell’orrore: per lui, infatti, ogni guerra è orrenda; ogni guerra avrebbe dovuto, in passato, e dovrebbe, in futuro, essere condannata.

Le ragioni su cui si concentra il suo ragionamento ci conducono ad una riflessione molto più profonda. La guerra termonucleare, infatti, potrebbe mettere a repentaglio la vita e la storia intera dell’umanità, potrebbe distruggere tutto ciò che è esistente. Inoltre, la guerra termonucleare potrebbe non condurre a nessun tipo di risultato. Se lo scopo di ogni conflitto bellico è la vittoria (e il raggiungimento di tutti i vantaggi politici, economici e sociali che essa consente di ottenere), la guerra termonucleare, a differenza delle guerre passate, potrebbe invece non permettere una distinzione tra vincitori e vinti1.

Alla luce di queste considerazioni, mi chiedo e vi chiedo: possiamo rimanere indifferenti di fronte ad una tale eventualità? Possiamo pensarla con distacco o indifferenza? Io credo di no! Credo che ciò non sia possibile nemmeno per l’animo più bellicoso. Il motivo è semplice, ed è Bobbio stesso a suggerircelo: la possibilità di una guerra atomica ci costringe ad elaborare prima, e ad assumere poi, un nuovo e decisivo punto di vista storico: dovremmo eliminare dal nostro orizzonte di pensiero qualsiasi forma di finalismo. Ebbene sì, dovremmo spogliarci proprio di quel tipo di ragionamento che tanto caratterizza la nostra mentalità occidentale! Dovremmo imparare a vedere la storia dell’uomo non più come un processo inevitabile, connotato da un tendenziale miglioramento, ma come un susseguirsi di fatti sì inevitabile, ma sprovvisto di qualsiasi tipo di senso.

Di fronte a questo panorama, Bobbio propone un irrinunciabile atteggiamento di pacifismo attivo, il quale consisterebbe nel negare in modo totale ogni ricorso a conflitti armati, affermando così una profonda fiducia negli effetti pratici che possono discendere dall’utilizzo delle tecniche nonviolente. Questa soluzione vi lascia perplessi? Ebbene, la sensibilità disillusa di Bobbio è perfettamente cosciente della difficoltà di questo tipo di alternativa: egli infatti ritiene che essa si presenti ancora come (inaccettabilmente) distante dalla nostra realtà attuale, nella quale «l’etica dei politici è l’etica della potenza».

Ciò che gli preme di più, dunque, sembra essere l’indirizzarci ad una revisione del nostro modo di stare al mondo e del nostro modo di percepire e valutare ciò che quotidianamente ci potrebbe apparire come invece inafferrabile, come troppo grande rispetto alla nostra finitudine di singoli individui, e come troppo lontano dalla portata delle nostre decisioni ed azioni. Ciò che più conta sembra essere il gettare il seme, il delineare delle piste di lavoro, lo smuovere la sensibilità pubblica, nell’attesa, speranzosa e calma (ma non inerte) che le cose comincino a mutare dal loro profondo.

Ma le cose potranno cambiare davvero? Di fronte a ciò che quotidianamente accade nel mondo, possiamo dirci fiduciosi? Certamente ed innegabilmente, ritengo si imponga sempre più come necessaria, e con una certa fretta, una più profonda riflessione da parte di ciascuno di noi rispetto a queste tematiche; non soltanto per riscattarci dal punto di vista bobbiano secondo il quale «l’arma totale è arrivata troppo presto per la rozzezza dei nostri costumi, per la superficialità dei nostri giudizi morali, per la smoderatezza delle nostre ambizioni, per l’enormità delle ingiustizie di cui la maggior parte dell’umanità soffre non avendo altra scelta che la violenza e l’oppressione»; ma anche per prendere posizione di fronte al fatto che sebbene la guerra atomica sembri essere solo una mera possibilità “futuristica”, in realtà siamo tutti potenzialmente coinvolti e dunque tutti potenziali vittime, e questo, la Storia, non solo passata, ma anche presente, la quotidianità, ce lo hanno già dimostrato.

 Federica Bonisiol

NOTE:
1. Per non limitarsi al puro piano teorico, è Bobbio stesso che cita un esempio riguardante gli U.S.A.: «gli Stati Uniti potrebbero riprendersi in 5 anni se subissero un attacco con soli 10 milioni di vittime, mentre con un attacco massiccio che uccidesse 80 milioni di americani, la ripresa richiederebbe mezzo secolo». Queste stime sono risultate da studi antecedenti di vent’anni rispetto al saggio del 1979, e sebbene debbano essere prese in considerazione e ridimensionate alla luce del progresso tecnologico che sempre più ci impone i suoi tempestivi risultati, sono comunque utili per farci valutare il fenomeno della guerra atomica in modo più concreto.

BIBLIOGRAFIA:
Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, 2009

Fidarsi

“Più conosco il mondo, più ne sono delusa, ed ogni giorno di più viene confermata la mia opinione sulla incoerenza del carattere umano, e sul poco affidamento che si può fare sulle apparenze”. (Jane Austen)

Cosa spinge l’animo a lasciarsi andare liberamente, senza paure né riserve, senza maschere, senza un finto apparire che cela il vero essere? Chi comprende davvero come una donna possa affidarsi totalmente ad un uomo, ad un estraneo, che fino a pochi attimi prima non era parte del proprio mondo? Cosa porta qualcuno ad abbandonarsi, anima e corpo, ad un viso di cui non si ha memoria così pregressa da poter riflettere ponderatamente prima di consegnare sé stessi?

Non parlo della fiducia nei propri cari, nei propri genitori o fratelli, negli amici di sempre…parlo di quella fiducia scatenata dall’amore improvviso, quell’emozione che ti lega profondamente ad un altro essere, senza spiegarsi, senza chiedere il permesso…e quando si ama, purtroppo, non esiste lungimiranza, non vi è traccia del buon senso, del soppesare le situazioni, le persone, come può avvenire, invece, nella quotidianità delle nostre interazioni più abitudinarie.

L’amore non conosce vincoli, travalica tutti i confini, li dissolve, portando con sé quella sensazione di assoluta libertà di poter essere, di poter posare la maschera, di abbattere il muro che ognuno di noi costruisce in propria difesa.

E quando, la persona che si sentiva più vicina, distrugge questa fiducia? Quando quell’emozione così inebriante viene spazzata via in un solo attimo? Quando il mondo che si è costruito con impegno e fatica è devastato da un tornado che dietro di sé lascia solo macerie?Quando si scopre davvero l’essenza dell’altro? Quando quei contorni del volto, quello sguardo, le smorfie, si rivelano nascondere unicamente un mostro? Allora si prende consapevolezza del mondo, si realizza che quella fiducia non ha mai avuto motivo di essere, ci si colpevolizza, la mente si affolla di “se” e di “ma”….

Mi domando come quella povera ragazza, lei, la cui storia mi ha profondamente colpita sin da subito, reagì nel comprendere chi fosse realmente la persona che sedeva accanto a lei. Mi chiedo quanta bontà doveva essere insita in lei per farle aprire per l’ennesima volta la porta a lui che distrusse quel mondo perfetto che era stato creato insieme, lui che si palesò come un mostro. Cercando di capire qualcosa di inspiegabile, vado a ritroso negli anni, rifletto sulle menzogne, sulla privazione di giustizia, quell’ennesime falsità che sono state riservate ad una ragazza, punita perché a conoscenza di segreti inenarrabili, che l’hanno condotta ad essere “di troppo” nel panorama della perfezione ideato da una mente malata e distruttiva.

Distruttivo secondo il vocabolario è ciò che è atto a devastare, distruggere, annientare, come una bomba.

E Alberto Stasi fu l’ordigno, lo scoppio e l’eliminazione di Chiara Poggi, la quale sapeva troppo, che fu uccisa perché “pericolosa”. Una presenza scomoda, un’ombra che avrebbe oscurato l’immagine di quel giovane bocconiano dai tratti così innocenti.

Alberto Stasi è stato condannato a sedici anni di carcere per aver privato Chiara della propria vita. Stasi sconterà una pena di sedici anni per aver massacrato la propria fidanzata senza riserve, senza scrupolo.

Strappata alla vita per essersi fatta cullare dalla speranza che quel sentimento fosse ben riposto. Speranza disillusa da un uomo che, per aver scritto la parola fine all’esistenza di una persona, non pagherà mai abbastanza.

 Nicole Della Pietà

IODICOBASTA.ETU?

Gli 8 grandi perché della moda. (Roba che Obama non ci dorme la notte)

 

 

 

Floreale? In primavera? Avanguardia pura.

 

1) Perché le fashion blogger hanno sempre la faccia seria come se stessero risolvendo il teorema di Fermat? 1bis) E perché si fanno fotografare coi piedi storti?

2) Perché le commesse di negozi di marche di lusso ti trattano come se per decidere di comprare una borsa da 2000 euro fosse increscioso impiegarci più di 1 minuto, mettendoti un certo disagio, una discreta ansia da prestazione e facendoti sentire una tirchia,  quando loro 2000 euro non le vedono neanche in tre mesi di lavoro?

3) Perché il caschetto “magari ecco, se me lo fai giusto un po’ più lungo” ora si chiama  LONG BOB, che vallo a spiegare che non è una disciplina delle olimpiadi invernali? O a Giggino, il parrucchiere unisex taglio e piega euro 20 nel vicolo sotto casa che ha anche la seduta Little Italy anni’40 col cavalluccio per tagliare i capelli ai bambini?

4) Perché a quella tonalità di biondo che piace a me cambiate nome ogni 6 mesi?

5) Perché Carrie l’abbiamo ritenuta un’icona di moda anche quando gli sceneggiatori pretendevano di farla sposare con un piccione punk imbalsamato in testa?

6) Perché più ti avvicini ad assomigliare ad una contadina dell’entroterra estone e più sei cool?

7) Perché quando giri da Zara vedi solo facce schifate nei confronti del prossimo, naso all’insù e falcata a ritmo di una musica dal genere indecifrabile ogni tanto intervallata da “Samantha in cassa niGNo” quando sei, se il senso dell’orientamento e della realtà non mi ingannano, in un grande magazzino a ravanare tra pezze made in Bangladesh e non a scegliere diamanti neri in una gioelleria dell’Upper East Side?

7) Perché Charlotte Casiraghi se mette una t- shirt bianca e pantaloncini deformi altrettanto bianchi  è di una eleganza divina e noi sembriamo delle massaggiatrici o, nella migliore delle ipotesi, l’equipaggio dello yacht di Charlotte Casiraghi?

8) E perché in inglese non sapete dire “book”, ma sapete dire OUTFIT?

La frase “la vera bellezza è quella interiore” fa troppo Suor Cristina di The Voice.
La frase “la moda rimane lo stile passa” mi pare l’abbia già detta una tale Coco Chanel.
Io posso solo aggiungere che quel qualcosa in più non si compra da nessuna parte. Che nel vostro OUTFIT l’unico accessorio che non deve mai mancare è il sorriso. Vero. Che quando ci si sente in passerella, basta un attimo e si inciampa proprio in quella scarpa da 1000 euro. Che l’importante è rialzarsi, appoggiarsi a chi con noi di questa caduta piangerà dalle risate, e magari comprare delle converse.Che siamo belle lo stesso. Che siamo brutte lo stesso. Di cadute ne faremo tante. Che almeno non siano di stile.

Donatella Di Lieto

Ps: ora scappo che devo andarmi a fare un long bob con riflessi sun kissed ed il mio sunday outfit non è ancora abbastanza  cromaticamente insensato.

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

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La scuola per il futuro

La scuola educa ed istruisce.

Educazione ed istruzione due parole spigolose da pronunciare sebbene dense di significato e che risultano, oramai, logorate dall’abuso che se ne fa.

Che significato ha, oggi, dire che la scuola deve educare ed istruire i giovani?

Ha ancora senso domandarselo?

Se la risposta è no, c’è da rimanere basiti.

Occorre porsi quella domanda per capire cosa sia la scuola oggi o, meglio, cosa dovrebbe essere.

Scontato dire che deve istruire, fornendo conoscenze, strumenti di pensiero e di logica; altrettanto palese vedere la scuola come sede di educazione extrafamiliare -ricordiamoci che la famiglia deve essere il primo punto di riferimento per questo-; manca qualcosa, però, a questa definizione, quel quid che renda la scuola ‘umana’, relazionale, confortevole.

Spesso ci si dimentica che la scuola è fondamentale nella vita di una persona e può determinarne successi ed insuccessi futuri, sia a livello personale che professionale.

Dimenticandosi di ciò si incorre nel rischio di trasformare la scuola in una struttura arida, eretta dalla mera burocrazia che serve a dividere gli “intelligenti” dagli “scemi”, abbandonando questi ultimi a loro stessi e segnandoli a vita.

La scuola deve, invece, essere un luogo di aggregazione, condivisione, relazione e fiducia.

AGGREGAZIONE: la scuola deve unire, non dividere. Il bambino ha la sua prima conoscenza di “società” nella scuola e proprio per questo deve conoscere l’importanza di sentirsi parte di un gruppo.

CONDIVISIONE: la scuola deve insegnare a “cum-dividere”, a spartire con l’Altro, dimostrando che anche la sconfitta, se condivisa, può essere meglio sopportata.

RELAZIONE: la scuola deve creare relazioni, tra gli insegnanti e gli allievi, tra gli insegnanti e le famiglie. Solo attraverso la relazione si può riconoscere l’Altro come Altro da sé e ci può essere uno scambio di messaggi diretto e sincero.

FIDUCIA: alla base della relazione che si instaura deve esserci la fiducia che permetta all’Altro di essere se stesso.

E Storia, Inglese, Geografia, Matematica ecc, chiederete, dove sono?

Ci sono, così come i compiti, le interrogazioni ed i voti.

Ma prima di questo ci devono essere le Persone, con i loro difetti, le loro capacità, il loro talento magari nascosto, le loro paure, le loro storie.

Il giudizio sulla Persona non deve derivare dal voto in Inglese, perché quest’ultimo può essere dettato da innumerevoli fattori a noi sconosciuti, ma da domande quali Chi ho di fronte? Perché ha preso 4? Cosa lo turba?

Per ogni domanda la scuola deve trovare una risposta prima di assegnare etichette che poi saranno difficili da togliere.

La scuola è come un allenatore, deve preparare il giovane per raggiungere un obiettivo posto a breve-media-lunga distanza; come tale lo deve osservare, comprendere le sue capacità e le sue lacune, escogitare un allenamento ad hoc che vada a rafforzare i punti deboli; l’allenatore-scuola deve capire il talento del giovane e coltivarlo. Tutto questo per la partita più importante della sua vita: quella con il Futuro.

Valeria Genova

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Giochi a somma variabile

Cosa ha a che fare l’economia con la filosofia?

In realtà le due materie sono inevitabilmente intrecciate, basta guardare le pubblicità degli ultimi giorni per leggere “Il tuo broker di fiducia”. Sembra che qui entri appunto in gioco una componente fondamentale dell’Economia: la Fiducia.

Spesso crediamo che il linguaggio delle scienze economiche sia la matematica, rigidi parametri quantitativi, tabelle e diagrammi, mentre essa si fonda prevalemente su una variabile imponderabile quale l’umano, i suoi sentimenti e quindi alla sua stessa base soggiaciono presupposti antropoligici: che cos’è l’uomo? Che cosa faranno le persone? Read more