Intervista a Guido Tonelli: il bosone di Higgs e le radici della nostra storia

Guido Tonelli, Fisico del CERN e Professore dell’Università di Pisa, è stato tra gli scopritori del Bosone di Higgs, occasione per la quale ha poi scritto La nascita imperfetta delle cose. La grande corsa alla particella di Dio e la nuova fisica che cambierà il mondo (Rizzoli, 2016). In questo libro Tonelli racconta cosa vuol dire affacciarsi oltre il limite estremo della conoscenza, fare la scoperta del secolo e capire come tutto è cominciato in quel preciso momento, un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang in cui si è deciso il nostro destino. In tale opera si spiegano con chiarezza ed in maniera coinvolgente i misteri sull’origine del mondo e la possibile fine dell’universo.

La storia del bosone di Higgs comincia nel 1964 e si articola nei decenni successivi fino al 2011, anno della scoperta, resa possibile solo grazie all’acceleratore Lhc (Large hadron collider) al CERN di Ginevra. Non scenderemo nei dettagli, lasceremo che sia il professore a raccontarcelo. Quello che è interessante sottolineare è che con il Bosone di Higgs è stato riempito l’ultimo tassello che era rimasto vuoto del cosiddetto Modello Standard, ovvero la teoria che descrive il mondo delle particelle elementari e le incasella in una sorta di tavola periodica. Ma il Bosone di Higgs, suggerisce Tonelli, potrebbe spiegare anche molti dei misteri del cosmo. Secondo alcune teorie, infatti, questa particella potrebbe aver giocato un ruolo importante nelle primissime fasi dell’universo, per esempio riguardo la questione dell’asimmetria tra materia e antimateria, che subito dopo il Big Bang erano presenti in quantità uguali (o quasi): può essere stata una leggera “preferenza” del Bosone di Higgs per la materia ad aver consentito a quest’ultima di sopravvivere ai primi millisecondi di vita dell’universo, mentre l’antimateria (disintegrandosi con la materia) è completamente sparita.

Per concludere, ora il Bosone di Higgs non solo lo abbiamo davanti, ma ha anche aperto una nuova fisica. E pure (anche se non ce ne accorgiamo) un nuovo modo di vivere. Queste scoperte, che potrebbero apparirci come puramente accademiche, hanno infatti un’influenza su tutti noi: basti anche semplicemente pensare alla tecnologia e a quanto essa, tramite le scoperte scientifiche, ha cambiato la nostra quotidianità. A questo proposito Tonelli ci dà una grande conferma, ed anche di questo lo ringraziamo: la continuità che esiste tra i cosiddetti saperi “scientifici” ed “umanistici” nel terreno della vita quotidiana dell’uomo.

 

La fisica, come anche le materie umanistiche – soprattutto quando si spingono a un livello molto sperimentale – richiede ingenti risorse: in cambio di questo investimento esse ci restituiscono una maggior consapevolezza. Crede che scoperte come quelle fatte al CERN comportino un cambiamento per la nostra vita quotidiana, in termini di domande fondamentali e quindi di produzione di senso per la nostra esistenza come individui e come specie? L’origine della Filosofia nasce con domande come “chi siamo?” e da “dove veniamo?”; la Fisica, per certi versi, non tenta di offrire risposte simili?

Alla base di queste ricerche, che sono sicuramente complesse e richiedono ingenti investimenti, cosa c’è? C’è una spinta primordiale che è la curiosità!

Noi siamo esseri umani e l’umanità di oggi, nata in Africa milioni di anni fa, come si è evoluta? Grazie a qualche individuo che ha cominciato a spostarsi, ma perché? Io ho il pregiudizio di pensare che non si sia spostato dalla savana verso il territorio vicino per bisogno di cibo ma credo che la spinta più grossa dei nostri antenati ominidi sia la stessa che motiva noi oggi: la curiosità, il cercare oltre le colline qualcosa che ancora non abbiamo visto. È il tratto più fondante dell’umanità.

Per esempio, se uno prende un bambino piccolo e lo mette in un recinto alto un metro, questi magari cammina malamente, ma proverà ad alzarsi e a vedere cosa c’è oltre. Ecco che allora le ricerche si fanno per soddisfare questa curiosità, che è uno dei tratti più caratteristici dell’umanità, e guai a quell’umanità che scoraggiasse la curiosità e inibisse gli individui creativi che immaginano cose che gli altri non hanno ancora visto, in tutti i campi: in quello scientifico, artistico o letterario.

Occorre dire che le ricerche scientifiche cambiano non solo la percezione del mondo, in quanto hanno effetti su di essa, ma cambiano anche la nostra vita materiale. Ogni tanto immagino che se al CERN ci fosse un grande bottone rosso, spingendo il quale si potesse cancellare dalla quotidianità la meccanica quantistica e la relatività per una ventina di minuti, la gente capirebbe di quanto le scoperte scientifiche degli ultimi cento anni siano presenti nella vita di tutti i giorni: la medicina moderna, le comunicazioni, i cellulari, internet. Non c’è niente nella vita quotidiana che non sia debitore di una scoperta scientifica.

Le cose che si sviluppano nei centri di ricerca producono nuove tecnologie che, in maniera molecolare e silenziosa, entrano nella vita di ogni giorno. Per esempio, nessuno poteva immaginare che i primi laser inventati negli anni ’40/’50 furono inventati avrebbero corretto la miopia o letto un’etichetta al supermercato o riprodotto la musica. Lo stesso vale per la risonanza magnetica: gli studi sulle proprietà magnetiche della materia esistono perché abbiamo capito come questa funzioni; quindi prima o poi, qualunque funzionamento della materia che viene compreso (anche quello più astratto) trova delle applicazioni concrete. Prima o poi questo sapere si diffonde nella vita quotidiana.

Sembra che il linguaggio della natura sia distantissimo dai linguaggi degli uomini: cosa possiamo fare per ridurre questo gap? Secondo Immanuel Kant, la mente umana non conosce le cose in sé stesse ma le impressioni dei sensi che rispecchiano solo l’apparenza superficiale delle cose. Mettendo insieme tali impressioni per mezzo delle strutture spazio-temporali, la mente costruisce la sua immagine della realtà in sé stessa, che resterebbe sempre inconoscibile (noumeno). Dobbiamo ammettere che, in fondo, non sappiamo o non potremo mai sapere nulla di certo sul mondo che ci circonda, o crede che in futuro riusciremo ad arrivare ad una spiegazione definitiva? Dobbiamo rassegnarci, come scrive Kant, al fatto che in fondo la realtà è inconoscibile?

L’ipotesi di Kant contiene un’assunzione arbitraria, cioè il fatto che non c’è nessun elemento per dire che c’è una realtà, ma non potendo verificarla o sperimentarla non si può nemmeno ipotizzarla.

Io, invece, ho un atteggiamento diverso che è molto aderente alla maniera in cui noi uomini della scienza lavoriamo.

Non sono d’accordo con chi dice che noi scienziati sveliamo attraverso il metodo scientifico la natura e osservano le leggi della stessa come se fossero lì davanti a noi e avessimo il compito di scoprirle. In realtà noi abbiamo una nostra visione del mondo che è la stessa che può avere anche una scimmia antropomorfa: per esempio lo scimpanzé quando deve aprire una noce ha un progetto, ovvero prendere un sasso, rompere la noce e mangiare il seme, quindi ha progettato il futuro dicendo “utilizzerò un utensile più duro della noce, la aprirò e mi nutrirò”. Questo progetto è la stessa cosa che facciamo noi, è un’immagine del mondo. Ma cosa differenzia la scienza moderna dalle altre immagini del mondo? Che è rigorosa, che si cambia, si plasma, è pragmatica, accetta di sbagliare, non cerca la verità ma tenta di spiegare tutte le osservazioni e, quando troverà un’osservazione che non riuscirà a spiegare, sa già che dovrà trovare un’altra spiegazione.

Questo atteggiamento pragmatico, in cui non ci si pone il problema di cosa sia la realtà, permette di costruire la propria immagine del mondo che deve essere il più precisa e rigorosa possibile, nonché riproducibile, e che funzioni fino a quando non si scopre che c’è un piccolo dettaglio non congruente e bisogna buttare all’aria tutto e ricorrere ad un altro modello. Questo è l’atteggiamento che ha fatto fare i maggiori progressi e che rende un po’ superflua la questione circa l’esistenza o meno di qualcosa di più profondo: una realtà oggettiva che esista a prescindere da quella che noi possiamo costruire.

La scienza non è altro che una nostra costruzione mentale e, proprio essendo da noi costruita, ci dobbiamo preoccupare di renderla il più accurata e precisa possibile.

Il bosone di Higgs, conosciuto anche come particella di Dio: abbiamo letto molte speculazioni a riguardo, ma di cosa stiamo parlando concretamente? Quali sono le implicazioni di questa scoperta e che scenari apre?

Abbiamo scoperto un momento particolare della nascita dell’universo nel suo complesso, così oggi noi possiamo raccontare questa storia con un dettaglio importante che abbiamo collocato temporalmente e che sappiamo descrivere e precisare: c’è un periodo della nascita dell’universo – i primi cento miliardesimi di secondo – in cui sono avvenute cose che ancora non abbiamo capito ma, dal cento miliardesimo di secondo in poi, da quando il bosone di Higgs si è installato nell’universo, noi conosciamo la nostra storia.

È come se avessimo fatto un altro passo per raccontare la nostra nascita: dal cento miliardesimo di secondo in poi questa particella speciale si è congelata perché l’universo, espandendosi, si è raffreddato. Il bosone di Higgs, che era libero e vagava come le altre particelle, si è quindi bloccato nel vuoto, si è congelato nel suo campo scalare, il quale aveva un’importante proprietà: le altre particelle interagirono con lui diventando massicce, alcune hanno preso una massa, altre un’altra, altre ancora sono rimaste prive di massa. Se questo meccanismo non fosse avvenuto, la materia non sarebbe esistita, o meglio ci sarebbe stata ma in una forma diversa, pensiamo ad un intero universo pieno di particelle che viaggiano alla velocità della luce prive di massa: un sistema perfetto ma senza l’imperfezione che siamo noi o le galassie.

La materia infatti, considerata in atomi e molecole, si è organizzata in tale modo proprio per le caratteristiche dell’atomo: c’è un protone intorno ad un elettrone e se l’elettrone non avesse quella massa ben precisa datagli dal bosone, non potrebbe orbitare intorno al protone e non ci sarebbe la materia stabile che da miliardi di anni ci circonda.

Proviamo ad allestire un semplice esperimento mentale, immaginando una conversazione ideale tra un fisico e un filosofo. Il filosofo fa presente al fisico che è impossibile risalire a cosa ci fosse prima del Big Bang, che si può parlare dell’inizio del tutto soltanto per approssimazione: resta impossibile scorgere al di là dell’universo in cui viviamo, poiché esso costituisce un orizzonte intrascendibile. Il fisico dal canto suo sostiene che, attraverso la ricerca, è possibile – o lo sarà in futuro – provare a dire perfino cosa ci fosse prima del Big Bang. Crede che l’osservazione del filosofo sia pertinente o immagina un futuro in cui sarà effettivamente possibile conoscere quanto è accaduto, per così dire, prima dell’Universo? 

Sono sbagliate entrambe perché c’è questo pregiudizio: si pensa che il tempo sia separato dallo spazio, cioè che ci sia stato il big bang, momento in cui lo spazio si espanse e il tempo sia proceduto a prescindere.

Invece no: tempo e spazio sono nati insieme. Non si può dire ‘prima’ – non esiste –, perché lo spazio e il tempo prima che ci fossero spazio e tempo non c’erano. Quindi la risposta del fisico è sbagliata così come l’osservazione del filosofo perché il fatto di essere all’interno di questo universo, quindi di questo fenomeno spazio-temporale, ci permette di capire cosa sia potuto succedere in esso; e a quel punto niente ci impedisce di immaginare altri fenomeni che avvengano in un non-tempo e in un non-spazio (non esistono spazio-tempo al di fuori dell’universo in cui siamo).

Per esempio esistono le teorie dei multiversi che ritengono che il nostro non sia l’unico universo materiale ma uno dei tanti. E come potrebbero essere verificate se non possiamo osservare e vedere da un universo all’altro?

Ci sono delle ricerche in corso sull’esistenza di questi altri universi possibili: alcune osservazioni che si fanno del nostro universo, studiando tutti i suoi angoli, vanno alla ricerca di zone in cui ci potrebbe essere l’evidenza di un altro universo, un’altra bolla che si sia sovrapposta alla nostra. Per esempio le onde gravitazionali, scoperte recentemente, potrebbero servire a tale scopo. Se uno vede una zona in cui lo spazio-tempo è increspato senza motivo e non c’è nulla che lo deforma, quella potrebbe essere una zona in cui il nostro universo si sovrappone ad un altro universo: questa sarebbe la prova sperimentale dell’esistenza di più universi.

Saperi scientifici e saperi umanistici vengono spesso contrapposti, ma non è possibile trovare tra di essi dei punti di tangenza per potersi anche integrare maggiormente? La complessità della Fisica contemporanea è giunta a livelli tanto elevati che la persona non addetta ai lavori tende a non comprendere le questioni o corre il rischio di affidarsi a formule fuorvianti, come quelle utilizzate dai media. In questo non pensa che le materie umanistiche potrebbero aiutare la scienza a costruire una narrazione accessibile a tutti ma nel contempo precisa, perché sorta dal confronto con esperti come lei?

Sì assolutamente. Io faccio fisica perché amo la filosofia. Odiavo la fisica al liceo e amavo la filosofia e mi è rimasto questo amore appassionato per il dibattito filosofico che seguo da amatore.

Il cervello è uno: io mi appassiono per le meraviglie della natura così come mi appassiono per un brano di musica o per un bel libro o per una bella discussione tra un filosofo ed un teologo. La divisione è del tutto artificiale e la considero un residuo ottocentesco: non solo le materie umanistiche arricchiscono il sapere scientifico e viceversa, ma nel momento in cui dobbiamo spingere la nostra conoscenza al di fuori del conosciuto (è questa la ricerca moderna) ci ritroviamo su un confine in cui si corrono inevitabilmente dei rischi ed è lo stesso in cui si muovono i letterati che vogliono produrre qualcosa di nuovo, gli artisti che vogliono raffigurare qualcosa di nuovo, i musicisti che vogliono fare ascoltare qualcosa di nuovo: che differenza c’è? Nessuna. Ogni volta che mi imbatto in uno di loro li sento vicini perché abbiamo tutti le stesse paure, le stesse intuizioni, – a volte giuste a volte sbagliate – ma è lo stesso atteggiamento nei confronti della ricerca del nuovo.

Ci sarebbe tutto da guadagnare ad avere un intreccio maggiore tra le varie discipline, a moltiplicare i momenti di conoscenza. Scienze naturali e scienze umanistiche sono due modi avanzati in cui si sviluppa la conoscenza e vanno conosciute entrambi: solo in questo modo ne ricaveremmo di sicuro dei benefici.

Matteo Montagner

NOTE:
Intervista rilasciataci lo scorso 3 settembre 2016 in occasione del Festival della Mente di Sarzana (La Spezia).

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La storia sotto analisi: intervista a Alessandro Barbero

Alessandro Barbero non ha bisogno di grandi presentazioni: docente di Storia Medievale presso l’Università del Piemonte Orientale, autore di numerosi saggi e articoli contenenti temi relativi alla storia militare e sociale nel Medioevo, è famoso per le sue costanti partecipazioni a trasmissioni televisive di carattere culturale, tra cui Superquark e Il tempo e la storia.
Lo abbiamo incontrato al Festival della Mente di Sarzana, in provincia di La Spezia, dove è ospite dal 2007; gli abbiamo fatto qualche domanda relativa proprio alla storia, la materia spesso considerata – al pari della matematica – uno scoglio duro per gli studenti di scuole medie e superiori, in altri casi addirittura inutile  – al pari della filosofia – per gli amanti della “pratica a tutti i costi” e dello studio come mezzo di guadagno materiale.

 

Forse è una domanda che molti hanno già fatto, ma pur essendo banale lascia spazio a pensieri piuttosto profondi: in un periodo come questo dove i giovani compiono spesso percorsi di studio “utili”, dettati cioè dalla possibilità di trovare lavoro in futuro, dove colloca lei lo studio della storia? Può tradursi in termini pratici e quotidiani oppure è destinata a rimanere nel mondo della teoria divenendo sempre più materia di nicchia e per pochi?

La risposta non è semplice, ci sono diversi aspetti da prendere in considerazione; il primo è che una società ha bisogno di un certo numero di persone che di mestiere studiano la storia, esattamente come ha bisogno di un certo numero di linguisti, di filosofi, di sociologi ecc; una società in cui si studiano queste cose funziona meglio rispetto a una società in cui non si studiano. Ci vuole quindi un certo numero di specialisti che sanno fare queste cose, naturalmente tutto deve essere graduato: di specialisti in storia azteca qui in Italia magari ne basta uno, di specialisti della storia romana ce ne vuole qualche centinaio se non di più.
Inoltre una società che non avesse storici sarebbe debole, la gente sarebbe più fragile, la democrazia stessa sarebbe più fragile: non a caso le dittature si preoccupano in primis di cosa scrivono gli storici e non i chimici ad esempio.
Detto questo sorge un problema: questo piccolo gruppo di specialisti che la società deve mantenere, quanti studenti deve poi educare? Quanti ne deve formare? Io credo che una conoscenza di base della storia dovrebbe far parte della preparazione di tutti i cittadini; Piergiorgio Odifreddi mi direbbe: “Anche una preparazione della matematica!”, e avrebbe ragione pure lui probabilmente.
Laureare gli studenti in storia invece è un po’ un altro discorso, oggi ci sono degli sbocchi lavorativi per un ragazzo che giustamente fa l’università perché si aspetta di trovare un lavoro in futuro, ma sicuramente non sono così tanti; il nostro Paese ha bisogno, e avrà ancora bisogno, di gente che lavora nelle fondazioni, nei musei e che abbia una preparazione storica, perché il nostro territorio è stato plasmato dalla storia, ed è una delle risorse – anzi forse è la risorsa – dell’Italia, quindi anche dal punto di vista dei posti di lavoro la storia è produttiva. Chiaramente avremo sempre bisogno di medici in quantità maggiore che non di storici, ma questo non mi dà nessun fastidio ammetterlo.

La storia è considerata da molti una materia “noiosa”: troppe date, troppi nomi… persino troppi avvenimenti – parere che stona con la noia – che tuttavia sembrano non avere una trama di sfondo; secondo il suo parere, dato che è considerato da molti un abile divulgatore ma soprattutto un abile comunicatore, quale potrebbe essere il toccasana per renderla interessante e fruibile anche a chi non vi si immerge per professione?

Il problema è che la storia è già interessante e fruibile per chi vuole godersela dall’esterno, magari leggendo un libro oppure ascoltando una conferenza, e la prova è che al festival di Sarzana vengono mille persone a sentire una conferenza di storia, pagando un biglietto, e alcuni rimangono addirittura fuori perché non hanno trovato posto. Un’altra prova sono gli ascolti di Rai Storia: quando ogni sera centomila persone in Italia guardano un programma di storia, programmi di nicchia rispetto al pubblico di Rai 1, mi sembra che sia una cosa di per sé non irrilevante.
La storia è una materia considerata noiosa di solito a scuola, e quello è il problema perché nessuno ha ancora trovato la ricetta per insegnare le informazioni di base senza che siano noiose. E’ vero, la storia è lunga, oltretutto purtroppo diventa sempre più lunga man mano che andiamo avanti, e non è possibile comprenderla senza avere una conoscenza di base delle date, dei nomi, dei re, degli imperatori, dei papi, delle battaglie, dei trattati di pace. E’ necessario sapere queste cose. D’altra parte però se ai ragazzi a scuola si insegna solo quello, lo troveranno noioso; tutto questo succede perché le ore sono poche, anzi sempre meno dato che abbiamo ministeri dementi che non sanno a cosa serve la scuola e fanno di tutto per distruggerla – quella pubblica almeno – di conseguenza non se ne esce, il rischio è che la storia continuerà a sembrare noiosa agli studenti fino a quando non arrivano all’università e alla prima vera lezione di storia che sentono spalancano gli occhi e dicono “ma non avevo capito che era questa la storia!”

Lei è professore di Storia Medievale presso l’Università del Piemonte Orientale, dunque ci siamo sempre chiesti com’è il professor Barbero a lezione, se utilizza gli stessi metodi che adopera in televisione o negli interventi nelle scuole superiori (come quello bellissimo che fece sulla disfatta di Caporetto), e se sì, da dove nasce questo modo di raccontare la storia? Si è ispirato qualcuno o è “invenzione” sua?

No non mi sono ispirato a nessuno e non ho la minima idea da dove nasca, devo dire che ho avuto dei professori all’università che appartenevano a una generazione a cui non veniva chiesto di fare la divulgazione in TV, erano i grandi storici degli anni ’60 ’70 ’80: il mio maestro Giovanni Tabacco, Massimo Salvadori ecc, erano grandissimi storici, magari non avrebbero mai parlato ad un pubblico di mille persone una sera in una piazza, ma quando avevano davanti trecento studenti sapevano tenerli in pugno, quindi per me fin dall’inizio è stato chiaro che la storia è un percorso intellettuale affascinante e che bisogna saperlo rendere affascinante.
Oggi ci viene chiesto appunto di raccontare queste cose non solo a studenti che hanno deciso di fare l’esame di Storia Medievale, ma a un pubblico composto da persone di tutti i tipi e pian piano molti di noi si sono attrezzati per fare anche questo, trovandolo abbastanza divertente e stimolante.

Domanda personale: come mai si è appassionato al Medioevo e cosa ci ha lasciato in eredità? E’ un mare magnum ancora da esplorare o è stato già detto tutto?

Mi sono appassionato al Medioevo in realtà perché in seconda liceo (classico, ndr) un compagno che aveva molti libri in casa mi ha fatto leggere La società feudale di Marc Bloch, e io leggendo quel libro fondamentale al penultimo anno di liceo ho deciso definitivamente che avrei studiato storia medievale.
Dopodiché il Medioevo è un periodo lunghissimo, la maggior parte del nostro passato è fatto di Medioevo, è durato più di mille anni, la grande maggioranza dei nostri antenati sono vissuti lì e basta andare in giro per l’Italia per vedere che il nostro territorio sia plasmato anche in quell’epoca; quindi è uno strato fra i tanti, conta anche molto lo strato greco-romano, però è uno strato decisivo in cui tante cose son nate, tra cui la lingua che parliamo.
Nella storia non si è mai detto tutto per due motivi: i punti di vista cambiano, è una banalità che noi storici diciamo sempre ma è vera, anche le curiosità cambiano, cent’anni fa nessuno diceva “ah le invasioni barbariche… interessante! È un aspetto del problema dell’immigrazione, vediamo un po’ come gli antichi romani gestivano gli immigrati”; cent’anni fa nessuno si poneva il problema in questi termini, quindi ci saranno sempre dei modi nuovi di interrogare la storia. L’altro motivo è che gli archivi sono pieni di carte che nessuno ha mai visto: gli storici, giustamente come dicevo prima, sono pochi, quindi c’è sempre da scavare per capire meglio.

Il problema delle fonti del III millennio: ho letto in svariati articoli che in futuro ci sarà un problema per ricostruire il periodo storico che stiamo vivendo a causa dell’eccessivo uso della tecnologia, poiché i dati – di qualsiasi natura, dal documento pubblico a quello privato come una mail – prima o poi verranno persi, lasciando un “buco nero” di fonti ai posteri. Secondo lei c’è questo pericolo oppure è semplicemente un rischio presente in tutte le epoche?

No è un pericolo tipico di quest’epoca, e io non so tuttora come se ne verrà fuori. Molti esperti di informatica dicono di non preoccuparsi perché in realtà il patrimonio informatizzato sarà sempre fruibile anche in futuro; io so che ho dei floppy disk che non posso più utilizzare in nessun modo e chissà che cosa ci avevo messo dentro.
E’ vero che certe cose come internet per esempio, come la mail, appaiono più robuste di quello che io pensavo all’inizio: il mio indirizzo è lo stesso da vent’anni, però le mail le ho perse più di una volta cambiando computer, quindi il problema si pone. Indubbiamente è meraviglioso avere tutto quanto online, è un grandissimo ausilio alla ricerca, però il libro stampato è in assoluto la tecnologia più efficiente per essere sicuri di conservare qualcosa.

Concludo con una domanda che facciamo a tutti i nostri intervistati: interdisciplinarità della filosofia, cosa ne pensa lei di questa materia?

Salvemini, che era uno storico, diceva: “La filosofia non è dannosa, è semplicemente inutile, o meglio è dannosa in quanto fa perdere un sacco di tempo alla gente”. Molti storici in cuor loro pensano questo. Io devo dire che constato spesso con i miei studenti all’università che quelli di filosofia sono in media nettamente più intelligenti, i più bravi, i più motivati, ma hanno enormi difficoltà a fare bene gli esami di storia. Per qualche ragione la mentalità dello storico e quella del filosofo sono diverse e non ho mai capito in che senso, ma certamente il problema si pone, quindi io alla filosofia concedo il beneficio del dubbio, evidentemente a qualcosa deve servire!

Alessandro Basso

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Al cinema dallo psicoanalista: intervista a Paolo Boccara

Il Festival della Mente di Sarzana, in Liguria, si è concluso solo pochi giorni fa e per La Chiave di Sophia si è trattato di una splendida occasione di arricchimento culturale e umano in cui c’è stato dato modo di conoscere numerosi esponenti del mondo dell’arte e della filosofia. Tra questi abbiamo avuto il piacere di incontrare anche Paolo Boccara, psichiatra romano, membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e dell’Accademia del Cinema Italiano. Il suo ultimo libro, pubblicato insieme a G. Riefolo, si intitola Al cinema dallo psicoanalista e, oltre a unire le due più grandi passioni di Boccara, propone una tesi forte sul rapporto tra cinema e psicoanalisi, mettendone in luce non i contenuti, ma la funzione del cinema come apparato produttore di immagini. Una riflessione acuta e mai banale, che abbiamo voluto approfondire rivolgendo a Boccara le seguenti domande:


Cinema e psicoanalisi sono due mondi da sempre molto legati tra loro, cosa l’ha spinta ad avvicinarsi alla psicanalisi e quando invece ha iniziato ad appassionarsi alla settima arte?

La mia passione per il cinema nasce molto prima rispetto a quella per la psicanalisi. Andavo in sala fin da piccolo e sono letteralmente cresciuto con i grandi film degli Anni 60. Quando ho iniziato il mio lavoro come psicoanalista non pensavo avrei mai potuto unire queste passioni ma, alla fine, due motivi mi hanno spinto a farlo: il primo è la capacità del cinema di saper raccontare il mondo della psicanalisi in modo molto caricaturale, prendendo in giro gli analisti e i loro difetti (cosa che spesso mi faceva arrabbiare). Inoltre, con il passare del tempo, mi sono accorto che il cinema riusciva a cogliere dei punti molto significativi del mio lavoro, soprattutto l’importanza dell’aspetto soggettivo dell’analista e di quanto fosse falsa l’idea di un’analista neutrale, che esprimeva giudizi sulla psiche dei pazienti come una moderna sfinge. Ciò che il cinema ha saputo cogliere è la dimensione umana dello psicoanalista ed è stato questo forse il motivo principale che mi ha spinto ad avvicinarmi alla settima arte, continuando in parallelo a sviluppare la passione per il mio lavoro.

La sua recente pubblicazione Al cinema dallo psicoanalista, scritta a quattro mani con Giuseppe Riefolo, si propone di teorizzare un “nuovo cinema dell’immaginazione”. Quali sono stati i film che hanno influenzato di più il suo immaginario di spettatore?
Il mio immaginario è stato influenzato principalmente dai film western che avevano per protagonista John Wayne. Ho sempre identificato il suo personaggio come il mio eroe d’infanzia. Crescendo sentivo molte persone criticarlo per il suo essere di destra e per le posizioni molto forti e schierate dei suoi film, ma ciò che amavo di John Wayne erano i personaggi che interpretava sul grande schermo. Figure ideali che hanno segnato molti momenti chiave della mia vita. Poi, senza dubbio, molte produzioni hollywoodiane mi hanno permesso di conoscere aspetti sconosciuti e mondi lontani. Ho amato il cinema italiano e i film degli Anni 80 diretti da Nanni Moretti, perché in essi ho sempre ritrovato tantissimi aspetti della mia vita personale e professionale.

Paolo-BoccaraIn questi ultimi mesi si sta discutendo molto sulle possibilità che potrebbe offrire il cinema raccontato attraverso la realtà virtuale. Da dove nasce, secondo lei, il bisogno dello spettatore di vivere un’esperienza di questo tipo, in cui si preferisce il fotorealismo alla realtà che ci circonda tutti i giorni?
Il vero problema, secondo me, è come utilizzare la realtà virtuale. L’uso che ne possiamo fare in questo momento è, in realtà, molto delicato e limitato. Io penso che la realtà virtuale sia molto simile all’idea tradizionale di cinema. L’importante è riuscire a uscire dalla realtà virtuale e utilizzarla per vivere al meglio tutte le emozioni che questa nuova tecnologia riesce a creare in noi. E’ molto importante capire quali emozioni riescono a suscitare in noi le immagini e se esse riescono a farci scoprire qualcosa di nuovo sulla nostra personalità. Una volta dopo averne preso coscienza però, dobbiamo stare attenti a non rimanere intrappolati nella realtà virtuale. Quello, a mio modo di vedere, è il rischio più grande che corre lo spettatore usando questa nuova tecnologia.

In alcune occasioni ha dichiarato che lei ha sempre visto la psichiatria come un modo perfetto per avvicinarsi e relazionarsi con le persone. Che cos’è invece per Paolo Boccara il cinema e qual è la funzione sociale che possiede quest’arte?
In realtà la psichiatria per me è sempre stata un mezzo attraverso cui conoscere parti di me che posso utilizzare per scoprire gli aspetti più fragili della mia personalità. In questo contesto la funzione sociale del cinema diventa molto importante perché grazie alle miriadi di storie che può evocare, ti permette di conoscere qualcosa che noi non pensavamo di poter provare o di sapere già. E’ un mezzo rapido, che si può condividere e il suo potere socializzante aiuta non solo a conoscere sé stessi ma anche a scoprire molti aspetti delle persone con cui ci confrontiamo al termine di una proiezione.

Esiste un regista o un attore che avrebbe voluto psicanalizzare? Se sì, quale?
Allora, non avrei voluto psicanalizzare nessun attore o regista in particolare. Mi sarebbe piaciuto incontrare molti di loro, uno su tutti Billy Wilder. Nato come giornalista (aveva anche cercato di intervistare S. Freud senza successo, n.d.r.) è diventato uno dei più grandi registi del secolo scorso, riuscendo a raccontare aspetti umani che all’epoca nessuno aveva mai avuto il coraggio di raccontare sul grande schermo. Uno spirito unico e acuto. Poi sa, penso che conoscere gli attori di persona sia sempre una piccola delusione perché spesso tendiamo a idealizzarli e a identificarli con i loro personaggi. Psicanalizzare la gente di cinema è sempre molto difficile: se si facessero analizzare sul lettino di uno psicologo, si dice, non sarebbero più dei grandi artisti.

La nostra rivista crede molto all’interdisciplinarità della filosofia. Lei cosa ne pensa di questo argomento?
Penso che la filosofia sia una scienza attraverso cui si può conoscere molto l’uomo e, grazie al contributo di molti filosofi e pensatori, ognuno di noi può scoprire qualcosa di nuovo su sé stesso. E’ un aspetto che lega molto la filosofia a quello che è il mio lavoro di analista. Se la filosofia riuscisse, come in parte sta facendo, a essere avvicinabile da un pubblico sempre più grande e ampio, si riuscirebbe senza dubbio a creare un mondo sempre più interessante. L’interdisciplinarità risiede in tutte le cose della vita, quindi l’idea di declinare la filosofia a tutte le discipline è di sicuro un’idea che non va solo lodata ma anche incoraggiata e sostenuta.

Alvise Wollner

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Festival della Mente: un’Italia che vuole la Cultura

Il 4 settembre 2016 si è concluso il Festival della Mente di Sarzana in Liguria, il primo festival europeo dedicato alla creatività e giunto alla sua XIII edizione.

Il tema comun denominatore di tutte e tre le giornate è stato lo “spazio”: dallo spazio cosmico a quello architettonico, dallo spazio delle relazioni allo spazio pubblico.
Un concetto, quello scelto per questa edizione del Festival, che coinvolge e rappresenta ogni individuo perché ingloba l’intera sfera del nostro vivere.

La chiave di Sophia ha avuto la fortuna di partecipare a questo Festival, entrando in contatto con una realtà quasi surreale.
Per tutta la città di Sarzana si respirava cultura, ogni scorcio nascondeva un luogo in cui potere ascoltare un dibattito, un convegno, partecipare ad un workshop o ad un laboratorio.
L’organizzazione precisissima dell’intero staff e di tutti e 600 i volontari ha contribuito ad una riuscita ottimale dell’evento.
Puntualità, disponibilità e professionalità di tutti hanno permesso uno svolgimento lineare e senza intoppi del Festival.

Festival della mente_La Chiave di Sophia_2016-01Naturalmente, però, a rendere il Festival accattivante, utile e appassionante, sono stati gli ospiti con i loro incontri che si sono susseguiti in queste tre giornate: 91 protagonisti italiani e non tra scienziati, matematici, filosofi, architetti, letterati, poeti e creativi.
Un nome più altisonante dell’altro, da Piergiorgio Odifreddi a Guido Tonelli, da Giacomo Rizzolatti a Paolo Boccara, da Jonathan Safran Foer a Cino Zucchi e così via. Nomi che hanno segnato e continuano a segnare la nostra storia culturale, scientifica e letteraria.

La partecipazione del pubblico è stata importante ed è questo che colpisce ad ogni Festival culturale: la gente vuole la cultura, la ama, l’apprezza, l’ascolta, la segue.
Vedere le sale e le piazze gremite anche alle 23.30 per seguire una conferenza sulle Guerre di Indipendenza (di Alessandro Barbero) è stato emozionante.Festival della mente_La Chiave di Sophia_2016-04

La chiave di Sophia ha partecipato con grandissimo interesse al Festival, avendo l’occasione di conoscere più da vicino alcuni dei protagonisti ed entrando in contatto con discipline che sembrano lontanissime dalla filosofia, potendo, in tal modo, constatare che la filosofia è davvero alla base di ogni professione o scienza.

Questi eventi, fondamentali momenti di aggregazione e di condivisone, sono la testimonianza di un’Italia culla della cultura che ha voglia di coinvolgere le persone con il fascino delle parole, la bellezza della diversità dei punti di vista e di tramandare saperi che sembrerebbero di primo impatto molto di nicchia.

Grazie Festival della Mente per l’opportunità che dai ogni anno a chiunque di immergersi nel meraviglioso mondo della cultura.

Al prossimo anno!

Valeria Genova

[fotografie immagini di proprietà La Chiave di Sophia]

Settembre in Filosofia!

Settembre spesso risulta un mese triste perché ha la sfortuna di rappresentare la fine delle vacanze e il ritorno alla scrivania e ai banchi.
Eppure Settembre è ricco di spunti di riflessione grazie ai numerosissimi Festival culturali che affollano il calendario!

Noi de La chiave di Sophia ve ne segnaliamo quattro davvero imperdibili:

festival della mente_La Chiave di sophia-01-01LIGURIA | FESTIVAL DELLA MENTE, 2-3-4 Settembre 2016 – Sarzana

Il Festival della Mente è il primo festival europeo dedicato alla creatività e ai processi creativi.

Il tema di quest’anno è il concetto di SPAZIO: concetto più che mai attuale: racchiude molteplici significati e può essere declinato in molti modi possibili, dalla necessità di uno spazio sociale alle recenti scoperte nello spazio interstellare, dallo spazio delle relazioni a quello geometrico, dallo spazio richiesto dai movimenti migratori a quello virtuale, geografico o architettonico.

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Festival Letteratura_la Chiave di SophiaLOMBARDIA | FESTIVAL LETTERATURA, 7-11 settembre 2016, Mantova

Dal 1996, Festivaletteratura è uno degli appuntamenti culturali italiani più attesi dell’anno che quest’anno compie 20 anni. Una cinque giorni di incontri con autori, reading, percorsi guidati, spettacoli, concerti con artisti provenienti da tutto il mondo, che si ritrovano a Mantova per vivere in un’indimenticabile atmosfera di festa. Quest’anno grande attesa per Jonathan Safran Foer con il nuovo romanzo, Stefano Benni con Daniel Pennac, Erri De Luca e Alessandro Baricco.

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Pordenone legge_La Chiave di SOphiaFRIULI | PORDENONE LEGGE, 14-18 Settembre 2016, Pordenone

Pordenonelegge è la Festa del Libro con gli autori del Nord Est d’Italia e vanta importanti relazioni con altri festival, collaborazioni con eventi internazionali e gioca un interessante ruolo di palcoscenico per autori famosi e scrittori emergenti. È un Festival che vuole continuare a crescere in qualità e che per farlo ha bisogno dell’affetto di tutti i suoi affezionati protagonisti, primi tra tutti i visitatori. Oltre 150 gli eventi programmati nel corso del week end, con una “due giorni” rutilante nelle giornate di sabato 17 e domenica 18 settembre: fra i tanti best seller in arrivo a pordenonelegge ci sono Cathleen Schine e Peter Hoeg, con i nuovi romanzi “Le cose cambiano” e “L’effetto Susan”.

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FestivalFilosofiaAgonismo_La Chiave di SophiaEMILIA | FESTIVAL DELLA FILOSOFIA, 16-17-18 2016, Modena, Carpi, Sassuolo

Il Festival interamente dedicato alla Filosofia e a tutto il mondo che le ruota accanto.

Il tema di quest’anno è AGONISMO. La sedicesima edizione del festival prevede lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche. Gli appuntamenti saranno quasi 200 e tutti gratuiti. Quest’anno tra i protagonisti si ricordano, tra gli altri, Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Roberto Esposito, Umberto Galimberti, Michela Marzano (lectio “Gruppo Hera”), Salvatore Natoli, Federico Rampini, Massimo Recalcati, Stefano Rodotà, Emanuele Severino, Carlo Sini e molti altri.

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Questi sono solo quattro dei numerosi festival che riempiranno le piazze per tutto Settembre, per ridare un sorriso a chi sta soffrendo per la fine delle vacanze!

Valeria Genova

[immagini tratte da Google Immagini]