Io contro di te: Hegel e la lotta per il riconoscimento

Leggere la Fenomenologia dello spirito è un atto di scoperta e sofferenza continua: ogni volta che credi di averla capita, ecco che riesce a sorprenderti e a rivelarti qualcosa di nuovo a cui non avevi fatto caso. Sembra una di quelle calli veneziane che più le percorri e più ti risultano oscure e misteriose, conducendoti sempre in una direzione diversa. Ed è proprio per questo suo continuo ribollire di idee che oggi vorrei ritornare sulle pagine della Fenomenologia e parlare un po’ del tema del riconoscimento tra auto-coscienze. Però anziché considerare questo tema attraverso la famosa dialettica tra servo e padrone, vorrei concentrarmi sul suo stadio preparatorio. Sto parlando della lotta per la vita e la morte. Questa lotta è estremamente interessante, perché ci mostra con grande chiarezza i rischi di una concezione astratta dell’identità personale; rischi che si manifestano quotidianamente negli scontri tra fidanzati, amici, genitori e figli, etc.

Per cominciare bisogna dire che l’esperienza che Hegel ci sta descrivendo con questa lotta è un’esperienza originaria, perché rappresenta un desiderio di riconoscimento che ciascuno di noi – in quanto uomo – vive costantemente dentro di sé e fuori di sé, nel confronto con gli altri. Nel caso specifico della lotta per la vita e la morte, Hegel ritiene che questo desiderio si caratterizzi per il fatto che ciascun uomo pretende di affermare la sua assoluta libertà e indipendenza, e di essere riconosciuto come tale, senza però voler riconoscere a sua volta l’altro. Per esempio, un figlio adolescente pretende il riconoscimento unilaterale da parte dell’autorità del padre, che per lui significa dire: «Io sono grande e, se voglio uscire con gli amici, posso fare ciò che Io voglio!»
Allo stesso tempo, un padre pretende che il figlio sottostia e riconosca come assoluta la sua autorità, affermando che «Io sono il padre e decido Io cosa è meglio». In questo caso, è chiaro che le due auto-coscienze che sono coinvolte nello scontro si considerano entrambe come assolutamente libere e indipendenti, ovvero come un “puro essere per sé” che non è limitato da nulla poiché non è dipendente da nulla. Considerandosi così assolutamente libere, però, le due auto-coscienze non possono certo riconoscere l’altro come un loro stesso pari, ma soltanto come una cosa che limita momentaneamente la loro libera espressione di sé.

Siccome il riconoscimento è essenziale per l’auto-coscienza in generale, non le è mai sufficiente considerarsi libera in sé, ma sempre vuole essere riconosciuta in quanto libera dall’altra auto-coscienza. È così che nasce l’eventualità del conflitto e la vera e propria lotta per la vita e la morte: padre e figlio, per esempio, non si accontentano di dire «Io sono libero» ma bramano al contempo di ottenere la prova della propria libertà. Questa prova, ovviamente, passa attraverso l’altro, poiché mancando l’altra coscienza mancherebbe anche il mezzo del riconoscimento. Ecco che così si mostra il fraintendimento di fondo di questa lotta, in cui i due contendenti non comprendono che riconoscersi vuol dire includere e non escludere l’altro.

Ora, per Hegel, l’esito necessario di questa lotta tra auto-coscienze che si considerano astrattamente libere e indipendenti è che una delle due decida di abbandonare la scontro, al prezzo di riconoscere senza essere riconosciuta dall’altro contendente. Così si raggiunge una forma di riconoscimento, seppur assolutamente asimmetrica: un sé riconosce l’altro e così abbandona la propria assoluta indipendenza e libertà, l’altro sé rimane legato a questa indipendenza e libertà ottenendo il riconoscimento desiderato. Nel caso di padre e figlio, è solitamente il figlio che rinuncia alla sua libertà di uscire e divertirsi con gli amici e dà il riconoscimento dovuto al padre, che al contrario rimane fermo sulla sua posizione (ovviamente, è anche possibile che sia il padre a rinunciare alla sua autorità e lasciare fare al figlio tutto ciò che vuole).

In conclusione, la lotta per la vita e per la morte è estremamente interessante, poiché ci rivela qualcosa di essenziale sul modo in cui ci dobbiamo relazionarci agli altri; una relazione che passa attraverso l’evitare di affermare una concezione astratta e completamente auto-assorta della nostra identità. Infatti, ogni volta che crediamo di essere assolutamente liberi e indipendenti e di poter ottenere il riconoscimento dell’altro attraverso l’esclusione, ecco che siamo condotti alla più primitiva e ottusa violenza (sia verbale sia fisica); affermiamo, inoltre, con convinzione che la relazione con l’altro va rifiutata perché “Io” sono naturalmente auto-sufficiente e ci chiudiamo, infine, in un circolo vizioso di isolamento.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Marc Sendra Martorell via Unsplash]

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Un robot si aggira per l’Europa: la nuova dialettica servo-padrone

Delle migliaia di concetti introdotti da Hegel nella sua Fenomenologia dello Spirito, la dialettica servo-padrone (Herrschaft und Knechtschaft) è tra quelle che ha avuto maggior successo tra i pensatori successivi, tanto che sono in molti a collegarla a uno dei filosofi che l’ha riutilizzato con maggiore incisività, Karl Marx. Spogliando il rapporto tra signore e schiavo di ogni aspetto morale o trascendentale, sorvolando sul ruolo della paura della morte e della coscienza religiosa nel modello originale, Marx rielabora il pensiero hegeliano in modo che definisca le origini e le dinamiche della lotta di classe, presentandola come un rapporto dialettico non solo logico ma necessario.

Riassumendo il paradigma di Marx, si hanno un Padrone e un Servo: il Padrone fornisce sostentamento al Servo, che però rinuncia alla propria libertà per compiere determinati lavori. Il ribaltamento (logico-dialettico, ma anche storico) dei ruoli avviene al momento in cui il Servo realizza che il lavoro da lui compiuto è assolutamente necessario al Padrone, che però non è in grado di compierlo in prima persona: se prima il Servo pensava di dipendere dal Padrone per la propria vita, si accorge che è invece quest’ultimo a dipendere da lui. La consapevolezza porta alla ribellione, il Servo usa le proprie competenze per spodestare il Padrone e prendere il suo posto, così che i due invertano i ruoli. Al momento in cui l’ex-Servo ora Padrone dimentica come compiere i lavori che affida all’ex-Padrone ora Servo, il processo ricomincia.

Marx aveva pensato questa alternanza dialettica come potenzialmente infinita, proprio in quanto descrivente rapporti tra classi sociali diverse nel corso delle epoche ma sostanzialmente analoghe; il primo punto fermo era comprensibilmente una relazione-scontro tra esseri umani in carne ed ossa. I progressi della tecnica e dell’informatica, invece, paiono aver aperto un terreno anche filosoficamente inesplorato nell’ambito della dialettica servo-padrone, una prospettiva introdotta dall’irrompere sulla scena della possibilità reale dello sviluppo di un’intelligenza artificiale quasi umana.

Non è certo un caso che la cultura popolare, dalla letteratura fantascientifica di Isaac Asimov alla saga cinematografica di Terminator, dagli incubi televisivi di Black Mirror agli orrori su tela di H.R. Giger, abbiano visto nell’evoluzione del rapporto tra umani creatori e macchine intelligenti ma “schiave” le premesse di un conflitto “di classe” con ingredienti al contempo antichi e inediti. Quel che accomuna i replicanti di Blade Runner a Skynet, o l’HAL 9000 di 2001: Odissea nello spazio all’Ultron dei fumetti Marvel, o ancora i pistoleri-robot di Westworld al V’ger di Stark Trek, è proprio la prosecuzione dello scontro dialettico, che vede la bassa manovalanza cibernetica ribellarsi a un’intelligenza umana ormai percepita come inferiore e ingiustamente predominante. Appare quindi emblematico che la parola robot derivi proprio dal ceco robota, “lavoro pesante”.

Con buona pace di Asimov e delle sue tre leggi della robotica, la prospettiva di una prossima ribellione della macchina ha preso piede come ansia collettiva, che si riflette nei dilemmi etici legati ai robot usati in chirurgia, ai droni da guerra, alle auto a guida autonoma, ai software di selezione del personale. Le reali prospettive, non solo di una guerra tra uomini e macchine in stile Matrix ma semplicemente della creazione di un sistema software che possieda coscienza oltre che intelligenza, sono però fattualmente scarsissime. L’elemento più spaventoso, e più ignorato, è invece la fase preliminare al conflitto di classe all’interno del processo dialettico: la delega del lavoro.

Nella visione di Hegel e Marx, il Padrone diventa dipendente dal Servo perché non è più in grado di fare ciò che a lui delega, rinunciando a tutta la propria inventiva e alle proprie capacità per vivere di rendita sul lavoro altrui. Prima ancora che pensare a cyborg assassini o software senzienti, sarebbe forse il caso di preoccuparsi del fatto che, dati alla mano, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale non sia più capace di scrivere correttamente nella propria lingua senza l’ausilio di un correttore automatico, non sappia fare anche semplici operazioni matematiche senza ricorrere a una calcolatrice, non riesca a orientarsi neanche all’interno del proprio quartiere senza un navigatore satellitare.

È più che probabile che l’intelligenza artificiale non si traduca mai in una coscienza artificiale, che le macchine non diventino mai senzienti, che le capacità di apprendimento e di adattabilità non si evolvano in autodeterminazione, che i miliardi di sinapsi sintetiche non lavorino mai tutte assieme per elaborare il pensiero “Io”. Anche in assenza di un Robot-Schiavo vero e proprio, però, l’Uomo-Padrone ha già cominciato da tempo a delegare a terzi una parte sempre più consistente delle proprie capacità, e l’assenza di una controparte reale e attiva che possa avviare lo scontro storico-dialettico non è affatto positiva: il conflitto, quantomeno, avrebbe il merito di riaffidare ora all’una, ora all’altra parte quelle capacità che, nella versione “in solitaria” della dialettica servo-padrone, rischiano di andare semplicemente perdute.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Franck V. via Unsplash]

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Hegel: istruzioni per la lettura

“La filosofia: ma che senso ha la filosofia? Quale servigio rende all’umanità? Sull’arte non ci sono dubbi. Ma dalla filosofia, quella puramente teoretica – la dialettica hegeliana o il criticismo kantiano – che insegnamento dovrei trarne nell’atto di studiarli?”.
Questa “quasi-citazione” proviene da un vecchio post di Facebook di un mio amico e seppur è stata pubblicata molto tempo addietro mi è sempre rimasta impressa con una certa insistenza. Ora, la serie di domande che vengono poste rappresentano un classico della filosofia ed esse possono essere rivolte a qualsiasi sua opera “puramente teoretica”. Oggi, però, vorrei sfruttarle in un altro modo, usandole per introdurvi un’opera in particolare, una delle più difficili ma al tempo stesso delle più affascinanti. Sto parlando della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. I quesiti precedenti possono, infatti, fungere da spunto per spiegare brevemente in che cosa consista il cuore di questo lavoro filosofico – anche se è chiaro che è impossibile esaurirne lo spessore intellettuale in così poche battute. Vi parlerò, allora, della Fenomenologia attraverso queste domande, cercando di mostrarne l’attualità e al contempo l’utilità per l’uomo che la legge con spirito attento.

A cosa serve e che insegnamento può darci un’opera così intrinsecamente teoretica? La domanda è alquanto paradossale e forse Hegel si arrabbierebbe pure se gliela facessimo, dal momento che il suo vero e unico soggetto è la coscienza propria di ognuno, tanto come singoli individui quanto come parte di un popolo. Per l’autore, a dover intraprendere il faticoso cammino in essa descritto, è quindi sia il singolo uomo, ovvero ognuno di noi, sia l’umanità in generale e quindi l’insieme delle coscienze umane che costituisce questo noi (a cui Hegel si riferisce come “Spirito del mondo”).

Nella Fenomenologia si svolge la storia delle diverse manifestazioni della coscienza, le cui tappe fondamentali sono ad esempio la certezza sensibile, la percezione, l’autocoscienza e la ragione. Attraverso tutti questi momenti viene messo in luce il processo tramite cui questa coscienza prede concretamente consapevolezza di sé, perché ogni tappa è un passo più in profondità verso la conoscenza di se stessi. Quest’opera, quindi, articola la totalità dell’esperienza della coscienza in modo tale che essa possa elevarsi allo spirito, ovvero alla coscienza consapevole. Secondo una famosa definizione, la Fenomenologia è la storia romanzata della coscienza; essa è un romanzo di formazione, in cui l’individuo viene accompagnato al suo vero essere. Ma perché l’uomo raggiunga questa consapevolezza, deve compiere un lungo percorso, una scala da salire gradino dopo gradino senza farsi prendere dalla fretta di arrivare in fondo.

Se ora possono essere più chiari il soggetto e l’intento di quest’opera, resta però da capire come l’uomo possa giungere alla sua consapevolezza interiore. Si tratta, cioè, di comprendere come avviene concretamente l’esperienza della coscienza.

«Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiava della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione»1.

In generale, ciò che caratterizza il divenire nella Fenomenologia dello spirito è il fatto che il conoscersi della coscienza sia un divenire altro da sé. La coscienza, infatti, è movimento e coincide con un atto di riflessione, attraverso cui essa esce da sé, facendosi oggetto, per poi ritornare in se stessa. Ciò vuol dire che per poter ottenere la piena presa di coscienza su di sé, l’uomo deve alienarsi nel mondo esterno. Un esempio di questo movimento ci è offerto dal lavoro. Il singolo uomo produce un oggetto esterno, in cui è rappresentata la sua interiorità e in cui si riconosce come produttore di quello stesso oggetto. L’uomo si è quindi esteriorizzato nel suo oggetto; ma così facendo riesce al tempo stesso a conoscersi più in profondità, a scavare più a fondo dentro di sé. Una formula efficace che può riassume il movimento appena descritto è la seguente: giungere a sé diventando altro da sé, ovvero farsi oggetto di se stesso esteriorizzandosi, senza però venir meno, senza però perdersi.

È chiaro allora che quello in atto nella Fenomenologia è un processo negativo. Invero, «in questo itinerario tale coscienza perde la sua verità. Può quindi essere considerato come la via del dubbio, o più propriamente, la via della disperazione»2. La presa di coscienza su noi stessi non è in alcun modo un cammino felice e spensierato, ma, al contrario, è caratterizzato da scissioni continue, da dubbi ostinati ed è carico di disperazione, perché la nostra coscienza deve continuamente mettere sotto esame la verità che crede di possedere.

È ormai ora di chiudere il cerchio e rispondere in modo secco alle domande sopra poste: quale servigio ci può quindi rendere leggere la Fenomenologia? Non c’è dubbio che essa possa far venir il mal di mare per la sua complessità e tortuosità, ma nella sua ossatura è un brillante romanzo, scritto da un uomo per tutti coloro abbastanza coraggiosi da riuscire a guardare in faccia gli abissi del proprio io, senza indietreggiare dalla paura. La Fenomenologia insegna e parla a quegli uomini desiderosi di procedere più in profondità alla ricerca di se stessi e del proprio ruolo nel mondo.

 

Gaia Ferrari

 

NOTE
1. G.W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, ed. italiana di Enrico De Negri, 1807, p. 26.

2. Ivi, pp. 69-70.

[Photo credit Simon Migaj]

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Sum philosophein, vivere filosoficamente

Chi è il filosofo? Che immagine si viene a formare nella vostra mente quando pensate ai filosofi?

La maggior parte delle volte il pensiero è guidato da stereotipi verso figure ed etichette prestabilite. Il filosofo è quell’individuo che pensa, che ragiona, si danna cerebralmente su questioni esistenziali, non necessarie ma per il puro piacere della profondità d’analisi. Un pensatore da poltrona che decide, per mestiere, di affrontare problemi insoliti di una metafisica lontana dal quotidiano.

Con la stessa filosofia ivi condannata vorrei proporre la possibilità di una visione differente, o meglio, per via negativa-confutativa, sarebbe più utile e piacevole dimostrare la pochezza dell’etichettare e del giudicare da parte dei timorosi della conoscenza.

Tale via dovrebbe chiedersi, innanzitutto che cosa sia la filosofia, o se rimaniamo coerenti all’ideale confutativo, che cosa non sia la filosofia. Rinunciare all’affermazione violenta, all’imposizione di un’idea a discapito di un’altra, bensì descrivere, mettere alla prova ed esaurire i propri presupposti. Di una cosa non tanto dire il suo essere bensì smascherare il suo non essere, dire ciò che non è per capire ciò che è.

Hegel nella Fenomenologia dello spirito ci insegna che tale via, la via della negazione e dello scetticismo, non ci porta ad una negazione assoluta − come in passato nel caso della tradizione scettica − ma ad una scoperta di ulteriori figure dietro a quelle appena negate. La negazione risulta essere determinata e ci permette di proseguire la nostra ricerca. Se, dunque, pensiamo allo stereotipo del filosofo in poltrona, sarebbe utile pensare all’atteggiamento generalizzante che pone una tesi come universale. Detta in parole povere si rischia di fare di tutta l’erba un fascio. La filosofia dovrebbe insegnare proprio a non compiere ciò e, forse, il suo problema risiede nell’incapacità di trasmissione, di insegnamento. Si insegna a scuola ma non riesce ad insegnare davvero per quel che dovrebbe indicare la parola insegnare, ovverosia segnare dentro.

Le prime soluzioni vengono fornite dalla filosofia stessa che si difende ma allo stesso tempo si riscopre incapace, si rende conto d’esser isolata dal dibattito pubblico e dal linguaggio, se vogliamo, “volgare” del popolo. Il risultato è l’essere esclusiva, proporre un élite difficilmente accessibile se non per mezzo della conoscenza e dell’acquisizione degli strumenti, del suo lessico. Gli indizi portano ad una responsabilità maggiore da parte dei filosofi, di chi pensa e intende fare filosofia. Il rapporto, difatti, diviene squisitamente dialettico e reciproco tra quel che è il soggetto praticante e la pratica stessa, resa per troppo tempo incontrollabile, scissa e posta all’esterno come un vero e proprio ente. Le idee e poi le ideologie, spesso e volentieri, seguono questo andamento esternandosi ed estraniandosi dai loro fautori, come il capitalismo si discosta dai capitalisti e dai soggetti agenti sull’economia.

Potreste pensare, forse lo penso anch’io, che l’argomentazione sia uscita dai binari iniziali, non rispondendo più alla domanda su che cosa sia, o non sia, la filosofia. Ebbene già arrivati a questo punto ci possiamo rendere conto di aver fatto della filosofia, di essere andati a fondo nell’analisi e aver evidenziato le molteplici criticità che possono essere offerte da un discorso apparentemente unitario e univoco. Se non abbiamo detto che cosa sia o non sia la filosofia abbiamo, invece, praticato la filosofia, abbiamo potuto osservare l’azione svolta da essa.

Il discorso, ovviamente, non è da chiudersi con un’argomentazione così sintetica e impropria ma può essere il punto di partenza di molti, la dose di coraggio in più per quei timorosi dell’ignoto, del non-conosciuto che, spesso, preferiscono comodamente negare invece di indagare. Credo sia questo, almeno in prima istanza, l’insegnamento che può darci una “disciplina” tale che, forse, disciplina non vuol essere.

La filosofia diviene atteggiamento, modus posto alla forma interrogativa.

Penso che nelle varie sfaccettature, nei vari stereotipi affibbiati alla filosofia essa possa trovare la forza per rispondere, senza la violenza del debole ma con la leggerezza di chi è saldo in se stesso per proporsi “come stile di vita” scrive Luigi Vero Tarca, come atteggiamento, come sfondo della vita o come vita stessa. Aristotele, non a caso, nell’Etica Nicomachea, libri VIII e IX scrive che uno dei doni più preziosi quale l’amicizia consiste nel vivere assieme, non convivere, bensì Sum philosophein, vivere assieme o filosofare assieme.

 

Alvise Gasparini

[Photo credits: Janko Ferlic on Unsplash]

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Immigrazione e disuguaglianze secondo la dialettica servo-padrone

Otto miliardari nel mondo hanno la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone. Il rapporto Oxfam ci informa di una dato impietoso, impossibile da concepire per la portata dello squilibrio. La bilancia pende drasticamente da un lato, riempiendo le tasche di un’esigua minoranza di miliardari della moneta attuale, il potere. Le disuguaglianze sociali sono la naturale conseguenza di tale disparità economica, riconsegnando dunque determinati ruoli sociali alla varie componenti. Solo attraverso ciò si delineano le figure in gioco, si determinano le persone in base al reddito, alla propria posizione da soggettività in mezzo ad altre soggettività  immerse in una logica competitiva.

La corsa al guadagno diventa ragione di vita e ragione dei popoli imponendosi come legge globale, interiorizzando la prospettiva capitalistica nell’ideale umano. L’ideale che diventa ossessione, il guadagno utile e necessario diventa desiderio e bramosia di qualcosa di più, sempre di più, guadagnare per guadagnare. Poste tali dinamiche economiche vanno considerate anche le differenti condizioni socio-culturali nel panorama mondiale. Difatti il capitale si centralizza, si accumula nei grandi centri, risucchiato dalle zone ricche di risorse da derubare e saccheggiare fin dai tempi delle prime colonie. Decentramento e creazione di disparità diventano una realtà sempre più evidente ed è la base della disparità data dalle otto persone in rapporto ai 3,6 miliardi citati ad inizio articolo.

La differenza di condizione sociale stabilisce ruoli, scrive copioni per i vari attori in scena. Servo e Padrone e non sono più delle fantasie letterarie o figure hegeliane de La fenomenologia dello spirito. Difatti la dialettica si instaura effettivamente, la condizione di sfruttamento è da identificarsi con chi è stato derubato, con chi si è ritrovato inferiore economicamente e socialmente a quelle otto persone che detengono il potere, ovvero la componente rappresentata dal Padrone. Le due figure sono assolutamente attuali anche in virtù delle condizioni lavorative che prevedono un lavoratore assoggettato ad un datore di lavoro. Proseguendo per questa linea, infatti, il rapporto dialettico tra le due figure che sono in contatto per uno scambio di servizi e benefici, si evidenzia la dipendenza che emerge da entrambe le fazioni. La dipendenza data da un servo che è pronto a compiere quel determinato lavoro poiché potrebbe trattarsi della sua unica possibilità rimasta. La dipendenza data da un padrone che, magari, non sa svolgere un lavoro e la possibilità economica lo rende assoggettato e sostenuto dal frutto del lavoro del suo sottoposto.

Disperazione e pigrizia agiata si equilibrano, trovano realtà e non solo teoresi nel fenomeno dell’immigrazione e della condizione di disoccupazione che attanaglia i vari paesi europei. La crisi economica, in molti casi, porta ad un abbassamento delle aspettative, ad un’accettazione di condizioni di sfruttamento e di inferiorizzazione e il farsi servo di migranti in fuga da un paese in guerra o privo di condizioni favorevoli e di giovani in seria difficoltà nell’approccio al mondo del lavoro. Dunque un semplice squilibrio dato da un’ambizione umana sempre crescente riesuma personaggi che pensavamo esistessero solo all’interno delle favole e dei racconti capaci di farci volare con la fantasia quali il “buono” ed il “cattivo”.

La verità ultima è che siamo ancora immersi in logiche infantili biunivoche basate sul conflitto tra il bene ed il male e forse è quello che la gente, il popolo brama di più, ne è quasi assuefatto. Il tema dell’immigrazione come tanti altri trattati nei quotidiani e nella vita pubblica e sociale riesce a soddisfare quel bisogno di conflitto che l’uomo infelice, l’uomo insoddisfatto e magari proveniente da un ambiente subculturale richiede per potersi sentire padrone della scena, della discussione e della ormai svalorizzata “cosa pubblica”.

Il capro espiatorio è servito attraverso una comodità di accusa e scelta che si copre gli occhi davanti a discorsi più complicati preferendo la soluzione semplice, la scorciatoia mentale destinata a non risolvere le questioni, bensì accentuarle e incriminarle sempre più per scaricare odio ed insoddisfazione. Tale condizione persevera e viene tutelata dalle molte piccole coscienze che credono di essere in una condizione privilegiata, da tutti quelli che credono di essere i padroni e quindi di dover recitare tale ruolo non curandosi empaticamente della situazione di chi invece risulta essere meno agiato e fortunato, come si suol dire “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Eppure in un panorama del genere chiederei a chi è, o almeno si sente, padrone se egli o ella si senta sicuro/a di quella condizione, se si senta tutelato dal momento che senza un adeguato servo si ritroverebbe incapace di auto-sussistere. Chiederei se il servo rimarrà sempre servo perché, può darsi, che esso possa essere già altro da sé e se ragioniamo nella cara logica biunivoca…

Alvise Gasparini

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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