La violenza sulle donne è una violazione

La storia non è fatta solo di date da tenere a mente senza che se ne ricordi il motivo, per questo il 25 novembre ha un valore emblematico. Il 25 novembre del 1960 in Repubblica Domenicana le tre sorelle Mirabal (Patria, Minerva e Maria Teresa) vennero uccise per aver combattuto il regime autoritario di Rafael Trujillo. Furono assassinate da sicari che fermarono la loro automobile, le uccisero e gettarono il veicolo con all’interno i corpi in un dirupo per dissimulare un incidente.

Nel 1993 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con risoluzione n. 48/104, adotta la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne riconoscendo il bisogno di una applicazione universale dei diritti e dei principi di uguaglianza, sicurezza, libertà, integrità e dignità. Sei anni dopo, nel 1999, con la risoluzione n. 54/1341, istituisce la Giornata internazionale per l’eliminazione dalla violenza contro le donne che ricorre ogni 25 novembre. La violenza sulle donne diventa formalmente una violazione dei diritti umani solo nella “Convention on Preventing and Combating Violence against Women and Domestic Violence”, nota come Convenzione di Istanbul, promossa nel 2011 dal Consiglio d’Europa. Ma quanta violenza subiscono le donne nel mondo? Secondo ActionAid si stima che in tutto il mondo il 35% delle donne abbia subito violenza almeno una volta nella vita e nel 38% dei casi a uccidere una donna è stato il partner. In Italia, nel 2022, il 91% di omicidi femminili sono stati commessi da familiari o da ex partner2 e nel 2020, in periodo di piena pandemia da Covid-19, le chiamate al numero antiviolenza e stalking 1522 sono aumentate del 79,5% rispetto al 20193. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia a causa della “risposta inefficace” alle denunce di violenza.

Nel mondo la violenza ha tante facce: pensiamo alle mutilazioni genitali femminili, ai matrimoni precoci e combinati (ad esempio il caso di Saman Abbas), alla violenza psicologica ed economica che una donna su tre subisce, alle denunce di stalking che nell’84% dei casi non portano a una denuncia formale alle Autorità e al 26% degli italiani che individua nell’abbigliamento una provocazione sessuale. Secondo l’Istat4, le donne non denunciano perché hanno imparato a gestire la situazione da sole (39,6% per le violenze da partner e 39,5% da non partner) o perché il fatto veniva descritto come non grave (rispettivamente 31,6% e 42,4%), ma anche per paura (10,1% e 5,0%), per il timore di non essere credute, per la vergogna e l’imbarazzo (7,1% e 7,0%), per sfiducia nelle forze dell’ordine (5,9 e 8,0%) e, nel caso della violenza nella coppia, perché amavano il partner e non volevano che venisse arrestato (13,8%).

La violenza sulle donne è figlia di una cultura patriarcale (basti pensare al delitto d’onore che è stato abolito in Italia soltanto nel 1981, che svalutava la posizione della donna come individuo sociale togliendole opportunità e diritti che restavano esclusivi dell’uomo). Ma perché la violenza sulle donne si manifesta con tanta brutalità? In Amori molesti (Laterza, 2019) Silvia Bonino descrive come la violenza sessuale e affettiva sia un fattore primitivo-evolutivo, che nei maschi si connetterebbe alla sopraffazione e alla dominanza, tipica del mondo animale, e nelle femmine alla paura e alla sottomissione. Ma l’evoluzione dell’essere umano è anche culturale e per questo abbiamo sviluppato anche la capacità di favorire relazioni sociali positive. Per cambiare il modo di pensare e di agire degli uomini occorre lavorare socialmente all’indebolimento del pensiero dominante maschile, rompere la logica di servilismo, prepotenza, supremazia e di sudditanza, perché questa è una questione di diritti.

La morte violenta di ogni donna rappresenta una sconfitta per l’umanità come testimoniano, ad esempio, quella di Armita Geravand, morta a 16 anni dopo 28 giorni di coma a causa di violenze della polizia di Teheran per non aver indossato il velo, e quella di Giulia Cecchettin, la 105esima donna uccisa in Italia dall’inizio dell’anno. Questo può ancora essere il destino di una donna che rifiuta la dipendenza, in nome della libertà. Ogni violenza commessa sulle donne deve chiamare in appello la nostra morale. Ogni vittima deve diventare forza per costruire un coraggio sociale di cambiamento. È urgente che diventiamo la voce di tutte: se non ora, quando?5.

«Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle e quello che devono fare è difendersi con le unghie e coi denti dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto». Discorso sulle donne di Natalia Ginzburg pubblicato nella rivista “Mercurio” nel 1948.

Marica Notte
NOTE
1. 54/134. International Day for the Elimination of Violence against Women: https://documents-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/N00/271/21/PDF/N0027121.pdf?OpenElement: “qualsiasi atto di violenza di genere che si traduca o possa provocare danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche alle donne, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica che in quella privata” .

2. Dati disponibili su Openpolis: https://www.openpolis.it/resta-alto-il-numero-di-femminicidi-in-italia-e-in-europa/ .
3. Le richieste di aiuto durante la pandemia: https://www.istat.it/it/archivio/257704 .
4. Violenza di genere al tempo del covid-19. Le chiamate al numero di pubblica utilità 1522: https://www.istat.it/it/archivio/242841 .
5. “Se non ora quando”: movimento di femministe italiane nato nel 2009.

[Photo credit Mika Baumeister via Unsplash]

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I diritti al centro della vita. Intervista a Giovanna Donini

Giovanna Donini è una scrittrice e autrice televisiva teatrale, da anni impegnata nel dare voce ai diritti delle donne e delle persone LGBTQIA+. Ha co-fondato l’associazione Il filo di Simo, in onore di suo nipote Simone, con lo scopo di offrire supporto a chi sta vivendo un momento di difficoltà emotiva e alla sua famiglia. Tra pochi giorni sarà a Treviso in occasione del Q.Pido – Treviso Equality Festival, di cui sarà protagonista mercoledì 17 maggio alle 21 alla Loggia dei Cavalieri. Ne abbiamo approfittato per qualche domanda sul suo lavoro e sui suoi valori, tra cui appunto la difesa dei diritti e delle fragilità di ciascuno di noi.

 

Giorgia Favero – Giovanna, tra pochi giorni sei attesa nella tua Treviso per il Q.Pido – Treviso Equality Festival, un’iniziativa del Coordinamento LGBTE per sensibilizzare la cittadinanza sulle istanze della comunità LGBTQIA+. Sei stata ospite anche in altre edizioni: che cosa significa per te partecipare a queste iniziative e sostenere queste istanze?

Giovanna Donini – Per me partecipare a queste iniziative è necessario e molto importante. Sono lesbica e ho sempre cercato, a modo mio, di non sottrarmi mai all’attivismo, anzi ho sempre cercato di dare, attraverso la scrittura, il mio contributo perché credo che sia, soprattutto adesso, ma lo è sempre stato, fondamentale lottare per ottenere e difendere i diritti.

 

GF – Al festival porti il tuo spettacolo Ti lascio per riprendermi, tratto dall’omonimo libro pubblicato per Solferino con Andrea Midena. In effetti la parte della separazione è quella meno indagata di una relazione, nonostante ci sia moltissimo da dire, molti consigli da poter dare, e molti motivi per provare a riderci su. In una società che ancora innalza la relazione e la coppia a status sociale preferibile, cosa fare per contrastare lo stigma dell’esser single?

GD – Noi nel libro diciamo chiaramente che nella nostra società la felicità è concepita solo per due, anche quando vai al ristorante da sola ti dicono: “Sola?” come se dicessero “Sfigata!?”. Io credo che non sia così. Però passa sempre questo messaggio che se non hai qualcuno sei infelice, sei incompleto. Io invece penso che prima di tutto e tutti devi amare te e poi sperare di avere fortuna e incontrare la persona che ti piace a cui piaci. Senza accontentarti mai. 

 

GF – In qualità di autrice per teatro e televisione, anche per artisti come Teresa Mannino che portano a gran voce sul palco una visione femminista, quale ritieni siano i punti nevralgici del dibattito sulla parità di genere oggi e quali a tuo parere dovrebbero emergere maggiormente?

GD – Conviviamo negli stereotipi, nei limiti culturali di cui siamo anche portatori sani, conviviamo nel patriarcato che è un virus pericoloso che però si può e si deve combattere dialogando in libertà. E a proposito di dialogo e quindi di linguaggio, per me, ad esempio, il dibattito sul linguaggio più inclusivo e ampio è fondamentale. È necessario dare un nome a ogni cosa perché abbiamo bisogno di nominare la realtà per poterla raccontare. 

 

GF – Cultura e intrattenimento: due cose che nel pensiero comune (e anche nelle riflessioni dei legislatori di turno) sembrano non convivere, anche perché la cultura sembra qualcosa di elitario mentre l’intrattenimento è pensato per un gruppo più ampio e indistinto di persone. Qual è secondo te il giusto punto d’incontro?

GD – Io amo definire tutto quello che faccio, penso e scrivo molto “pop”, il che non significa solo popolare ma indica qualcosa che ha a che fare con la cultura, una cultura che però raggiunga tutt* o almeno tantissime persone. Per me è – o meglio dovrebbe sempre essere – PoP il punto di incontro tra cultura e intrattenimento. 

 

GF – Pochi mesi fa la città di Treviso, la Commissione comunale Pari Opportunità e la Consulta Femminile ti ha insignita del riconoscimento “Riflettore Donna”, sottolineando l’importante percorso professionale ma anche “per essere un’attiva testimone del ruolo determinante delle donne nella crescita della nostra Comunità”. Pensi che sia importante per un artista lavorare sul proprio ruolo sociale, cioè all’interno di una collettività?

GD – È stato per me un onore ricevere questo premio così importante. Penso che chiunque faccia un mestiere come il mio non possa mai dimenticare che arrivando a molte persone può lanciare messaggi e “muovere” pensieri che possono fare bene alla collettività. 

 

Giorgia Favero

 

[Immagine di copertina fornita da Giovanna Donini]

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L’amica geniale tra soggettività e femminismo

A otto anni dalla pubblicazione dell’ultimo romanzo della tetralogia de L’amica geniale, la sua autrice Elena Ferrante resta un totale mistero. Nella lettura dei suoi romanzi ci consoliamo nell’immaginarla coincidere con la sua protagonista e voce narrante, Elena Greco, e scivoliamo nelle vicende e soprattutto nelle soggettività straordinariamente dipinte dei due lead character: Lenù (Elena Greco appunto), e Lila (al secolo Raffaella Cerullo), personaggio narrato e spesso lontano ma sempre vivo nelle pagine dei quattro volumi. Due storie personali che si aprono a mai banali riflessioni universali.

A partire proprio dal rapporto complesso tra le due amiche geniali, nato in un rione degradato e violento di Napoli negli anni Cinquanta. Il racconto nella tetralogia è estremamente introspettivo e non si riduce mai a forme edulcorate o stereotipate nel descrivere atti e pensieri che disegnano il percorso di vita femminile: né nei confronti del sesso, né in temi come matrimonio e maternità, e nemmeno nella complessa relazione tra amiche, una sorellanza e un affetto smisurati ma costellati anche da invidie, gelosie e competizione. Fin da bambina Lenù vive da subalterna di Lila e decide di collocarsi sulla sua scia, riconoscendole a pelle quella geniale libertà e indipendenza rispetto al violento ordine costituito che le circonda e che è loro imposto. Un caos nel quale però Lenù, diversamente da Lila, non sa nuotare, e dal quale infatti si sottrae grazie ai meriti scolastici che la portano lontano dal rione e della violenza, lontano dall’ignoranza e dalla parlata dialettale, lontano da quel rapporto inevitabilmente subalterno della donna all’uomo, ma anche da quella soggettività nuova e complessa incarnata da Lila. Salvo ritrovarsi adulta a Firenze, sposata con un docente universitario di ottima famiglia, due figlie al seguito, un libro pubblicato da un editore milanese, ma anche una vita domestica dedicata esclusivamente alla casa e alle bambine e una vita intellettuale tarpata dalle incombenze e segnata fin dalle origini dal desiderio di compiacimento maschile.

Sono i movimenti femministi del ’68 – ben descritti nel terzo volume de L’amica geniale – a risvegliare in Lenù questa consapevolezza, facendo germogliare in lei l’idea dei «maschi che fabbricano le femmine». Il dito è puntato su un’educazione millenaria tutta maschile che plasma e ingabbia nel suo rigore la soggettività femminile: temi che fanno eco (dichiarato e velato) ad autrici come Irigaray, Cavarero, Lanza, Muraro. Un’accusa violenta e a 360°: «Sputare su Hegel. Sputare sulla cultura degli uomini, sputare su Marx, Lenin e Engels. E sul materialismo storico. E su Freud. E sulla psicoanalisi e l’invidia del pene. E sul matrimonio, sulla famiglia […] e sulla trappola dell’uguaglianza. E su tutte le manifestazioni della cultura patriarcale. E su tutte le sue forme organizzative. Opporsi alla dispersione delle intelligenze femminili. Deculturalizzarsi. Disacculturarsi a partire dalla maternità, non dare figli a nessuno. Sbarazzarsi della dialettica servo-padrone. Strapparsi dal cervello l’inferiorità, restituirsi a sé stesse. Non avere antitesi. Muoversi su un altro piano in nome della propria differenza»1. Lenù sente finalmente di doversi liberare da quei «patti segreti» ai quali era scesa fin da ragazzina per plasmarsi all’ordine maschile del mondo, e di doversi riformare: dover «disimparare» per «capire meglio cos’ero, indagare sulla mia natura di femmina»2. Filosoficamente Ferrante rimanda dunque al pensiero della differenza sviluppato proprio a partire da quegli anni.

Questa rinuncia all’ordine maschile fa tornare Lenù a Lila, che pur non essendosi mai allontanata di un passo dal rione – manifestazione privilegiata di quella cultura da cui fuggire – sembra totalmente svincolata da ogni visione di mondo globale, paternalistica e progressista. Lila è il personaggio imprevedibile per eccellenza proprio perché capace di sfuggire a ogni ordine precostruito e anche noi lettori, come Lenù, l’amiamo e la odiamo per questo. Anche nel 2022, quando ogni rivendicazione di individualità femminile, ogni resistenza a plasmare la quotidianità in chiave patriarcale dovrebbe essere vecchia storia… ma ancora non lo è. Lo chiarisce la stessa Ferrante in un articolo pubblicato sul Guardian: «Ancora oggi, dopo un secolo di femminismo, non possiamo ancora pienamente essere noi stesse. I nostri difetti, crimini, virtù, piaceri, il nostro stesso linguaggio sono ubbidientemente iscritti nelle gerarchie maschili, puniti o apprezzati secondo un codice che non ci appartiene davvero e che quindi ci logora»3.

Questo lo sfondo della tetralogia de L’amica geniale, nella quale accompagniamo la crescita individuale di Lenù e anche noi come lei, attraverso Lila, ci mettiamo in discussione: chi siamo? Chi vogliamo essere? Come vogliamo comportarci? Quale visione di mondo ci è davvero nostra? Ma non solo: abbracciamo anche di noi i nostri lati più oscuri e facciamo pace con noi stesse, con le nostre inclinazioni e i nostri desideri, i nostri pensieri più bui. Pretendiamo una vita nostra.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1 E. Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta, E/O Edizioni, Roma 2013, p. 254
2 Ivi p. 256
3 Leggi l’articolo: https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2018/mar/17/elena-ferrante-even-after-century-of-feminism-cant-be-ourselves

[Immagine di copertina: le protagoniste della serie tv L’amica geniale. Fonte: RaiPlay]

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L’articolo della discordia: “il” presidente non è la stessa cosa

Non so ancora decidermi su cosa sia più fastidioso: sapere che la nuova – e prima – Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana pretenda di essere chiamata “il” Presidente, o vedere paginate su paginate di giornali pieni di “Giorgia di qua, Giorgia di là”, “Giorgia fa questo, Giorgia fa quello”. Forse la cosa più fastidiosa di tutte è che non ci si renda conto che sono due facce della stessa medaglia: la mancanza di riconoscimento del valore di un individuo femminile.

Perché la nostra nuova Prima Ministra ci casca di continuo. Nel suo primo discorso alla Camera ringrazia Tina, Nilde, Rita e compagnia per averle aperto la strada verso lo sfondamento del “soffitto di cristallo”. Peccato che non stia parlando delle amiche con cui gioca a golf ma di individui straordinari, coraggiosi, intelligenti che hanno fatto la storia di questo Paese e che se solo fossero stati uomini sarebbero stati chiamati dignitosamente per cognome. “Lo ha fatto per un sentimento di sorellanza”, dice qualcuno con spirito conciliante. Peccato che a nessuno sia mai venuto in mente di parlare di Garibaldi, Fermi e Pirandello chiamandoli Giuseppe, Enrico e Luigi.

Questa breve divagazione vuole arrivare a un punto: se la nostra Prima Ministra parla dei pilastri del femminismo italiano citandoli per nome di battesimo, c’è da stupirsi se i giornali fanno lo stesso con lei? E pensa davvero che facendosi chiamare “il” Presidente – ignorando per altro una basilare regola grammaticale che finora non ha mai infastidito (per esempio) nessuna insegnante e nessuna docente – i giornali, i colleghi, il mondo intero la tratteranno con maggiore rispetto? Eppure, è la prima Presidente del Consiglio italiana, la prima leader donna del nostro Stato da quando esiste. Un peso che – stando alle sue parole – porta sulle spalle come un fardello, è un onere – e un onore no? – per lei aver conquistato una sedia che è sempre stata prerogativa maschile. Peccato che non basti essere donne per essere femministe e già dalle primissime mosse e dichiarazioni dei membri del suo governo e dei nuovi rappresentanti di Camera e Senato sono emerse le solite trite e ritrite posizioni cieche e sorde davanti a una società che – più che cambiare – finalmente esce allo scoperto, trova fiato in gola e voglia di lottare per ciò che sente di essere, per ciò che desidera: diritti, riconoscimento, uguaglianza.

Tutto questo passa anche per la lingua, splendida cartina tornasole del sentimento sociale. Le regole linguistiche esistono eccome ma vengono sistematicamente attaccate o aggirate, motivo per cui il congiuntivo è ormai un animale in via d’estinzione e i termini inglesi proliferano come funghi in un sottobosco. Chi scrive non è una simpatizzante di parole come “call” o “spoilerare”, eppure sono entrate nel nostro vocabolario prima ancora del loro riconoscimento ufficiale nei dizionari scritti1, per cui non c’è motivo di dimenarsi: sono una realtà e non è possibile nasconderli sotto il tappeto. Così come le ministre, le sindache, le chirurghe, le mediche, le architette, le avvocate: esistono, e sempre di più, quindi perché nasconderle sotto il mantello di un “il” e di una “o”? Parole che tra l’altro, diversamente da “spoilerare”, non sono neologismi ma semplicemente l’applicazione della regola grammaticale a un sostantivo: la novità sta appunto nel fatto che prima non c’erano ministre e adesso sì. Se ci sono, però, vanno anche nominate. Come spiega la sociolinguista Vera Gheno, nominare qualcosa significa riconoscerne l’esistenza, in modo semplice e immediato, e darne visibilità2. Se dico “il Presidente Meloni” e chi mi ascolta è vissuto fino a un minuto fa in una grotta sperduta, penserà certamente che sto parlando di un uomo; se invece dico “la Presidente Meloni” saprà fin da subito che sto parlando di una donna. E attenzione: ciò non è per sottolineare che è una donna: la questione è riportare un dato reale, ovvero che Meloni non è un uomo. Usare le professioni al femminile significa riempire anche il nostro immaginario collettivo di donne in determinate cariche e mansioni, perché nella realtà sta accadendo proprio questo. Perché creare ambiguità? Vogliamo nascondere sotto il tappeto un fatto solo perché il termine che lo descrive ci sembra cacofonico? Se davvero tutto il problema sta nella cacofonia gli (autoeletti) arbitri elegantiae non potranno che farne l’abitudine, come per centinaia di altre parole prima di queste; perché se le cose continuano ad andare in questa direzione – e c’è da augurarselo –dovranno abituarsi al fatto di avere sempre più ministre e (le) presidenti da nominare e citare, quindi se il fatto reale non dà fastidio, difficilmente alla lunga lo darà la parola.

Perché le parole, tutte, a guardarle da vicino, sono mondi meravigliosi. Chiunque abbia studiato il greco antico – lingua estremamente duttile e creativa – probabilmente ricorderà quel verbo che fa sghignazzare da secoli gli studenti ginnasiali, il famoso “rafanidòo” = “infilare un ravanello nell’ano” inventato da Aristofane in una commedia e bene o male mai più usato. Ora, è improbabile che l’italiano possa regalare perle linguistiche altrettanto elevate, ma non pensiamo che la nostra lingua sia una bella statua di marmo: essa cambia perché cambia chi la parla. Forse, piuttosto, se si teme il cambiamento della lingua si teme il cambiamento della nostra società. Che però fortunatamente in certi casi – come per sindache e (le) ingegnere – è un cambiamento da accogliere a braccia aperte.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1 Per chi non lo sapesse, «oggi una parola entra nel vocabolario se arriva ad avere un certo ‘peso’ nell’uso. Il termine deve rispondere a tre criteri oggettivi: essere usata da un numero sufficientemente alto di persone, per un periodo sufficientemente lungo e, se possibile, in contesti differenziati» in V. Gheno, Femminili singolari, Effequ, Firenze 2021, p. 28
2 Cfr. ivi p. 15, p. 33.

 

[Photo credit unsplash.com]

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Ideologia contro ideologia in The Handmaid’s Tale

In un articolo precedente abbiamo dato un inquadramento sommario al successo planetario del libro di Margaret Atwood Il racconto dell’ancella del 1985 e la fortunata serie tv che ne deriva, distribuita dalla MGM e con una straordinaria Elisabeth Moss come protagonista. Una storia che ha fatto parlare molto di sé e che ha rinvigorito i movimenti femministi un po’ in tutto il mondo per la sua riflessione sul ruolo della donna nella nostra società (ancora troppo vicina a quella del 1985) e soprattutto sulla concezione del suo corpo.

Tuttavia, la serie (e il libro) offrono anche molti altri spunti di riflessione pure ai più allergici alle tematiche femministe (uomini e donne che siano). Particolarmente interessante da prendere in considerazione è l’opinione espressa dal famoso sociologo Slavoj Žižek1, fortemente critico nei confronti di The Handmaid’s Tale, soprattutto la serie tv. Prima di arrivare al suo appunto, è necessario però fare una premessa sul governo che viene descritto nel romanzo e che spodesta con la forza la democrazia statunitense.

Si tratta della Repubblica di Gilead, un governo fondato sul fondamentalismo religioso (cristiano), estremamente conformista (dai ruoli sociali ben definiti fino alle espressioni del parlato, ad esempio nel modo di salutarsi) e crudelmente punitiva (più o meno quotidianamente trasgressori e rivoluzionari vengono “appesi al muro” come monito collettivo). Tanto per fare qualche esempio, come veniva spiegato nell’articolo precedente, le donne potevano ricoprire soltanto cinque ruoli ed era loro proibito leggere, niente musei né intrattenimento, niente vizi né piaceri – fatto salvo, ovviamente solo per gli uomini, nei Jetsebel, dove ci sono le prostitute, si fa uso di droghe, si bevono alcolici e si ascolta musica contemporanea. Niente oggetti elettronici, niente vestiti sgargianti, niente trucco, niente capelli al vento, niente cibo industriale. Il rigore è controllato da una polizia speciale, gli Occhi, che fanno sì che qualsiasi trasgressore subisca pene corporali o venga giustiziato. Una società in cui un padre arriva a segnalare la sua stessa figlia innamorata di qualcuno che non è suo marito, e quindi puntualmente e pubblicamente uccisa per annegamento. Una società che però, come puntualizzato anche più volte nella serie, ha sostanzialmente ridotto l’inquinamento ambientale con il risultato di avere aria e acqua più pulita, più verde. E anche più bambini, grazie all’idea delle Ancelle, vere e proprie donne incubatrici “in servizio” nelle case delle coppie di potere ma sterili. Tutto questo e molto altro è sempre e puntualmente giustificato come “volere di Dio”.

Ma ecco il punto di Slavoj Žižek: The Handmaid’s Tale ci fa gioire del nostro presente perché ci pone sotto gli occhi una società di una brutalità inaudita; come se fossimo benedetti dalla sorte – o meglio, dalla giustizia divina dice il sociologo, scomodando la teologia di Tommaso d’Aquino – e ci trovassimo in Paradiso rispetto a quell’Inferno. Dunque, secondo Žižek la serie è permeata da questo sentimentalismo per il presente, permissivo e liberale, che ci rende ciechi di fronte ai grandi problemi, che però sussistono; in altre parole, non farebbe che cadere essa stessa in un’ideologia che legittima l’ordine attuale (il nostro) offuscandone i punti critici. In effetti, va detto, la serie non affronta mai i temi critici della società e del tempo in cui viviamo, dipingendo gli anni “prima di Gilead” come perfetti, paradisiaci; non si risponde mai a questa semplice domanda, dice Žižek: come ha fatto la nostra società liberale a dare luce agli orrori di Gilead? Non è mai ben spiegato che cosa abbia portato quel gruppo di persone – tra cui due dei protagonisti della serie, i Waterford – a fondare Gilead e a prendere con la forza i territori statunitensi. Non ci si chiede che cosa c’è che non va nella nostra società. Vedere l’Inferno in Gilead ci fa credere di essere in Paradiso ed è per questo che proviamo una segreta – a volte non tanto segreta – gioia nell’osservare le vicende narrate in The Handmaid’s Tale.

Senza cancellare con un colpo di spugna la portata “femminista” del racconto, e i tanti spunti che offre all’attualità, è anche questa una riflessione che vale la pena approfondire.

 

 

Giorgia Favero

NOTE
1. The radical revolution, Slavoj Zizek – ‘ the Handmaid’s Tale’. Slavoj Zizek discusses the TV show ‘the Handmaid’s Tale’ based on the classic novel by Margaret Atwood. Specifically, he argues that the series is an example of what Frederic Jameson calls ‘nostalgia for the present’ in the sense that it paints a near-future dystopian society to make us feel better about our current neoliberal social order. Youtube, 3:44, https://www.youtube.com/watch?v=4K3hdhz4_8c.

[immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Alcuni spunti attuali da The Handmaid’s Tale

Basata sul romanzo omonimo di Margaret Atwood, The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella) è una serie tv del 2017 e ancora in produzione che ha saputo far parlare di sé per il futuro (non troppo futuro) distopico che ne viene affrescato, in cui una repubblica patriarcale dominata dal fondamentalismo religioso crea un sistema di controllo totale, in cui le donne sono relegate a precisi ruoli che le tengono lontane da qualsiasi forma di decisione (comunitaria e personale) ma anche di libertà.

Moglie, Marta, Zia, Nondonna, Ancella: queste sono le uniche possibilità di vita delle donne adulte nella Repubblica di Gilead, che con la forza militare si è fatta spazio dall’interno negli Stati Uniti soppiantandoli in toto. Ci sono le Mogli (e tra queste spiccano quelle dei Comandanti, l’élite del sistema); le Marta, ovvero le domestiche; le Zie, crudeli addestratrici di Ancelle, particolarmente devote alla causa e ugualmente violente; le Nondonne, peccatrici e traditrici spesso relegate in luoghi come Jezebel (bordelli) o le Colonie (dove s’incontra morte lenta e dolorosa); infine le Ancelle, quelle che, in quanto fertili o già madri, vengono rapite e utilizzate come meri “forni” per garantire la discendenza dei Comandanti. Infatti, in questo futuro distopico le armi chimiche e nucleari hanno provocato un calo drastico della natalità e le Ancelle, appositamente addestrate, vivono nelle case dei Comandanti per poter essere fecondate – nei giorni di fertilità – durante una Cerimonia (di fatto uno “stupro cerimoniale”) a cui partecipano entrambi i coniugi.

“Tu non sei qui. Tu non esisti” si ripete Difred durante queste cerimonie. Difred è la protagonista, suo è il “racconto” cui si fa riferimento nel titolo. Negli Stati Uniti il suo nome era June Osborne, editor in una casa editrice, moglie di Luke e madre di Hannah; rapita da Gilead viene addestrata come ancella e in apertura alla serie la vediamo impiegata nella casa del Comandante Fred Waterford, da qui il nome Difred: sì perché se le Ancelle non hanno più un corpo, considerato come vero e proprio mezzo di procreazione, non hanno neanche più un nome proprio. Tanto è vero che, dopo aver dato alla luce il figlio dei Waterford, June viene spostata a casa di un altro Comandante, Joseph Lawrence, dove di conseguenza diventa Dijoseph.

C’è un motivo se nel 2018, durante le manifestazioni in Irlanda per il referendum sull’abolizione dell’ottavo emendamento della Costituzione (che vieta l’interruzione di gravidanza) alcune donne si sono vestite da ancelle (abito rosso e copricapo bianco). Il libro della Atwood è addirittura del 1985 ma ci ha chiaramente visto lungo: negli anni Venti del ventunesimo secolo la società è ancora sostanzialmente patriarcale e desiderosa di esercitare il proprio controllo sul corpo femminile. Basti vedere la clamorosa cancellazione della sentenza Roe vs. Wade negli Stati Uniti poco meno di un mese fa. Per molti e molte questo è il vero e proprio centro del romanzo e anche il messaggio (per così dire) della scrittrice. June, la nostra protagonista, è una donna forte, ingegnosa e abile che non solo soffre le pene dell’inferno per non piegarsi al regime, ma riesce anche a spingere una lunga serie di personaggi (soprattutto Ancelle) a ribellarsi altrettanto. Anche in questo la modernità ha letto alcuni echi di attualità, e mi riferisco in particolare al movimento #MeToo che sta portando le donne a denunciare sempre di più i casi di stupro. Basti ricordare a questo proposito uno dei motti della saga – soprattutto della prima stagione –, una frase in latino maccheronico scritta su un muro da un’ancella poi morta suicida: “Nolite te bastardes carborundorum” (letteralmente “Non lasciare che i bastardi ti annientino”) che può agilmente diventare mantra universale.

Altrettanto interessante è la posizione delle altre donne in questo quadro: al di là delle temibili Zie, sono le Mogli ad attirare l’attenzione in quanto docili complici del sistema. Contraltare “Moglie” di June è Serena Joy Waterford: altrettanto forte e determinata ma sullo schieramento opposto, prima di Gilead è stata uno degli architetti del sistema e autrice di un libro che auspicava il ritorno delle donne al ruolo di madri e angeli del focolare. E poco importa che nella sua Gilead non potesse neanche leggere il suo stesso libro (in Gilead la lettura è proibita al sesso femminile, pena l’amputazione di un dito). Per questo Serena Joy viene vista da molti come un simbolo di tutte quelle donne che, nel nostro mondo attuale, sono partecipi ideologiche di questa autentica repressione femminile. Una donna estremamente egoista e narcisista, di pochi scrupoli, saltuariamente ribelle – si batte per esempio in un’occasione per il diritto all’educazione delle bambine – ma puntualmente punita, resta sostanzialmente complice visto che, tra le altre cose, essendo sterile ma volendo disperatamente un figlio non mette mai in discussione tutta la questione delle Ancelle.

Ma non solo questione femminile: altri spunti di riflessione stanno all’orizzonte di The Handmaid’s Tale. Merita attenzione tra le altre la lettura che ne ha fatto il famoso sociologo Slavoj Žižek, abbastanza fuori dal coro degli apprezzamenti. Ma questa è un’altra storia.

 

Giorgia Favero

 

[in copertina un fermo immagine dalla serie The Handmaid’s Tale]

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La battaglia per i diritti delle donne non si è mai fermata

L’istituzione dell’8 marzo come giornata simbolo della lotta per la rivendicazione dei diritti delle donne viene fatta risalire alla tragedia accaduta a New York di seguito all’incendio scoppiato nella fabbrica tessile Cotton, dove persero la vita molte lavoratrici. In realtà l’istituzione del Womens’ day risale storicamente al congresso del Partito socialista svoltosi a Chicago nel febbraio 1908 dove venne discusso di abusi sul lavoro, diritto al voto e discriminazione sessuale. Da quel giorno i movimenti di protesta non si sono mai fermati e continuano tuttora a mutare e a trasformarsi servendosi di ogni mezzo dai più moderni social alle piazze.

È fondamentale ricordare l’8 marzo come il giorno in cui le donne rivendicano una battaglia giornaliera per tutti i diritti che ancora oggi sono loro negati, perché non è bastata la grande conquista del diritto al voto, ma ciò per cui oggi si lotta sono le pari opportunità.

Troppe ancora sono le disparità salariali, troppe molestie accadono fuori e all’interno dell’ambiente lavorativo e c’è ancora troppa omertà sui femminicidi (di cui si è segnato un record assoluto pochi mesi fa, il più alto tasso degli ultimi dieci anni). Troppi ancora sono gli abusi non denunciati per paura della ritorsione sulle vittime. Sono argomenti che tutti abbiamo modo di ascoltare e molte donne purtroppo di vivere ogni giorno sulla propria pelle, ma queste non dovrebbero essere battaglie relegate solo alle donne: una società civile è quella che in toto combatte per i diritti di ogni suo cittadino, perché agli occhi della società dobbiamo essere tutti cittadini con pari diritti, opportunità e doveri. E purtroppo non lo siamo ancora.

La società deve essere educata al rispetto, all’uguaglianza e alle pari opportunità. In un contesto assai diverso, ma in cui si parlava di privazione di dignità e diritti, Primo Levi asseriva che fin quando non avremmo riconosciuto a tutti la dignità umana il ricordo e la lotta non si sarebbero potuti fermare: così fin quando all’ultima donna non sarà riconosciuta la sua libertà personale, individuale, sociale e lavorativa nessuna rivoluzione può terminare.

È curioso, asseriva Simone de Beauvoir ne Il secondo Sesso, che tutti i popoli hanno una storia fatta di tradizioni ed eventi determinanti, ma non le donne. Le donne non hanno mai avuto stato, nazionalità e storia, ma hanno vissuto come bambole di carne nella mano degli uomini, che non hanno permesso una divisione dei sessi che si ha solo biologicamente, ma non storicamente. Le donne, afferma la filosofa, si sono emancipate solo uscendo dal focolare paterno dove erano state relegate per secoli ad accudire generazioni che non gli sarebbero appartenute.

Asserisce la de Beauvoir: «C’è una strana malafede nel conciliare il disprezzo per le donne con il rispetto di cui si circondano le madri. È un paradosso criminale negare alla donna ogni attività pubblica, precluderle la carriera maschile, proclamare la sua incapacità in tutti i campi, e affidarle l’impresa più delicata e più grave: la formazione di un essere umano. Ci sono molte donne a cui i costumi, la tradizione negano ancora educazione, cultura, responsabilità, attività, che sono privilegio degli uomini e nelle cui braccia, ciò nonostante, si mettono senza scrupoli i figli, come prima le si consolava con delle bambole della loro inferiorità nei confronti dei maschi; si impedisce loro di vivere; in compenso, si permette loro di giocare con bambole di carne e d’ossa. Bisognerebbe che la donna fosse perfettamente felice o che fosse una santa per resistere alla tentazione di abusare dei suoi diritti».

Le donne si svincolano nella rivoluzione e nella lotta che dona loro l’indipendenza grazie alla quale sono capaci di educare le nuove generazioni a costruire una società civile. Oggi è quanto mai importante ricordare queste parole e farne un vessillo: non solo le donne, ma tutti dobbiamo educare al rispetto perché non basti più una scusa per uno schiaffo, non si dica più che donne “se la sono cercata” per un atteggiamento o un abito, perché nessuna donna subisca pressioni per la sua gravidanza a lavoro, perché tutte abbiano il diritto di abortire, perché nessuna donna veda negato un diritto concesso a un uomo.

Costruiamo una società di umani che rispettano umani, umani che godono di pari opportunità e che lottano perché mai più ne subiscano soprusi. L’8 marzo si faccia in modo che sia in ogni gesto, in ogni lotta quotidiana e che sia simbolo di una lotta che ha ancora molti traguardi da tagliare.

 

Francesca Peluso

 

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Poesia per l’emancipazione: le parole di Virginia Woolf

Uno spettro che palpita e si reincarna nei grandi scrittori, secolo dopo secolo, istante per istante: il fantasma della poesia è la penetrante immagine con cui si chiude il capolavoro di V. Woolf Una stanza tutta per sé (1929). Nel suo saggio più celebre l’autrice inglese elabora brillantemente il suo pensiero sulla condizione femminile nella letteratura patriarcale, concludendo con un’intensa perorazione finale rivolta a tutte le donne: l’esortazione a scrivere, suggerendo come unico riferimento l’ascolto di sé e del proprio ritmo narrativo.
Questa conclusione dal tono vivace e severo, di appello allo studio e alla libertà di pensiero, è una scheggia tagliente nella coscienza delle lettrici: perché la penna, la buona penna, afferma la Woolf, si rivela sempre nella piena libertà intellettuale; e una simile libertà scaturisce, a sua volta, dalla possibilità di ricevere con una buona istruzione le basi essenziali per interpretare e affrontare autonomamente il mondo. La scrittrice ci invia un messaggio fondamentale: l’istruzione è il trampolino per decifrare la vita complessa che ci circonda, e indagarla, e interrogarla, e darci delle risposte.

Ma da un punto di vista più concreto, la nobilitazione della scrittura ha uno scopo reale? L’atto di scrivere quale importanza potrà mai avere nel faticoso, guerresco percorso di emancipazione delle minoranze?
Italo Svevo ci fornisce un possibile spunto di risposta, descrivendo la scrittura come il migliore strumento di purificazione mentale, che permette di esprimere con chiarezza pensieri ed idee altrimenti ingarbugliati e difficilmente districabili. La scrittura diventa allora l’espressione più alta della razionalità umana, il frutto fecondo di una conoscenza progressiva della propria interiorità, in grado di aprire spiragli sulla nostra anima ed estrarne degli spizzichi, suggerirne dei barlumi.

Scrivendo possiamo riaffermare la nostra identità, ma quest’ultima non è un’entità statica che si limita a venire “rivelata” dalle parole: essa al contrario si sviluppa di istante in istante, fiorisce ancora e ancora; l’identità è sostanza multiforme e in perenne maturazione, che si lancia dietro alle visioni proposte dalla penna e si modifica in base alle nuove parole e ai nuovi orizzonti che grazie a quella stessa penna scopre o inventa.
Scrivendo, quindi, scopriamo noi stessi e contemporaneamente ci realizziamo, tassello dopo tassello; scrivendo siamo tensione, perché ci compiamo costantemente.

È naturale e implicito che attraverso la scrittura sviluppiamo spirito critico, punto di partenza universale per la sovversione dei sistemi precostituiti; ed è di conseguenza altrettanto naturale che chi esercita il potere in tali sistemi favorisca il livellamento della cultura media e la diffusione di una generale disinformazione, allo scopo di indebolire sistematicamente le autocoscienze.
L’ignoranza è come un coltello di cui viene sfruttata la lama per controllare le masse; è una frana sulla grotta dell’Io inizialmente teso a indagare la molteplicità luminosa del mondo e che invece rimane isolato nel buio disorientante del non sapere, condannato ad un’eterna fragilità.
L’ignoranza è, fondamentalmente, il terreno sterile che l’ombra fantasma narrata dalla Woolf non poteva abitare.

Quel fantasma letterario non è più quindi solo un’elegante metafora della poesia, ma diventa l’emblema di un valore, quello della conoscenza, di un obiettivo per le donne, quello di scrivere, e di un ideale: scavare continuamente nella crosta tenera della realtà per coglierne squarci sempre più ampi e arricchire autenticamente, passo dopo passo, la propria visione del mondo.

 

Cecilia Volpi

 

Nata a Mantova nel 2002, ho frequentato il liceo scientifico; a diciassette anni ho vissuto in Messico un’esperienza di studio semestrale, promossa dall’associazione Intercultura. In settembre mi iscriverò probabilmente alla facoltà di Lettere di Torino, indirizzo linguistico. Mi appassiona molto la dimensione del dibattito, dei viaggi e delle lingue straniere.

[Photo credit unsplash.com]

Una citazione per voi: de Beauvoir e l’essere donna

 

• NON SI NASCE DONNE, SI DIVENTA •

 

Tra le personalità e le autrici che nel Novecento hanno contribuito allo sviluppo dei movimenti femministi e delle rivendicazioni sociali e politiche delle donne è impossibile non ricordare Simone De Beauvoir. Filosofa e pensatrice controversa di estrazione alto-borghese, nasce a Parigi il 9 gennaio 1908 e si laurea alla Sorbona, dove conosce quello che diventerà il compagno e l’amico di una vita, Jean Paul Sartre. È nel 1930 che inizia ad insegnare, per poi lasciare la cattedra ed entrare nel comitato di redazione della rivista Les Temps Modernes.

È nel Secondo Sesso che Simone De Beauvoir ci lascia in eredità la sua citazione più famosa: Non si nasce donne, si diventa. Un’opera che viene pubblicata nel 1949 e concepita come una trattazione teorica, ma che presto diventò uno dei testi di riferimento per le attiviste e i primi movimenti di emancipazione femminile. L’obiettivo di Simone è chiaro: per pensare l’uguaglianza in un contesto di dominazione maschile, è necessario appellarsi all’universalità della ragione. “Diventare” donne significa che “per natura” non lo siamo: quello che ci rende tali non è una presunta essenza innata con caratteristiche e “virtù” ben definite, ma la nostra storia, l’infanzia e le cicatrici che portiamo sul corpo. E quindi quel che definiamo “natura femminile” con tutti i suoi “valori” cos’è? È una categoria che nasce in seno alla società, frutto di secoli di dominazione maschile e di una tradizione filosofica millenaria, che vede “uomo” e “donna” come due essenze radicalmente distinte. In tal senso la donna ha giocato il suo ruolo solo in relazione all’uomo, come “secondo” sesso. Così scrive Simone: «la donna si determina e si differenza in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei; è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro»1.

Non esiste quindi alcun destino biologico o psicologico che possa definire una donna in quanto tale, essa costruisce sé stessa solo attraverso la sua vita e i suoi desideri. È innegabile che ci siano delle differenze biologiche tra uomo e donna, ma ciò che afferma la filosofa è diverso: l’insistenza con cui sono state affermate queste differenze nel corso della storia ha fatto sì che elementi sociali e culturali venissero letti come qualcosa di innato da accettare solo passivamente. È su questo pretesto che si è costruita la condizione femminile nel corso dei secoli.

Se l’opera e il pensiero di Simone porterà con sé critiche, discussioni teoriche e rotture in seno ai movimenti femministi, è innegabile che il suo contributo sia stato fondamentale per ripensare la donna “libera” dalla subordinazione al “primo sesso”. La sua battaglia contro gli stereotipi di genere ha aperto la strada alla costruzione di una nuova soggettività autonoma e consapevole.

Cosa ci lascia in eredità oggi? In una conferenza del 1966 Simone sottolineava come il problema della disparità tra uomo e donna non fosse solo culturale, ma anche politico. La democrazia borghese rivela in sé una grande contraddizione che coinvolge la donna: se da una parte vuole essere un regime dove vige perfetta uguaglianza (il diritto di voto rappresenta l’espressione di questa), dall’altra l’ordine borghese si fonda sulla disuguaglianza ed è in questo senso (disparità salariale, disoccupazione femminile) che le donne vengono mantenute in uno stato di inferiorità. Il discorso aperto da Simone è più attuale che mai, basti considerare oggi l’occupazione femminile e il gender pay gap: in Italia, infatti, la differenza in busta paga fra uomo e donna è del 23,7%2.

 

Greta Esposito

 

NOTE:
1. S. De Beauvoir, Il Secondo Sesso, p. 22
2. Analisi Eurostat che tiene conto del numero di ore lavorate sulla retribuzione mensile lorda

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Il “Secondo sesso” di Simone de Beauvoir: le origini del femminismo contemporaneo

Fino agli anni sessanta/settanta del XX secolo, salvo rare eccezioni, le donne non hanno fatto parte dei dibattiti storici, politici, filosofici o artistici, se non in qualità di esseri subordinati alla supremazia maschile, considerata un fattore naturale.
Uno dei testi principali a fondamento del femminismo contemporaneo è Il secondo sesso (1949) di Simone de Beauvoir, nel quale la filosofa francese solleva la questione dell’impossibilità delle donne di poter scegliere liberamente il proprio percorso di vita. Questo avviene perché vengono catapultate dalla nascita in una dimensione che le induce ad asservire agli obblighi di buone mogli e madri dunque prive di pensarsi come autonome sia nella vita professionale che in quella intellettuale. Tale condizione viene, secondo la de Beauvoir, accettata passivamente dalle donne, le quali sono plagiate da questi ideali che rispondono alla logica del potere maschile:

«L’umanità è maschile e l’uomo definisce la donna non in quanto tale ma in relazione a se stesso […]» (S. de Beauvoir, Il secondo sesso, 2016).

Inutile affermare che questo testo, pubblicato in prima battuta nel 1948 su Le Temps Modernes, destò non poco scalpore considerando non solo i suoi contenuti, ma anche il fatto che l’autrice facesse parte del circolo degli esistenzialisti francesi, fosse una sostenitrice del libero pensiero e che intrattenesse una relazione aperta con Jean-Paul Sartre. Si pensi, infatti, che in quei tempi la maggior parte delle donne si definiva soddisfatta della propria vita e chi, al contrario, avvertiva un senso di insoddisfazione veniva additata come “isterica”.

Il libro della de Beauvoir si inserisce perfettamente nella corrente esistenzialista e appare come un riuscito esperimento di applicazione di tale corrente filosofica. Infatti, raccontando parallelamente la sua individuale esperienza e quella di altre donne affronta, di fatto, un problema dell’intera umanità, sovvertendo l’ideale comune secondo il quale il sesso potente sia quello maschile.

La scrittrice sosteneva che nella logica comune ambo i sessi tendono a porre come centro di ogni prospettiva il sesso maschile, utilizzando ad esempio la parola “uomo” come termine generico per indicare l’intero genere umano. Questo, chiaramente, fa sì che le donne guardino il mondo che le circonda attraverso la prospettiva maschile, della quale sono esse stesse oggetto e motivo per il quale esse tendono a passare ore davanti allo specchio, rendendosi un chiaro esempio di quella che Sartre definiva “malafede”, ossia oggettivando se stesse:

«Per la ragazza, la trascendenza erotica consiste nell’accettare di farsi preda. Essa diventa un oggetto; si sperimenta come oggetto […]» (ivi).

Nel mondo contemporaneo non si può certo dire che le cose siano cambiate radicalmente: per quanto siano stati fatti considerevoli passi in avanti in favore delle donne, ancora oggi si ritiene che il sesso più sensuale ed erotizzato sia da ricercarsi in quello femminile e sono spesso le donne stesse ad avallare l’idea secondo la quale il corpo femminile sarebbe più desiderabile di quello degli uomini. È importante comprendere come la cultura maschilista abbia ostacolato nel corso del tempo le donne, trasformandole in eterne seconde, ma:

«Farsi oggetto, farsi passiva, è tutt’altra cosa dall’essere un oggetto passivo» (ivi).

Si pensi alle problematiche odierne legate a tale logica e che, ad esempio, continuano a far sì che a parità di lavoro una donna guadagni meno di un uomo o che non venga rispettata la scelta di una donna in carriera di avere dei figli, senza rischiare il licenziamento o peggio la mancata assunzione.
Fortunatamente oggi sono moltissime le donne che credono fermamente nella loro individualità e nella loro assoluta indipendenza, considerandosi primariamente in funzione di se stesse. È più che mai giusto che le donne possano autodeterminarsi, senza assoggettarsi ad una figura maschile; il che non vuol dire che non si possa stare in coppia o crearsi una famiglia, ma che all’interno della coppia ci si possa esprimere non come un surrogato dell’altro, ma, per dirla con Hegel, come individualità in sé per sé.

L’esempio di Simone de Beauvoir, donna libera per eccellenza, deve riecheggiare non solo nella mente femminile odierna, che si sta muovendo sempre più verso la consapevolezza delle proprie risorse, ma ancor di più nella mente maschile, spesso ostile al pensiero che una donna possa non essergli seconda:

«La disputa continuerà finché gli uomini e le donne non si riconosceranno come simili […]» (ivi).

È quindi necessario comprendere l’importanza delle differenze che caratterizzano di natura uomini e donne, affinché si possa educare la società al rispetto e alla considerazione delle stesse come ricchezza e non come unità di misura della superiorità o inferiorità dell’uno sull’altra.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Jake Melara via Unsplash]

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