La scomparsa del pensiero con Ermanno Bencivenga al Tocatì Festival

Verona – Domenica 17 settembre, il filosofo Ermanno Bencivenga sarà ospite alla nuova edizione del Tocatì Festival, Festival Internazionale dei Giochi in Strada di Verona. Un evento atteso e di prestigio per la rassegna giunta alla XV edizione e diventata un punto di riferimento, come ogni anno, per la scoperta delle tradizioni culturali riconosciute dall’UNESCO come parte del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità (Convenzione del 2003).

Ermanno Bencivenga, professore ordinario di filosofia presso l’Università di California, ha scritto diversi libri dove il gioco è protagonista, tra questi: Giocare per forza, Parole in gioco, La filosofia in sessantadue favole, e anche racconti, tragedie e raccolte di poesie e è stato chiamato ad intervenire all’interno del programma Riflessioni, uno spazio di incontri e conferenze di esperti che raccontano il mondo ludico da diverse prospettive.

L’incontro, in programma presso la Biblioteca Civica di Verona domenica 17 settembre alle ore 17.00 vuole mettere a tema quella che Bencivenga definisce, nel suo recente libro La scomparsa del pensiero (Feltrinelli 2017), “castrofe gentile” della società contemporanea: il rischio che la nostra capacità di ragionare scompaia a causa dell’esposizione a mezzi di comunicazione più veloci del tempo necessario allo svilupparsi del pensiero logico.

155564Raccontando la sua esperienza di professore, Bencivenga mostra come questa “catastrofe gentile”, silenziosa quanto devastante, riguarda soprattutto i giovani. È in atto una vera e propria mutazione antropologica che andrà a sottrarre alla nostra specie la risorsa più preziosa: il ragionamento. Ad essere più esposte alla proliferazione dei mezzi d’informazione e di comunicazione, sono proprio le nuove generazioni, con il risultato inquietante che i giovani si abitueranno sempre più all’idea che qualcun altro, o meglio qualcos’altro, ragioni per loro. Un saggio che ci mette in guardia di fronte alle insidie della mutazione antropologica che sottrae alla nostra specie la sua risorsa più preziosa: il ragionamento.

«Solo chi gioca, nelle mille e disparate manifestazioni in cui il gioco si realizza, è vivo, esiste. I labirinti ludici dell’essere sono l’essere», scrive in Filosofia in gioco. Un appuntamento importante per ripensare il nostro rapporto con il gioco e soprattutto con la realtà mutevole che ci circonda, dove la Filosofia diventa un utile strumento per affrontare le problematiche cui siamo chiamati ad affrontare.

Con lui dialogherà Olivia Guaraldo, professoressa presso il Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università degli Studi di Verona.

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Elena Casagrande

Le cose dell’Amore – parte 1

Sono smarrito di fronte all’altro che vedo e non tocco e del quale non so più che fare. È già molto se ho conservato il ricordo vago di un certo al di là di quello che vedo e tocco, un al di là di cui so precisamente che è ciò di cui voglio impadronirmi. È allora che mi faccio desiderio.1

Forse un po’ banale, questo sarà un promemoria sull’amore. A partire dal libro omonimo2 di Galimberti ci si può inoltrare in questo grande mare, del quale almeno una volta noi tutti siamo o siamo stati in balia. Senza partire dalle fasi dell’amore vorrei soffermarmi sul sentire dell’amore, sulla condizione dell’Io nel momento in cui si incontra l’Altro, quando si diventa desiderio. De-siderio trae la sua origine dalla parola greca sidus, che è tradotto con stella o costellazione, termine che deriva dal linguaggio di navigazione. De è un prefisso privativo a indicare l’assenza e quindi la mancanza. Per comprendere ora meglio il suo significato proviamo ad immaginare di essere un marinaio, durante un lungo viaggio e lontani da casa, in mare aperto e di doverci orientare: l’unico mezzo per avere una rotta sarebbe servirsi della posizione della stella polare. In quella notte pero’ il cielo è nuvoloso e non ci è possibile scorgere la stella. Il nostro animo è teso nella vana ricerca di quel punto di luce che ci possa salvare e lo sguardo è rivolto verso l’alto. Ci si sente smarriti per un attimo o più. È questo il sentimento che si impadronisce di noi e che fa tendere il nostro animo verso qualcosa di oltre, verso l’infinito riconosciuto nell’altro. Si desidera l’oggetto d’amore trovando in lui ciò di cui si ha bisogno, ma essendo la sua forma per natura finita e il desiderio infinito, questa tensione non si arresta, anche nella trasformazione o nel cambiamento dell’altro. Si tratta infatti di ri-conoscere nell’altro quel tu, che è familiare, che ci è proprio. Come se si realizzasse il mito raccontato da Aristofane durante il simposio platonico.

Aristofane narra a suo modo l’origine dell’amore che trova uno scopo in se stesso, senza confinarlo al solo fine procreativo. In origine tutti gli esseri viventi avevano due teste, quattro braccia, quattro gambe, due organi sessuali ed erano tondi. Vi erano tre generi sessuali, il maschile, il femminile e l’androgino, che aveva caratteristiche dell’uno e dell’altro. Per via del loro grande potere e superbia di ascendere all’Olimpio, il mito narra che Zeus decise di dividerli a metà, così che fossero più deboli singolarmente. Da allora nella loro unione l’essere umano trova la sua antica forza, garantita da Eros che infonde in lui il desiderio.

Dunque al desiderio e alla ricerca dell’intero si dà nome amore.3

Si tratta di un desiderio innato che comporta il ricongiungimento di un’unità primitiva, che ha delle conseguenza sulla propria identità che si costruisce arricchendosi e trasformandosi, come in ogni altra relazione umana, ma che è ovviamente più intima, per la sua dimensione sessuale, ed un’unica per la sua straordinaria forza e bellezza. Ed è così che accade:

Ai confini tra il corporeo e l’incorporeo, amore abita la reciprocità dello sguardo, del sorriso, della voce, del gesto, del movimento. Un sorriso che non è contrazione ma offerta, uno sguardo che apre insicuro la strada del desiderio in cui si riflette l’unicità dell’evento, una voce malcerta in cui è tutta l’immediatezza del sensibile, l’incarnazione della parola, un gesto in cui la grazia che è ritmo della bellezza chiama tenerezza, mentre un movimento che accenna una timida disposizione di danza allude a un’impercettibile gioia nascosta.4

Con questa splendida descrizione di Galimberti, termino questa breve prima parte sul tema dell’amore.

Al prossimo promemoria filosofico.

 

Azzurra Gianotto

 

Note

1 J. P. SARTRE, L’essere e il nulla (1943), pg.481, il Saggiatore, Milano 1966

2 U. GALIMBERTI, Le cose dell’Amore, Feltrinelli, Milano 2004

3 PLATONE, Simposio, 192e-193a, Bur, Milano 2007

4 U. GALIMBERTI, Le cose dell’amore, pg. 19

Azzurra Gianotto

[Immagine “A letto il bacio” di Henri de Toulouse Lautrec del 1892]

La casa del sonno – Jonathan Coe

Terry era un oniromane: i suoi sogni costituivano la parte più pura, preziosa e necessaria della sua vita, e per questo trascorreva almeno quattordici ore al giorno dando loro la caccia attraverso la sua mente addormentata.

Gregory, Veronica, Terry, Robert e Sara sono studenti universitari nei primi anni ottanta. Molto diversi tra loro ma accomunati da un rapporto particolare con il sonno: ossessivo, nevrotico, patologico, inquietante. C’è chi soffre di narcolessia e fatica a distinguere i sogni dalla realtà, chi guarda al sonno con occhio scientifico e vorrebbe carpirne le dinamiche più recondite, chi si abbandona al sonno per trovare la radice della propria creatività artistica.

La-casa-del-sonno_CoeL’austera e grigia Ashdown è il dormitorio che ospita i ragazzi e che, dieci anni più tardi, diverrà una clinica specializzata nei disturbi del sonno, che rimane il filo conduttore di tutta la storia. Storia dalla struttura molto particolare. I capitoli dispari sono infatti ambientati negli anni ottanta, periodo in cui i protagonisti sono studenti alla ricerca della propria strada, mentre i capitoli pari ci conducono oltre un salto temporale di quasi dodici anni, le loro personalità si sono definite, le loro vite sono mutate, imboccando direzioni differenti, alcune prevedibili, altre inaspettate.

Il libro è diviso in sei parti, ognuna delle quali rappresenta un diverso stato di coscienza: veglia, fase uno, fase due, fase tre, fase quattro, sonno REM, ed ogni capitolo si conclude con una frase spezzata che prosegue nel capitolo seguente, con connessioni arbitrarie che in principio destabilizzano il lettore.

La casa del sonno è un libro insolito, psicotico, che procede ad incastri, dove ogni pagina diventa un tassello che va a completare quello precedente e ad anticipare il successivo, proprio come in un mosaico. Il lettore si trova  a tratti smarrito, con la netta sensazione di essersi perso qualcosa, ma proprio quando sta per cedere alla tentazione di sfogliare le pagine a ritroso per chiarirsi le idee, Coe si dimostra bravissimo a sciogliere i suoi dubbi, facendo luce su quella porzione narrativa. E’ uno stile al quale bisogna abituarsi ma che, entrati nella giusta ottica, si fa avvolgente, a momenti anche inquietante, trasportandoci nella psiche dei protagonisti, nelle loro nevrosi e nei loro turbamenti interiori.

Mi sentivo più felice quando dormivo che da sveglio. Facevo sogni bellissimi.

La scrittura è dettagliata, ironica, con una forma pulita che non contempla il superfluo.

Il sonno rimane il protagonista assoluto del romanzo, quello stato in cui non siamo pienamente consapevoli, in cui siamo più fragili e forse anche più veri, privati delle sovrastrutture che guidano le nostre azioni durante la veglia.

Quella condizione di vulnerabilità del cuore in cui anche i dettagli più minuti e banali assumono un carattere luminoso, trasfigurante.

Le storie dei protagonisti muteranno negli anni, a volte deviate per sempre da un destino quasi perverso, che userà malintesi e fraintendimenti per prendersi gioco di loro.

Un libro che saprà coinvolgervi e stupirvi, con un’atmosfera surreale e un ritmo vorticoso che vi sospingerà fino all’ultima pagina. Consigliato agli amanti dei risvolti psicologici.

Stefania Mangiardi

[immagine tratta da Google immagini]

Ognuno potrebbe – Michele Serra

Giulio Maria ha trentasei anni, è un antropologo, ed è nato anacronistico, figlio inatteso di una coppia non più giovane. Da sempre attribuisce a questa forzatura anagrafica la tendenza a sentirsi stonato, poco in armonia con l’ambiente circostante.

Eppure la realtà che Giulio non riesce ad accettare e che lo porta di continuo ad interrogarsi, è quella nella quale ognuno di noi si muove ogni giorno, spesso inconsapevole, troppo preso da singoli dettagli per alzare lo sguardo sul quadro complessivo.

Giulio è un ricercatore che, per settecento euro al mese, studia e cataloga le esultanze dei calciatori. Un lavoro che non lo entusiasma e che lo porta a riflettere su quanto la nostra società sia diventata egocentrica ed esibizionista.

Del resto persino Agnese, sua compagna da quattro anni, soffre di quella che qualcuno definisce la Sindrome dello sguardo basso: sguardo fisso sullo smartphone e totale inconsapevolezza di ciò che ci circonda.

Passano i digitambuli, nel vasto mondo attorno, a migliaia, a milioni, assorti nei loro rettangolini di luce fredda, così fredda che neppure gli si riverbera sul viso. Lo sguardo rivolto in basso rende la loro fronte piana; le palpebre a mezz’asta fanno schermo alle pupille, nascondendo anche il colore degli occhi. Sono volti inabissati, volti che hanno abbandonato il volto. Hanno tutti qualcosa di sospeso: uno star dicendo, uno star facendo che deve avere avuto un inizio e che certamente avrà una fine, ma non adesso. Attraversano questi posti e queste giornate come se non li riguardassero. Passano soltanto.

Tutti sentono il bisogno di condividere, di dimostrare, di apparire, il bisogno che gli altri sappiano che sono colti, socievoli, innamorati, fortunati, devoti, importanti. Di spettacolarizzare tutto. Di esibire ogni cosa.

Ma quanti poi, vivono davvero? Quanti, spenti i telefoni e oscurato lo schermo di un computer sanno davvero condividere e comunicare? Quanti pensano ancora a godere il momento prima di scattare una foto con quello che Giulio definisce Egòfono? E mai definizione fu più adatta, perché l’Ego è la sua sfera d’uso, è ciò che dall’obiettivo viene ingigantito, deformato, trasfigurato ed inviato all’esterno. Selfie. Immagini di sé condivise, twittate, postate e riprodotte decine di volte al giorno.

Impossibile non riflettere e non porsi queste domande durante la lettura.

Ognuno potrebbe, attraverso gli occhi di Giulio, ci offre uno sguardo dissacrante sulla realtà, una finestra sul mondo che ci siamo costruiti. Un mondo fittizio, in cui gli unici obiettivi che ci si pongono riguardano click, like, visualizzazioni, commenti.

Quanti investono altrettanto tempo, interesse, attenzione, nei rapporti affettivi, nella propria crescita personale, nella vita reale?  Penso alle famiglie che si riuniscono intorno ad una tavola apparecchiata, un tempo simbolo di convivio, chiacchiere, confronti, e adesso le immagino senza difficoltà chine sul proprio smartphone.

La sostanza della questione è che il lontano sta diventando molto più importante del vicino. E siccome il vicino è la realtà materiale, e il lontano è solo un’astrazione, noi stiamo facendo deperire ciò che abbiamo a vantaggio di ciò che ci illudiamo di avere.

Più che un romanzo – manca infatti una vera trama – definirei questo libro un insieme di fotogrammi narrativi. Una sequenza di immagini che inquadrano la vita di Giulio, un uomo di quasi quarant’anni con i dubbi di un ragazzo che, contrariamente alla massa, pensa, si interroga, osserva. Percepisce lo scorrere inesorabile del tempo, subisce l’indifferenza di Capannonia, l’asfissiante porzione di pianura in cui vive, tutta “tubi e cubi”, dove il cemento sembra aver soffocato pensieri e sogni.

Il linguaggio è colto, lo stile curato. L’autore ci invita alla riflessione, alla consapevolezza.

La mia opinione è che ognuno dovrebbe fare un passo indietro. Da tutti i punti di vista. Anche fisicamente. Darsi un poco di spazio e, dandoselo, darne anche a chi gli sta intorno. Come c’è un frattempo tra un’azione e l’altra, così dovrebbe esserci un fralluogo tra una persona e l’altra. E come il frattempo così il fralluogo serve a dare fiato. Un passo indietro e una parola in meno.

Ridurre il proprio Ego per dare spazio agli altri. Alzare lo sguardo per soffermarsi sulle cose semplici, per godere di un cielo particolarmente azzurro o di un albero fiorito nella stagione sbagliata, per abbracciare e baciare, per salutare il vicino di casa, per ridere guardando qualcuno negli occhi e non fissando uno schermo piatto. Per vivere, la vita vera.

Che lì, il tasto rewind purtroppo non c’è.

Stefania Mangiardi

Fotografia – “Non ora, non qui” di Erri de Luca

Recensione di “Non ora, non qui” di Erri de Luca

C’è un mare, il Tirreno, che rende i bambini sacri alla sua acqua, li pettina come una lingua madre di lupa e si ammala dei loro resti. E c’è un Erri de Luca un po’ balbuziente che ripercorre la sua infanzia guardando una fotografia di madre, un’istantanea con la quale poter dialogare del passato. “Non ora, non qui” non ha una trama da riassumere, solo uno sciabordio di episodi che si rincorrono, è il palpito agitato di un animale appena nato.

Al suo primo romanzo, lo scrittore napoletano decide di rivivere la sua infanzia nello stesso modo in cui farebbe chiunque: sul bilico della maturità, tenendo stretto nei denti e nelle mani i nomi e i volti di chi lo ha cresciuto e voluto bene, tuffando indietro gli occhi per riemergere nella realtà e salvare il salvabile.9788807723094_quarta.jpg.312x468_q85_upscale

Dice di se stesso, l’autore, di essere sempre stato un bambino che non sapeva domandare, ma che non sapeva neppure allo stesso tempo, dare risposte. E la potenza di questo romanzo breve sta tutta qui: nel rapporto tra una madre e un figlio, fatto di parole spesse volte a senso unico, bisbigli ferventi e continui che tessono leghe sotterranee dure come piombo. La giovinezza di Erri de Luca è la giovinezza di un cuore legato a chi lo ha fatto nascere, a quella madre giovane che gli raccontava le disgrazie del mondo, che gli passava un ciclo di dolori fatto di vecchi, malati, miseri e bestie che rantolavano, che gli insegnava a vivere come sapeva. È la maturità di un ragazzo che soffre i primi amori e le prime perdite, tra tutte quelle dell’amico Massimo, affogato in mare. Di lui ricorda il fisico da nuotatore, le bracciate, il suo pianto lasciato in fondo al Tirreno, i suoi sudori, le sue stanchezze. È la storia di un uomo che si sposa con chi sa provare solo affetto ma non amore, perché resa esperta da molte leggerezze fatte e subite.

“Non ora, non qui”, scritto con una musicalità struggente, fatta di piccole note amare che vanno a depositarsi in fondo allo stomaco di chi legge, è un click sui rapporti umani, su quel vizio di darci per scontati come se dovessimo esserci sempre, come se fosse impossibile vedere i propri genitori morire prima di noi. È una fila di parole che non vuole ammonirci né spaventarci, semplicemente farci vedere come si possa e si debba ammettere il passato, prima o poi, perché se ci si ferma un istante allora si raggiunge un punto d’equilibrio, un tempo, un’occasione per incontrarsi e capirsi.

Non importa se non accade ora né qui, non importa se tra due persone le parole sono state usate male, masticate a forza; Erri de Luca ci insegna, con la sua voce frammentata, che anche un figlio anziano e una mamma giovane possono incontrarsi al di là di un qualsiasi spazio predefinito.

Perché il tempo fa come le nuvole e i fondi del caffè: cambia le pose, mescola le persone. E il senso di ri-appartenenza ci aspetta.

Luzia Ribeiro da Costa

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