Riflessioni sulla relatività del bello

Quando si pensa al concetto di bello, la prima domanda che viene da porsi è quella sulla diversità dei gusti e se esista o meno quello che i greci definivano to kalón, il bello assoluto.
Le esperienze estetiche provengono non solo dall’arte, ma anche dalla quotidianità – come tutte le volte che esprimiamo giudizi osservando semplicemente una persona, un oggetto o un fenomeno naturale – facendo sì che l’apprezzamento o la delusione diventino l’unico strumento di misura dell’esperienza appena fruita.

Ma quale parametro viene utilizzato affinché un giudizio di gusto possa ambire a divenire universalmente condiviso? E soprattutto, esiste davvero un modello perfetto di bellezza? Un’idea di bello platonico?
Se si pensa all’essere umano e al suo modo di giudicare i fenomeni, comprendiamo come egli si basi su un determinato modello di bellezza, che viene posto come ideale, per poi categorizzare oggetti e persone in base ad esso, fermo restando che tale idealizzazione sia inevitabilmente condizionata dalla cultura e dalla società. Esempi interessanti ci vengono dal mondo artistico, che per eccellenza risulta essere la culla delle esperienze estetiche: quando, ad esempio, a Parigi nel 1874 si tenne la prima esposizione delle nuove opere impressioniste, i fruitori la considerarono un’azione eversiva che poco aveva a che fare con le loro abitudini artistiche.
Come sappiamo, la pittura impressionista prendeva le distanze dal classicismo – e da quelle forme ideali e canoniche di bellezza – traendo spunto dal romanticismo e dal realismo che propendevano verso l’assoluta libertà dell’artista di esprimere le proprie emozioni.

L’arte rimanda a sua volta ad un altro tema concernente il giudizio estetico: il cambiamento nel corso dei secoli dei canoni di bellezza. Basti pensare a come si sia modificata nel tempo la visione del corpo di donna, che nelle rappresentazioni antiche veniva esaltato nella rotondità e generosità delle forme. Se oggi si pensa ad una donna “perfetta” non la si identificherà certo con la Venere del Botticelli o con la Maya desnuda di Goya, e questo perché sono visibilmente mutati i gusti della società e collettività. Il che porta a pensare alla labilità dei modelli che oggi i più inseguono per potersi omologare a ciò che viene ritenuto appunto “bello”.

Si pensi alle tendenze del momento dettate dai social network, in particolare da Instagram, e a quanto queste influenzino il gusto a livello universale, muovendo verso l’uniformazione delle personalità. Lo stesso accade anche per parte della musica di oggi, che tenta di cavalcare l’onda delle tendenze del momento. Tali brani musicali vengono chiaramente considerati “belli”, non perché lo siano realmente, ma per ciò che rappresentano all’interno della società, facendo appunto sentire i giovani più omologati. Lo stesso accade nel mondo dell’arte, in particolare quando si parla di mostre d’arte contemporanea o performativa, che espongono il più delle volte opere non propriamente belle ma ricche di concettualità; ed è proprio in favore di questa che molti considerano “belle” opere che di fatto non posseggono tale caratteristica.

Riflettendo su quanto detto, si è portati a pensare che il giudizio estetico collettivo si formi a partire da idealizzazioni primariamente soggettive, in quanto è necessario riconoscere la soggettività del gusto e dunque la sua relatività, cosa che ci potrebbe portare ad affermare che in qualche modo esista una sorta di “idea del bello” – che a differenza di quella platonica non si troverebbe in una dimensione iperuranica ma sarebbe frutto del gusto umano basato su esperienze fenomeniche. Contemporaneamente, ci si rende conto di quanto tali posizioni particolari, essendo solitamente influenzate da fattori esterni, vadano a formare un tipo di giudizio che potremmo definire universale.
Tuttavia, potremmo chiederci se tale universalizzazione di un determinato giudizio estetico conduca ad una definizione univoca e realistica di ciò che è bello. Secondo la famosa prospettiva di Kant ne La critica del giudizio (1790), i giudizi, per essere condivisi intersoggettivamente, non devono essere fondati su concetti ma devono svincolarsene.

Possiamo quindi affermare che il concetto di “bello” (ugualmente a quello di “brutto”) sia essenzialmente ambiguo, relativo e assolutamente mutevole nel tempo; ciò porta a concludere che tali concetti, non essendo liberi da condizionamenti esterni, rientrino nel campo del gusto personale, e che, come qualsiasi opinione, non stiano nella verità assoluta. Per questo, anche laddove venissero espressi giudizi di gusto negativi rispetto ad un qualsiasi fenomeno, persona, oggetto, opera d’arte è necessario ricordare che molto probabilmente un giorno ciò che attualmente viene considerato in un determinato modo potrebbe venir considerato nel modo opposto, a dimostrazione del fatto che non esistano il bello e il brutto assoluti.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Erol Ahmed via Unsplash]

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Arendt, Freud e il Covid-19 tra senso di comunità e responsabilità

Il 2020 sarà certamente ricordato per essere stato l’anno della pandemia mondiale che ha profondamente cambiato le abitudini degli esseri umani, privandoli della cosa più preziosa: la libertà. In questo periodo il mondo sta facendo i conti con la coercizione e con la limitazione di ciò che qualche mese fa sembrava scontato e gli esseri umani ne stanno risentendo nel profondo.

È vero, non siamo di fronte a una guerra mondiale e nessuno ci sta chiedendo di imbracciare le armi per amor di patria, ci viene solo chiesto di rimanere nelle nostre case, in quanto alle prese con un virus aggressivo, che ha dilagato inesorabile e spietato, rendendo le nostre città palcoscenico per le passioni di un’umanità a cavallo tra solidarietà e istinto primordiale di trasgredire le regole imposte. Questo accade perché gli individui si sentono braccati, poiché l’iper-modernità ci ha portato ad assoggettarci a una “dittatura della società”, che potremmo ricondurre a quello che Freud definiva «Il disagio della civiltà», che ha portato le individualità a conformarsi a determinati schemi, rendendole inconsciamente schiave di essi. Questo fa sorgere alcuni quesiti interessanti, quesiti che si era già posta la filosofa Hannah Arendt in relazione ai totalitarismi e ai loro crimini: siamo davvero liberi anche quando ci sentiamo tali? E, relativamente all’istinto di trasgredire le leggi, siamo responsabili delle nostre azioni? E se sì, lo siamo collettivamente in quanto parte di una società, o individualmente?

Arendt differenzia in maniera sostanziale i concetti di colpa e responsabilità, nonostante essi abbiano certamente una correlazione. La prima afferisce alla sfera etica e si riferisce alle azioni compiute da un singolo soggetto agente, a scapito della propria legge morale; mentre la seconda afferisce alla sfera politica, laddove per politica si intenda la sfera sociale. Arendt indaga il concetto di responsabilità studiando in quale misura il popolo tedesco potesse essere ritenuto corresponsabile degli atroci crimini commessi dal regime nazista; tuttavia la questione può essere estesa a qualsiasi contesto storico e, dunque, anche a questo momento particolare che stiamo condividendo a livello globale; si pensi alla similitudine, seppur forte, della dittatura con le limitazioni alla libertà personale e collettiva che ci sono state imposte in questi mesi e ai concetti di colpa e responsabilità di coloro che non rispettano tali norme, ma anche di chi invece si fa portavoce e attore del rispetto verso l’umanità facendo in modo che il virus possa essere in qualche modo contenuto. Quando ci viene chiesto di sottostare a delle restrizioni è un’autorità a farlo, motivo per cui viene meno la libertà come noi la intendiamo, ma contravvenendo alle leggi imposte e nel caso specifico del Covid-19, uscendo di casa senza giustificato motivo, mettendo in potenziale pericolo la propria vita e quella altrui, ci comportiamo secondo una nostra personale morale, divenendo, quindi, colpevoli per la nostra azione. Tuttavia, secondo la prospettiva arendtiana, l’intera comunità sarebbe responsabile per le azioni compiute dai cittadini della sua nazione, pur non essendo moralmente e, dunque, individualmente colpevole, questo perché l’azione avviene inevitabilmente nello spazio intersoggettivo; infatti, nel momento in cui il soggetto agisce, rivela se stesso agli altri, divenendo responsabile delle sue parole e dei suoi gesti in relazione alle alterità. Chiaramente se agiamo in una dimensione monadica, solipsistica, privata, possiamo fare i conti solo con la nostra etica individuale, senza che nessun altro acquisisca una corresponsabilità per le nostre azioni, giuste o sbagliate che siano.

Freud, prima della Arendt, aveva affermato in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) che la socializzazione fosse in un rapporto di dipendenza dall’individualità e che quindi una distinzione netta tra società e individuo fosse superflua, in quanto la prima si compone essenzialmente della molteplicità degli individui che la costituiscono. Secondo Freud, le azioni negative compiute da una massa e dunque la negatività della stessa, dipendono dalle individualità che la compongono, che possono essere più o meno negative in base a quanto incidano i fattori oggettivi, inconsci, sull’Io del singolo. Con l’esperienza della Grande guerra si è assistito a quella che Freud ha definito esternalizzazione dell’inconscio, ossia all’oggettivazione dei moti pulsionali primordiali che si sono esteriorizzati nella massa, poiché, in accordo con Arendt, è solo all’interno della società che il singolo può agire e dunque sbarazzarsi delle rimozioni pulsionali inconsce.

È dunque necessario riflettere sul senso di appartenenza alla società e alla responsabilità che abbiamo in un momento storico come questo, di comportarci individualmente nella maniera più etica possibile per fare in modo di renderci collettivamente e positivamente responsabili della rinascita del mondo che torneremo ad abitare dopo l’esperienza del virus, nella speranza che possa essere un mondo migliore, nel quale tornare ad essere, per dirla con Aristotele, degli animali sociali.

 

Federica Parisi

 

[Photo credits Ryoji Iwata su unsplash.com]

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