Inglesismo selvaggio

L’inglesismo selvaggio è ormai un dato di fatto nella quotidianità di molti contesti lavorativi e universitari, nei quali le persone utilizzano termini e acronimi che molto spesso non sanno cosa vogliano effettivamente dire. All’interno della loro nicchia linguistica ciò appare loro come dotato di un significato e di una intrinseca coerenza. Tale fenomeno prolifera nel linguaggio comune e deve il suo successo all’alto livello di contagiosità; capita così che il termine impresso nella memoria balzi fuori al bar mentre si sta bevendo un aperitivo con gli amici, i quali rimangono sbigottiti o ancora peggio annuiscono anche se non stanno capendo assolutamente nulla di ciò che viene detto.

Spezzerò tuttavia una lancia a favore degli inglesismi, come premessa necessaria a riflettere criticamente su questa tematica. Le parole sono come organismi viventi: alcune migrano da un contesto linguistico all’altro, possono nascerne di nuove, è possibile generare parole da altre parole etc… Una lingua esiste propriamente quando c’è qualcuno a parlarla ed evolve insieme a coloro che la scrivono e la proferiscono. Spesso l’Italia è tacciata di esterofilia, ma c’è da dire che oggi nessuno metterebbe in discussione parole come computer, mouse o driver di installazione, in altri paesi tali termini non hanno passato il vaglio di una analisi critica ed è così che in Francia driver è diventato operator o in Spagna il mouse è diventato ratón. La contaminazione linguistica non è un male assoluto, può essere sensato, soprattutto in campi funzionali, mantenere il valore di quelle parole nella lingua originaria, e l’inglese è una lingua decisamente molto sintetica e immediata, quindi effettivamente riesce ad esprimere alcuni concetti in modo molto esaustivo e diretto.

Da un approccio potenzialmente corretto gli italiani sono poi incorsi nell’abuso dell’inglesismo, introducendolo in maniera acritica nel linguaggio comune, il che finisce per essere una patologia linguistica estremamente virale.

Perché chiamiamo il cartellino badge? Perché i giornali titolano killer e non assassino? Perché sono termini semplici e intuitivi, altri giustamente direbbero che è così perché vengono utilizzati di più e più le parole più si usano più si rinforzano. Personalmente credo che le ragioni vadano ricercate più in profondità e in particolare in una tempesta linguistica che abbiamo preparato noi come popolo.

Da un lato abbiamo gli italiani, un popolo che è stato unificato in tempi relativamente recenti e che per sua stessa natura ha mantenuto forti i propri legami e le proprie radici territoriali e dialettali. A questo aggiungiamo come conseguenza una scarsa predisposizione verso la lingua italiana, a tale proposito pensate alla trasmissione televisiva dal titolo Non è mai troppo tardi del maestro Manzi che negli anni sessanta insegnava l’italiano per superare il diffuso analfabetismo.

Gli italiani avendo, in generale, meno strumenti identitari nazionali hanno facilmente seguito la moda o il suono suadente di certe parole inglesi. A questo si aggiunge che, nonostante il doppiaggio in lingua italiana di film e altri prodotti audiovisivi abbia costituito una forma di difesa strutturale, la continua importazione di format televisivi nelle reti nazionali ha indubbiamente favorito la proliferazione di termini stranieri.

Dall’altro lato ci sono invece alcuni ambienti accademici che hanno avviato una crociata linguistica contro questi nuovi modi di dire, teorizzando a più riprese una vera e propria epurazione, un ritorno alle origini, giocando sulla nostalgia per i bei tempi in cui la lingua era “nostra” e ci connotava come popolo. Talvolta queste teorie sono state accompagnate da un forte sentimento nazionalistico: non dobbiamo infatti dimenticare che nell’inconscio collettivo degli italiani c’è il retaggio del fascismo, anche se spesso lo rimuoviamo acriticamente o con una condanna solo formale, che non aiuta a rielaborare quel periodo che ha investito ideologicamente il nostro Paese in modo negativo. La lingua è diventata allora un modo per rilanciare un certo sentimento di dignità nazionale che, cosa tipica del pensiero totalitario nelle sue molte formulazioni, può sussistere solo nell’identificazione di un “nemico”, molto spesso più immaginario che reale. In quest’ottica, la lotta alla proliferazione degli inglesismi si presta perfettamente a tale tipo di retorica.

Una parte del mondo accademico e in generale alcuni “presunti” intellettuali italiani, molto spesso troppo autoreferenziali, hanno tacciato l’italiano medio di limitarsi a scimmiottare gli americani, rinunciando a distinguersi dagli altri per conformarsi agli stili di vita dettati da marchi internazionali.

Gli intellettuali anziché instillare una analisi critica, e setacciare dove davvero le parole inglesi portavano un valore aggiunto in termini di funzionalità, si sono arroccati in cima alla “torre d’avorio” del sapere accademico dalla quale hanno solo saputo giudicare tutti gli altri.

A questi richiami gli italiani hanno risposto sostanzialmente infischiandosene della “purezza” della lingua nel parlare quotidiano e nel relazionarsi.

Scrive bene Wilhelm von Humboldt: «La lingua è la manifestazione fenomenica dello spirito dei popoli: la loro lingua è il loro spirito e il loro spirito è la loro lingua»1. E aggiunge: «L’uomo vive principalmente con gli oggetti, e quel che è più, poiché in lui patire e agire dipendono dalle sue rappresentazioni, egli vive con gli oggetti percepiti esclusivamente nel modo in cui glieli porge la lingua»2.

Il vero problema dell’inglesismo, linguaggio che si diffonde ogni giorno nell’uso comune, è che parliamo pensando di sapere cosa diciamo senza però riuscire nemmeno in molti casi a riportare quei concetti nella nostra lingua. In qualche modo siamo asserviti dalle stesse parole che usiamo perché non le padroneggiamo.

Anziché arroccarsi nella “torre d’avorio” gli intellettuali e la classe dirigente di questo Paese dovrebbero educare e educarsi come popolo all’analisi critica, alla chiarezza e alla limpidezza del linguaggio, senza rinchiudersi nella dimensione dell’ideologia, ed anzi recuperando un sano approccio genealogico come ci ha ben indicato Nietzsche. Pertanto dobbiamo tutti interrogarci non solo in merito a ciò che diciamo, ma soprattutto a perché lo diciamo, così da scegliere davvero consapevolmente come esprimerci.

Quindi proviamo a porci qualche domanda di consapevolezza su cosa stiamo ascoltando o dicendo quando magari affrontiamo con leggerezza termini come spread o spending review, e cerchiamo di esprimerci con parole di cui conosciamo effettivamente il significato e che non usiamo “a pappagallo” solo perché le utilizzano tutti.

 

Matteo Montagner

 

NOTE:
1. W.Von Humboldt, La diversità delle lingue, Roma-Bari, Laterza, tra. It. Di D. Di Cesare, 1991, p. 33.
2. Ivi, p. 47.

 

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La Chiesa all’opposizione: un’intuizione pasoliniana

Il destino della Chiesa, il potere, la lotta e la rivoluzione. Termini e uso del linguaggio anacronistici, desueti: infatti sto prendendo in considerazione un articolo di Pier Paolo Pasolini uscito esattamente il 22 settembre 1974 sul Corriere della sera, pubblicato con il titolo I dilemmi di un Papa, oggi.

Raccolto in Scritti corsari, l’articolo richiamava la possibilità che la Chiesa si facesse paladina di un movimento antagonista rispetto alla società di massa che proprio in quegli anni era agli albori, con la sua sacra dedizione al consumismo e la consegna della propria anima ai vizi dell’edonismo. Pasolini disegnava un orizzonte in cui il cattolicesimo potesse realmente “passare all’opposizione”, realizzando quel distacco (in tutto e per tutto volontaristico ed eminentemente “morale”) dall’incipiente disfacimento ultracapitalistico della società.

«Questo è certo: che se molte e gravi sono state le colpe della Chiesa nella sua lunga storia di potere, la più grave di tutte sarebbe quella di accettare passivamente la propria liquidazione da parte di un potere che se la ride del Vangelo», scriveva Pasolini.

Il nuovo fascismo, come lo chiamava, aveva infatti relegato la Chiesa ai margini della storia, mediante una sorta di nietzscheana trasvalutazione di tutti quei valori (cristiani e paleocapitalistici) che avevano dominato la storia recente. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità avevano ceduto il passo alla felicità legata ai consumi e ad uno stile di vita imperniato sul piacere e sul godimento.

Certo è lo stesso Pasolini a definire quest’idea della “rivoluzione” della Chiesa come «una prospettiva radicale, forse utopistica, o, è il caso di dirlo, millenaristica». Il tono usato dallo scrittore però tradisce un’ultima – recondita – speranza.

«La Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi, più repressivo che mai; corruttore; degradante. È questo rifiuto che potrebbe dunque simboleggiare la Chiesa: ritornando alle origini, cioè all’opposizione e alla rivolta. O fare questo o accettare un potere che non la vuole più: ossia suicidarsi».

Un richiamo, quello di Pasolini, che è chiaramente rimasto inascoltato nel tempo. E lo è stato perché in quell’articolo lo scrittore poneva una precondizione che la Chiesa non è mai stata disposta ad accettare: «Per passare all’opposizione, dovrebbe prima di tutto negare se stessa». La direzione è stata invece diametralmente opposta, visto che la Chiesa, più che accettare passivamente il potere, ne ha assunto anche la fisionomia. Non c’entrano nulla la ricchezza e lo sfarzo, che se mai ricordano un appannaggio quasi nobile del clero.

Parlo dei sistemi di comunicazione di massa, dei messaggi semplici e a forma di slogan veicolati attraverso la televisione e internet, della riduzione del messaggio evangelico ad articolo degno del peggior opuscolo, o della sua compressione (demonica?) in “stati” o “post”.

Questo rapporto simbiotico della Chiesa con la società dell’edonismo tecnicizzato potrebbe essere interpretato come un’alleanza, ma anche come una resa incondizionata e mai annunciata del Vaticano, o addirittura come un sodalizio tra due poli apparentemente indifferenti l’uno all’altro, oppure come una miscela – placida e silenziosa, non certo esplosiva – di questi tre elementi.

Certo è che la vicinanza dei modi e dei metodi del Cristianesimo degradato con il nuovo Potere, come lo definiva Pasolini, è assolutamente evidente. Tanto più quanto ormai le categorie del “lavoro”, dello sviluppo, della felicità e dell’amusement di cui si parla nella Dialettica dell’Illuminismo non vengono mai messe in discussione. Il suicidio sta proprio nel credere di poter veicolare un messaggio cristiano attraverso dei mezzi e degli atteggiamenti che sono per loro intrinseca natura anticristiani.

Ci vorrebbe il Tau al posto della cupola: ma questa è davvero – soltanto – un’utopia.

Roberto Silvestrin

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Politica, follia e altre brutte storie

Sì, No, Remain, Leave, la politica e la vita sembrano ormai in balia di una logica binaria che si addice più alle macchine che alle persone, i referendum e la continua pretesa di oclocrazia, una parolaccia greca che indica semplicemente il far scegliere e il demandare qualsiasi decisione al popolo sembrano aver catalizzato questo atteggiamento. Ma quella stessa logica si insinua molto più profondamente nel dibattito pubblico di tutti i giorni.

Prendete ad esempio la questione dei flussi migratori:

  • Destro-fascio:

A1) prenditeli a casa tua!

B2) se usassimo le risorse per gli italiani tutto andrebbe meglio

C3) ci rubano il lavoro e non portano risorse in un periodo di crisi finendo per impoverire ulteriormente le fasce più deboli della popolazione “autoctona” (ammesso che questo termine abbia un senso). Portano malattie e malavita!

  • Sinistro-buonista:

A4) ma allora cosa dobbiamo fare lasciarli morire?

B5) gli immigrati ci pagano le pensioni!

C6) gli immigrati fanno i lavori che noi non vogliamo più fare e sono un elemento di sviluppo per il paese in cui si trasferiscono

In alcuni enunciati ci sono fonti di verità, ma la contrapposizione sterile che esclude la ragione ci fa dimenticare le cose più importanti, cioè che stiamo parlando di vite umane, in questo forse credo che la posizione di sinistra ideologicamente sia più condivisibile salvo non voler spezzare qualsiasi legame di fratellanza con il genere umano e concludere quindi che ci sono vite di serie A e di serie B.

A4) nella sua formulazione grezza in fondo non dice nulla di sbagliato, la vita umana è un valore, peccato che posta così finisca per essere solo un sasso argomentativo da tirare in testa a chiunque provi a problematizzare le cose e quindi a renderle concrete come ad esempio chi fa notare che sì la vita umana è un valore e va preservata, ma che conta anche la qualità della vita e quindi le politiche legate all’accoglienza e alla gestione di flussi migratori che hanno impatti economici e sociali. La mancata ottemperanza della presa in carico in maniera seria dei problemi implicherà dar più forza alle posizioni A1), B2) e ci C3) fino a derive sempre più estremiste. Come risolve il Sinistro il problema, un solo enunciato: “zitto fascista!”. Ci sarebbe da chiedersi come mai tra le fasce più deboli della popolazione siano spuntati, anche in zone storicamente di sinistra, orde di neofascisti mascherati, non sarebbe più semplice accendere il cervello e dire che non sempre le persone quando votano di “pancia” per posizioni estreme non per forza sono ideologicamente fasciste, naziste o simili, ma semplicemente stanno esprimendo un malessere? Andatevi a guardare i voti delle periferie.

Salvare vite umane ha senso, ma dobbiamo preoccuparci anche della qualità della loro vita, invece pensiamo che basti tirarli di qua della costa e stoccarli (uso il termine provocatorio) da qualche parte mettendo delle risorse un po’ a pioggia in maniera assistenzialistica e provare a vedere cosa succede. Dove l’integrazione, quella vera, è demandata ad associazioni di volontari spessi squattrinati e mal organizzati.

Vi racconto questo interessante episodio che chiamerò “I Cento Panini e la Ben Pensante”:

Una volta il giovane che chiameremo Cento Panini ebbe la bella idea di scrivere su Facebook per dire che l’aspetto delle risorse economiche è importante e non va sottovalutato la seguente frase:

“Se ho cento panini e devo sfamare duecento persone posso dividerli a metà, se le persone sono quattrocento posso farne un quarto a testa, ma se le persone diventano un milione con un atomo di panino a testa moriamo tutti di fame. A risorse finite non si può immaginare una divisione infinita.”

Che cosa accadde? La nostra temeraria ben pensante che al posto di leggere l’appello del povero Cento Panini che invocava semplicemente l’aiuto dell’Europa nella questione dei flussi migratori e il fatto che l’Italia non fosse lasciata da sola si lanciò in rocamboleschi attacchi per dimostrare che il povero Cento Panini non era altro che un tremendo fascista e chi più ne ha più ne metta.

Quando la razionalità e la ragione abdicano alla tifoseria politica ecco che esplode la follia. Così sono i social, ma a noi piace dividerci, adoriamo massacrarci dividendoci in fazioni, gruppetti e tutto a discapito della qualità della vita nostra e degli altri. Aneliamo vessilli sotto i quali nasconderci, perché come scrive bene Canetti in un bellissimo libro disperdendoci nella massa siamo tutti responsabili e non lo è nessuno, siamo tutti decisori, ma in fondo ignavi quando ci schieriamo senza aver correttamente ragionato. La nostra protagonista Ben Pensante, che mal pensava, ha preferito trovare un oggetto su cui sfogare frustrazioni che forse provenivano da altrove che provare a cogliere il senso (giusto o ingiusto) del povero Cento Panini che di sicuro non voleva mettere in dubbio l’accoglienza e la vita come un valore, ma richiamava solo alla concretezza delle cose.

“LA NOTTE DELLA RAGIONE GENERA MOSTRI”

Gli intellettuali hanno poco da indignarsi per l’ascesa del populismo di Donald Trump e del Movimento 5 Stelle essi non sono la cura, ma il sintomo definitivo che il male è dilagato, che la politica non ha saputo dare risposte e quindi le persone che stanno male si abbandonano inevitabilmente a una protesta cieca senza proposta, perché ormai l’orizzonte di qualsiasi risposta possibile gli sembra ormai irraggiungibile, distante, vuoto. Il loro grido di dolore si leva oltre l’ovatta del tempo per generazioni ricordandoci tutti i fallimenti, tutte le ingiustizie e tutte le risposte mancate dove non c’è mai, MAI, nessuno che osi dire “Scusate, ho sbagliato” o se lo fa lo fa con una leggerezza tale da risultare incomprensibile anche ai propri simili.

Ho usato l’esempio dei flussi migratori per descrivere qualsiasi presa di posizione aprioristica, qualsiasi atteggiamento negativo nei confronti del prossimo e delle sue scelte. Capita centinaia di volte nei social media vedere vegani contro onnivori, vegetariani contro carnivori e un tutti contro tutti malsano, sbagliato. Gente che fa una grigliata e si sente in dovere di “trollare” allegramente sulla propria bacheca gente che semplicemente ha fatto una scelta diversa. E mi chiedo, ma l’umanità è veramente questa roba qui?

Siamo davvero diventati questa rumorosa massa litigiosa sempre pronta a scannarsi come nei viaggi di Gulliver per decidere se le uova vadano rotte dalla parte inferiore o superiore?

Qualche tempo fa ho dovuto sopportare, mio malgrado e facendoci i conti, di non esser stimato né rispettato da una persona che tutto sommato a modo mio ritengo pure interessante, avrei potuto provare a raccontarle la mia storia da dove vengo, addurre mille giustificazioni, magari raccontarmi, come fanno certi politici, che forse è semplicemente la gente che non capisce, ma le nostre azioni pesano molto più delle nostre intenzioni e alla fine traspare solo ciò che mostriamo. Avrei potuto raccontare l’infanzia difficile, paure, insicurezze, ma come la somma di tutte queste cose avrebbe anche solo intaccato il fatto che ho reiteratamente calpestato i suoi sentimenti? Alle volte semplicemente tediandola, altre infastidendola? Alla fin fine nessuno di noi si accorge mai quanto in basso può cadere e nella nostra vita quotidiana lo facciamo continuamente, i social aiutano, una cosa scritta dietro uno schermo sembra meno grave di molte altre cose. Alla fin fine tutto si riduce con la formula “Eh, ma io stavo scherzando”, credo che quasi tutte le cazzate del mondo siano nate con uno scherzo. Ci sono molti modi di ridere, si può ridere con qualcuno o di qualcuno, la differenza è abissale.

Questo mio appello a provare ad essere meglio di come siamo, ad accendere il cervello cadrà probabilmente nel rumore che ci circonda e forse avrete già chiuso questo palloso articolo per tornare a qualche social “scazzottata”, ma per chi è arrivato fin qui vuole solo essere un appello a provare a essere migliori e nessun giorno è mai troppo tardi per iniziare, basta sceglierlo. Usiamo il cervello, usiamolo tutti meglio.

Matteo Montagner 

La voce scientifica del potere. Un (micro-) caso storico

Il potere, così come lo descrive Michel Foucault1, è qualcosa che si vive perché esistente in atto. Non appartiene a nessuno, ma circola ininterrottamente attraverso infiniti rapporti che si intersecano e si diramano quotidianamente col compito di costruire il mondo. Chiunque di noi lo subisce (azione coercitiva) e lo esercita (azione produttiva) di continuo nel tentativo di ottenere una migliore ridefinizione di sé stesso nella propria realtà. Inoltre, il potere, essendo pervasivo, si esprime anche in ciò che l’individuo produce per esercitarlo: il discorso2, fenotipo del pensiero umano e simbolo di inclusione o esclusione a seconda di chi lo formula, di come lo si articola e di quando lo si proferisce. Si tratta di un passaggio importante per Foucault perché vi individua, nell’ «insieme dei discorsi che domina un’era»3, l’episteme, una macro-narrazione ufficiale che legittima la posizione di potere assunta da qualcuno a discapito di qualcun altro.

Di questa logica del potere si servì il discorso razzista italiano durante gli anni Trenta. Al fascismo occorreva, infatti, qualcuno che potesse elaborare una teoria scientifica capace di appoggiare la guerra di aggressione che il regime si apprestava a condurre contro l’impero etiope. In breve serviva un antropologo come Lidio Cipriani, voce centrale del razzismo antinero sulle pagine della Difesa della Razza, per definire l’etiope un “negro” alla pari delle altre popolazioni sub-equatoriali. Infatti nel suo volume Un assurdo etnico, l’antropologo razzista demolisce l’ipotesi camitica fin allora vigente, secondo la quale gli etiopi sarebbero stati i progenitori di culture “raffinate” come quella egiziana o quella greca e per questo motivo non potevano appartenere alla razza “negra”. Cipriani, in questa maniera, pose al servizio del regime il profilo tipo di una persona dominata solo dagli impulsi della natura, incorreggibile nella sua pigrizia e in grado solo di imitare le azioni dei “bianchi”. Una rapida descrizione di un soggetto da accompagnare paternalisticamente verso la “civiltà” umana (e occidentale), verso quel raziocinio che di lì a poco avrebbe creato la peggior macchina di sterminio di tutti i tempi.

Ritornando alla connivenza fra la politica e la ricerca. Dopo aver confutato le più accreditate tesi antropologiche, altrettanto razziste, per giustificare la fondazione dell’impero, Cipriani, in parallelo alla stabilizzazione dell’insediamento italiano in Africa, introdusse per la prima volta (dalle pagine della Difesa della Razza) l’ipotesi che l’etiope conservasse ancora un tratto mitico della sua originaria superiorità biologica-culturale: uno “spirito bellico” estremamente pronunciato. Una scoperta puntuale che aprì il dibattito intorno all’utilizzo della popolazione maschile etiope come soldati per future conquiste imperiali, fortunatamente mai avvenute.

Lidio Cipriani, per concludere, rappresentò il megafono scientifico del fascismo insieme a molti altri intelletuali. Una tipologia di discorso dalle fondamenta ben salde per quei (presunti) caratteri di rigore, verificabilità e riproducibilità propri del metodo scientifico.

Ogni epoca e ogni parte della Terra ha la propria episteme. Se da un lato appare più semplice scovare le macro-narrazioni passate, dall’altro occorre essere onesti e riflettere su quelle odierne. Idee?

Marco Donadon

NOTE:
1. Si veda M. Foucault, Microfisica del potere: interventi politici, Einaudi, Torino 1977.
2. Per discorso si intende tutte quelle espressioni dell’uomo volte a esercitare, cambiare, appoggiare il potere. O a viverlo per usare un termine caro a Foucault.
3. Benigno, Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Viella, Roma 2013, p. 151.

BIBLIOGRAFIA:
1. Benigno, Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Viella, Roma 2013.
2. Cassata, La Difesa della razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Einaudi, Torino 2008.

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Il clochard sporco e puzzolente

Il “clochard sporco e puzzolente” che “vive di espedienti”1 sembra una frase fatta apposta per descrivere un’immagine fumetto, come quelle contenute nei quaderni da colorare comprati da genitori spazientiti dai capricci, vittoriosi, dei figli. Quei quaderni dove ad ogni personaggio corrisponde un’etichetta, una didascalia che non lascia spazio ad altre interpretazioni o a profili alternativi.
In realtà “clochard sporco e puzzolente” fu pronunciata durante un’arringa tenuta dall’avvocato Luciano Di Pardo davanti alla Corte d’Assise di Varese, una realtà dove ad essere giudicati solitamente sono i casi giudiziari per i quali è previsto l’ergastolo o una detenzione superiore ai 24 anni. Un mondo, quindi, molto distante dagli ingenui (forse) colorami-tu consigliati per i bambini dai 2 ai 6 anni.

Il “clochard sporco e puzzolente” in un contesto maggiorenne assume dei contorni preoccupanti, se non addirittura allarmanti perché non rappresenta solamente un pregiudizio personale di un avvocato, al quale forse fin da piccolo son state raccontante storie di paura impersonate non dal solito uomo nero, bensì da senzatetto malvagi. A quanto pare il virgolettato nasconde molto di più. In primo luogo il termine francese “clochard”, accostato ai due aggettivi qualificativi seguenti, sembra essere stato utilizzato per avvolgere di una qualche solennità culturale  una affermazione, che senza il francesismo, sarebbe stata reputata non all’altezza di un’istituzione di Stato. Un bagaglio lessicale importante e un politically correct da invidiare, se non fosse che dietro a queste smancerie si intraveda un deserto sterminato di contenuti.
In secondo e ultimo luogo i termini “sporco” e “puzzolente”, in riferimento ad una persona, rimandano all’idea del contagio, al contesto delle malattie virali trasmesse attraverso il contatto o l’esalazione; in quest’ultimo caso tornano alla memoria gli antichi miasmi sui quali si basarono, nel corso della storia, fior fiore di teorie mediche.
Questa analisi linguistica, seppur frettolosa, pone subito in evidenza le radici di simili affermazioni, il sostrato culturale con il quale ci si pone ad osservare il mondo; un impianto cognitivo molto probabilmente accettato da certi ambienti votati all’ordine e a marginalizzare, molte volte inconsapevolmente, chi ordinato proprio non lo è. Il clochard per l’appunto.
A questo punto basterebbe dire che occorre porre al vaglio della critica i nostri pregiudizi, i nostri comportamenti, anche quelli che riteniamo compassionevoli e politicamente corretti, e la nostra visione del mondo. Però sarebbe la solita morale e non basta questa volta perché il “clochard sporco e puzzolente” ha un nome e un cognome, Giuseppe Uva. Non “vive di espedienti”, ma è un gruista. Non è un bambino, ma un uomo di 43 anni, quando nel giugno del 2008 morì all’ospedale di Circolo Varese dopo una notte passata in caserma.

Non voglio entrare nel merito dell’assoluzione dei due carabinieri e dei sei poliziotti accusati di omicidio preterintenzionale, anche se devo ammettere che di rabbia e indignazione ce n’è stata. Preferisco, a mal in cuore, rimanere nel campo del linguaggio che mi ha portato alla mente un rimando storico abbastanza noto: il Casellario politico centrale, l’ufficio nel quale venivano schedati le personalità considerate pericolose per la stabilità interna del Paese. Il numero di chi venne registrato salì vertiginosamente durante l’epoca fascista, nonostante questa pratica risalisse fin ai tempi di Crispi. Il lessico impiegato in questi prontuari ricorda sinistramente quello utilizzato dall’avvocato Luciano Di Pardo.

Ecco, liberiamoci  di questa eredità linguistica che nasconde altrettante recalcitranti eredità storiche.

Marco Donadon

[Aggiornamento 5.02/2017: Il processo di secondo grado si celebrerà su impulso della procura generale di Milano, che ha fatto ricorso con una impugnazione in cui ha attaccato duramente la sentenza della corte d’assise di Varese (presidente Vito Piglionica) che, in primo grado, ha assolto i 6 agenti di polizia e i 2 carabinieri imputati. In primo grado, la pm Daniela Borgonovo aveva chiesto l’assoluzione per tutti e per tutti reati.]

Note:
1. la frase incriminata recitava così: “Si è trattato di una spalmata gratuita di fango sull’onore di una famiglia, come si può pensare che una donna sposata possa tradire il marito per un clochard sporco e puzzolente?”. Come si può notare la frase esprime anche i termini di onore e tradimento, denotando una forte dose di maschilismo.

Bibliografia:
• per una lettura critica del virgolettato, una forte mano mi è stata data dal libro di David Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2015

[Immagine: https://www.123rf.com/photo_26081498_cartoon-homeless-man-with-his-dog-friend-sitting-in-a-carton-near-trash-bags.html]

“NOI VIVI” – Attraverso la Galleria Borbonica…attraverso la vita!

Solo i morti hanno visto la fine della guerra. Platone

Un parcheggio multipiano. Moderno, nuovo, in una delle zone più belle di Napoli.

Risali in superficie ed entri nella Storia, quella vissuta, quella fatta e sudata da uomini, donne e bambini; la storia della paura, delle corse affannate in cerca di riparo, dell’angoscia di esserci tutti.

Entri nella Galleria Borbonica e, senza nemmeno chiudere gli occhi, ti ritrovi immerso negli anni della seconda guerra mondiale, periodo in cui Napoli fu la città più bombardata, con 200 raid aerei dal 1940 al 1944, di cui 181 soltanto nel 1943.

Napoli sepolta nella guerra non aveva avuto un suo poeta né un suo reporter, perché per tutti era stato troppo difficile e sorprendente il sopravvivere all’arida tragedia di quegli anni per poterla subito fissare e prolungare in una memoria, in un diario.  Nello Ajello

Se ti concentri vedi le persone che entrano, corrono, con la paura sui loro volti; i bambini ritrovano i giochi lasciati il giorno prima, le mamme si assicurano di aver preso nei 15 minuti a disposizione tutto l’occorrente per stare…quanto? E chi poteva saperlo là sotto. Il tempo diventava una variabile superflua, ciò che contava era vedere che i tuoi cari erano lì accanto a te metri sotto terra.

Percorri la galleria e ti imbatti in resti di brandine, giocattoli, boccette di profumi…già i profumi! E non per farsi belli, ma per poter respirare!

Ciò che cattura più l’attenzione sono però le scritte sui muri: nomi, date e poi la più semplice ma più commovente: “NOI VIVI”. Provo ad immaginare cosa potessero significare quelle due parole per chi le ha scritte…sopravvissuti certo, ma intendeva tutta la famiglia, come a dire “ce l’abbiamo fatta”?, oppure indicava “ehi noi esistiamo! noi siamo sotto terra, ma siamo vivi! Vogliamo vivere e non moriremo per colpa vostra!”, come una specie di sfida a chi lassù, tanto meccanicamente, sganciava bombe sui civili.

Ecco, quella scritta a me ha trasmesso un’appassionata volontà di vita, uno stringere i denti una volta ancora, senza accettare di uscire da quel rifugio come topi che escono dalla tana incerti di non rivedere il nemico.

NOI VIVI.

Una complessità ben celata è nascosta dietro a queste parole, perché vi sono tante, troppe implicazioni emotive, culturali, storiche.

Oggi chi di noi pronuncerebbe questa frase? Potremmo essere scambiati per matti o per scopritori di acqua calda, eppure non possiamo nemmeno immaginare quanto per niente scontata potesse essere dentro quel rifugio.

Proviamo solo ad immaginare il suono della sirena che indica il coprifuoco e in 15 minuti prendere le cose indispensabili per stare “x” tempo sottoterra, magari non solo per te ma anche per i tuoi figli o i tuoi nonni; e alla fine, uscire dal rifugio con quali sensazioni, quali pensieri?

La persona che ha scritto Noi vivi cosa avrà trovato quel giorno, una volta ‘riemersa’? La stessa città? E la sua casa era ancora in piedi?

Tutte queste domande te le poni mentre visiti la Galleria Borbonica, perché hai voglia di capire, di riflettere sul fatto che in quell’epoca, la maggior parte del tempo era trascorsa sottoterra.

Libertà negata, quella di essere Persone libere di camminare per la strada, di andare a lavorare, di andare a scuola! La libertà di agire senza costrizioni e di autodeterminarsi era abolita, perché costretta dentro 4 mura, circondata da centinaia di persone e dominata dalla paura, quella stessa paura che ti faceva però riscoprire il valore della solidarietà e della condivisione, che ti faceva sorridere quando incontravi le persone della volta prima, felice che anche loro fossero ancora vive.

Ecco allora forse una qualche libertà era concessa anche sottoterra: quella della volontà di vivere, di crederci, di sperarci tutti insieme e di attendere la fine di un incubo, urlando “noi siamo vivi qua e saremo vivi lassù”.

Quando la guerra finì, possiamo pensare che quei rifugi vennero abbandonati e le persone che vi trovavano riparo tornarono a casa…invece la fine della guerra portò con sé gli strascichi di una tragedia senza fine, lasciando sfollate migliaia di persone.

La negazione di una casa propria, la dignità di uomini e donne calpestata dalle macerie rimaste al suolo, questo c’era nella confusione del fragore della “liberazione”. Liberazione da cosa? Dal sottosuolo? Dal nemico? Ora non importava più il prima, si pensava solo al futuro, a cosa sarebbe successo da quel momento in poi, la preoccupazione era di sopravvivere anche al senso di impotenza e di perdita materiale e morale.

In quel tunnel, anche se la guerra era finita, continuarono a vivere almeno 500 persone.

La prigionia non era, dunque, finita.

Se vi capiterà di percorrere la galleria, assimilate ogni sensazione, pensate che centinaia di persone vi passarono giornate intere, non solo un’ora come noi visitatori; fatevi avvolgere dall’estrema umidità, ascoltate ogni rimbombo dei vostri passi, guardate con empatia i nomi incisi nella pietra e pensate che tutto questo era ‘banale’ quotidianità.

Potete avere notizie della Galleria seguendo la pagina FB: Galleria Borbonica o visitando il loro sito: Galleria Borbonica

Valeria Genova

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Buon compleanno Italia!

Il 25 aprile 2015 ricorre il settantesimo della Liberazione. Una festa che ricorda a tutti i cittadini italiani ed europei che in quel giorno è finita la Resistenza.

Non è mia intenzione fare una lezione di storia su ciò che fu la Resistenza, ma cercherei di coglierne il senso profondo.

Negli anni ’40 del Novecento, in Europa stava avvenendo qualcosa di molto grave: la seconda guerra mondiale. Verso la fine della guerra, in Italia, un gruppo di partigiani, soprattutto antifascisti, combatteva una vera e propria battaglia contro il nemico . Ma chi fu il nemico in quel frangente?

In quegli anni, è evidente a tutti, il vero problema era il fascismo tedesco e italiano che stava lacerando profondamente non solo l’Unità italiana, ma bensì anche quella europea tramite le persecuzioni e le torture o i rastrellamenti.

Si comprende, allora, la grandezza di uomini e di donne che hanno saputo mettere in gioco la propria vita per liberare la nostra amata Italia dalla deriva autoritaria di Mussolini e Hitler. È grazie ai loro sacrifici che si può parlare di democrazia (dal greco δῆμος (démos): popolo e κράτος (cràtos): potere), di libertà di parola e di pensiero, che rientrano nella nostra Costituzione.

A mio avviso, stiamo vivendo, in un periodo storico di un smarrimento diffuso di identità : non sappiamo quale sia la nostra storia, chi siamo, e non abbiamo un’ idea di futuro. Sostanzialmente stiamo toccando il fondo, ma non stiamo reagendo positivamente. Stiamo perdendo la speranza e contemporaneamente ci stiamo chiudendo a riccio verso ciò che è diverso da noi stessi. Insomma, stiamo attraversando un periodo di “trasformazione sociale”, ma non abbiamo il coraggio di vedere e quindi eliminare i pericoli a cui stiamo andando incontro.

I giovani che lasciano il nostro Paese sono sempre di più, aumentano ogni giorno e contemporaneamente sbarcano sulle nostre coste centinaia di migranti. Evoluzioni sociali che fanno parte della storia, a cui noi possiamo solo assistere inermi. In tutto questo, però, è facile perdere frammenti del nostro passato.

Nasce, quindi, l’esigenza di ritrovare un senso ad un bene comune che i nostri nonni ci hanno lasciato in eredità: l’Italia libera. Con questo, non intendo sostenere i nazional-fascisti dell’ultima ora, tuttavia, credo, sia importante dimostrare un pò di orgoglio per il semplice fatto di appartenenza ad un popolo che ha saputo alzare la testa nei momenti di difficoltà.

C’è oggi, come allora (nel 1945) un bisogno di un’iniziativa di solidarietà tra i cittadini di uno stesso Paese e dell’Europa intera, perché solo attraverso una collaborazione di questo tipo può ricrearsi un clima di maggior serenità.

Ecco qual è il senso profondo del 25 aprile: liberarci dalle varie forme di male che affliggono il nostro Paese.

Un Paese in cui dilaga la corruzione, dove la mafia è una presenza costante, dove la disoccupazione aumenta ogni giorno, il giorno della Liberazione deve essere festeggiato.

Abbiamo il dovere di ricordare chi è morto per la nostra libertà.

Davide Tonon

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