Il mondo infestato: sull’esistenza dei fantasmi

Il fantasma è un segreto. Segreto celato, segreto di sangue, segreto inconfessato, segreto di rimorso, segreto d’oltretomba. Una questione irrisolta che continua a infestare il mondo, in attesa che qualche riflessione la sblocchi per renderla libera. Il fantasma è agitato e per questo ulula. È spaventato dall’incredulità dei vivi e per questo si nasconde. Ma insieme conosce il suo potere perché proviene da quelle dimensioni che i vivi temono di più. Il segreto che incarna si riferisce anche a questo, alla conoscenza che ha dell’Erebo, il regno dello Spirito; e poiché lo manifesta, costringe chi testimonia a elaborare una realtà cui non sapeva di appartenere.

Tuttavia, credo che parlare di fantasma in sé sia sbagliato, perché è difficile che un fantasma si manifesti senza un osservatore che ne permetta la sorgenza. Il fantasma è più un’esperienza, nel senso che si genera in un incontro tra due volontà: l’una concreta e agentiva, l’altra ambigua e immateriale. Nell’intreccio di due mondi consanguinei, si aprono le soglie che permettono uno scambio di immagini e aspettative. Da una parte vi è il polo del visitatore, che mosso dall’interesse di un incontro col fantasma cerca di mettersi nelle condizioni ideali per suscitarlo, e così si addentra in case abbandonate, predilige le ore notturne, invoca quei nomi che dovrebbero provocare l’apparizione; e vi è poi il polo del visitato, che invece non vuole farsi scoprire in senso stretto, ma si manifesta gradualmente, attingendo dall’ambiente in cui avviene l’incontro. Non sono ruoli fissi, perché un visitatore può venire visitato dal fantasma senza che si sposti di casa, o senza che si addentri direttamente in luoghi infestati. Ciò che conta è il fatto che il fantasma deve essere il tormento di qualcuno, o non potrà mai apparire. In questo senso il visitatore e il visitato fanno parte di una medesima volontà: quella dello Spirito.

Questo ci porta a dire che il fantasma è una ricomposizione. Cioè un’immagine corale, astratta da una serie di oggetti che testimoniano un passato e scatenano i ricordi. Poniamo caso di esserci addentrati in una casa infestata e che troviamo una foto su un comodino: è la foto della famiglia che un tempo abitava lì? O è la foto di una famiglia di parenti o di amici? Una risposta permette di comprendere qualcosa circa gli affetti e le priorità degli ex-abitanti, e già qualcosa può emergere sussurrando. Guardiamo poi le espressioni delle persone ritratte: perché lui ha uno sguardo tanto serio? Perché lei sembra assente e intristita? Perché la figlia osserva oltre la cellulosa con inquietante fissità? L’essenza che permea questi oggetti, per quanto confusa ci possa apparire, rievoca le voci del passato, ovattate dal tempo trascorso, dalla nostra ignoranza, dal loro oggettivo silenzio, dalla soggezione che incute nei vivi il rapporto coi morti. Il visitato (cioè il fantasma) si presenta attraverso ciò che gli oggetti suggeriscono a chi si pone nelle condizioni di ascoltarli. E quei suggerimenti sono la storia, il racconto e il sogno di una persona che un tempo abitava il nostro stesso mondo – che ha partecipato cioè dello Spirito. Questo è il fantasma: la reliquia di una persona, l’impressione che ha lasciato nel mondo umano, e per questo è riconoscibile. Ma ancora di più, è l’impressione che ha lasciato uno spirito in generale, giacché lo spirito si scopre come traccia. Il fantasma è l’intelligenza versata negli oggetti del mondo che emerge non appena qualcuno si pone in ascolto.   

Il segreto, una volta scoperto, tenterà di difendersi, perché in quanto segreto vorrà mantenersi tale. Come un sogno che per rimanere sogno non si fa realizzare. E il segreto si difende riemergendo prepotente, perché afflitto dalle ingiurie del tempo e dalla sua stessa segretezza. Mentre ci addentriamo nella casa e scorriamo il mobilio e le stanze, quel segreto acquista sempre più potere e intensità, generando i vapori spettrali, le visioni, le sensazioni agghiaccianti, la paura di essere tanto osservati da un’entità intangibile quanto odiati dalla stessa, sino a quando o scoppia, rivelandoci la presenza di uno spettro iracondo e minaccioso che noi non riusciamo ad affrontare, o si risolve in un momento di fortissima catarsi in cui lo spettro, per quanto ostile, ottiene finalmente la sua redenzione.

Sorrido riflettendo su quanto dico, perché immagino il provocatore di turno che bonariamente mi invita ad affrontare per una notte una casa infestata, dato che posso argomentare contro l’esistenza degli spettri in maniera tanto ragionevole. Ma appunto sorrido, perché mi rifiuterei di farlo quantomeno da solo, e farei così la figura del vigliacco, perché in realtà, a conti fatti, non ho dimostrato l’inesistenza degli spettri, ma ne ho invece dichiarato l’esistenza. I fantasmi esistono e a pensarci bene infestano l’interezza del nostro mondo. Fantasma non è semplicemente emersione del passato, ma è carica spirituale, emotiva e umana compressa all’interno di un oggetto. Le nostre città sono colme di spirito, le abitazioni, gli oggetti, le stesse parole che sentiamo sono cariche di spettri, di sussurri che annunciano mondi più ampi e irriducibili. Basta interrogare la maglietta che si indossa e subito emergono i volti contraffatti di chi l’ha cucita.

Fantasma è dunque eidolon (είδολον), immagine, simulacro nel senso greco del termine; è la traccia grazie alla quale scopriamo il passaggio dello Spirito e la sua continua presenza. Il mondo umano è un mondo infestato; la mente è mente estesa. La Storia stessa è un immenso fantasma perché è l’immagine pervasiva e polifonica dello Spirito che si argomenta. I libri evocano fantasmi; il telegiornale vomita fantasmi; l’immaginazione dà loro un volto. Lo Spirito insomma, che figlia fantasmi dovunque posa mani e sguardo, è qualcosa che è immanente al mondo, al mondo come artefatto della narrazione umana e delle sue conquiste, e in nessun modo può esistere al di fuori dei confini che questo ha per sé istituito. I fantasmi sono prodotti dello Spirito e per questo rimarranno qui con noi per sempre, fino a quando lo Spirito non cesserà di sapersi.

 

Leonardo Albano

 

[Photo credit Erik Müller su unsplash.com]

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Quando la memoria spezza l’Io: tra Aristotele ed Ernaux

Aristotele, nel De anima, suddivide il processo conoscitivo in tre stadi: sensibile, immaginativo e intellettivo. Mi voglio soffermare sul secondo stadio, l’immaginazione (o phantasia), in particolare sul concetto di phantasmata. Possiamo tradurre questo evocativo termine con la parola “immagine” – intesa come una sorta di fotografia mentale che riproduce all’interno del nostro cervello, grazie alla mediazione degli organi sensoriali, oggetti e soggetti esterni a noi. Tale sembianza viene poi elaborata dall’intelletto, completando così la procedura conoscitiva.

Nel romanzo Memoria di ragazza (L’orma editore, 2017) la scrittrice francese Annie Ernaux ci fornisce un phantasmata di se stessa nel passato, “la ragazza del ‘58”, così come si (e la) chiama lei. La Ernaux prende le distanze, si stacca dalla 18enne che è stata e questo suo alter ego passato aleggia – proprio come un fantasma – tra le pagine di quest’opera autobiografica. Quando non si chiamava ancora Ernaux ma Duchesne (il suo cognome da ragazza), alla viglia della maggiore età la scrittrice trascorse parte dell’estate presso una colonia estiva in Normandia lavorando come educatrice.
Per la prima volta si ritrovò lontana dalla sua rassicurante casa, dalla protettiva “morsa” dei suoi genitori – e si diede alla pazza gioia. Scoprì il sesso, un oscuro arcano, una pratica confusa che ebbe su di lei, ragazzina inesperta e ingenua, un impatto doloroso, totalizzante, umiliante. Annie s’invaghì di H., un educatore più grande, ritrovandosi in un batter d’occhio ad essere completamente soggiogata da lui.

«Ci sono esseri che sono sommersi dalla realtà degli altri […]. Un giorno, o piuttosto una notte, sono trascinati nel desiderio e nella volontà di un unico Altro. Ciò che credevano di essere scompare. Si dissolvono, e guardano il proprio riflesso agire, obbedire, trascinati nel corso sconosciuto delle cose».

Questo è l’incipit del libro, che descrive alla perfezione l’esperienza sentimental-sessuale che sconvolse la vita della giovane Annie.
Tuttavia, non è quest’esperienza a dominare nel romanzo.
Ciò che domina è il tentativo, compiuto dalla scrittrice, di «esplorare il baratro tra la sconcertante realtà di ciò che accade nel momento in cui accade e la strana irrealtà che, anni dopo, ammanta ciò che è accaduto». Il tempo scorre e guardandoci indietro, alla ricerca di noi stessi, troviamo solo dei fantasmi, lontani dal nostro io presente nello spazio e nel tempo.
Per compiere quest’impresa la Ernaux deve dissociarsi da se stessa, decostruirsi: «Non costruisco un personaggio di finzione. Decostruisco la ragazza che sono stata». Osservando una sua vecchia foto dell’epoca si getta a capofitto nei ricordi. Annaspa, ma questo è l’unico modo per tentare di carpire chi è stata, per raccontare e nel contempo rimembrare. È così che si accorge che il tempo, scorrendo inesorabilmente, sedimenta senza sosta strati e strati di ricordi di esperienze vissute, andando a modificare il nostro io. E «scavare fino in fondo in quel 1958 significa accettare la polverizzazione delle interpretazioni accumulate nel corso degli anni».

Togliendo quegli strati si verifica nella Ernaux una scissione dell’io: da un lato c’è l’io presente, consapevole di tutto ciò che ha vissuto; dall’altro lato un io scevro di ricordi – quelli dal 1958 in avanti. Quest’ultimo io è la “ragazza del ‘58” che la Ernaux cerca di riesumare; ma questa operazione di recupero è ardua, stancante, alienante. Per quanto la scrittrice si sforzi, ella si rende conto, nel corso della stesura del romanzo, che non potrà mai tornare ad essere quella che è stata. Come fare, allora, a raccontare un fantasma? Eppure quel fantasma «è reale fuori di me, il suo nome è scritto nei registri del sanatorio di S», ossia della colonia.
Leggendo Memoria di ragazza, ci accorgiamo di quanto sia perturbante rendersi conto che non siamo più chi siamo stati. Un abisso sedimentato di memorie separa la nostra esistenza passata da quella presente.

Qual è, dunque, il legame fra questi due poli che siamo e al contempo non siamo? Il legame è rappresentato solamente dal nome e dal cognome o dai nostri connotati fisici? E cos’è davvero l’io e come possiamo identificarlo e riferirci a esso, se esso continuamente, ad ogni secondo in cui il tempo avanza, si spezza diramandosi in diverse direzioni?
Chi studia e bazzica la filosofia, però, lo sa bene: infinite sono le domande, ma sconosciute – spesso – restano le risposte. Si procede per tentativi, ma potrà essere frustrante. Ma ci può anche capitare di stupirci rendendoci conto che anche noi stessi siamo i phantasmata di cui parla Aristotele. Io sono, e proprio essendo mi lascio dietro delle incorporee rappresentazioni di me stessa che potrò osservare come si osservano delle vecchie fotografie, con la distanza a mediare fra ciò che ero e ciò che sono. Esistere significa proprio stare in bilico su questa spaccatura, accettare il fatto che siamo soggetti “spezzati” e che il tempo ci oggettivizza, continuamente. Del resto, se la realtà è nel qui ed ora, va da sé che non è possibile afferrare compiutamente la memoria di ciò che eravamo.

 

Francesca Plesnizer

 

[immagine tratta da Google immagini]

la chiave di sophia 2022