La filosofia del kamikaze: l’esteta dell’uccido ergo sum

Turchia, 16 ottobre 2016: un uomo decide di farsi saltare in aria in un campus universitario a Gaziantep, città vicino alla frontiera con la Siria. Durante il blitz della polizia turca contro la cellula dormiente, sono rimasti uccisi 3 agenti e ferite altre 8 persone. Quel giorno, a causa di un’esperienza di volontariato, mi trovavo solo a pochi km di distanza dall’esplosione. Immobilismo e incredulità sono state le prime reazioni. E sebbene siano state diverse le domande a cui non ho trovato una risposta che potesse colmare ormai l’origine di una lacuna esistenziale, è riuscita a dipanarsi una certezza: la definizione di kamikaze.

Il termine kamikaze si attribuisce agli autori di attentati suicidi. È una parola di origine giapponese formata dai kanji vento (kaze) e dio (kami). Il termine fece la sua prima comparsa nel racconto storico Annali del Giappone in cui si narra la storia di Kamikaze, lo spirito del vento. Inizialmente la pratica dell’azione-suicida era usata solo in strategie militari di guerra, ma negli ultimi anni con l’espressione kamikaze si evoca quella dimensione terroristica che mette in scena uno “spettacolo”.

È possibile delineare due livelli di comprensione dell’esperienza del kamikaze: esterno e interno. Da un punto di vista esterno il kamikaze, nell’essere così legato al mondo delle apparenze, è un essere estetico, come viene definito da Laurent de Sutter (Teoria del Kamikaze, 2017).
Nella sua azione il kamikaze rende invisibile tutto con un’unica eccezione: il flash di luce causato dall’esplosione. Un’apoteosi di luce che dura poco più di un istante e che si porta con sé il suo stesso fautore, lasciando unicamente distruzione e morte.
L’attenzione mediatica che ne deriva non fa altro che sottolineare lo scopo di questa dimensione: impressionare. Nel mondo contemporaneo il kamikaze diventa un essere delle immagini e dell’apparenza, il cui fine è danneggiare il nemico non tanto a livello fisico, bensì su un piano psicologico. Il risultato è un’immagine forte al punto di paralizzare l’avversario con un atto che è avvolto dall’atmosfera del sublime.

Nella visione kantiana il sublime è ciò che è eccessivo: qualcosa che superi l’ordinaria bellezza e identifica una dimensione estetica dove la paura dello straordinario – inteso come non ordinario – sia contenuta nel proprio piacere. Un qualcosa dunque che può riferirsi solo alla sfera del “divino”: montagne, vulcani, tempeste – come sostenuto dal Romanticismo.
In questo caso, nella sfera degli attacchi suicidi, invece, il sublime è l’esperienza della catastrofe dell’essere nella sua totalità. Da qui il “romanticismo” dei turisti attratti dagli scenari di desolazione causati dalle esplosioni.

Dal suo punto di vista invece, quello interno, l’uomo-kamikaze comprende che il sublime si riferisce solo allo straordinario, accetta la possibilità di essere attraversato da quest’ultimo arrivando così a identificarsi in un entusiasmo “divino”. Il fanatico kamikaze che porta all’esplosione di sé stesso esiste solo in quel preciso istante. Una vita a prepararsi per quel gesto che è unico e irripetibile, in cui prende forma il senso di tutte le cose. Rivisitando così la locuzione di Cartesio Cogito ergo sum è possibile attribuirgli un’espressione analoga: Uccido ergo sum.
La figura delineata assume i tratti di un essere complesso sia nella sua dimensione esteriore che interiore. È pertanto chiaro come la guerra contro il fanatismo e la sua espressione nei kamikaze non si possa svolgere su un piano meramente fisico, ma deve coinvolgere dimensioni più complesse, andando a scavare nelle coscienze e nell’etica.
Importante è offrire dunque un’alternativa a quello che pare essere l’unica possibilità di esistere: il kamikaze.

 

Jessica Genova

 

[Immagine di copertina scaricata da pixabay.com]

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Preoccupati? #MeToo

Il principio della caccia alle streghe è estremamente semplice e diretto: si crea una categorizzazione di gruppo, si individua al suo interno una sotto-categoria di nemici, si prosegue con la caccia, con la pubblica gogna e, in determinati casi, con l’esecuzione non solo degli appartenenti a detta sotto-categoria, ma anche a chiunque condivida con questi anche un minimo elemento di similitudine.

Il processo nasce chiaramente in ambito religioso, e l’ovvio riferimento è ai processi agli eretici (quasi interamente in ambito cattolico) e, appunto, alle streghe (più che altro in ambito luterano e puritano) che, a partire dall’Europa dell’Alto Medioevo, hanno accompagnato il cristianesimo fino all’America del XVII secolo. Anche qui, da un obiettivo ben mirato e determinato, la “caccia” è degenerata ad una psicosi collettiva. Il dato artista ha raffigurato nel suo affresco un elemento classico, e quindi di origine pagana? È eretico. La tale donna è stata vista dare da mangiare a un gatto del villaggio? È una strega. Come tutti gli estremismi, però, anche quello della caccia alle streghe non è un elemento innato, e perciò limitato, alla religione: il celebre aforisma attribuito a G. K. Chesterton, “Chi non crede in Dio finisce per credere a tutto” vale anche per il fervore religioso e, ovunque una dimensione spirituale propriamente detta viene meno, sono le ideologie, sociali o politiche, ad ammantarsi di un assoluto che diventa però fanatismo.

È questo il caso, storicamente, della campagna anti-comunista lanciata dal senatore Joseph McCarthy negli Stati Uniti del Secondo Dopoguerra, con centinaia di scrittori, sceneggiatori, attori e registi messi all’indice per una serie di comportamenti “filobolscevichi”, laddove bastava un cappello inclinato a sinistra piuttosto che a destra per attirare sospetti di simpatie socialiste. È anche il caso, purtroppo, del movimento #MeToo, cominciato negli Stati Uniti come mobilitazione di denuncia di molestie sessuali, a volte perfino stupri, colpevolmente taciuti da una società nemmeno troppo nascostamente misogina e patriarcale.

Tramite internet il movimento si è diffuso a macchia d’olio, già modificandosi una volta arrivato in Europa: in Italia è diventato #quellavoltache, invitando le donne a denunce molto più personali che non la semplice alzata di mano di #MeToo, mentre in Francia si è trasformato nel ben più aggressivo e mirato #BalanceTon-Porc (“denuncia il tuo porco”). Dopo le prime storiche vittorie del movimento, che comprendono le dimissioni di un molestatore seriale del calibro del produttore Harvey Weinstein, questo si è ulteriormente diffuso, trasformato e purtroppo involuto in una ennesima autolesionista caccia alle streghe.

Ha fatto scalpore il sito Babe.net, che ha pubblicato una lettera in cui una donna ha accusato di molestie l’attore Aziz Ansari, descrivendo nel dettaglio una serata in cui, però, di molestie non c’è neanche l’ombra. La celebre femminista canadese Margaret Atwood è stata pesantemente attaccata perché ha “osato” invocare un giusto processo per Steven Galloway, professore della British Columbia University licenziato in tronco dopo un’accusa, non provata, di molestie. Anche il giornalista Andrew Sullivan e il filosofo Slavoj Žižek sono messi alla pubblica gogna dopo aver invitato a non confondere con molestie vere e proprie tutta una serie di esperienze magari spiacevoli ma del tutto innocue, comuni, e certamente non ascrivibili a reato.

Come la lotta agli eretici prima, e quella al comunismo dopo, anche quella contro molestatori o presunti tali ha investito l’ambito culturale. Recentemente, il regista Leo Muscato ha cambiato il finale della Carmen di Bizet, con la protagonista che si fa assassina di Don José “per lanciare un messaggio contro la violenza sulle donne”, mentre oltreoceano è partita una petizione per cambiare nei testi per l’infanzia il finale de La bella addormentata nel bosco, in modo da eliminare quel bacio non richiesto che sa tanto di molestia. Migliaia di persone hanno firmato anche la petizione di Mia Merrill per rimuovere dal Metropolitan Museum of Art di New York il quadro di Balthus Thérèse che sogna, considerato un invito alle molestie su minore.

La degenerazione di una battaglia sociale sacrosanta e troppo a lungo attesa, però, non si ferma qui, e pone già le basi per una psicosi di massa che è già cominciata, al momento in ambiti socioculturali fortunatamente circoscritti. In alcune frange più estreme di gruppi che si richiamano al movimento, è ormai sufficiente essere nati maschi per essere identificati come nemici del popolo di #MeToo, in una sorta di inquietante eco del femminismo militante rivoluzionario di Valerie Solanas e della sua invocata “rivoluzione di genere”. Rispetto alle precedenti, questa specifica caccia alle streghe avrebbe almeno il pregio di essere molto più facile ed autoevidente: difficile sbagliare (o difendersi), quando la colpa è essere un rappresentante di metà del genere umano.

 

Giacomo Mininni

 

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Breve fenomenologia del complotto

«La teoria sociale della cospirazione […] è una conseguenza del venire meno del riferimento a Dio, e della conseguente domanda “chi c’è al suo posto?”».
K. Popper

Per chi frequenta con una certa assiduità la rete, il tema del complottismo, ossia la mania di trovare spiegazioni improbabili dietro avvenimenti più o meno interessanti, risulta certamente familiare. La rete e i social network, sono attraversati da un nutrito sottobosco di gruppi e pagine intenti a riscrivere porzioni di storia a partire dall’assioma che debba esserci qualcosa o qualcuno oltre il suo fondo opaco capace di sorreggere e governare le vicende umane.

La tendenza umana ad interpretare la realtà in modo eccessivamente emotivo ed esente dal filtro razionale, affonda le radici nella notte dei tempi, il sacerdote sabino scrutava il cielo per ricavare dalla forma delle nubi premonizioni sull’avvenire, il complottista oggi va in cerca, a capo alzato, di scie chimiche.

L’antieconomicità, cioé leggere un evento oltre la sua oggettiva predisponibilità a farsi dilatare nell’interpretazione, è la cifra che accomuna l’uomo antico e l’odierno complottista1 ed allontana entrambi dal buon lettore di segni qual è ad esempio Sherlock Holmes. L’investigatore, che fa per professione ciò che ogni uomo fa da amatoriale e spesso inconsciamente, immagina possibili ricostruzioni di eventi a partire dagli indizi lasciati sulla scena, non forza la scena ed i segni nel quadro di una storia già immaginata e scritta2.

Le caratteristiche delle teorie dei complotti sono poche e trasversali: esse hanno sempre pretese di globalità, vogliono essere in grado di spiegare ogni evento, e per questo si fanno abbastanza vaghe ed elastiche da poter comprenderli tutti. Sono forme di fanatismo, sorde al buon senso comune e al pensiero critico, come dimostra il paradosso per cui talvolta il potere dirige la sete dietrologica delle masse a suo vantaggio, ossia organizza un complotto facendo credere ad un complotto, come mostra il caso dei protocolli dei Savi di Sion: falso storico in cui si illustra il piano e i metodi di una élite semita per conquistare il potere, che ebbe l’effetto di attizzare rancori antisemiti e diede il via alle innumerevoli atrocità compiute nel Novecento verso quel popolo.

«A voler trovare connessioni se ne trovano sempre, dappertutto e tra tutto, il mondo esplode in una rete, in un vortice di parentele e tutto rimanda a tutto, tutto spiega tutto…»
U. Eco

Le credenze complottiste ricordano religioni ctonie e notturne, reintroducono forzatamente il mistero in un mondo che, volutosi completamente trasparente, sente la nostalgia di qualcosa. Ciò che torna assume però la forma di un mistero minaccioso, di una divinità maligna, dell’incubo persecutorio e paranoide da cui non vi è scampo.

Se teorie di complotti e di società segrete sono sempre esistite, negli ultimi tempi il fenomeno sembra aver avuto un’impennata in termini quantitativi. Ciò è legato strettamente ai nuovi media, come internet, che mostrano continuamente al singolo la sua impotenza davanti agli eventi della Storia con la esse maiuscola, e al contempo gli danno modo di oggettivarla. Internet in particolare – se è vero che l’informazione non è indipendente dal medium che la veicola – per la sua struttura reticolare, si presta, attraverso un uso fazioso, ad equilibrismi associativi di cui si nutre il complotto. Il complotto è insomma più amico del web che non della biblioteca, dove ogni link è a faticoso carico del lettore.

Con ciò non si vuole negare che la realtà sia spesso più complessa e articolata dell’immagine che di essa viene globalmente veicolata, e che congiure e complotti nella storia dell’uomo ce ne siano stati. Tuttavia è necessario, attraverso il principio di economicità dell’interpretazione e il pensiero critico di cui si è parlato, saper distinguere tra spettri e verità, ponendosi tuttalpiù in uno stato di salvifica epochè, di scetticismo critico.

Francesco Fanti Rovetta

NOTE:

1. Se quella dell’uomo antico è però un procedimento di ipocodifica giustificato e fondamentale rispetto alla situazione in cui si trova, nel caso del complottista gli strumenti per un’interpretazione critica sono presenti ed è imputabile a lui stesso il rifiuto di un indagine razionale.

2. È curioso osservare che i due romanzi di Umberto Eco, romanziere e semiologo, che riscossero più successo, cioè Il nome della rosa (1980) e Il pendolo di Foucault (1988) siano rispettivamente un giallo e un thriller basato sul tema del complotto, come due facce, l’investigatore e il complottista, dell’essere simbolico e semiotico dell’uomo.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Nella testa di una jihadista – Anna Erelle

“Fratelli del mondo intero, lancio la fatwa contro questo essere impuro che si è preso gioco dell’Onnipotente. Se la vedete, ovunque siate, rispettate le leggi islamiche e uccidetela. A condizione che la sua morte sia lenta e dolorosa. Chi si fa beffe dell’Islam ne pagherà le conseguenze col sangue. Essa è più impura di un cane, violentatela, lapidatela, finitela. Insciallah”.

Leggo la fatwa lanciata da Abu Bilel verso Anne Erelle nel luglio 2014 e sento pervadere il mio corpo da brividi di orrore e al tempo stesso da una repulsione che contengo a fatica.

Famosa giornalista d’inchiesta francese, Anne Erelle si è sempre definita interessata all’indagine sui comportamenti devianti; poco importava quale ne fosse l’origine, la sua ricerca è sempre andata ben oltre i fatti, cercando di cogliere i motivi per cui i destini di moltissime giovani fossero fatalmente caduti in trappola. E’ fenomeno estremamente attuale quello che vede protagoniste le adolescenti europee: vengono reclutate tramite internet per scappare dai loro paesi d’origine e dirigersi in Siria ed affrontare la guerra santa per lo Stato Islamico. E’ molto forte il proselitismo jihadista, non ha nulla a che fare coi metodi più vecchi: la “Jihad 2.0” è efficace, moderna, accattivante.

La vicenda riportata in “Nella testa di una jihadista” ha inizio nel marzo 2014. La giornalista d’inchiesta francese Anne Erelle, durante una delle sue indagini, entra in contatto attraverso un profilo fake in cui si fa chiamare Melanie con Abu Bilel, importante mujahiddin di origine europea. L’uomo si invaghisce della ragazza già dai primi scambi di messaggi, ritrovando in lei un bersaglio ideale per il reclutamento di giovani convertite, e in meno di ventiquattro ore le chiede già di incontrarsi su Skype, offrendole un matrimonio e un futuro in cui poter combattere per uccidere gli infedeli, per contribuire alla trasformazione dell’Islam in unico sovrano mondiale.

Un uomo che chiede a Melanie del profumo che porta e al tempo stesso esalta i suoi luoghi di battaglia in cui si vede ancora il sangue dei corpi uccisi.

E’ un lavoro duro quello di uccidere gli infedeli, mica sono in un villaggio turistico“: così afferma con fierezza, rimarcando tratti di fanatismo che non rendono giustizia all’umanità, che offendono il concetto stesso di vita per qualsiasi religione o culto che meriti di chiamarsi tale.

Dopo settimane di chat, Anne Erelle e la sua sete di indagine la portano ad accettare la proposta di matrimonio di Abu Libel e a dirigersi in Siria: al confine viene però scoperta e costretta a tornare immediatamente in Francia. Su di lei viene lanciata la fatwa mortale, un esito che la porta ad essere costretta a vivere sotto copertura e falso nome, nascosta per sopravvivere.

E’ una storia di coraggio ed indagine, è un diario di lotta e determinazione. Una donna che lotta per comprendere un fenomeno che è ancora troppo distante dalle nostre concezioni, pur avvicinandosi a noi sempre più pericolosamente. Cosa affascina le giovani donne che lasciano famiglie, parenti e amici per una vita ad estremo contatto con la violenza in cui alternano continuamente gli status di vittime sottomesse e carnefici spietati?

E’ un meccanismo complicato ed avvincente quello degli jihadisti, che considerano più facile conquistare l’Occidente avvicinandosi alle donne, perché il sesso più debole ed influenzabile.

“Voi donne europee siete maltrattate e considerate oggetti. Gli uomini vi esibiscono al loro fianco come un trofeo. E’ necessario che l’IS raggiunga il maggior numero di persone, ma prima di tutto quelle più maltrattate, come le donne”.

Abu Libel offre a Melanie la salvezza, sembra volerla portare via da un mondo che non la considera abbastanza. Abbastanza importante. Abbastanza persona. Abbastanza donna. Le prospetta importanza, ma al tempo stesso il suo tono non è soltanto autorevole, ma piuttosto autoritario. Un’autorità che non lascia dubbi sulla differenza tra oggettività o soggettività di una donna. Un’autorità che affascina troppe donne indifese, perché alla ricerca di considerazione. Un’autorità che preoccupa le donne che lottano ogni giorno per essere considerati tali. Un’autorità sfrontata, che non conosce limiti e riserve.

L’esperienza di Anne Erelle è quella di una donna che lotta per le donne. E’ quella di una passione talmente forte da mettere a rischio la propria vita. E’ quella di chi ha talmente tanto coraggio da poter rinunciare alle paure più comuni e giustificate. Un diario d’inchiesta da leggere d’un fiato per aprire gli occhi su una realtà terribilmente in prospettiva e – ancor prima di tutto – per raccontare una storia di coraggio.

“La storia dell’Uomo è anzitutto e soprattutto una storia di coraggio: la prova che senza il coraggio non fai nulla, che se non hai coraggio nemmeno l’intelligenza ti serve”. Oriana Fallaci

Cecilia Coletta

[immagini tratte da Google Immagini]

Vivere per l’Islam

La riflessione di oggi è nata dopo aver letto una frase su Facebook condivisa da una donna di religione mussulmana.

“We are peraphs living in times when living for Islam is more difficult then dying for it”

La frase può essere così tradotta: “ Probabilmente viviamo in un’epoca in cui vivere per l’Islam è molto più difficile che morire per esso”

Se non mi stessi trovando in un mondo islamico da circa un anno, quasi sicuramente avrei letto queste parole in un modo diverso. Mi sarei basata sulle notizie che arrivano in Italia di guerre, guerriglie, lotte, stragi e rivendicazioni e avrei messo a fuoco solo la seconda parte. Morire per esso.

Ma cosa vuol dire invece (per una donna) vivere per l’Islam?

Premesso che posso fare riferimento solo alla realtà di Doha, quella che ho conosciuto fino ad oggi, alle persone incontrate e alle esperienze che mi sono state raccontate, posso affermare che la maggior parte delle donne mussulmane sono fiere di essere tali.

Indossano l’abaya e il velo con orgoglio. Rispettano usanze e preghiere. Ho addirittura conosciuto donne europee che si sono convertite alla religione mussulmana e l’hanno fatto con la piena libertà, consapevolezza e convinzione.

La maggior parte delle donne arabe in Qatar sono donne che lavorano, che guidano, che viaggiano. E sono donne che lottano. Lottano contro il pregiudizio del velo.

Perchè diciamoci la verità. Quel velo, apparentemente così sottile, è in realtà una barriera spessa e pesante. È un muro. Un ostacolo che noi (non mussulmani) preferiamo aggirare piuttosto che affrontare. Preferiamo far finta di non vedere piuttosto che cercare di capire.

Chiara Amodeo - Doha

La condizione della donna varia da Paese a Paese.

Il riconoscomento dei loro diritti dipende molto dall’interpretazione che si da alla Legge Islamica (la Shari’a).

I più conservatori interpretano i passi del Corano includendo differenze di status e diritti tra i due sessi.

I movimenti più attuali invece danno un’interpretazione più paritaria.

Detto questo, per quanto le mussulmane possano essere fiere dei loro costumi e delle loro tradizioni, non si può certo dire che essere una donna in Qatar sia semplice. Locale o espatriata, europea o asiatica, poco importa: gli ostacoli sono all’ordine del giorno. I pregiudizi sono tantissimi. I luoghi comuni non si contano nemmeno.

Chiara Amodeo Doha

Allora mi chiedo, sarà per questo che vedo sempre più donne locali trasferirsi a Londra, la meta più ambita ed amata da ogni qatarino e già in parte conquistata grazie a quella bandiera bianca e bordeaux che sventola su Harrods?

Chiara Amodeo


[Immagini tratte da: http://stylonica.com/top-20-hijab-styles/ e  https://www.flickr.com/photos/61832963@N05/5627087731/]