Piccoli cuori artificiali

In un comunicato stampa del 6 dicembre 2016, l’Ospedale Pediatrico del Bambino Gesù si è incaricato di avviare, dai primi mesi del 2017, la sperimentazione clinica del minicuore artificiale Jarvik 15mm.

Fu esattamente all’interno del Dipartimento Medico Chirurgico di Cardiologia Pediatrica del Bambino Gesù che, quattro anni fa, fu impiantato, per la prima volta al mondo, un prototipo di Jarvik Heart miniaturizzato, salvando la vita a un bambino di soli sedici mesi.

Parallelamente, è stata la Food and Drug Administartion, organismo supervisore di controllo della sanità statunitense, ad aver autorizzato la sperimentazione clinica su ottantotto bambini affetti da una cardiopatia avanzata del minicuore artificiale, il dispositivo di assistenza ventricolare sinistra della Jarvik.

Lo scopo di tale ricerca sperimentale è quello di verificare l’affidabilità di due dispositivi cardiaci distinti: da un lato, il dispositivo ventricolare sinistro intracorporeo della Jarvik 15mm, alimentato da batteria esterna, e dall’altro, il Berlin Heart pediatrico, un sistema di assistenza paracorporeo che costringe il bambino, in attesa di trapianto, al ricovero ospedaliero.

Certo, il fine ultimo di queste ricerche non viene valutato unicamente in termini quantitativi, bensì in termini qualitativi. Si tratterebbe, infatti, di comprendere quale sarà la soluzione clinicamente più efficace per il benessere e la sopravvivenza dei piccoli pazienti.

L’ingegneria medica ha fatto dei grandi passi in avanti negli ultimi decenni.

Basti pensare ai LVAD (Left Ventricular Assist Device), dei dispositivi di assistenza ventricolare sinistra di nuova generazione.

Considerando la scarsità di donatori rispetto all’elevato numero di pazienti cardiopatici, questi apparecchi rappresentano una reale terapia alternativa al trapianto di cuore. Permettendo così a un bacino più ampio di pazienti di poter sopravvivere; talvolta, di sopravvivere in condizioni di salute migliori rispetto agli stessi trapiantati.

Ed è esattamente questo il punto. Senza LVAD, un paziente con scompenso cardiaco avanzato e non inserito in lista, muore. Non ha alcuna speranza di poter sopravvivere.

C’è tuttavia da sottolineare che i LVAD, se da un lato sono considerati impianti tanto invasivi quanto una qualsiasi altra operazione a cuore aperto, dall’altro lato funzionano unicamente tramite un controller a batterie ricaricabili. Non è un caso che, proprio quest’ultimo aspetto, possa sollevare alcune problematiche etiche.

Pertanto, la vita dei pazienti con impianto LVAD è appesa letteralmente ad un filo: dipendenti di questa pompa artificiale, devono costantemente fare attenzione alla durata delle batterie – di circa otto ore– che li mantengono in vita. Dimenticarsi di ricaricarle equivarrebbe a morire.

Se qualcosa andasse storto, se un meccanismo interno smettesse di funzionare, sarebbe necessario correre d’urgenza al più vicino centro VAD di riferimento.

In Italia, però, una decina di regioni sono sprovviste di tali centri. Non è un caso se la posizione geografica è diventata, nel nostro territorio, uno degli elementi imprescindibili per la selezioni dei candidati all’impianto, sollevando per altro numerosi interrogativi circa l’equo accesso a queste preziose – e costose – risorse, capaci di mantenere in vita in casi di cardiopatia grave e avanzata.

Di possibili conseguenze ed effetti collaterali, è innegabile, ce ne sono tanti. Per questo, è giusto che il paziente, accompagnato dall’équipe sanitaria, sia reso consapevole – se ancora cosciente – delle diverse alternative cliniche, così come degli effetti collaterali post impianto.

Quando si parla di bambini, però, è tutta un’altra storia. C’è una creatura che non sa e non è cosciente di ciò che potrebbe andare incontro. C’è la sua innocenza e l’ingiustizia di una vita tolta ancor prima di essere vissuta. C’è una dignità da preservare fino all’ultimo respiro. C’è il dolore di quei genitori posti di fronte alla complessità di un interrogativo che oscilla tra la “vita a tutti i costi” e il “lasciare andare” il loro bambino. Come diventa possibile fare i conti con la complessità di un’esistenza che non lascia scapo? Come decidere per il bene del piccolo paziente, allo scuro delle imprevedibili conseguenze che l’impianto potrebbe effettivamente causare? Come possiamo proteggere i nostri bambini e fare loro del bene?

Seguire il principio ippocratico di beneficienza – o beneficialità –, in linea con il detto latino primum non nocere, conduce i medici, i professionisti sanitari e i familiari ad affrontare situazioni complesse, spingendo ciascun soggetto implicato nella relazione di cura a rivalutare il valore del senso dell’esistenza. Un’esistenza talvolta già strappata e ferita e che, forse, chiede silenziosamente di essere lasciata andare.

 

Sara Roggi

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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La musica che guarisce

La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori. Johann Sebastian Bach

Succede che quando qualcosa ti viene imposto finisci per odiarlo. Succede anche che quando qualcosa ti viene imposto non ti accorgi di amarlo e di quanto questo amore ti faccia sentire bene. È successo questo a Margherita e al suo pianoforte.

Undici mesi fa la vita di Margherita è cambiata. Undici mesi fa a sua sorella è stato diagnosticato un tumore al polmone con metastasi ossee. Margherita si è ritrovata a guardare sua sorella fare cicli di chemioterapia e radioterapia, trasfusioni, tac e risonanze magnetiche di controllo. Margherita si è ritrovata a guardare i suoi genitori disperarsi, pregare e sperare, mentre lei rimaneva in un angolo, quasi invisibile. Margherita undici mesi fa è stata travolta dal buio, un vuoto totale in cui non riusciva a capire più chi era. Undici mesi fa si è ritrovata a camminare sempre in punta di piedi per non disturbare, a non mostrarsi mai triste e, in un certo qual modo, a non provare più niente. Undici mesi fa suonare il pianoforte e la musica erano solo un qualcosa che le toglievano il tempo di stare con gli amici. Ora, il pianoforte, è diventato il suo migliore amico, il suo confidente. Ora, la musica, è diventata la sua voce.

Margherita suona per non ascoltare il silenzio assordante che la circonda. Margherita suona perché suonare le ha insegnato a non pensare. Margherita suona perché lasciare le dita andare su quegli ottantotto tasti le permette di lasciare libero il suo dolore. Lasciare le dita andare su quegli ottantotto tasti permette al gelo che prova, e a cui si costringe, di diventare lentamente primavera. Margherita suonando riesce a dare sfogo alla tormenta che cova dentro di lei senza che questa la frantumi. E in questi undici mesi Margherita ha suonato, suonato, suonato… per raccontare a se stessa quello che le parole non riuscivano a spiegare. Parlava attraverso la musica di Chopin, il “poeta del pianoforte”. Margherita ha trovato nella sua musica uno specchio fedele dell’animo, una confessione intima dedicata a coloro a cui non è necessario dire tutto, ma si può anche solo suggerire. Il suo pezzo preferito era diventato lo Studio Op. 25 No.11. Una composizione emotivamente intensa che le faceva pensare a una bufera, con il turbine di vento che trascina tutto con sé. La rabbia. Il dolore. I sensi di colpa. La confusione. Tutti i suoi sentimenti più nascosti in un unico brano. Lo suonava e si scopriva, una volta eseguito, le guance bagnate dalle lacrime. Quando invece suonava il suo Notturno op. 48 No.1 le sembrava di raccontare di lei, di quello che era diventata: una persona introversa e piena di paure che ha voglia di scoppiare e dire tutto ciò che pensa, vomitando la rabbia e la tristezza che si è ritrovata nel cuore. Intimo e grandioso al tempo stesso, un notturno unico. Un ampio respiro iniziale che porta a un crescendo di angoscia, passione e tormento interiore fino a svanire, consumato, proprio come lei. Suonare il Preludio Op.28 No. 4, malinconico e dolce al tempo stesso, la lasciava vagare, la faceva entrare in un mondo magico per trovare un attimo di sollievo. La solitudine. La delicatezza. L’anima melanconica.

Margherita in questi ultimi undici mesi ha trovato nel pianoforte e nella musica il suo modo di sopravvivere, perché anche se non era lei quella malata e a rischio di vita, una parte di lei è morta undici mesi fa. Margherita in questi ultimi undici mesi ha trovato nel pianoforte e nella musica uno strumento per esprimersi e trasmettere tutto quello che aveva dentro, sotto l’involucro di ghiaccio che si era costruita. Lasciare che tutti i suoi sentimenti avessero luogo, nella possibilità di non venirne travolta ma di poterli controllare nelle sue dita pur vivendoli l’ha aiutata a sopportare il peso di tutti quei sentimenti per poter continuare a vivere, trasformando il suo dolore in musica, raccontando il suo dolore attraverso le note.

L’uso della musica come terapia è vecchio quanto la musica stessa. La musica, ascoltata o messa in atto, o più in generale il suono può essere veicolo di autoterapia o essere usato come terapia da parte di uno specialista. La musica è uno strumento per esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti e i propri pensieri. La musica produce effetti sul nostro corpo, coinvolge la mente e origina un’esperienza emozionale. L’ascolto o la messa in atto di un brano non è mai identico a se stesso, ma è un continuo divenire e rispecchiarsi nel proprio sentire, è la manifestazione della complessità della persona stessa. La musica ha la chiave per aprire le nostre porte più intime quando le nostre emozioni ricercano la strada per emergere. Usando le parole di Tolstoj

“La musica è la stenografia dell’emozione. Emozioni che si lasciano descrivere a parole con tante difficoltà e invece sono direttamente trasmesse nella musica ed in questo sta il suo potere e il suo significato”.

Questo articolo è anche una mia dichiarazione d’amore. Amore per la musica, per il pianoforte, per Chopin. Amore per la scrittura. Amore per le ali che riusciamo a costruirci sulle nostre debolezze. Non so spiegare come mi sento quando suono, scrivo o ho a che fare con tutto ciò che riguarda la psiche. Posso solo dire che è quel genere d’amore che ti fa sentire perfettamente imperfetta e di cui non ne hai mai abbastanza. Un articolo pieno d’amore per suggerire di ricercare quell’Amore, quella Passione che fa stare bene, nonostante la vita, nonostante tutto. Perché, anche se a volte manco di senso pratico, non manco mai di cuore.

 Giordana De Anna

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[Immagini tratte da Google Immagini]