Derrida e l’11 settembre. Il terrorismo come malattia autoimmune

L’11 settembre 2021 ricorrono i vent’anni dall’attentato alle Torri Gemelle, uno degli eventi più iconici e drammatici della nostra storia recente. Alle ore 8.45, circa, il primo aereo si schiantò contro la Torre Nord: in pochi minuti quelle immagini fecero il giro del mondo, che incredulo rimase a guardare col fiato sospeso. Tutti si ricordano cosa stessero facendo in quel momento e tutti pensarono più o meno alla stessa cosa, e cioè che era in atto un cambiamento irreversibile.

Per approfondire le implicazioni di questo evento, in particolare, e del fenomeno terrorismo in generale, la filosofa Giovanna Borradori, professoressa del Vassar Collage, intervistò due dei massimi pensatori contemporanei: Jürgen Habermas e Jacques Derrida. I due dialoghi sono stati raccolti nel libro Filosofia del terrore del 2003 e pubblicato in Italia da Laterza.

È proprio grazie a questo incontro che Derrida elaborò, in linea col suo stile suggestivo e simbolico, la definizione di terrorismo come malattia autoimmune. Un’affermazione a primo acchito provocatoria e inaccettabile; è come se il filosofo volesse sminuire questa tragedia e deresponsabilizzare, addirittura giustificare, gli attentatori. Ovviamente si tratta di un’analisi molto più profonda, ma certamente in contrasto con i luoghi comuni del dibattito pubblico post 11 settembre e con la retorica della War on Terror.
Con malattia autoimmune si intende una serie di patologie molto particolari che derivano da un’anomalia del sistema immunitario, il quale, trattandoli come agenti estranei, attacca alcuni tessuti sani del nostro organismo. In altre parole, Derrida ci dice che solo in apparenza il terrorista è un nemico esterno, non rappresenta l’atto di guerra di organizzazioni straniere, ma è il sintomo di una crisi intrinseca nel nostro sistema politico e geopolitico. 

Maurizio Cattelan

Maurizio Cattelan, “Blind”, Hangar Bicocca 2021

L’osservazione di Derrida si sofferma sul fatto che gli attentatori hanno utilizzato armi, tecnologie e tecniche tradizionalmente occidentali. Da dove hanno assimilato queste competenze? La risposta non lascia alibi: sono stati gli Stati Uniti che durante la guerra fredda hanno addestrato gli afgani per sottrarre quella regione al controllo dell’URSS. È stato dunque l’Occidente che, in prima battuta, ha preparato le basi per quello che si sarebbe concretizzato nell’11 settembre.
Perciò, secondo Derrida, questo avvenimento non può essere considerato una data storica; non inizia un’epoca nuova, ma si pone in continuità con quella precedente. Non può essere nemmeno definito un major event, ovvero un evento di importanza tale da segnare una generazione intera. Non è stato un avvenimento inaspettato e improvviso, non è stato un “terremoto culturale”, ma la diretta conseguenza di una catena di responsabilità chiaramente attribuibili. Non irrompe nella storia e, in senso arendtiano, non è portatore di novità.

A mio avviso, l’aspetto più interessante dell’analisi di Derrida è il fatto che essa sia una chiave interpretativa valida anche per fenomeni successivi all’11 settembre. Caso emblematico sono i due principali attacchi terroristici che hanno colpito Parigi nel 2015: l’attentato alla sede del periodico satirico Charlie Hebdo, avvenuto il 7 gennaio, e quello al Bataclan del 13 novembre. I fratelli Chérif e Saïd Kouachi, autori del primo attentato, erano nati a Parigi da una famiglia di origine algerina e all’epoca dei fatti avevano rispettivamente 32 e 34 anni. Il loro complice, Amedy Coulibaly, aveva 33 anni ed era nato in Francia da una famiglia originaria del Mali. Il secondo caso ha coinvolto una decina di attentatori, tra questi anche il ventiseienne Salah Abdeslam, nato in Belgio da una famiglia originaria del Marocco. Nelle foto che circolavano durante le ricerche si vede un ragazzo in jeans e giacca, con il gel tra i capelli pettinati all’indietro; un’immagine molto lontana dallo stereotipo di jihadista.

Questi quattro nomi sono quattro esempi di giovani uomini nati e cresciuti in Europa, membri della cosiddetta “seconda generazione” che, per vari motivi, si sono successivamente radicalizzati fino a diventare autori di stragi. Di fronte a questi casi l’allegoria del terrorismo come malattia autoimmune è ancora più evidente. Questi attentati nascondono il fallimento di un preciso sistema istituzionale e politico: la Francia post-coloniale e multiculturale non ha saputo prevedere e prevenire quello che sarebbe successo. 

La riflessione derridiana, per quanto efficace, è mancante almeno in un aspetto: la sua impostazione è prettamente analitica e non risulta capace di proporre soluzioni percorribili. La malattia diagnosticata è una crisi dell’intero Occidente, dalle cause profonde e dai sintomi a lungo termine, ma per quanto riguarda il dopo non viene detto nulla. Qui Derrida si ferma e implicitamente passa il testimone, per uscire dalla lunga degenza spetterà alle nuove generazioni trovare la cura.

 

Leonardo Rosa

Leonardo Rosa (1994) si è laureato in filosofia prima a Trento e poi presso l’Università degli Studi di Milano. I suoi principali settori di interesse sono la filosofia politica e il pensiero politico contemporaneo. Attualmente lavora come redattore e editor presso alcune case editrici. 

[Photo credit Aidan Bartos via Unsplash]

Addio all’America

George Floyd è morto in mondovisione per mano di due agenti della polizia di Minneapolis, Minnesota, USA.
Difficile affermare il contrario davanti all’evidenza delle immagini, difficile, o meglio, inutile strumentalizzare l’accaduto: i vari ma, i vari però, i vari bisognerebbe vedere com’è andata nel complesso, si infrangono nel baratro di una società che ha palesemente fallito.

L’America, da quando è stata scoperta, ha sempre cavalcato l’onda dell’aura magica che le abbiamo attribuito, continuamente edulcorata grazie – o a causa – della situazione precaria, belligerante, confusa degli Stati al di qua dell’Atlantico. Il mito di una Terra Promessa, in cui i sogni avrebbero potuto prendere forme decisamente materiali, ha spinto milioni di uomini a una migrazione che non ha mai conosciuto una vera e propria interruzione.
Per molti di questi uomini ha davvero rappresentato un punto di svolta non indifferente, soprattutto dal lato economico; “far fortuna in America” è stato il motto che ha animato intere generazioni, ha ispirato musiche, canzoni, ballate, poesie, testi teatrali e letterari.
Dietro il ridente panorama di progresso e civiltà che segnava il non plus ultra della società occidentale, si annidava tuttavia il germe silenzioso che avrebbe poi generato le grandi contraddizioni dalle quali dobbiamo prendere definitivamente distanza.

Gli Stati Uniti sono stati fondati da inglesi, olandesi, svedesi, tedeschi, italiani, irlandesi, spagnoli e, con la tratta degli schiavi, africani. Per cercare di costruire un’identità comune a questo mosaico di popoli, la classe dirigente americana ha sempre fatto leva sul simbolismo: la bandiera, l’inno nazionale, la celebrazione delle ricorrenze patriottiche, la mitizzazione di alcune figure chiave come George Washington, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln, senza dimenticare icone più popolari come l’hot-dog, il baseball e migliaia di altri stereotipi che hanno contribuito ad alimentare la great America.
Un percorso che se in origine partiva dall’Europa e dagli europei, all’inizio della Guerra Fredda, anche grazie al bipolarismo mondiale, prendeva la direzione opposta; una sorta di reflusso magico.

Eppure solo nel 1964, con la Civil Rights Act, veniva formalmente abolita la segregazione razziale e l’anno successivo aumentavano gli aventi diritto al voto. Sempre nel Paese dalle origini multietniche si è sviluppato il Ku Klux Klan, gruppo terroristico dedito all’esaltazione della razza bianca, tuttora presente e in attività.
Negli Stati Uniti è presente il Partito Nazista Americano – i “Nazisti dell’Illinois” citati nel film The Blues Brothers – un po’ in contrasto con l’esaltazione commemorativa dei veterani e dei caduti di tutte le guerre, compresa ovviamente quella vinta proprio contro i veri nazisti.
Negli USA persiste la ghettizzazione, autonoma o figlia dell’abitudine, del “perché è sempre (?) stato così”, e pur essendo una fonte di contrasto sociale che spesso sfocia in atti vandalici fino a veri e propri atti criminali, non è mai stato preso un provvedimento efficace per migliorare la coesistenza tra i popoli; probabilmente la frattura generatasi in un periodo remoto della storia americana, risulta ad oggi apparentemente insanabile.

Negli Stati Uniti sono presenti scienziati che hanno portato l’Uomo sulla Luna, e persone che sparano agli uragani convinte di poterli fermare; presidenti riconosciuti dai più come figure di riferimento, e altri presidenti che consigliano di combattere le malattie grazie all’iniezione di disinfettante; altri presidenti premiati con il Nobel per la Pace e altri ancora che sganciano l’atomica e parenti dell’atomica sulle popolazioni inermi.
Persone che protestano per l’ennesimo omicidio insensato e altre che “per protesta” assaltano negozi, abbattono statue di Cristoforo Colombo, inseguono un politicamente corretto che ne distorce ridicolmente i presupposti quando si mette sotto accusa un film di fine anni ’30 considerato improvvisamente razzista. Manca bel un rogo di libri alla Savonarola all’appello ma attendiamo fiduciosi.
Quello americano è un fallimento bello e buono, che si ripercuote nelle società volutamente subalterne con l’emulazione degli atti sopra elencati. Ciclicamente avviene una sorta di caccia alle streghe, al razzista, al sessista, al maschilista, al misogino, all’abortista, al divorzista, all’ultra-cattolico ecc. senza tuttavia provare a risolvere il problema a monte, cambiando cioè mentalità, è da essa infatti che derivano le azioni.

Una delle prime fondamentali azioni che noi, appartenenti alla società europea, potremmo fare è proprio quella di dire addio alla società americana che, all’alba del secondo ventennio del XXI secolo e alla luce delle evidenti contraddizioni inspiegabilmente irrisolte, non ha più ragione di presentarsi come modello da perseguire.
Prendere atto del crollo del mito americano significherebbe voltare coraggiosamente pagina.

 

Alessandro Basso

 

copertina-abbonamento-2020_nuovo

Il valore della sconfitta

Bisogna saper perdere è il titolo di un singolo dei The Rokes cantato nel lontano 1967 in un anglo-italiano che in quegli anni spopolava tra i giovani della Beat Generation. Il testo è un invito alla riconciliazione tra due amici dopo una contesa d’amore finita con l’immancabile vincitore che consola lo sconfitto: «Quante volte, lo sai si piange in amore / ma per tutti c’è sempre un giorno di sole!».
Ascoltandola nel 2018, oltre all’inevitabile sorriso che strappa l’accento di Shel Shapiro, la canzone porta con sé un importante messaggio, quel titolo dal retrogusto esortativo che può essere applicato per sua natura a più livelli interpretativi, specialmente in campo sociale.

Quanti di noi considerano una sconfitta, un passo falso, come un aspetto negativo della nostra vita? Un’esperienza da non ripetere, un rimorso che ogni tanto bussa alle porte del nostro cervello proprio mentre cerchiamo di dormire, una malattia latente che spesso uccide nuove iniziative prima ancora della loro realizzazione.
Quanti di noi sono cresciuti con il timore del giudizio altrui? Forse non riusciremmo a tenere il conto.
E quanti hanno pensato, anche solo per un momento, che nulla avrebbe avuto più senso dopo quella tremenda delusione? Con dosi e in proporzioni differenti, ci siamo passati un po’ tutti.
Quante soluzioni possiamo mettere in campo allora per tentare di risolvere questo problema comune? Purtroppo non esiste una ricetta standard valida per lenire qualsiasi tipologia di sconfitta poiché dovrebbe essere compito di ciascuno trovare la propria cura, provando, tentando, fallendo.
Eppure negli ultimi anni stiamo assistendo a un lento estinguersi dei problemi, operato sia dalla gente comune sia dalle istituzioni.

I maggiori beneficiari di questa politica anti-problema sono gli appartenenti alle nuove generazioni a cui viene offerta la più ampia gamma di strumenti per affrontare al meglio le sfide, la vita e l’istruzione in modo da prepararli ad essere i buoni cittadini di domani. Si offre loro tutto… tutto, tranne la possibilità di crescere attraverso le sconfitte.
In passato i minori appartenevano, assieme alle donne, alla parte ‘debole’ della società e, complice una diversa sensibilità umana, risultavano privi delle più elementari norme riguardanti i loro diritti fondamentali, redatti e revisionati a più riprese a partire dal 1924 fino a giungere, solamente nel 1989, con la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia.
Tutto ciò è sacrosanto, ci mancherebbe, tuttavia credo sia arrivato il momento di chiedersi se dal riconoscere i normali diritti dei minori non si sia passati, magari impercettibilmente, a creare per loro un mondo d’ovatta, bello e pericoloso al tempo stesso.

Come potrebbe crescere, ad esempio, un bambino a cui viene regalato tutto, magari una promozione scolastica immeritata, un premio nonostante il suo comportamento irrequieto, un atteggiamento fin troppo conciliante – targato erroneamente come comprensivo: comprendere/capire non è sinonimo di perdonare – sebbene conduca una vita all’insegna della violenza, o peggio della droga?
Ancora, si parla di sensibilizzazione contro il bullismo nelle scuole, ma come lo si combatte se aumenta il giustificazionismo verso le “ragazzate goliardiche” compiute da giovani delinquenti in erba? I paradossi e le contraddizioni sembrano regnare incontrastati.
Qualsiasi tipologia di punizione viene recepita come traumatizzante, destabilizzante, distruttiva, oltre ai genitori che tendono a colpevolizzare l’insegnante pur di non ammettere l’evidente impreparazione beffarda dei loro sacri pargoli, ci si mette anche la legislazione istituzionale della “Buona Scuola” (legge 107/15) a rendere sempre più arduo il bocciare, il respingere, il non accettare.

A prima lettura la mia sembra una sadica difesa a tutto ciò che provoca delusione e sconforto, ma scrivo da “plurideluso” e “plurisconfortato”, ho sperimentato le conseguenze di più bocciature scolastiche, di esami non superati, di progetti falliti, eppure non avrei l’ardire di definirmi un sopravvissuto.
Certo, fa male, ma sono giunto alla conclusione che fa più male essere salvaguardati troppo, perché?
Provate a pensare, alla luce di quanto detto fino ad ora, quali pieghe potrebbe prendere la vita di un ragazzo che si è visto regalare tutto nel nome della sensibilità. Nel mondo degli adulti si aspetterà di trovare altri regali, altri vagoni di sensibilità, altre istituzioni che si preoccuperanno di alleviargli la colpa, tutte cose che nella realtà non esistono, o almeno non esistono per tutti.
Sarà allora che scoprirà di aver vissuto in un pianeta illusorio e si farà ancora più male, poiché orfano di tutte quelle esperienze, negative sì, ma capaci di formare e rafforzare il carattere; quando si cade da bambini ci si rialza, da adulti diventa un problema.

Non c’è soluzione quindi?
Ci troviamo davanti ad un aut-aut? O si soffre oggi o si soffrirà domani?
La sconfitta, che piaccia o no, è un ingrediente della nostra esistenza tuttavia possiamo scegliere di totalizzarla, e precipitare quindi nello sconforto, oppure trasformarla in insegnamento, affrontandola con serenità ammettendo i propri errori per evitare di compierli nuovamente.
In questo modo si saprà perdere senza farsi troppo male.

 

Alessandro Basso

 

banner-pubblicitario_la-chiave-di-sophia_rivista

Sebastiano Zanolli e Giacomo Dall’Ava: alla ricerca delle doti per ottenere risultati

Il festival filosofico della città di Treviso prosegue.
Pensare il presente: già dal titolo si sente il bisogno di qualcosa di tremendamente attuale, vivo nei nostri giorni e insidiato nelle dinamiche che affrontiamo.
Sebastiano Zanolli e Giacomo Dall’Ava danno uno schiaffo crudo e secco ai nostri pensieri, ancora annidati sulle riflessioni di Latouche e Galimberti.
L’incontro Intenzionalità e mercato è stato diverso, è stato volutamente più pratico e diretto, colloquiale. I due relatori hanno portato in scena una riflessione diversa. Al di là di quello che è teoricamente perfetto ed eticamente condivisibile, cosa serve per fare la differenza nella nostra società? Come possiamo ottenere dei risultati solidi, immersi e sommersi nella società liquida?

Sono partiti dalla piazza del mercato di Marrakech, Jamaa el-Fna, un coacervo di venditori che riescono a farti finire con le braccia piene di borse e di acquisti. Ancora una volta siamo stati vittime di un sistema e non abbiamo esercitato la nostra intenzionalità. Non ci siamo imposti, non siamo riusciti a far emergere quello che davvero volevamo, la nostra intenzione.
Ma in fondo cos’è tutto questo parlare sull’intenzionalità?
A partire dalla fenomenologia (poggiando in punta di piedi su Brentano e Husserl), l’intenzionalità è l’attitudine del pensiero ad avere sempre un contenuto, a essere essenzialmente rivolto ad un oggetto, senza il quale il pensiero stesso non sussisterebbe. Allora eravamo intenzionalmente attivi anche quando eravamo pungolati e accerchiati da venditori che ci facevano comprare ogni cosa che ci mettevano in mano. L’intenzionalità è quella proprietà della mente che ci fa tendere verso un oggetto, che esista materialmente o no, poco conta, basta essere lì concentrati a pensarci.
Sono stati interpellati poi due filosofi contemporanei, Searle e Bratman, che garantiscono che per fare intenzionalmente un’azione, basta fare qualcosa per cercare di raggiungere l’esito di quell’azione. Allora filosoficamente il risultato non conta, l’importante è partecipare ed essere intenzionalmente coinvolti nel cercare di raggiungere uno scopo.

Il mercato è molto più severo, è l’unico giudice che ci guarda dall’alto e ci smista a destra e a sinistra: da una parte il risultato e il successo e dall’altra il fallimento.
Lì le intenzioni non contano, conta il risultato. Nel mercato non basta mettere in atto dei tentativi, perché verremo valutati soltanto per l’esito che riusciremo a raggiungere.
L’intenzione però può essere la miccia che ci mette in moto, che ci innesca e che ci fa partire nel tentativo di migliorare e cavarsela egregiamente.

Dovremmo però seguire alcuni punti costanti che Zanolli ha raccolto nel corso della sua vasta esperienza. Ha portato al pubblico l’essenza dei comportamenti che negli anni ha visto essere efficaci, utili, concreti e diretti al risultato.
Entrambi i relatori si allontanano dal tracciare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, ma cercano di mostrare come funzionano attualmente le cose. 
Per cercare di uscire dal marasma del mercato in cui siamo troppo spesso attori passivi, Zanolli e Dall’Ava propongono cinque doti per fare la differenza:

  • Chiarezza degli obiettivi: per partire con un progetto di qualunque tipo occorre strutturare al meglio l’obiettivo a cui vogliamo arrivare. Avremo modo di cambiarlo, ma anche questo fa parte del processo di struttura del proprio obiettivo.
  • Flessibilità: e contaminazione. Cercare il filo rosso che unisca in maniera nuova e inedita le idee che ci vengono in mente, le soluzioni che sicuramente qualcuno avrà già trovato: ma noi possiamo trovare una maniera diversa e creativa di metterle assieme.
  • Cambiamento: apertura alla diversità, da costruire su nuove conoscenze, competenze, abitudini e attitudini. Tutto è sottoposto al cambiamento e possiamo direzionarlo verso il nostro obiettivo.
  • Personal branding: un modo unico di presentare se stessi, di vendersi agli altri e di trasmettere la nostra immagine. Se riusciamo a venire in mente alle persone nel momento in cui hanno bisogno di noi, non c’è campagna di marketing che tenga.
  • Networking: le relazioni. Si finisce sempre lì, nella rete di relazioni che riusciamo a costruire e nel modo in cui riusciamo a diventare animali sociali perfettamente aristotelici, in collegamento con i nostri simili e con persone che abbiano bisogno delle nostre soluzioni.

Alla fine dell’incontro siamo ancora immersi nel dubbio se l’intenzionalità influisca sulle nostre azioni o se ne sia influenzata, ma filosoficamente non abbiamo ancora trovato risposta al dubbio “è nato prima l’uovo o la gallina?”.
Le risposte filosofiche sono state lasciate ad altri, durante questo dialogo aperto e dinamico abbiamo trovato soluzioni e riflessioni pratiche, veloci, immediate, da applicare domani, macché, oggi, per la nostra stessa vita e per ottenere risultati migliori.

La Redazione

Articolo scritto in occasione dell’incontro Intenzionalità e mercato svoltosi sabato 11 marzo ed organizzato dal festival di filosofia Pensare il presente, a Treviso dal 7 al 30 marzo 2017.

Alla ricerca della perfezione: il doppio volto della corsa al successo

Se dovessi descrivere il mio rapporto col successo, mi salterebbe subito alla mente il perturbante freudiano: qualcosa che esercita un fascino irresistibile, simultaneamente a paura e repulsione. Questo perché la scalata verso la massima realizzazione e il riconoscimento sociale, seppure appaia una meta allettante, può risultare allo stesso tempo ansiogena – se non terrorizzante – per la prospettiva di un possibile fallimento.

Dopotutto, siamo una generazione cresciuta con la convinzione di poter raggiungere qualsiasi scopo grazie alla sola forza di volontà. Incoraggiati da genitori, favole televisive, uno stato di benessere diffuso e la consapevolezza di un forte stacco generazionale, uno solo è stato il mantra della nostra giovinezza: possiamo qualsiasi cosa, basta volerlo.

E se un problema ci si para davanti, osserva Miriam Goi in L’ossessione per il successo ci sta distruggendo?, ci sarà sempre una soluzione pronta all’uso per risolverlo in totale autonomia, dalle app per dimagrire ai libri per smettere di fumare, dai corsi per “inventarsi un lavoro da zero” ai gadget motivazionali (You have as many hours in a day as Beyoncé, recita uno slogan tanto incoraggiante quanto minaccioso). Il mantra si rivela così un’arma a doppio taglio, poiché non solo il trionfo ma anche l’insuccesso dipendono interamente e solamente da noi stessi: il fallimento è impietoso e si consuma in solitudine.

E così non importa quanto siamo stanchi, sottopagati, tristi, malati: il nostro profilo Instagram dovrà sempre e solo mostrare una versione perfetta della nostra vita, in una costante ansia da prestazione e rincorrendo desideri che non sappiamo neanche se definire genuini o indotti.

Forse è per questo che, specularmente a questo meccanismo, se ne instaura un altro, inconscio, difensivo, che disincentivando all’azione schiva il possibile fallimento: la procrastinazione. Come argomenta Oliver Bukerman (in L’ossessione per la perfezione ci fa rimandare le cose) la procrastinazione è solo paura mascherata, paura che deriva da standard troppo alti: se il progetto che abbiamo in mente (la carriera, una relazione amorosa, ristrutturare casa, ecc.) rischia di non essere perfetto, meglio rinunciare – anzi, rimandare. Perché l’eterno procrastinatore, ovvero l’eterno perfezionista, non può ammettere di voler rinunciare, può solo temporeggiare per non affrontare quello che teme di più al mondo: l’inadeguatezza rispetto alle aspettative (proprie e altrui). In una parola, la banalità.

Non siamo più figli di un platonismo che insegna innanzitutto ad accettare i limiti umani, assumendo che sia impossibile raggiungere la perfezione (esclusiva ultima del mondo delle idee), ma che tale perfezione sia piuttosto un modello per guidarci in un mondo ontologicamente imperfetto. Oggi, al contrario, se considerare la perfezione alla portata di tutti da un lato ci sprona a inseguire i nostri sogni più coraggiosi, dall’altro ci porta a colpevolizzarci per i nostri limiti, ossessionarci fino alla psicosi, mentire a noi stessi per proteggerci. Ci hanno insegnato ad essere ottimisti, fino a non saper gestire le sconfitte. Mentre è proprio il pessimismo l’unica soluzione: il partire dal presupposto che le cose potrebbero, non sicuramente ma con una certa probabilità, andare male, ci aiuta ad accettare la possibilità del fallimento come parte del processo, a porci una meta con una approssimazione meno precisa, a ritagliarci un margine di errore. E ci permette di buttarci, come quando da bambini ci buttavamo a giocare senza paura di sbucciarci le ginocchia (perché tanto sì, ce le sbucceremo).

Rinunciare al mito della perfezione per abbracciare la perfettibilità della realtà: ripartire da Empedocle, quando sosteneva che la vera perfezione è l’imperfezione, perché offre sempre infinite possibilità di miglioramento.

Anna Merenda Somma

Anna Merenda Somma, Ravenna, classe 1990, da piccola voleva fare la disegnatrice Disney, poi l’arredatrice Ikea, poi la giallista e infine, alla costante ricerca di mestieri sempre più ardui, l’insegnante. A 14 anni scopre la filosofia ed è amore a prima vista, poi è la volta degli studi di genere, e l’amore si rinnova. Consegue la laurea in Scienze Filosofiche nel 2016 a Firenze, e da allora si occupa di identità di genere, femminismo, eteronormatività, queer theory, LGBTQ rights e altre cose difficili da pronunciare. Specializzata anche in procrastinazione e dolci bruciacchiati.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Come stai? Bene! (sbagliato)

Come stai?

A volte dietro questa semplice domanda si nascondono le risposte più impensate, anche dalle persone che crediamo di conoscere bene. Spesso quelle risposte vengono bloccate, represse, ingoiate e rimangono dentro come macigni, mentre la nostra bocca pronuncia un flebile “bene grazie”.

L’apparenza a cui siamo costretti il più delle volte è un’abitudine deleteria, un’usanza che ci uccide dentro per dare dimostrazione della nostra perfezione all’esterno.

Perché siamo costretti a mentire, a fingere benessere, a pensare che tutto stia filando liscio? Per paura, per bisogno e necessità. Per gli altri. Si mente pensando all’altro, a chi potrebbe soffrire del tuo malessere, a chi potrebbe sì consolarti ma non aiutarti.

Eppure tutto poi viene fuori, in un modo o in un altro.

Occhi acuti, sguardi attenti e orecchie in ascolto percepiscono ogni minimo cambiamento, ogni espressione diversa e piano piano ti inducono ad estrarre dal petto quel macigno, senza che tu debba necessariamente dare spiegazioni.

La mente in queste situazioni è assolutamente assuefatta, percorre imperterrita la sua strada, ascolta le parole altrui ma le sente da lontano, come una eco, a volte fastidiosa, altre confortante, ma comunque inutile ad interrompere la sua corsa.

Quale corsa poi?

Un percorso ardito verso il nulla, verso qualcosa che si prospetta già determinato, finito, senza uscita eppure una strada che ti rapisce e ti inghiotte come un vortice senza darti il tempo nemmeno di respirare.

Arriva poi un giorno, quando la mente si ritrova sotto acqua, in apnea da troppo tempo, e, anche se lei continuerebbe lo stesso in tali condizioni, il fisico dice basta! e inizia a mandare segnali di malessere, quello stato che la mente aveva represso, vivendo di mezze felicità, di attimi di gioia e di gabbie costruite ad hoc.

E quella domanda ‘come stai?’ inizi a fartela tu. Sì, inizi finalmente a parlare con te stesso, a cercare chi sei o chi sei diventato e perché sei diventato così. Le risposte ovviamente non arrivano perché la mente continua a mentire e a non ascoltare il corpo.

E perché mente?

Perché vuole vivere!

Perché nonostante il dolore, la sofferenza che si possono provare in determinate situazioni, la mente si sente viva!

Il dolore non è qualcosa che va bypassato o da cui occorre scappare, il dolore è qualcosa che va attraversato, vissuto fino in fondo, perché no anche subìto per poterlo conoscere e per dire, una volta superato, di avercela fatta veramente, senza più la paura di ricadere nello stesso tunnel.

A volte la vita ti permette di avere queste esperienze che all’inizio sembrano casuali, capitate per chissà quale motivo, solo alla fine delle stesse ti rendi conto che niente è per caso e che erano le ennesime prove per conoscere di più se stessi.

Dire per ogni cosa “a me non capiterà mai” è sbagliato. Può capitare tutto a tutti ma questo non vuol dire essere persone cattive, false, amorali.

La nostra vita ha bisogno di scosse di amoralità, di finzione e di sorpresa per aiutarci a capire i nostri limiti, le nostre debolezze, le nostre mancanze o le nostre necessità, altrimenti se tutto filasse sempre liscio non potremmo mai capire cosa vogliamo veramente dalla vita, perché saremmo adagiati ad una routine in cui tutto scorre come sempre.

Ora la routine a me fa paura, come mi fanno paura il mare calmo o il cielo sereno. Sono tutti momenti di apparente stasi in cui tutto può succedere all’improvviso. La vita che ti sorprende ogni giorno, il mare mosso o il cielo tempestoso ti turbano sicuramente perché non danno certezze, però ti mettono alla prova, ti sfidano, minando le tue certezze, mettendo alla prova la tua coerenza, cercando di farti guardare dentro per trovare la forza che nella routine non hai bisogno di manifestare.

Recentemente, la scrittrice di Harry Potter, J.K.Rowling, durante il discorso ai laureandi di Harvard ha speso bellissime parole per il concetto del “fallimento”:

Fallire ha voluto dire spogliarsi dell’inessenziale. Ho smesso di fingere di essere qualcos’altro se non me stessa e ho iniziato a indirizzare tutte le mie energie verso la conclusione dell’unico lavoro che per me aveva importanza. Non mi occupavo davvero di nient’altro, se non trovare la determinazione nel riuscire in un campo a cui credevo di appartenere veramente. Ero finalmente libera perché la mia più grande paura si era davvero avverata, ed ero ancora viva […]

Una certa dose di fallimento nella vita è inevitabile. È impossibile vivere senza fallire in qualcosa, a meno che non viviate in modo così prudente da non vivere del tutto – in quel caso, avrete fallito in partenza.

Fallire mi ha dato una sicurezza interiore che mai avevo raggiunto superando gli esami. Fallendo ho imparato cose su me stessa che non avrei mai imparato in un altro modo. Ho scoperto che ho una volontà forte, e più disciplina di quanto avessi pensato; ho anche scoperto che avevo amici veramente inestimabili.

Il sapere che vi rialzate più saggi e più forti dalle cadute significa che sarete, da allora in poi, sicuri nella vostra capacità di sopravvivere.

Non conoscerete mai voi stessi, e la forza dei vostri legami, fino a quando entrambi non saranno provati dalle avversità.

Una tale conoscenza è un vero dono, per tutto ciò che avrete vinto nella sofferenza, e per me ha più valore di ogni altra qualifica abbia mai guadagnato.

Il fallimento come il dolore, come il senso di colpa o il senso di assenza e mancanza, sono occasioni!

Occasioni per liberare noi stessi dalle gabbie mentali in cui ci ostiniamo a vivere.

Occasioni per sentirci liberi di dimostrare chi siamo senza vergognarci.

Occasioni per urlare agli altri che sì, nemmeno noi siamo perfetti!

Una volta raggiunta la consapevolezza del fallimento come occasione, ci saremo davvero rialzati più forti di prima e avremmo capito la forza di noi stessi che prima era celata dentro di noi.

Stay hungry

Stay foolish

è un frase ormai anche troppo utilizzata, eppure è un motto che deve far parte della nostra vita sempre e comunque.

Essere affamati, avere voglia di prendere a morsi la vita, qualunque cosa essa ti presenti davanti è lo spirito che ti permette di affrontare le avversità.

Essere folli è andare incontro all’imperfezione, abbandonando la strada del consueto, del banale e del finto perfetto, perché solo nella follia assapori veramente il gusto della vita, dolce o amaro che sia, e solo la follia ti concede il lusso di osare, sbagliare e ricominciare.

L’abitudine spesso sbiadisce i colori

Ravviviamoli perdendo, ogni tanto, l’equilibrio.

Valeria Genova

[Immagine tratta da Google]

La mia generazione: abbiamo fallito, avanti il prossimo

Quando ho visto Matrix per la prima volta ero seduto in un cinema, in una giornata assolata di maggio come tante, eravamo seduti sui gradini del cinema perché eravamo arrivati in ritardo e nel buio non eravamo riusciti a trovare dei posti a causa della sala gremita. Avevo 14 anni e stavo seduto accanto alla ragazza più affascinante che avessi visto, uno di quegli “amori” tipicamente adolescenziali. Non sapevo che in quel film di fantascienza si sarebbero coagulati tanti significati e tante questioni che avrebbero poi influito sulla mia generazione. Era il 1999. Era un film strano che parlava di volontà, destino, amore, senso della vita, il tutto coagulato in un blockbuster ben confezionato in pieno stile hollywoodiano.
Qualche anno dopo rimasi colpito, deluso, ma comunque attento per i riferimenti cristologici inseriti in Matrix 2 e 3 e ancora ripenso alla frase che descrive un messia cieco, un simbolo per tutti quelli come lui, patetico, in attesa che qualcuno gli dia il colpo di grazia.

In fondo ripensandoci era proprio un film adolescenziale, senza usare il termine in maniera dispregiativa, anzi, era una enorme storia in salsa cinematografica della Volontà di Potenza di Nietzsche che ha profondamente attraversato la mia generazione, una generazione sorta all’alba della decadenza dell’Occidente e della sua crescita: gli anni ’90 hanno rappresentato il preludio di un declino. La volontà di potenza ci mette un attimo a trasformarsi in volontà di impotenza, indolenza e ozio.

Penso che la mia generazione abbia delle grandi responsabilità per quanto è accaduto, sta accadendo e accadrà: siamo stati incapaci di dar vita a grandi prese di posizione generazionali, ma anche di dare alle cose una nostra inclinazione, seppur non all’insegna di rotture nette; siamo caduti preda di una anestetizzazione tecnologica, imbambolati da Mediaset e figli del berlusconismo, a prescindere che fossimo pro o contro.

Che fossimo pro o contro siamo pur sempre cresciuti all’ombra della figura di Berlusconi, una figura paradigmatica perché come i nostri genitori la sua generazione si è dimostrata quella dei moderni Crono e come tali non hanno che potuto divorare i propri figli. Gli anni di governo personalistico e finalizzato alla produzione di leggi ad personam più che di leggi per lo sviluppo non ci ha messo al riparo dalla crisi ed anzi hanno catalizzato quanto di peggio ha finito poi per abbattersi sul nostro Paese.

In un’ ottica marxiana i boomers (le generazioni che hanno vissuto la prosperosa epoca del boom economico) hanno fatto quello che i capitalisti fanno con i mezzi di produzione, hanno cioè fagocitato diritti in modo ipertrofico finendo per privare i propri figli e le generazioni future delle medesime opportunità, lo stesso dicasi per quanto riguarda gli impatti ambientali.

Lungi da me tuttavia indicare il male, additare le generazioni passate e sgravare così noi tutti da un onere di responsabilità al quale eravamo chiamati a dare una risposta, perché se le generazioni che ci hanno preceduto non sono state virtuose noi abbiamo peccato di una ignavia ben peggiore, ci siamo infatti ben guardati dal rompere gli schemi e ci siamo invece trincerati nel consumismo e nella moda.
La nostra risposta ai cambiamenti del mondo è stata quella di comprarci l’ultimo Ipad, di tirare per le lunghe lo studio e continuare a farci foraggiare dai nostri genitori. Se da un lato l’aiuto è servito a sostenerci in questi tempi difficili, dall’altro ha avuto l’effetto di renderci apatici e poco inclini a rompere gli schemi costituiti. Siamo stati come gli animali da allevamento, come un animale domestico che non esce mai di casa e come tali non abbiamo mai saputo elaborare una visione del mondo che ci permettesse di crescere al di fuori della pesante ombra dei nostri genitori.
Siamo dei novelli Benjamin Button: privi di progettualità a lungo e medio termine, finiamo per vivere una vita all’incontrario. Se la fine degli studi universitari un tempo significava l’accesso all’età adulta, è qui che il processo si inverte, assistiamo così alla devoluzione, un regresso inquietante quanto diffuso, un perenne rifiuto di confrontarsi con il mondo e prendere in mano il proprio destino.

Spesso vedo ragazzi di ormai quasi trent’anni farsi foto in discoteca che normalmente si era soliti farsi fare quando si avevano quindici o sedici anni, ma al posto di provare vergogna per l’immaturità manifesta tali foto sono invece oggetto di orgogliosa ostentazione. In un mondo dove conta sempre meno essere ciò che si è e conta invece apparire per ciò che la società ha presunto che dovremmo essere.

La mia generazione è fatta di cani di Pavlov, ma a differenza del celebre cane noi siamo restii a imparare dall’esperienza. Più subiamo la nostra impotenza e la vessazione di chi non ha alcuna tutela lavorativa e quindi nessuna dignità umana, più continuiamo ad abbeveraci dalla fonte che sta anche all’origine di tutti i nostri mali. Anziché ribellarci o quanto meno rifuggire gli stimoli negativi, nel migliore dei casi finiamo per chinare il capo diventando gregari e subalterni delle generazioni che ci hanno preceduto, nella vana speranza che prima o poi tocchi anche a noi, come se la nostra mente non avesse registrato che all’alba del nuovo millennio l’aspettativa di vita è tale che è molto più probabile che saremo noi a perire di stenti prima della dipartita di chi oggi regge le leve del potere.

Ci hanno detto che il lavoro doveva essere flessibile, ci hanno fatto imparare le lingue e tantissime competenze diverse, ci hanno raggirato usando accattivanti termini anglosassoni come long life learning o learning by doing, ma mi chiedo quanti dei grandi ideologi di questo modo di pensare, quanti professori che ci hanno proposto questo modello di vita e quanti funzionari che hanno stilato protocolli amministrativi che deliberavano in tal senso si sono sottoposti allo stesso trattamento. Quanti di loro hanno veramente provato ad assaggiare la ricetta che avevano preparato per noi e per i loro figli? Penso ben pochi visto che la pubblica amministrazione è piena di gente che non parla nemmeno l’inglese e che per anni non ha fatto altro che ripetere sempre e solo la stessa mansione, senza mai aggiornare le proprie competenze, tanto che se si rimettessero oggi sul mercato del lavoro a stento troverebbero posto come posteggiatori di auto o lavapiatti in un ristorante. Non bisogna però fare di tutta l’erba un fascio e nella Pubblica Amministrazione ci sono ancora tante persone che si aggiornano e combattono ogni giorno per garantire servizi migliori ai cittadini: perché non siamo stati capaci di allearci con loro?

Siamo stata la generazione che ha potuto studiare fino ai gradi più alti della formazione, ci hanno viziati dicendo che eravamo tutti speciali, ma se siamo tutti speciali vuol dire che non lo è nessuno e così il nostro grado di istruzione crescente ha finito con l’unico scopo di far crollare la retribuzione salariale di coloro che potevano essere impiegati nel lavoro cognitivo.

Abbiamo ostinatamente voluto credere alle promesse dei nostri genitori circa il fatto che il mondo fosse un posto facile dove vivere, che eravamo unici e irripetibili e che strabilianti opportunità ci avrebbero atteso, chiusi sotto una amorevole campana di vetro che ci ha tenuti al riparo dal mondo. Abbiamo rimandato un confronto con la realtà destinato ad essere devastante, quella ovattata campana non era altro che una bolla paranoica di mediocrità. Non siamo stati meglio di coloro che si sono affrettati a votare Berlusconi perché persuasi che avrebbe davvero creato – già il termine mi cagiona ilarità – un milione di posti di lavoro, abbiamo preferito credere che creare le nostre opportunità con un po’ di fatica e di sudore. Abbiamo voluto far finta che ci fossero risposte semplici a domande complesse.

In politica e nel lavoro ci siamo relegati noi stessi al margine, ogni volta che abbiamo chinato il capo e ci siamo fatti imboccare, tutte le volte che non abbiamo provato noi stessi a mostrare che le cose potevano essere diverse nascondendoci dietro a una presunta italianità della raccomandazione, ogni volta che non abbiamo anteposto il merito al nostro interesse abbiamo replicato la mediocrità dei nostri padri e delle nostre madri che facendoci trovare sempre la pappa pronta non hanno fatto altro che crescerci deboli e fragili, ma anche supponenti perché mai posti di fronte ai nostri stessi limiti. Così si è costituita la generazione dove tutti siamo speciali, tutti siamo qualcuno, abbiamo tutti vite interessanti e fantastiche, mentre viviamo una condizione miserabile contronatura perché costretti a restare presso i nostri genitori senza la possibilità di svilupparci diventando ciò che siamo come adulti e perché no anche nella senilità.

L’ultimo grande demerito è che non abbiamo saputo restare uniti, ci siamo fatti investire dalle ideologie già precostituite dai nostri padri finendo per farci molto più la guerra tra di noi che provare a imporre una nuova visione delle cose, noi che siamo nati alla fine delle grandi ideologie, dove la religione è più mite nella rigidità, dove il muro di Berlino è caduto, dove se da un lato ci hanno accusati di non credere in niente avevamo invece l’opportunità di credere in tutto con uno sguardo nuovo e invece non abbiamo fatto altro che suonare uno spartito datoci da altri e danzato su quelle stesse note.

Non abbiamo fatto tesoro delle parole di Michael Young che ci ha provato a dire:

«I giovani devono combattere il potere degli anziani invece di allearsi con loro per ricevere favori».

Spero solo che le generazioni che stanno crescendo oggi e che verranno domani imparino dai nostri errori e non ce ne abbiano troppo a male per il mondo che ci apprestiamo a consegnare loro.

Matteo Montagner

[Immagine tratta da Google Immagini]

Perdersi

“Tutti dicono che l’amore fa male, ma non è vero. La solitudine fa male. Il rifiuto fa male. Perdere qualcuno fa male.”
O. Wilde

Non avrei mai creduto di vedere il nulla, dietro di me.. Di non sentirmi più appartenente a qualcuno, perché essere figli vuol dire trovare la propria identità negli occhi di chi ti regala la vita.

 
REGALA.

 
Regalare è sempre stato il verbo che ho associato alla figura genitoriale, non so bene per quale ragione intrinseca, forse perché mi illudevo che mio padre e mia madre, la mia “famiglia” avessero la funzione di regalarmi la vita, il mondo, la bellezza della quotidianità. Forse ho vissuto fino ad oggi nella speranza disillusa di poter essere una ragione abbastanza valida per loro, per cambiare, per capire e comprendere finalmente che essere genitore è vocazione, che i figli a 20 anni necessitano dello stesso amore, delle stesse carezze e abbracci di quando ne avevano due.
Ho sperato, ho creduto in loro con quanta più forza avevo in me, ho tentato di esser la figlia che loro professavano di volere, ma, malgrado ciò, oggi mi scopro sola, sola ad affrontare un dolore incolmabile, sola ad asciugare lacrime inarrestabili….sola, ad accettare che loro non saranno mai più al mio fianco, sola a metabolizzare il fatto che loro, accanto a me, non sono mai stati davvero.

 
Si, la solitudine uccide, si, il rifiuto massacra, una perdita devasta ma quanto può costare all’animo la forza di dire basta? Quanto possono valere le proprie aspirazioni, i propri valori se poi si è totalmente persi nella ricerca di una vita migliore?
Ciò che lacera, che squarcia davvero l’animo, gettando a terra frammenti, quasi si fosse uno specchio rotto da un pugno, è l’accettazione.
Accettare la natura “sporca” del posto da cui si arriva, accettare la solitudine causata dalla volontà di vivere in modo “pulito”, di voler essere una persona migliore.
Io ho perso tutto: la mia famiglia, quel cerchio che avrebbe dovuto essere la mia isola felice, il mio mondo ovattato, la mia protezione. Io ho perso. Ho perso per poter vivere. Ho perso perché ho deciso che IO conto, che la mia esistenza conta.

 
E sapete qual’è davvero il nocciolo della questione? Il fallimento.
La mia famiglia resterà la mia più grande sconfitta, non essere come loro mi vogliono, per essere una persona migliore e aver scelto il giusto, rappresenterà per sempre il mio più gran fallimento.
Le vittime dirette di abusi hanno, molte volte, la possibilità di scelta, i figli della violenza non ne hanno e mai ne avranno.
I figli di violenza si sentiranno per sempre marchiati a vita e si crocifiggeranno per i limiti che hanno loro impedito di cambiare chi, di cambiare, non ne ha mai voluto sapere.
I figli di violenza si sentiranno sempre in dovere di accontentare gli altri, di dimostrare qualcosa al mondo, unicamente per sentir, anche solo per un istante, di non esser sbagliati.
Le più grandi vittime sono coloro che hanno deciso di combattere, perché porteranno per sempre con loro i segni delle scelte altrui, perché saranno sempre coloro che subiranno le conseguenze delle azioni di chi, dando loro la vita, aveva promesso implicitamente di amarli e proteggerli.
Le più grandi vittime saranno sempre coloro che decideranno di ribellarsi, perché in questa vita, mio malgrado, la libertà comporta più sofferenza della sudditanza.

IODICOBASTA.ETU?

Nicole Della Pietà

[immagine tratta da Google Immagini]

L’essenza della nazione nella contemporaneità

La contemporaneità. Un’epoca relativamente semplice. Un’epoca che usa gli specchi sociali, la credenza più ignota ed il miglior Napoleone sul campo per manifestarsi sulla terra. La potenza di una nazione, oggi, è ben rappresentata dal mercato e della finanza: perché prendersi la briga di un travaglio, quando si può rendere un po’ più “Comune” ogni diversità?!

L’essenza della nazione sfuma per mezzo della materia: l’immagine, il make-up e gli stereotipi sono le leve che azionano la produzione post-idealistica e post-moderna di uomini del futuro. L’equilibrio dell’economia sollazza e decanta la classe politica; tutto il corpo dirigenziale si rende amabile, sempre relativo e sempre meno universale.

Il contrappeso alla spersonalizzazione soggettiva è un livellamento oggettivo: la realtà muta così velocemente rendendosi invisibile al soggetto, svuotandolo di ogni virtù elitaria, livellandolo al suo prossimo. Il soggetto, forzato o corrotto dai suoi bisogni sociali e materiali, muterà per spirito d’adattamento. Ogni tensione sociale all’interno del tessuto post-statale, viene consacrata ad una guerra: il Bene fornisce aiuti umanitari, il Male bombe e pugnali.

Ah l’umanità di oggi! Senza pudore né morale, né filosofia; realtà e rappresentazione concertano con le belle parole che abbiamo in bocca. Il grasso cola da ogni immagine dell’uomo: la bellezza è tangibile; riconosciamo in essa sia tragicità che comicità.

Grasso che cola dai nostri occhi e dai nostri sogni ad occhi aperti. Il grasso della contemporaneità non sta sulla brillantina sulla giacca, né in un colpo di tosse, né nell’improvvisazione; la parola d’ordine è “niente emotività”: ogni opportunità che si presenta va studiata, calibrata e dissolta.

Il fallimento è bandito dalla contemporaneità, non vi è spazio per i sogni e tutto deve compiersi nell’immediato. In questa epoca tutto è sia Bene che Male e i “Perché” non si esprimono ma si confutano ed il tuo problema non sarà mai il mio fintanto ho legna da ardere. Il mondo non è più manicomio, ma ospedale.

Salvatore Musumarra

[Immagini tratte da Google Immagini]

 

La società del ‘Vietato sbagliare’ (?)

Nell’era della performance, degli obiettivi, dei risultati e dell’ansia da prestazione viviamo in una società che ci richiede di essere sempre vincenti e che non lascia spazio agli errori, alle sviste e alle mancanze.

Proverbi come ‘sbagliando si impara’ sembrano ormai fuori moda, obsoleti; molto spesso viviamo la scuola, l’università, il lavoro, lo sport e la vita in generale imbottendoci di impegni con un alto grado di competizione, dove l’unica regola che sembra essere valida è quella del ‘vietato sbagliare’.

Così ci convinciamo che sbagliare non è umano, sbagliare non è ammissibile nella grande competizione della vita, sbagliare è per deboli, sbagliare è sinonimo di perdente e incapace. Costruiamo modelli di educazione fondati sulla reale necessità di non sbagliare e così proteggiamo i nostri figli dal grande reato dell’errore, rinchiudendoli in una gabbia protettiva.

Se a tutto ciò aggiungiamo un narcisismo dilagante e un super-io dominante che ha modificato la nostra stessa antropologia, la parola ‘errore’ sembra non essere più ammessa nel nostro vocabolario. Con molta fatica riusciamo ad ammettere a noi stessi di poter sbagliare e talvolta anche di poter fallire, sembra non esserci tempo per poter sbagliare, figuriamoci il tempo per poter metabolizzare l’errore e quindi rimediare. Così se da un parte è inammissibile commettere qualcosa di sbagliato, dall’altra parte risulta difficile anche perdonare l’errore.

Proviamo a pensare a tutte quelle volte che abbiamo affermato ‘Questo non te lo perdonerò mai, è un grave errore ciò che hai commesso’, proviamo a pensare a quante volte nella nostra vita siamo riusciti a perdonare un errore sia a noi stessi che agli altri, proviamo a pensare a tutte quelle situazioni in cui siamo riusciti a dire ‘ho sbagliato’, ammettendo a voi stessi e agli altri l’errore commesso; se nel primo caso il numero delle situazioni così vissute è alto, negli altri due casi il numero si riduce drasticamente.

Perché non siamo più capaci di ammettere e accettare di poter sbagliare? Perché vediamo l’errore come qualcosa di imperdonabile? Abbiamo paura forse di dimostrarci per quello che siamo? Di essere uomini e non automi? Perché non vediamo quanto di buono può esserci anche nell’errare?

L’errore è utile alla nostra vita, come tale va interpretato e rivalutato in funzione della nostra vita futura. Nietzsche riteneva l’errore una specie di terapia naturale dal delirio di onnipotenza, nel quale l’essere umano rischia di cadere tutte le volta che si sente invincibile. L’errore ci ricorda che non siamo ne macchine perfette ne dèi, ci ricorda quanto complessa sia la realtà e la vita, quanto queste non possano essere controllate in toto dalla tecnologia, dal controllo, dalla programmazione e dallo studio.

Sbagliare contiene in sé aspetti positivi anche nelle situazioni che ci appaiono le più critiche, dobbiamo solamente cogliere questi aspetti positivi, renderci conto che sbagliare ci consente di attivare risorse e capacità che altrimenti non verrebbero alla luce. Interpretare e riflettere sugli errori commessi ci aiuta a crescere e quindi a migliorare, ci permette di vedere fatti e situazioni da una prospettiva diversa che ci consentirà poi di modificare il nostro pensiero e il nostro comportamento. Sbagliare stimola in noi il pensiero critico e anche la nostra autonomia di giudizio; se ammettiamo a noi stessi la possibilità di poter sbagliare possiamo finalmente riuscire a perdonare a noi stessi ma anche agli altri l’errore compiuto.

“Concedersi la possibilità di sbagliare è una condizione essenziale per aprirsi totalmente al ventaglio della vita, la quale è complessa e va affrontata affidandosi anche al dubbio, all’erranza, all’incertezza”.

Massimo Donà

Elena Casagrande

[immagini tratte da Google Immagini]