Hic sunt leones: l’immunità nei social

Nel 2016 gli italiani che adoperano quotidianamente i social network sono circa 21 milioni ovvero il 35% dell’intera popolazione del Bel Paese, un dato non indifferente se consideriamo di come nell’autunno di otto anni fa si aggirava attorno al milione di utenti. Un boom che ha portato a considerare la piattaforma più usata: Facebook, come una sorta di nuova piazza, capace di far interagire tra loro persone non solo di tutta Italia, ma anche di tutto il mondo. Si tratta di un’ulteriore evoluzione della comunicazione di massa?

Guardando brevemente la storia della stessa possiamo rispondere tranquillamente che sì, i social network hanno sintetizzato le passate esperienze della radio e della televisione; dalla prima hanno ereditato l’interazione – sebbene la maggior parte degli apparecchi potesse solo ricevere, non di rado si potevano incontrare appassionati smanettoni capaci di costruirsi la propria stazione radio in grado anche di trasmettere e quindi di comunicare: da metà anni ’70 si assiste infatti alla diffusione delle “radio libere” – dalla seconda invece hanno ereditato la componente video.

Esistono dei benefici, degli aspetti positivi nell’uso di questi veri e propri strumenti, specialmente in ambito mediatico o della conoscenza, eppure sotto la superficie esiste un intricato labirinto oscuro capace di mostrare la parte più recondita – e forse più sincera – delle persone. Quello che si percepisce è un grosso divario tra ciò che si potrebbe e ciò che invece si fa con l’internet del XXI secolo; ognuno di noi per esempio potrebbe incrementare la propria capacità di critica, di analisi e di confronto, nel concreto invece si assiste ad un fenomeno diametralmente opposto: più aumentano i presupposti del progresso sociale, più le persone costruiscono un muro di ottusità oltre il quale si estendono diversi ettari di occasioni perdute.

Così i pensieri espressi si omologano al pensiero-matrice della personalità legata al mondo della politica, o dell’opinionismo spiccio, oppure del mondo fittizio della “bufala”; il risultato sono centinaia e centinaia di frasi ripetute all’infinito prive di fondamenti concreti, orfane di fonti o addirittura inserite a caso nei più svariati contesti.

Come se non bastasse, a questa babele informatica si aggiunge il fattore cattiveria.

La “cyber diffamazione” amplifica l’antica derisione all’ennesima potenza: se in passato il proprio raggio di socializzazione era limitato ad ambienti locali e quindi per ricostruire la propria reputazione, messa in pericolo da qualche buontempone, bastava semplicemente cambiare quartiere o frequentazioni, oggi la propria vita privata è esposta a rischi ben più profondi poiché il raggio di socializzazione si è prolungato a dismisura raggiungendo un numero considerevole di persone con la conseguenza evidente che i rimedi del passato risultano totalmente inefficaci. I risultati sono tristemente noti: suicidi per cyber bullismo o traumi riconducibili ad esso e ripercussioni sulla salute psicologica della vittima.

Oltre all’accanimento contro una persona specifica assistiamo sempre di più alla violenza espressa, sempre attraverso frasi di cattivo gusto, nei confronti di comunità straniere – senza risparmiare i bambini – o nei confronti di determinate categorie di persone perché non annoverabili nella “normalità”.

Sebbene venga spontaneo chiedersi se gioire della morte di qualcuno o auspicare gratuitamente stragi efferate sia il metro di giudizio della normalità, è interessante il diverso atteggiamento che gli stessi individui utilizzano nei social network e nella realtà del quotidiano. Siamo tutti affetti da una sorta di bipolarismo confuso? Più probabilmente è la diretta conseguenza del nostro snobbare le parole.

Esse infatti, come dice un antico proverbio, feriscono più della spada, ma dato che non hanno la forma di un’arma e non sono consistenti tanto quanto un’arma, vengono il più delle volte sottovalutate, non tanto da chi le legge, ma da chi le pronuncia. Lasciano segni interiori, quindi invisibili ai più, ed il confine tra invisibile ed inesistente è così labile che spesso e volentieri lo si varca senza preoccuparsi troppo.

Negli ultimi anni in particolare è proprio la piattaforma Facebook ad averci regalato punti davvero bassi per quel che concerne la qualità del dialogo tra utenti. Si è via via trasformato in un’arena dove ci sono i leoni, quelli da tastiera ovviamente, convinti di vivere in un mondo ultraterreno, dove le conseguenze – in particolare quelle penali – sono incorporee, e forse non hanno nemmeno tutti i torti.

Tirando le dovute somme la domanda si pone un dubbio fondamentale. Ripartendo dai dati forniti all’inizio, proprio perché ormai il 35% degli italiani usa i social network, proprio perché le conseguenze dell’errato uso degli stessi provocano danni spesso irreversibili alle persone, quando verrà il momento di regolamentare, anche attraverso sanzioni più concrete, il comportamento degli utenti? Quando verrà finalmente il momento in cui tutti i fruitori della rete dovranno, per legge, prendersi la responsabilità di ciò che dicono pubblicamente?

Non resta che aspettare, speriamo non troppo, ulteriori sviluppi e approfondimenti sul tema.

Alessandro Basso

[Immagine tratta da Google Immagini]

Evgeny Morozov: internet, la nostra privacy e i signori del silicio

Un guastafeste, un bastiancontrario. In quarta di copertina del suo nuovo libro Silicon Valley: i signori del silicio, Evgeny Morozov è descritto proprio come quello che arriva tardi a una serata e rovina il divertimento, e la festa è la Silicon Valley. Ha l’aria tranquilla di chi sa di sapere, rimane seduto con le gambe accavallate senza scomporsi mai, ma quando tocca a lui non le manda certo a dire, ai colossi californiani soprattutto. Il sociologo bielorusso, giornalista e saggista, 32 anni, già quattro libri pubblicati in Italia, è considerato come uno dei massimi tecnoscettici, parola con cui si vorrebbero comprendere molte cose e che non vuol dire niente. Quel che si può dire, specificando meglio, è che Morozov è un esperto e studioso dei nuovi media e di internet, è molto critico riguardo il nuovo tipo di capitalismo sdoganato dalle aziende della Silicon Valley e riguardo l’uso che fanno e che potranno fare dei nostri dati. Se questo è essere tecnoscettici, allora sì, lo è, e molto.

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Comunque sia, l’incontro e il dibattito che ha tenuto al Teatro Comunale di Ferrara il primo ottobre durante il Festival di Internazionale era gremitissimo, con molte persone in coda già un’ora prima dell’inizio. L’incontro si chiamava Fatti nostri con il sottotitolo Privacy, diritti e libertà ai tempi dei big data, ed era inserito non a caso nella categoria diritti. Morozov avrebbe dovuto dialogare con Stefano Rodotà, che ha rinunciato però all’ultimo. A rimpiazzarlo Paul Mason, giornalista del Guardian e autore di Postcapitalismo, da poco uscito in libreria. La discussione è stata così più tecnica e basata sulle implicazioni politiche ed economiche della tecnologia odierna. L’ora e mezza è stata densa di temi e il dialogo (in inglese) molto serrato, tanto che le traduttrici a fatica riuscivano a stare dietro al ritmo con cui le parole di Morozov uscivano dalla sua bocca. L’assunto da cui partono e concordano sia Mason che Morozov è la visione di internet come di uno spazio (cyberspazio) scollegato dalla realtà, un posto speciale e in quanto tale con regole proprie, invece che una semplice, ma nuova, infrastruttura. Di fatto, spiega il sociologo, questo permette alle nuove aziende che operano in questo scenario, vedi Uber e AirBnb, di sfruttare la deregolamentazione che esiste in materia, non sottostando alle leggi normali. E inoltre di rispondere alle accuse che vengono mosse nei loro confronti ergendosi a paladini di internet, gridando alla censura, come se pretendere delle regole mettesse in discussione la libertà stessa di queste aziende e della rete. Morozov infatti mette in guardia dalla retorica che ci fa credere che le innovazioni tecnologiche, tutte, siano sinonimo di progresso e che le critiche ai punti oscuri del nostro mondo digitale (e ce ne sono) siano invece ostacoli, tacciando chi le formula di essere antiprogressista. Quello che auspica Morozov e che trova d’accordo anche il suo compagno di palco è quindi innanzitutto una regolamentazione democratica dello spazio cibernetico, inteso sia come contenuto che come struttura di internet.

 

Internazionale_ferrara_2016_la Chiave di Sophia-01Altro snodo cruciale sono poi i big data e le intenzioni che hanno a riguardo i nuovi giganti del capitalismo. Tema di attualità poiché siamo veramente solo all’inizio della raccolta e dell’utilizzo dei dati, e caro a Morozov che ne parla per esteso anche nel suo ultimo libro. La sua tesi è che tutti i servizi gratuiti o quasi che ci offrono aziende come Facebook, Google, Amazon, ma anche Spotify (come anche tutte le iniziative umanitarie sempre opera di questi colossi nel terzo mondo), non ci sono dati perché abbiamo a che fare con un nuovo tipo di capitalismo felice e inclusivo, e con gente che fa filantropia, anzi. Abbiamo a che fare con un’altra faccia del vecchio capitalismo che, impreziosito dalla retorica dell’infallibilità e del bene comune, in cambio di servizi si prende i nostri dati, ovvero la nostra privacy. Fin qui nulla di trascendentale, se non che l’enorme massa di dati che vengono processati ogni giorno da Facebook e Google, tra gli altri, hanno lo scopo di essere monetizzati, spiega Morozov. Quindi il miglior offerente si accaparrerà le nostre informazioni per mostrarci la pubblicità più adatta a noi al momento giusto. O i dati finiranno in mano di banche e assicurazioni, che sapranno meglio di noi quanto valiamo e se siamo o meno affidabili. Il problema è quindi non solo digitale ma politico ed economico, e il dibattito secondo Morozov deve spostarsi su questi piani per poter vedere e contrastare le implicazioni di questo tipo di mercato. Se questo è l’inizio Morozov immagina come, grazie ai nostri dati, le aziende possano impadronirsi poco alla volta del settore pubblico: dalla sanità via app, ai trasporti appaltati ad Uber fino ai MOOC (corsi online) al posto delle università. E se non si fa qualcosa saranno proprio lo stato e le città ad affidare ai privati queste incombenze. Il potere politico si sposterà quindi dai parlamenti ai consigli di amministrazione. Per il sociologo la partita inizia dai dati ma può mettere in crisi il welfare e lo stato sociale per come lo conosciamo oggi. E allora la nostra privacy sarà diventata un servizio a pagamento e non un diritto; è questo il pericolo più grave. Di fronte a tutto ciò Morozov afferma che c’è bisogno di un’alternativa statale e pubblica al monopolio delle aziende di big data, solo in questo modo potremo essere sicuri che i nostri dati siano usati realmente per il bene della collettività e non solo per generare profitti. Rispondendo infine abbastanza accalorato all’ultima domanda dal pubblico, rivolge alla platea un’altra domanda: “Vogliamo davvero che tutti i minimi aspetti delle nostre vite siano gestiti da Google tramite i nostri dati? Io no.” A noi la parola.

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Tommaso Meo

[Immagini di proprietà de La chiave di Sophia]

Connettere p(e)r educare

Questa è solo una delle tantissime storie di innovazione che provengono da un luogo che non si chiama Silicon Valley e per questo fanno meno notizia.

Nonostante questa pregiudiziale un continente come quello africano sta dimostrando di potersi affacciare sulla scena con una miriade di progetti e startup, anche se ci sono ancora non pochi ostacoli da superare. Uno di questi è la connessione ad internet, ancora un sogno per moltissimi e una difficoltà per quasi tutti in Africa, dove l’energia elettrica è spesso un miraggio. Per ovviare a ciò e connettere i 2/3 del mondo che è ad oggi è offline si sono messi in moto vari progetti, come quello, già discusso, di Mark Zuckerberg, ma una più piccola e non meno interessante idea ha preso piede da una realtà totalmente africana. Il progetto, che è in definitiva l’oggetto stesso, si chiama BRCK. È opera di Erik Hersman e Juliana Rotich, già creatori di Ushahidi, la piattaforma di crowdmapping più usata al mondo, nata e sviluppata all’indomani dei conflitti in Kenya con l’intento di tracciare i combattimenti, come risorsa open source per la popolazione.

Ushahidi ora è una non profit tech-company con sede a Nairobi, Kenya, importante centro e incubatore di startups, e si occupa tra le altre cose di promuovere progetti di design e di hi-tech del tutto africani mettendoli in contatto con gli investitori.

BRCK, da leggersi brick, mattone, è uno di questi: consiste in un router mobile di forma rettangolare, del peso di 500 grammi, che semplicemente non ha bisogno di energia elettrica per funzionare e consente una connessione internet stabile anche in condizioni non agevoli. Ha un hard disk da 16 gigabyte, un’autonomia di otto ore ed è capace di passare dalla connessione WiFi a quella ethernet alla banda larga in automatico. Questo compatto mattoncino di 13x7x5 centimetri di  dimensioni può connettere fino a dieci dispositivi ed è stato pensato proprio per le regioni subsahariane nelle quali la connessione va e viene molto frequentemente e non sono rari i black out.

Ed è proprio questa l’obiettivo di fondo: connettere e mantenere la connessione, cosa fondamentale in un continente così vasto e in via di sviluppo in cui le comunicazioni e le risorse della rete stanno diventando necessarie per lo sviluppo stesso e per l’innovazione. Garantirle è garantire un futuro.

BRCK è stato lanciato a fine 2013 ed ha ottenuto copiosi finanziamenti prima su Kickstarter e poi da investitori, e vari premi, vendendo più di 2500 esemplari in 54 paesi.

Ora è tornato con l’iniziativa collaterale BRCK Education e con Kio Kit, un kit per la scuola presentato recentemente, che è un’espansione dell’idea originale. Non più solo connettere, ma connettere per educare. Attualmente in Africa ci sono 400 milioni di bambini in età scolare e la grande maggioranza di loro ha un limitato accesso ad internet. Il cuore di Kio Kit infatti è lo stesso router portatile BRCK a cui sono stati aggiunti 40 tablets, con materiali pre installati e altri scaricabili, resistenti a cadute e all’acqua, e 40 cuffie. Il tutto permette quindi, nelle intenzioni degli ideatori, agli insegnanti di creare una classe multimediale in pochi minuti, potendo collegare a una rete stabile molti dispositivi.

Sicuramente abbiamo di fronte un progetto importante per questa regione a livello sia etico che funzionale. Inoltre il valore aggiunto è dato dal fatto che il prodotto BRCK è totalmente pensato e prodotto in Africa, per l’Africa certo, ma non solo, come recita il testo della campagna: “Born in Africa. Made for anywhere”.

Potrà questa piccola idea vincere la corsa alla connessione dell’Africa o quantomeno dare un contributo alternativo e utile? In molti se lo chiedono.

Tanti sono infatti sono i progetti e gli investimenti per garantire una connessione di qualità in Africa, ma anche in altri paesi in via di sviluppo, come Project Loon di Google e Free Basics di Facebook. Una prima differenza è però che questi lavorano a livello infrastrutturale mentre BRCK si pone come un’alternativa più immediata e vicina alla gente, dato il costo non eccessivo del suo prodotto. Il progetto di Facebook poi è stato criticato perché ad ora permette l’accesso solo ad alcuni siti selezionati. Mentre l’obiettivo dei creatori di BRCK è appunto garantire la connessione internet libera e  per tutti, e grazie a ciò provare anche a vincere una delle grandi sfide dei nostri giorni: un’educazione altrettanto democratica e garantita. Se sarà questo progetto africano a dare una svolta decisiva non si può sapere, ma quello che si può intravedere è che sempre più persone iniziano a credere davvero che la rete possa essere un veicolo dalle possibilità illimitate. Sarà questa la vera democrazia della rete?

Tommaso Meo

Il ‘Mi piace’ come nuova valuta

Qualche giorno fa mi trovavo a lezione di storia della filosofia, in aula Padoan a San Sebastiano, a Venezia. L’aula ha una capienza di circa ottanta persone e per tale corso sopraccitato il risultato è sempre un tutto esaurito. Proprio in mezzo a tutte quelle persone, in gran parte sconosciute, mi sono domandato con che criterio sviluppiamo dei giudizi nei confronti di ciò che circonda, oggetti e soggetti che siano. Non fraintendetemi, il motivo di tale domanda non trova ragione nella lezione incentrata su Kant a cui stavo assistendo, anche se egli di giudizi ne aveva formulati giusto un paio, se non un’intera opera. Questo spontaneo pensiero è nato in me dopo aver osservato un po’ di quei volti che mi accerchiavano, che mi osservavano a loro volta. Quando guardi una persona e il suo sguardo incontra il tuo si stabilisce un contatto, un dialogo muto e privo del linguaggio tradizionale a cui siamo abituati. In quel determinato istante si parla simultaneamente, si formulano dei pensieri relativi alla propria visione, arrivando a formulare un resoconto di questo nostro vedere. Dettagli e azioni spesso ci attirano, catturano la nostra attenzione e di conseguenza non riusciamo a guardare all’intero ma solo al particolare.

Ecco se pensiamo a questo breve lasso di tempo che coinvolge uno scambio di sguardi è innegabile che un’idea, un giudizio appunto sia nato, sia in uno che nell’altro individuo. Tale giudizio, come conclusione della nostra osservazione, non potrà che essere a priori come direbbe Kant, ossia un giudizio che precede la nostra esperienza. In quest’ambito lo ritengo assolutamente incompleto, se non di natura fuorviante, tanto da farci presupporre ciò che dovremmo e potremmo solo ipotizzare. Il problema, appunto, risiede proprio in questa nostra posizione, ossia l’assunzione di questa nostra opinione come verità. Dopo questo processo pensiamo di aver già conosciuto il conoscibile di un determinato soggetto o oggetto, escludendo altre caratteristiche possibili, escludendo ogni altra possibilità d’essere. L’apparenza dunque in questi semplici scambi quotidiani fa da sovrana e pare essere la struttura su cui costruire al meglio noi stessi. “L’abito non fa il monaco” si continua a predicare, eppure la mentalità che sta prevalendo oggigiorno è un apparire, vestito di ogni possibile qualità positiva quanto desiderabile, adornato di lustrini e paillettes che ne distorcono la vera forma. È un travestimento, una maschera che ci alletta e che vorremmo tanto indossare per essere, magari anche solo per un attimo, ciò che vorremmo essere. Nessuno è contento, tutti vogliono essere qualcos’altro, stravolgere se stessi per assomigliare a quelli che dal nostro punto di vista sono modelli di vita. Sono solo parole e discorsi fatti e rifatti, ne sono consapevole, ma ora più che mai siamo inconsciamente immersi in tale sistema, sistema che rinneghiamo ma dal quale non riusciamo effettivamente ad uscire. Ne sparliamo, lo accusiamo ma poi ci accovacciamo in esso quasi come segno di sottomissione, rimasti assuefatti dalla (non) realtà che esso può fornirci, dove tutti sono ciò che vogliono e lo decidono forti di un’apparente libertà.

Può sembrarvi la classica descrizione dei social network e di internet che ormai hanno preso il sopravvento sulla nostra volontà. Ebbene lo è, ma solo in parte, poiché il mio appello, la mia voce anch’essa interna a questo sistema dev’essere una testimonianza, poche semplici parole che convincano di come sia tutto corrotto ma allo stesso tempo celato e proposto in modo innocuo, quasi come una mano invisibile che ci manipola. È forse un agente esterno che opera sul mondo e su di noi? Siamo forse vittima di qualcuno al di sopra delle nostre persone? Di qualcuno siamo vittima, ma quel qualcuno siamo noi stessi, ci siamo schiavizzati da soli, creando qualcosa di immensamente grande che non riusciamo quasi a controllare. Volevamo fare la più grande scoperta della storia e ci siamo riusciti, creando un mondo alternativo, un mondo virtuale da poter elevare a realtà, sottomettendo quella che dovrebbe essere l’unica e vera realtà, quella che viviamo tutti i giorni. Non possono essercene due e, per quanto possiamo essere insoddisfatti e delusi da quel che ci è stato offerto, non lo possiamo negare e distruggere, non possiamo ripartire da zero in altro loco dimenticando da dove veniamo e dove noi realmente sussistiamo. L’altro mondo da noi creato, quel mondo virtuale apparentemente perfetto e abitabile in modo lieto da ognuno di noi, da ogni singolo essere umano esistente non può reggere il confronto per quanto sia efficace dal punto di vista dell’imitazione. È un buon mimo, che sa ripetere ogni mossa, come la nostra controparte allo specchio, ci fa credere che può darci tutte le cose di cui abbiamo (forse) bisogno. Ha i suoi metodi di valorizzazione, ha i suoi strumenti, addirittura la sua valuta per giudicare ciò che sta al suo interno e far vivere le persone di quella moneta, farle vivere PER quella moneta.

Il mio è un discorso molto astratto, parole che si sprecano nell’inconsistenza del virtuale, pertanto vorrei farvi pensare a quale può essere la strumento di questo mondo astratto, ciò che riesce ad assuefarci ad esso. Sarà sicuramente anch’esso immateriale, una moneta non sostanziale ma puramente inafferrabile. Pensateci. Ormai la usate ogni giorno, inconsciamente, non sapendo quanto valore ha ormai nel mondo che ci siamo creati, lo vedete come un semplice gesto, un dire qualcosa, un vostro esprimervi che non è poi così significativo. Si tratta di quel “mi piace” che ogni giorno ci dona importanza o la dona a qualcun altro, elevandolo a qualcosa, facendolo sembrare importante, dandogli forza.

È importante purtroppo, è importante perché noi gli abbiamo dato importanza e in poco tempo è diventato il nostro metro di misura, la nostra moneta, il valore delle cose e addirittura delle persone che ci circondano. Un valore numerico che ha superato l’impatto che ha avuto il valore numerico precedente dato dai soldi cartacei e dalla monete concrete, poiché è ahimè molto più semplice, molto più facile da utilizzare e alla portata di tutti, intellettuali e stolti che siano. Ma non date ascolto a me. Io di media ho solo 10 mi piace.

Alvise Gasparini

Tecnologia e terrore

Quando comparvero i primi treni che andavano a ben 80 km all’ora alcuni detrattori dell’utilità di quella tecnologia sostennero che a quella velocità inaudita i passeggeri avrebbero subito gravi danni alla salute, la velocità avrebbe impattato sugli organi interni dei passeggeri portandoli a morte certa. Edison, fermamente contrario alla corrente alternata, arrivò a friggere una povera elefantessa in una orribile esecuzione pubblica. La tecnologia non è né buona né cattiva, dipende dall’uso che ne facciamo: i telefoni cellulari hanno rivoluzionato il nostro modo di vivere in positivo, ma possono anche essere usati per attuare attentati terroristici.

La foto di Mark Zuckerberg al discorso scandito dal palco di Samsung al Mobile World Congress: “La realtà virtuale è la piattaforma del futuro. Cambierà le nostre vite” che sceso dal palco viene immortalato di fronte a una moltitudine di persone dagli occhi coperti da un innovativo dispositivo tecnologico immerse in una realtà virtuale, basta per rievocare orde di neo luddisti pronti a immaginare scenari apocalittici. Facciamo un passo indietro, chi è Ned Ludd? Il luddismo è stato un movimento di protesta operaia sviluppatosi all’inizio del XIX secolo in Inghilterra particolarmente noto per accanirsi contro i macchinari industriali.Ned Ludd, forse una figura mitologica, è descritto come un giovane che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio in segno di protesta. Ludd incarna la distruzione delle macchine percepite come nemiche di tutti i lavoratori salariati oppressi dai padroni e sconvolti dalla rivoluzione industriale. Ludd può apparirci come una figura distante, ma è ancora tra noi nella misura in cui ci si approccia alle nuove tecnologie con atteggiamento denigratorio, la storia dell’umanità è piena di esempi di resistenza sociale al mutamento tecnologico.

Intanto bisogna sgomberare il campo da una grande ipocrisia: si cerca spesso di descrivere una tecnolgia in senso negativo come se questo fosse un dato oggettivo, ad esempio la fissione nucleare è un male in sé a prescindere dall’utilizzo che se ne fa, cosa smentita dalla realtà nella misura in cui essa va a beneficio della salute di pazienti malati di gravi patologie. I detrattori della tecnologia sono costretti ad ammettere che la diffidenza verso la novità deriva più da un dato soggettivo, una sorta di nostalgia per le cose com’erano una volta, la manifestazione del desiderio che tutto resti com’ è. La spinta alla conservazione tende ad essere sempre più forte di quella all’innovazione eppure il dato è che il mondo cambia ed è in perenne movimento, esigere che le cose restino statiche significa negare la vita.

Il concetto economico di “decrescita felice” è sensato nella misura in cui parliamo di razionalizzare sprechi e consumi, diventa invece nemesi della vita e utopia nella misura in cui nega la tensione umana al progresso, che è il superamento costante dei propri limiti, motivo per cui siamo stati spinti ad esplorare ogni angolo del nostro pianeta e le stelle. Forse proprio da questa tensione a superarsi l’umanità trarrà un giorno la forza per esplorare lo spazio e fuggire da un sistema solare morente, a lungo termine la tecnologia è l’unica condizione di possibilità della salvezza dell’intero genere umano.

Bisognerebbe riprendere Hegel: la storia dell’umanità è storia del progresso e la soluzione ai problemi derivanti dalla tecnologia non possono che derivare dalla tecnologia stessa e dallo sviluppo della conoscenza scientifica, a patto che dalla dialettica uomo-macchina, sapere umanistico e sapere scientifico si tragga infine una indentificazione nel concetto che essi sono in definitiva la stessa cosa, identificazione tra chi fa quella determinata tecnologia e quella tecnologia stessa.

L’innovazione è l’unica condizione di possibilità dell’essere umano dal momento che guarda sempre al futuro e ne vive la dimensione temporale: ansia, speranza e aspettative fanno parte del nostro modo di vivere il tempo. Il modo in cui l’umanità vive il tempo la rende del tutto diversa dalle altre forme di vita animale e vegetale che conosciamo.

Viviamo in un futuro prossimo in cui uomo e macchina raggiungeranno livelli di simbiosi inauditi e non è certo utopico pensare che un giorno saremo supportati da macchine androidi, possiamo opporci a tutto questo sapendo che accadrà comunque oppure possiamo abbracciare il futuro cercando di guidarlo nel migliore dei modi a partire da un insaziabile desiderio di superarci come individui e come specie?

Matteo Montagner

La nostra vita ridotta a codice html

siamo solo noi
che non abbiamo più niente da dire
dobbiamo solo vomitare
siamo solo noi
che non vi stiamo neanche più ad ascoltare

Erano gli anni ’80 quando Vasco Rossi cantava questa canzone, inno di una generazione di ‘sconvolti’, di giovani che vivevano la vita appieno, anche esagerando, però sempre da protagonisti delle loro storie, sempre in prima linea nei loro rapporti e sempre reali.

All’epoca non esistevano i Social Network. I famigerati Social Network.

A quei tempi il non avere più niente da dire o il non avere più voglia di ascoltare erano da imputare ad un senso di ribellione nei confronti della società che scaturiva dalla necessità di essere liberi ed emancipati .

Oggi sono dovuti alla perdita inesorabile di relazione tra le persone.

Cosa vuol dire relazione?

Da sempre concetto problematico in Filosofia, essa può intendersi, semplicisticamente e in riferimento a due persone, come una particolare disposizione nei confronti di qualcuno che fa interagire due pensieri tra loro.

Così intesa la relazione è un rapporto di scambio tra due individui che decidono di condividere qualcosa.

Oggi questo tipo di concezione è  assolutamente messa in crisi dalla presenza sempre più massiccia di Internet e, soprattutto, dei Social Network; attraverso questi nuovi potenti mezzi di comunicazione le relazioni si fanno sempre più deboli, diventando virtuali.

La virtualità è ciò che contraddistingue la  vita dei giovani d’oggi: non più piazze, giardinetti, concerti, manifestazioni, ma una stanza e un monitor. Non più sensazioni tattili, visive, olfattive ed uditive ma solo contatti freddi fatti di immagini (ritoccate possibilmente) e di parole studiate, ragionate, dunque poco spontanee.

Dove sono finiti il coraggio di affrontarsi di persona, di litigare vis à vis e l’emozione di un ‘Ti amo’ sussurrato, di un abbraccio sincero? Possibile che tutto questo possa davvero essere sostituito da un semplice dispositivo tecnologico?

Chi sono loro? Chi sono i giovani di oggi e perché non lo sappiamo?

Semplice: loro si raccontano eccome, ma solo attraverso Facebook, Twitter e simili. Loro ci parlano per mezzo di Like, Tweet, Followers perché si sentono veri in un mondo fasullo.

La vita è virtuale e la relazione tradizionale fatta da “Ciao! Che bello vederti!’ diventa solo “Ciao! Ho visto su Facebook che ti sei sposato!’. Le loro informazioni girano nel web, quindi non hanno bisogno di andare a dire ‘a voce’ quello che sono o quello che fanno.

Una domanda, però, sorge spontanea…loro sono davvero quello che vediamo virtualmente?

Non parlo solo di foto o nomi che spesso sono fasulli (ma perché?), intendo capire se quello che i giovani scrivono sia davvero ciò che pensano, sentono, sognano o se sia solo ciò che serve loro per costruirsi un’immagine perfetta agli occhi degli altri.

Difficile dirlo e scoprirlo. Se lo chiedessimo a loro risponderebbero che il tutto corrisponde a realtà. Ma loro sanno cos’è la vera realtà? Veramente farebbero e/o direbbero tutto quello che scrivono? Io non ci credo, perché Internet è un fantastico modo per nascondersi, per celare la propria personalità fragile o violenta, emotiva o arrogante. È una vetrina dove ognuno espone la propria merce al meglio, chi per farsi accettare, chi per scatenare l’invidia altrui, chi per timidezza.

La realtà, oggi, è stata completamente assorbita dal virtuale.

[…]con il virtuale non ci si confronta. Nel virtuale ci si immerge, ci si tuffa dentro lo schermo. Lo schermo è un luogo di immersione, ed ovviamente di interattività, poiché al suo interno si può fare quel che si vuole; ma in esso ci si immerge, non si ha più la distanza dello sguardo, della contraddizione che è propria della realtà. […]Nella realtà virtuale tutto è effettivamente possibile, ma la posizione del soggetto è pericolosamente minacciata, se non eliminata.¹

Nel mondo virtuale i rapporti soggetto-oggetto e soggetto-soggetto non esistono più, tutto viene posto sullo stesso piano, senza alcuna differenza tra vero, falso, reale, immaginario e così via.

Il conflitto tra reale e virtuale è stato ben rappresentato da Jean Baudrillard in un’intervista² del 1999 in cui lo rivede in chiave platonica attraverso il mito della caverna:

L’immagine di Platone è diversa in quanto si riferisce alla figura di una nascita, di qualcosa di irreale in quanto ombra di qualcosa, ma tuttavia il mito parla comunque dell’essere. Ci sono ombre che si muovono in circolo e noi non siamo che il riflesso di un’altra sorgente, che esiste altrove, una fonte luminosa dinanzi alla quale però si interpone un corpo, e le ombre sfilano. Nel mondo virtuale, invece, direi che non ci sono né apparenze né essere, non esistono ombre giacché l’essere è trasparente, in un certo senso questo è il dominio della trasparenza totale. Noi siamo perciò come attraversati in qualche modo dai messaggi, dall’informazione, dai megahertz o che so io, da tutto quel che si vuole, poiché noi stessi siamo trasparenti all’interno della realtà virtuale, non abbiamo più un ombra. La nostra, se si vuole, è tipicamente l’epoca dell’uomo che ha perduto l’ombra. La famosa frase, “egli ha smarrito la sua ombra”, è una metafora che sta a indicare che abbiamo perso l’opacità, e in fondo l’essere stesso, lo spessore dell’essere, la sua profondità. Al contempo si è perduto anche il significato che l’ombra aveva un tempo, vale a dire la negatività, la morte. Del resto è vero che di fatto ci troviamo dentro a un sistema che si prefigge di eliminare la morte, nel quale non ci dovrà più essere nulla di negativo, come la fine dell’esistenza e l’ombra. Un sistema totalmente operativo e positivo al cui interno noi saremo tutti trasparenti, comunicativi, interattivi. In questo ambito, perciò, non credo ci sia una scena in cui compaiono queste ombre platoniche.

Forse il problema di oggi diffuso tra i giovani è cosa sia davvero la realtà, se esista una realtà o se non sia realtà proprio la loro, semplicemente rivista perché segue il mondo che diviene.

Tutto è, come vedete, compromesso. Non riusciamo più a credere a nulla e pretendiamo lo facciano i giovani che sono nati durante la globalizzazione e l’accelerazione dello sviluppo tecnologico.

Eppure, in tutto questo caos, una cosa è sicura: la relazione, quale rapporto occhi contro occhi, pelle sopra pelle, fatto di voce, di sguardi, di guance rosse, mani che asciugano lacrime, gambe che si intrecciano e capelli che si muovono al vento si è smarrita nel labirinto di codici html.

Note:

¹-  Intervista a Jean Baudrillard, Il virtuale ha assorbito il reale, Parigi, 1999

²- Ibidem

Valeria Genova

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Siate più Smart siate più schiavi

In treno un tale di una certa età chiede a un’altra persona più giovane nascosta dietro un computer “Mi scusi posso farle una domanda? Qual è l’ultimo libro che ha letto?”, l’interlocutore imbarazzato risponde un titolo che non ho capito e specifica che si tratta di un libro sulla cultura indiana. Il tale che ha fatto la domanda risponde sul pezzo e cerca di intavolare una conversazione, ma l’altro lo interrompe bruscamente dicendo con tono secco “Mi scusi devo lavorare!” e torna a nascondersi dietro al monitor del computer dove io che lo vedo so che sta facendo di tutto meno che lavorare tra Facebook e simili. Il tale delle domande si ricompone in silenzio e questa volta volge lo sguardo verso di me che intanto me ne sto qui a scrivere questo stato, fingendomi indaffarato col tablet. mentre intanto ogni tanto alzo lo sguardo e lo ritrovo lì con sguardo interrogativo e io sono sempre più in imbarazzo cercando di schivare la domanda. Perché nell’era in cui siamo tutti connessi abbiamo così paura di parlare con uno sconosciuto? I nostri dispositivi tecnologici ci hanno promesso “amici” come se piovessero dall’alto, ma ci hanno forse resi deficienti quando si tratta di parlare semplicemente con il prossimo? Una cosa è certa: sia io che il mio vicino forse ci stiamo perdendo una grande occasione di uscire arricchiti da una conversazione che non abbiamo il coraggio di sostenere, e di sicuro i nostri nonni non avrebbero invece perso l’occasione di far due parole con questo curioso signore che in fondo vuole solo parlare di qualche buona lettura…

In “Il Capitale” Marx ci parla di due fenomeni che possono tornarci utili per analizzare la situazione perché risulta evidente come abbiamo accolto nella nostra vita le nuove tecnologie in modo del tutto acritico e perseguendo un’idea diffusa nell’ascesa industriale di radice ottocentesca secondo cui progresso, etimologicamente pro gradius, abbia sempre e solo una accezione positiva.

I bisogni indotti: Marx descrive il fenomeno secondo cui vi sarebbero insiti nella natura umana due tendenze composte dai bisogni naturali che apparterrebbero alla sfera strutturale degli individui e i bisogni indotti che apparterrebbero agli aspetti sovrastrutturali. Per semplificare potremmo definire le due categorie come la distinzione sussitente tra Natura e Cultura, questa seconda categoria concepita all’interno del sistema capitalistico ridurrebbe l’individuo a consumatore in cui instillare bisogni eteronomi rispetto alla sua stessa natura. Se osserviamo la penetrazione delle nuove tecnologie nella nostra vita quotidiana non possiamo che notare questa tendenza, le nuove tecnologie si sono fatte strada negli ambienti di lavoro, nelle nostre case e nelle nostre tasche, all’interno della retorica delle cose “smart” e di quanto esse sarebbero straordinariamente fighe, ci hanno promesso di risparmiare tempo, che tutto sarebbe stato migliore e più fast, ma dietro a queste promesse non è forse vero che i ritmi di lavoro sono in realtà aumentati e che ci siamo esposti a un bombardamento cognitivo a discapito della nostra serenità e pagando un caro prezzo in termini di carico di stress? Pensate all’effetto della reperibilità permanente, siamo sempre raggiungibili, una connettività permanente che diventa simile a una droga quando si manifesta nella dimensione della dipendenza e dell’ansia quando vediamo le tacchette della nostra batteria scendere inesorabilmente verso lo 0% sugli schermi dei nostri dispositivi.

L’alienazione: in “ Il Capitale” di Marx vi è un capitolo emblematico: Le macchine. Un capitolo la cui profeticità risulta sconvolgente se pensiamo che esso è legato alla macchinazione industriale dell’Ottocento la cui pervasività nella vita era legata alla prossimità della macchina nelle fabbriche. Eppure già qualcosa allora nelle viscere degli uomini si muoveva, forse memori del racconto del Golem della cultura ebraica, una creatura generata da conoscenze esoteriche derivanti dalla Cabala all’interno della cultura ebraica, una creatura naturalmente portata a essere al servizio dell’uomo, ma destinata alla fine a ribellarsi a quest’ultimo cagionando vicende nefaste. Non a caso negli anni dell’industrializzazione si fece strada il Luddismo, un movimento di protesta operaia che si rifaceva a un mitologico operaio Ned Ludd il quale avrebbe distrutto un telaio meccanico in segno di protesta finalizzato alla riaffermazione della dignità dei lavoratori salariati rispetto all’introduzione di nuove macchine. L’alienazione è quel fenomeno che sorge nell’interazione delle macchine e dove la dimensione umana diventa funzionale alla macchina e non viceversa, dove gli uomini sono soggiogati dalle macchine e in funzione di esse. Scrive Marx a riguardo:

“Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere. Questo fatto non esprime nient’altro che questo: che l’oggetto, prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente”.

Ho visto persone più attente a prendersi cura del proprio Smart Phone, con le sue app, i suoi aggiornamenti e i suoi ultimi giochi che assomigliano più a delle catene di Sant’Antonio che a una esperienza ludica, che pronte a prendersi cura di un essere vivente, di un cane, di un gatto e perfino dei propri simili.

Ci sono famiglie che si ritrovano a cena intorno allo stesso tavolo dove l’unico suono che si ode è il ticchettio delle dita sui monitor di cellulari e tablet, e quante volte ci ritroviamo a stare insieme fisicamente senza esserlo davvero? Nell’epoca in cui tutti siamo più connessi nei nostri iperurani digitali siamo tutti più disconnessi dalla nostra prossimità tanto che diventa sensato chiedersi se non siano più reali i nostri avatar digitali, le nostre vite digitali di quanto non lo sia la realtà stessa che stiamo vivendo.

Fotografiamo quello che abbiamo nel piatto, fotografiamo i nostri figli, fotografiamo i nostri luoghi, fotografiamo e postiamo, come se le cose che mangiamo, le esperienze che facciamo non fossero sufficientemente reali così come sono, come se il loro statuto ontologico fosse deficitario al punto da necessitare un rafforzamento all’interno della condivisione. Le cose esistono solo se le vedono in tanti e così facendo perdiamo il qui e ora, la realtà di quelle esperienze che nessun dispositivo potrà mai campionare così come sono, demandando tutto a un mondo di illusorio dove “bisogna esserci” perché è solo nella rete, nella socializzazione esasperata che le cose si affermano.

Siamo tutti connessi e tutti infinitamente più soli, più insicuri, più fragili. In molti casi lo sappiamo, sappiamo che forse dovremmo avere più coraggio di vivere il presente al posto di affidarci a un limbo fatto a suon di chat, condivisioni e tweet eppure continuiamo a ingannarci scientemente perché questa è la legge del tutti e nessuno, della dimensione collettiva che è diventata prima di tutto la prigione della nostra stessa esistenza.

La tecnologia e i suoi araldi ci hanno promesso benessere e libertà, noi ci siamo caduti in pieno. E a questo punto bisognerebbe chiedersi se non siano le macchine i veri soggetti e se non siano esse a usare in qualche misura noi. E’ questa la dittatura delle cose.

Scrive Calvino in “Le Città Invisibili”:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

Cosa dite cari lettori? Sì, in effetti anche io che vi sto scrivendo in fondo mentre vi scrivo sono soggetto alla stessa contraddizione di chi assomiglia a un cartello stradale che in effetti non va nella direzione che indica o forse, nel nostro caso, va perfino nella direzione opposta. Perché in effetti vi sto scrivendo attraverso un tablet, mi state leggendo su una piattaforma online chiamata La Chiave di Sophia che nasce proprio come uno strumento online che comunica tanto con Facebook quanto con Twitter.

Vi risponderò ironicamente che in realtà è tutta una strategia, non è forse Hegel che conia la definizione di “Critica immanente” e forse il nostro riscatto e la nostra liberazione non può che passare proprio attraverso gli stessi strumenti che ci hanno messi in catene…per quanto immateriali e digitali…pur sempre catene…

Matteo Montagner

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Travel is my therapy.

Sono felice. Quando lo dico, la gente mi guarda sconvolta.

Francesca è la perfetta sintesi di tutto ciò per cui noi de La Chiave di Sophia lavoriamo da quasi un anno.
E’ cambiamento, coraggio, viaggio, ricerca, scelte, infinite possibilità di essere.
E’ riuscita a fare ciò che tutti vorremmo: non relegare le proprie passioni e la proprie indole in una piccola sezione del cv “hobby ed interessi”. Ma prenderle e farne un lavoro.
Quanti di voi hanno scritto in questo piccolo e dimenticato riquadro del curriculum “ Viaggiare”’? Tutti.

Ecco, Francesca Di Pietro.

Noi ci presentiamo a te così: “ Di sogni non si vive, ci dissero tempo fa. Di insoddisfazione si muore, avemmo la prontezza di rispondere”.
Tu quando hai avuto questa prontezza?
Credo che come in tutte le cose, si prende coraggio quando davanti a se nn si vede scelta. Io anni fa ho vissuto un momento molto buio, sia lavorativo che personale, tutto quello in cui credevo si è sbriciolato, o meglio non è andato come avrei voluto e come ho sempre creduto che andasse, in quel momento ho capito, che forse se la vita prende una piega diversa, dovremmo seguire il flusso invece di incaponirci per cambiarla. Così ho colto un’opportunità e ho lasciato il lavoro, da lì ho iniziato a viaggiare, senza sapere cosa avrei fatto una volta finiti i soldi, e come sempre mi accade in viaggio, ho avuto un illuminazione.

Hai studiato psicologia. Perché? Le motivazioni di questa scelta di Francesca a 18 anni e le motivazioni di Francesca adesso, nel 2015.
Perché ho studiato psicologia?? Oddio ora mi dirai anche tu “perchè avevo qualcosa da risolvere”, beh ci mancherebbe, tutti i ragazzini di 18 anni hanno qualcosa da risolvere. Con il senno di poi, io ero una ragazza più sensibile del comune e diciamo che quasi nessuno se ne era accorto, così al liceo mi sono chiusa in molti libri e pensieri filosofici, questo mi ha avvicinato alla psicologia come “scienza” e arte. Poi nn so perché, mi ero fissata che avrei lavorato nelle risorse umane, volevo fare la manager con il tailleur e i tacchi alti, così ho sempre avuto le idee chiare: laurea, master, altro master, corsi di specializzazioni come se nn ci fosse un domani, ma poi mega- frustrazioni al lavoro.
La psicologia è la mia passione, ho un dono, o forse una sfiga, di leggere molto bene i comportamenti umani, li leggo, ma non li curo, questo sia chiaro. Gli uomini sono la cosa più bella che Dio abbia mai creato, negli ultimi anni sono solo diventata più curiosa e ho ampliato il mio interesse fuori dalle aziende … nel mondo.

Chi era Francesca prima di diventare psicologa?
Intendi prima dei 23 anni?? Oddio questa è personale… Diciamo che sono cresciuta molto da sola, assorbendo paure e pregiudizi come una spugna, ho sofferto molto dell’essere rossa e riccia in una città del sud dove venivi etichettata per molto poco. Ho avuto un’ educazione molto rigida che non mi ha permesso di fare quello che faceva il mio gruppo di pari, mi piaceva studiare, l’università è stata una liberazione, venire a Roma una grande decisione anche se non molto facile. Ho misurato la mia forza ogni giorno di più, capendo sulla mia pelle di cosa ero capace, ma direi che non si è fermato alla laurea, spero non si fermi mai.

Chi era Francesca prima di diventare travel blogger?
Una ragazza che ha sempre viaggiato tantissimo, grazie innanzitutto ai miei genitori e che poi ha scoperto il suo modo di viaggiare, che era molto, molto diverso dalle persone che le stavano attorno. Ho scoperto di essere brava ad organizzare i viaggi e mi sono accorta che tutti i miei amici mi scrivevano prima di partire, così per ottimizzare tempo, ho messo tutto sul web, ma solo dopo anni ho capito cosa era un travel blog.

Chi è Francesca?
Quanto tempo hai?? È una persona complessa, piena di contraddizioni, molto fisica e di contatto, ma anche molto distante. Non amo le formalità, mi piacciono i rapporti veri e soprattutto molto intensi, non amo il conflitto, mi fa soffrire tanto, per questo a volte lo evito, sono sincera. Credo che nella vita tutto quello che dipende solo da te lo puoi raggiungere se lotti, il problema sono quando entrano in ballo altre persone. Ho visto cambiare la gente introno a me, il contesto intorno a me, ed è molto difficile condividere quello che penso e quello che faccio. Il web mi ha dato tanto, in molti ambiti, non solo lavorativo, ma anche umano, le persone che al momento mi sono più vicine e che amo di più (esclusi pochi) li ho incontrati sul web, ad iniziare dai miei soci.

Quanto ti sei sentita giudicata nelle tue scelte e come hai reagito?
Ma la psicologa tra i due chi è? Una domanda a caso… Purtroppo mi sono sentita giudicata, non dalla mia famiglia, che invece mi ha appoggiato senza mai titubare, ma da una persona che ritenevo il centro del mio cuore, dalla mia “persona” per citare una serie tanto amata da noi trentenni, lei non mi ha capito, ha visto la realtà con i suoi occhi senza mai mettersi dal mio punto di vista, questo mi ha ferito nel profondo e mi ha allontanato da lei per sempre. La sua assenza ha lasciato un vuoto che ancora non riesco a colmare, ma la vita va avanti e come ho fatto in altri ambiti, ho “spezzettato” il mio bene dividendolo con altre persone.

Quanto ti giudichi?
Il mio super IO è sempre stato più grande del Monte Bianco, ma onestamente credo che negli ultimi anni, ho imparato a giudicarmi di meno, ad essere più buona con me stessa. Io chiedo sempre il massimo da me, io combatto sempre, fino alla fine, ma se poi fallisco, pazienza, per me l’importante è provarci, la staticità rappresenta la morte!

Quante Francesca convivono dentro di te?
Beh almeno 2, anche se sto cercando di integrarle. Diciamo che c’è quella “sensibile” e diciamolo pure, “vulnerabile” che non so integrare con l’altra, o meglio a volte esce troppo l’una o troppo l’altra e questo spaventa.

Di tutti i momenti della tua vita, ci parli di quello in cui hai sentito realmente la libertà di poter essere ciò che volevi?
Ogni momento dopo il 17 giugno del 2011, giorno in cui ho lasciato l’azienda, sono rinata! È stata la decisione migliore della mia vita.

La tua paura più grande quando sei in giro per il mondo?
Mi credi se ti dico che non ho paure? Per un periodo, avevo paura che chi era a casa potesse dimenticarmi, e a dire il vero è successo, ma poi ho pensato che è anche una mia scelta se vivo così. Le relazioni sono incastri, chi si incastra con me non mi dimentica e onestamente ho potuto notare che le persone che amo e che mi amano, hanno trovato strategie per rimanere sempre in contatto anche quando sono in viaggio.

La tua paura più grande quando sei sul tuo divano?
La noia. Ho paura di annoiarmi , specialmente a Roma, dove, esclusi i miei amici, non trovo più molti stimoli. Ho sempre amato questa città, ma ora la vedo ferma, si fanno le stesse cose che si facevano nel 2004, solo che io non sono più la stessa. Sto seriamente pensando di trasferirmi, mi serve solo un motivo scatenante… o una scusa 😉

Il tuo rapporto con famiglia e amici prima, durante e dopo i tuoi viaggi?
Io vivo da sola da 16 anni, o sono a Roma o a Lima faccio sempre la stessa cosa, chiamo i miei tutti i giorni, cerco di non farli preoccupare. Con i miei amici, dipende, alcuni come ti dicevo, li ho persi quando ho deciso di intraprendere questa vita, con gli altri non cambia niente. Io non sono una che telefona, o una da smancerie, preferisco i messaggi concisi e puntuali. Quindi mi sento praticamente con la stessa frequenza con cui mi sento a Roma, forse li vedo un po’ meno, ma dopo tutto, anche loro hanno delle vite molto complesse. Non esiste più la simbiosi adolescenziale, della serie “tutto insieme-sempre insieme”, ma in fondo non siamo più adolescenti no?

Parlaci di te, qualsiasi cosa ti venga da dire, come fosse un vero e proprio flusso di coscienza per due minuti…da adesso:
Oddio, mi sembra di aver già parlato tanto di me, e poi nn mi dite che sono egocentrica, sei tu che mi hai chiesto tutte queste cose. Che dirti, sono complicata, nn facile da gestire, devo avere il controllo di “molte” situazioni, ma sentirmi protetta. Mi piacciono i cani e i bimbi piccoli, quando sono degli altri, spero sempre che qualcuno guardi oltre quello che sono diventata sul web. Vorrei un’assistente o una tata 2.0,  insomma qualcuno che mi aiuti. Sono felice, quando lo dico la gente mi guarda sconvolta, è come se le persone avessero timore a dirlo, o forse siamo tutti superstiziosi. Le cose brutte della mia vita, mi hanno aiutato a capire quanto sono fortunata; sono felice che il mio lavoro ispiri altra gente, mi fa bene al cuore.

Nel tuo zaino puoi mettere solo 5 “qualcosa”, tra pensieri, emozioni, parole, oggetti, persone. Qualsiasi cosa, ma solo 5. Cosa metteresti?
Lo stupore, la passione, la fiducia, i tappi per le orecchie e il passaporto.

Dove possono contattarti i nostri lettori?
Beh ho 3 siti quindi direi che basta digitare il mio nome su google. Ad ogni modo ovunque mi contattino, li rassicuro che rispondo sempre e solo io. www.viaggiaredasoli.net   www.chetiporto.it   www.francescadipietro.com

Grazie mille per questo viaggio assieme Francesca.

Donatella Di Lieto

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Ma che te posti.

Saranno ancora i residui del paracetamolo, ma stamattina mi sono svegliata con in mente una serie di parole in rima che manco Valerio Scanu nei suoi momenti apicali di creatività: moglie, doglie, figli, voglie, bottiglie.

Moglie. Vero è che non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace.
Però. Però. Però. Se ve la siete sposati voi e non noi un motivo ci sarà. E non è sempre perché siamo arrivati tardi noi.
C’è una categoria di donne orripilanti le cui foto sono accompagnate sui social da frasi del tipo “che splendida mogliettina“, o ciò che è lo stesso “che maritino fortunato”. Poi c’è un’altra categoria. Quelli che hanno le mogli effettivamente fighe. Ma comunque non si regolano. Perché come a mare ci sarà sempre chi avrà la barca più grande della tua (che poesia eh?), così, per quanto tua moglie sia bella, arriverà sempre una foto di Belen struccata a prima mattina con i capelli arruffati e la bolla al naso che con il suo milione di like spazzerà in un “ Vuongiorno a tutti amiccci miei, ve amo” i 57 like accumulati con tanta dedizione ed attenzione dal vostro splendido maritino che avrà postato una foto  di “mia moglie a colazione” spacciata per naturale ma che nella realtà avrà avuto un backstage, trucco, parrucco, mix luci da calediario Pirelli. Alcuni poi giocano sull’ironia. Un’ironia da cui non ci vuole un corso avanzato di psicoterapia comportamentale post-razionalista per capire che è solo un modo per ostentare un trofeo, nascondendosi dietro battute o foto con il finto intento di essere buffe. Perché mia moglie è talmente bella che sulla sua bellezza ci gioca.

Doglie. Maronna mia. Mannaggia a Carla Bruni, a Belen e a tutte le gravide che hanno avuto la brillante idea di farsi ritrarre con il pancione senza immaginare dove saremmo andati a finire. E qui ritorniamo nel non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace. E quindi mi ritrovo stretta tra il dirvi che così come non è vero che tutti i neonati sono belli, così non tutte le donne gravide sono belle. E quelle belle sono comunque  lontane anni luce dall’essere top model anni 90. E poi, ma porca miseria, è di un embrione/ feto che state parlando, non di una tazza di Starbucks.

Figli. Figli geni, figli che a 3 mesi già parlano tre lingue, figli che a 6 mesi si travestono da Frozen da soli e che da soli si fanno selfie perfetti che postano in contemporanea su facebook, twitter, instagram, figli che quando avranno 18 anni chiederanno, spero, dei risarcimenti consistenti per violazione della privacy.

Voglie. Ecco, questa è la categoria in cui rientrano i contatti che o ho cancellato definitivamente oppure ho zittito con quella nuova fantastica funzione del “taci”. Le frasi sono “Ho voglia di gelato”, “Che voglia di sushi”, “Ho proprio voglia di una bella lasagna”, il tutto immerso in faccine, cuoricini, trionfo di vocali, oooo, aaaa, iiiii, dittonghi. Sull‘ “Ho voglia di te” , che pure insiste, persiste e lotta con noi, non vorrei soffermarmi. Ma volevo comunicarvi soltanto che c’è gente che lo scrive ancora.

E infine: bottiglie. Bottiglie di vino da 2 euro fotografate con la stessa attenzione con cui è stata creata l’ultima campagna della Moet et Chandon. O Moet et Chandon con frasi del tipo “Noi ci trattiamo bene”. Ma che davero davero pensate che un flute, magari vuoto, possa creare invidia? E se lo pensate, la psicoanalisi costa 80 euro per 45 minuti, 120 per 90. Provatela.

Aggiungerei poi una categoria fuori concorso. Quella delle ricorrenze possibilmente tristi.
Soprassedendo sulla moria di cantanti del 2015, l’ultima triste ricorrenza celebrata sui social è stata la giornata della memoria. Ho letto degli status che a confronto il canale monotematico di Sky che trasmetteva solo film riguardanti l’Olocausto era una operazione puramente filantropica. E su questo il mio onnipresente sarcasmo lascia spazio ad un sincero fastidio. Se non sapete di cosa state parlando, non ne parlate. Se dovete scrivere “Ricordate e riflettete” pubblicando “Life is beautiful” di Noa perché è una cosa che deve essere fatta, non fatelo. E non perché non ci debba essere sempre e comunque libertà di parola. Ma perché siete falsi. Spesso anche ridicoli. E perché chi, per un motivo o per un altro sa perfettamente di cosa si sta parlando, non si sente “ricordato” da voi. Ma si sente intristito da quanta superficialità e quanto per un like in più ci si possa mettere a scrivere cose di cui non si sa nulla. Che in questo caso, sono pezzi di vita, di morte, di sopravvivenza.

Meditate gente, meditate. (Ma non ci postate la vostra foto nella posizione del loto, vi crediamo sulla fiducia).

Con Facebook si scherza, ma anche no. E’ quello che volete far vedere di essere. E’ quello che sperate di essere. Ma non è quello che siete. O almeno, lo spero per voi.

Siete delle persone. Normali. Anormali. Ordinarie. Straodinarie. Ma non siete perfetti. Godetevi le vostre imperfezioni. Non photoshoppate la vostra vita. E soprattutto godetevi la vostra vita. Non il vostro tablet.

Quanti pochi like avrà questo post. Perché la verità infastidisce.

Donatella Di Lieto

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Natale su Facebook

Originale e sofisticata l’immagine di voi in posa plastica sotto l’albero tipo speciale natalizio su Chi.

Il rosso vi dona. Ancor di più se accompagnato da cappellino da Babbo Natale glitterato argento

Ci crediamo tutti che il malcapitato gatto dal 23 dicembre al 7 gennaio non faccia altro che prendere il plaid a quadri rossi e verdi, stenderlo per bene di fronte al camino ed adagiarcisi sopra giocando con un gomitolo di lana casualmente rosso.

A San Gregorio Armeno non si parla d’altro che dei vostri presepi.

Le vostre decorazioni sono installazioni luminose degne di essere esposte al Guggenheim.

I vostri figli sono già pronti per Broadway.

I vostri biscottini glassati a forma di alberello saranno sicuramente belli e buoni. Come voi.

Ora, volete cominciare davvero a viverlo per voi stessi questo Natale? In generale, volete cominciare a vivere per voi stessi?

A noi, che voi siate da copertina o da telefilm americano, non crea invidia, non crea gioia, non crea assolutamente nulla. A volte, spesso, è solo fonte di ilarità.

Studio il mondo dei social network. Lavoro con i social network. Uso i social network. Mi piace il Natale e non sono una cinica.
Ma ci sono cose e persone che, per fortuna, continuano a rimanere solo mie, e di chi gli auguri non me li fa su Facebook perché me li fa abbracciandomi.

Godetevi davvero  il Natale e tutto quello che per voi significa, se significa qualcosa.
Non ne vale la pena. Il tempo che perdete a creare la foto giusta, il filtro giusto e la didascalia giusta non potrà che essere ricompensato da un fugace “mi piace”. Il più delle volte, di perfetti estranei.

Vivete di più, postate di meno.

Il mio più grande augurio è che possiate ad ogni cosa dare il giusto peso. Ed abbracciare i vostri figli talmente tanto forte da non avere neanche una mano libera con cui scattare un selfie.

Donatella Di Lieto

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