L’evoluzione tra filosofia e scienza. Intervista a Telmo Pievani

L’intervista al noto divulgatore e filosofo della scienza Telmo Pievani è pubblicata in parte all’interno della nostra rivista La chiave di Sophia #13 – Il senso del tempo. In questa parte del dialogo la nostra autrice, Pamela Boldrin, interroga il filosofo in materia di evoluzione e sul rapporto tra filosofia e scienza. Non possiamo che ringraziare il professore per questo interessante scambio di idee.

 

Un altro insegnamento straordinario proveniente dal libro del tempo dell’evoluzione è quello delle continue ondate migratorie che, a partire dall’Africa, hanno portato le varie specie di homo in tutto il pianeta, guadagnandosi il record sul resto del mondo animale come specie più migrante. Il DNA umano può diventare una finestra sul tempo passato, cosa può raccontarci di questa propensione migratoria che ancora oggi caratterizza l’umanità?

Questo è uno degli aspetti forse più nuovi che emergono dal dibattito evoluzionistico ed è legato proprio a quello che dicevo prima, quindi alla scoperta di tante forme umane diverse. Abbiamo scoperto che il cespuglio dell’evoluzione umana era molto più ramificato e più ricco di quanto non pensassimo. Da qualche tempo abbiamo capito anche il perché, ed è proprio legato alle migrazioni: il motivo fondamentale per cui ci sono state così tante specie umane è che un adattamento fondamentale dell’essere umani è lo spostarsi, il migrare. Questo lo si capisce facilmente perché noi deriviamo da una evoluzione in ambienti instabili con una ecologia che cambiava (cambiamenti climatici e così via), quindi è chiaro che il migrare ti rende più flessibile perché ti puoi spostare e quindi inseguire gli habitat e le risorse che ti sono più congeniali, in modo peraltro spontaneo, perché non è stato un processo intenzionale. Sono due milioni di anni che ci spostiamo in tutto il mondo; ciò ha riguardato altre specie umane prima di noi perché ciò di cui ci siamo accorti recentemente è che noi homo sapiens siamo solo l’ultimo migrante, nel senso che noi a partire da 120-130.000 anni fa abbiamo cominciato (pure noi) a uscire dall’Africa (altro elemento suggestivo è che tutte queste migrazioni sono partite dall’Africa, che quindi è stata la culla di tutte queste espansioni) e con molto più successo e rapidità dei nostri predecessori abbiamo colonizzato tutte le terre emerse, tranne l’Antartide, sostanzialmente. Uscendo dall’Africa abbiamo trovato tutti i discendenti di quelli che erano usciti le volte precedenti ed è questo che ci ha colpiti, perché ci si è accorti che homo sapiens ha dovuto convivere con altri uomini incontrati nelle sue espansioni. Molti punti di domanda oggi riguardano proprio questo, ovvero: che cosa è successo quando noi sapiens abbiamo incontrato altri umani? Li abbiamo estinti noi? Ci siamo accoppiati con loro? Tutte domande alle quali oggi si cerca di rispondere, ma la scoperta di fondo è che non eravamo soli. Questo ci riporta un po’ ai discorsi di prima: la purezza, un po’ come il progresso, è uno di quei temi ideologici forti che spesso in biologia trapelano. Homo sapiens, invece, è impuro da sempre e dal punto di vista genetico il nostro DNA è una specie di arlecchino dato dall’incontro con altri umani. Si conferma ancora una volta che in biologia più sei puro e più sei debole, mentre la diversità è una ricchezza.

 

Ad un certo punto della nostra linea del tempo dunque, attorno ai 45.000-38.000 anni fa, troviamo dei reperti di homo sapiens che ci suggeriscono degli elementi di svolta rispetto alle altre specie umane con le quali aveva convissuto, dei quali non abbiamo più notizie a partire da quell’epoca. Siamo rimasti soli e non sappiamo perché. Quali congetture prendono forma da questo grande mistero?

Due sono le cose molto importanti da sottolineare. Una è che è caduto un altro dogma scientifico che valeva fino a qualche anno fa e che era scritto su tutti i manuali, ovvero che homo sapiens fosse l’unica specie ad aver sviluppato l’intelligenza simbolica, dunque non solo nuove abilità di caccia ma anche l’arte rupestre, gli strumenti musicali, oggetti simbolici, sepolture rituali… si era sempre detto che solo noi avevamo fatto questo, perché siamo speciali. Oggi si scopre che anche il Neanderthal era capace di questo, in mezzo a tutta una serie di altre specie umane di cui non abbiamo dati. In altre parole, è caduto un altro elemento del cosiddetto eccezionalismo umano. Noi siamo diversi da tutti gli altri umani oltre che da tutti gli animali ma non c’è nessun elemento di specialità o eccezionalità, e questo ci permette di capire ancora meglio la nostra diversità, ovvero che probabilmente homo sapiens era il più ambivalente di tutti. Ciò significa, da un lato, capace di creazioni artistiche straordinarie, non riscontrate in altre specie umane e oltretutto sistematiche  a partire da 45.000 anni fa; grande creatività quindi, non c’è alcun dubbio. Allo stesso tempo, dall’altro lato, è capace di grande invasività, grande prepotenza: quando arriviamo noi, in qualsiasi punto del globo, dopo un po’ gli altri umani spariscono; vediamo scene di caccia, cooperazione, capacità di sfruttare le risorse in modo nuovo e molto più invasivo; e poi, se lasciamo passare ancora qualche migliaio di anni ancora, homo sapiens arriva in Australia e nelle Americhe e si estinguono decine, centinaia di specie e di grandi mammiferi. Si vede dunque in azione una specie capace di grande cooperazione, con doti creative, belle e positive, ma anche di invasività, prepotenza, sfruttamento. Infondo quell’ambivalenza è ancora qui, sotto i nostri occhi, perché ancora oggi siamo capaci delle cose più meravigliose dal punto di vista dell’ingegno ma abbiamo completamente perso un senso di equilibrio con la natura. Da qui la crisi ambientale di cui soffriamo adesso ma di cui soffriranno soprattutto gli homo sapiens di due o tre generazioni successive alla nostra. Oggi emerge proprio che la nostra espansività, in senso anche buono perché ci ha dato grandi possibilità di progresso e benessere, sta mostrando la corda, nel senso che i limiti sono evidenti,  in termini di riscaldamento climatico, per non parlare delle stesse pandemie.

 

Entrando nel dettaglio del tempo dell’evoluzione umana, l’immagine della scimmia curva che diventa gradualmente un umano – tra l’altro sempre un maschio bianco – è un’immagine sempre in voga ma scientificamente fuorviante e nemmeno tanto corretta eticamente. Ci racconta perché?

Questo è uno di quegli esempi in cui noi sovrapponiamo filosoficamente a una spiegazione scientifica a delle categorie che sono molto radicate nella nostra mente. È stato dimostrato da tanti studi che noi abbiamo una mente che cerca di dare un senso a posteriori a quello che è successo, di renderlo lineare, e abbiamo una forte tentazione, molto consolatoria, a pensare che noi, che siamo adesso qui, ci voltiamo indietro e ricostruiamo un passato che guarda caso  giustifica il presente, cioè giustifica noi, la necessità della nostra presenza qui. Questa è un’operazione ideologica nel vero e proprio senso del termine, perché è una ideologia, contraddice il dettato della spiegazione scientifica evolutiva che invece dice qualcosa di molto diverso, ovvero che noi eravamo una delle tante possibilità di questo processo, non l’unica. Quell’immagine dello scimmione che diventa umana, poi, è sbagliata anche per un’altra ragione importante, perché dà l’impressione che l’evoluzione sia una sorta di catena con tanti anelli, come se ci sia stato un unico grande percorso lineare in cui le varie specie sono degli anelli, alcuni dei quali sono ancora mancanti. Questo è sbagliato perché l’evoluzione non è una scala, una catena di anelli appunto, ma un albero, o un cespuglio, quindi una metafora, ancora una volta, di diversificazione. Ciò significa ad esempio che quando c’eravamo noi, e fino a circa 50.000 anni fa, c’erano anche altre specie umane. Questo ancora una volta presenta sul piano filosofico un tema molto importante: pensiamo a quante riflessioni filosofiche si sono basate sull’assunto che noi fossimo gli unici umani e ci fosse un unico modo di essere umani; invece, scoprire che fino a poco tempo fa c’erano altri modi di essere umani diversi dal nostro vuol dire che ci sono stati letteralmente altri universi umani, altre emozioni, modi di pensare e di guardare il mondo, umani come il nostro ma diversi dal nostro. Questo è un grande messaggio di diversità radicale e se noi davvero capissimo che ci sono stati altri modi di essere umani, come i Neanderthal e così via, forse ci riconosceremmo anche più facilmente come homo sapiens, noi come un’unica grande popolazione umana non divisa in razze o etnie o altro, idee che hanno fatto molto male nel corso della storia.

 

Nel suo ruolo di filosofo della scienza è molto attento a evidenziare come la scienza tenda ad agevolare il passaggio dal piano riduzionistico delle sue spiegazioni al piano delle giustificazioni o addirittura delle prescrizioni. Ad esempio, ogni volta che sia possibile spiegare su basi biologiche l’esistenza di comportamenti moralmente sconvenienti tra gli esseri umani, la tendenza è quella di sostenere l’inevitabilità di tali atteggiamenti. Può spiegare perché è filosoficamente scorretto dedurre da leggi di natura dei criteri normativi e, anzi, dobbiamo diffidare da questi utilizzi della scienza?

Questo è un errore che è stato fatto tante volte, ovvero quello di passare da una spiegazione a una giustificazione. Qualche volta la biologia ti permette di contribuire a spiegare un comportamento umano, e allora quasi intuitivamente chi legge quella spiegazione sembra portato a pensare “beh, allora se è naturale è giusto”. L’errore, come già David Hume ci aveva insegnato, sta proprio lì: il passaggio dall’essere al dover essere è un grosso salto a proposito del quale dobbiamo stare molto bene attenti. È chiaro che i comportamenti umani, come quelli di ogni altro essere vivente, hanno anche una componente biologica, ma quella componente non solo non giustifica ma non è neanche sufficiente di per sé perché c’è anche la componente culturale, quella storica e quella individuale, quindi la complessità della spiegazione è di molti ordini di grandezza sopra quello che dipende da un gene e da una caratteristica meramente biologica. Aggiungo che proprio quell’ambivalenza di cui parlavo prima spiega in fondo questa distinzione, perché se tu scopri che il retaggio evolutivo che ti porti dietro dai tuoi antenati è un retaggio di radicale ambivalenza, significa che tu per natura puoi fare allo stesso tempo le cose più belle e le cose più orribili; cioè se il nostro retaggio è così ambivalente significa che poi il fatto di scegliere un comportamento giusto o sbagliato non lo devi imputare a quella data natura, a quella data biologia, ma ad una scelta culturalmente motivata, personalmente motivata, cioè dalla tua storia personale, non dalla natura. Perché la natura ti rende ambivalente, poi la scelta è legata ad altri fattori appunto culturali e individuali. Chiederci dunque se siamo buoni o cattivi per natura è una domanda priva di senso: siamo buoni e cattivi per natura, dobbiamo piuttosto riflettere sulle ragioni che ci fanno comportare in un determinato modo. La natura, di base, ti dà la possibilità di comportarti in un modo e nell’altro.

 

Se per assurdo l’evoluzione incarnasse i panni di una maestra e la filosofia quelli di una discepola, su quali insegnamenti cruciali la prima incalzerebbe la seconda? 

La natura, secondo me, chiederebbe al filosofo o alla filosofa di ripensare un umanesimo più ecologico, meno centrato sulla solitudine e l’eccezionalità umana e più sull’umano come un divenire, che in fondo era già presente agli inizi dell’umanesimo; Pico della Mirandola e molti avevano questa visione dell’umano come un divenire anche contrastato e problematico. Bisogna tornare a quell’umanesimo perché è quello che ti fa capire che dobbiamo ricostruire un’alleanza con la natura, che non c’è più nessuna contraddizione che abbia senso tra antropocentrismo ed ecocentrismo. Nelle vesti di discepola, penso che la filosofia debba ascoltare di più la natura perché secondo me, ancora oggi, ci sono tante tendenze filosofiche e, appunto, la complessità è un esempio virtuoso da questo punto di vista, che ha saputo dialogare con la scienza. Altre tendenze, invece, vedono ancora un po’ con sospetto la scienza, la confondono con lo scientismo o con la dimensione tecnica. Questo è un peccato perché, invece, la scienza è piena di spunti filosofici ma soprattutto ha bisogno di filosofia, non la si può lasciar andare per conto suo. Bisogna che quelle due comunità si parlino molto di più, anche perché la loro radice è comune.

 

Pamela Boldrin

 

[Fotografia fornita dall’autore]

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L’eterno ritorno dell’immortalità digitale

«Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudine e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!»1, scriveva Nietzsche ne “La gaia scienza”. Il filosofo dell’eterno ritorno ci costringeva a riflettere sulla nostra intera vita e a cedere a una disperazione esistenziale qualora il demone, portatore del suddetto suggello, si fosse realmente palesato.

Se il demone nietzschiano si presentasse oggi, nel nostro mondo contaminato inevitabilmente dalla singolarità tecnologica del digitale, il suo pensiero si intreccerebbe probabilmente con il linguaggio dei social network e il risultato sarebbe più o meno questo: “A cosa penseresti per l’eternità”?
Cadremmo di nuovo nello sconforto a causa del nostro essere-temporale, e non essere-del-momento, oppure supereremmo a pieni voti il test esistenziale del demone 3.0?

Questa è la domanda che ci viene posta da Eter9, una sorta di Facebook che anziché chiederci “A cosa stai pensando?” domanda “A cosa penseresti per l’eternità?”. Il sito è un progetto creato dal programmatore portoghese Henrique Jorge.
Eter9 presenta una bacheca in cui vengono visualizzati i post degli utenti, proprio come in Facebook, ma differisce dal primo, in quanto utilizza le risorse del data mining per l’elaborazione dei contenuti condivisi al proprio interno2. Questo sistema porta alla creazione di un automatismo in grado di pubblicare post anche quando gli utenti risultano offline. La finalità ultima è quella di sviluppare un alter ego virtuale che possa comunicare con il resto del mondo, digitale e non, anche quando saremo passati a miglior vita.

Eter9 non è altro che una delle numerose invenzioni tecnologiche che cercano di concretizzare l’immortalità digitale. La loro finalità è far sopravvivere la propria identità alla morte oggettiva della nostra vita offline. Eppure è opportuno chiedersi se esista ancora una netta divisione tra offline e online. Seguendo il pensiero di Luciano Floridi si dovrebbe oggigiorno parlare di «esperienza onlife»; il confine tra le due abitazioni – offline e online – è infatti sempre più labile3.
Le due realtà si mescolano reciprocamente a tal punto da non distinguersi più l’una dall’altra, ed inevitabilmente siamo costretti a ripensare totalmente anche l’idea di morte e al suo legame con il pubblico e il privato. Si giunge, pertanto, a quello statuto paradossale del morto, ove la dialettica tra presenza e assenza, se tecnologicamente rimaneggiata, può costituire il punto di partenza per ricomporlo attivamente al di fuori di una mera fotografia, inficiando la vita umana in modo irreversibile.
Probabilmente è proprio questo il motivo dell’urgenza tecnologica, colmare o lenire il dolore e la sofferenza causata dalla perdita di chi si ama. Quindi, non tanto l’immortalità di se stessi, ma la vita eterna delle persone amate. Jacques Deridda descrisse l’esperienza del lutto come «la fine del mondo nella sua totalità, e ogni volta come la fine del mondo come totalità unica e quindi insostituibile e quindi infinita»4.
Ma un alter ego virtuale può davvero essere utile all’elaborazione del lutto emotivo?
La tecnologia inoltre non considera la variabile del cambiamento, dell’evoluzione dell’essere. L’avatar in formato digitale non sarà altro che l’eterna presentazione di ciò che siamo stati o meglio di ciò che vorremmo essere stati – se consideriamo il gioco dell’apparenza sui Social Network.

Nell’immortalità digitale, il nostro essere non potrà proseguire, evolversi, cambiare, ma rimarrà intrappolato nei pensieri che sono stati, nei luoghi in cui abbiamo vissuto, nelle azioni che abbiamo intrapreso. Il tempo della nostra immortalità digitale sarà intrappolato in quel cerchio senza evoluzione, ritornando eternamente, come nella descrizione del demone di Nietzsche.
Dunque, caro lettore, “A cosa penseresti per l’eternità?

 

Jessica Genova

 

NOTE
1. F. Nietzsche, La gaia scienza, Libro IV, n.341.
2. Tratto da D. Sisto, La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale, Bollati Boringhieri, Torino 2018.
3. L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Cortina, Milano 2017
4. J. Deridda, Ogni volta unica, la fine del mondo, Milano.

Vita e Morale: una dura scelta

Recentemente mi è capitato di leggere un’ intervista di Shady Hamadi per il Fatto Quotidiano, realizzata intervistando Mazen AlHummada, ingegnere petrolifero che lavorava per una compagnia d’estrazione francese che aveva appalti a Dar Al Zour, in Siria. Nel suo triste resoconto ci racconta di essere stato arrestato due volte a causa di una manifestazione nel 2011: «In entrambe le occasioni, la prigione è stata una passeggiata: solo calci e bastonate», spiega, «per uscirne in piedi bastava la promessa all’ufficiale di non “prendere più parte alle manifestazioni dei terroristi”, così ci chiamavano le autorità». E precisa: «Noi volevamo, allora come oggi, un Paese per tutti i siriani».
Ciò che lascia senza parole sono i fatti successivi: venuto a conoscenza di un suo imminente arresto si trasferisce a Damasco. Qui si dà da fare per procurare aiuti umanitari per la popolazione e nel 2013, quando aiuta una dottoressa dei sobborghi a trovare del latte in polvere di cui aveva bisogno, viene arrestato. Senza sapere le accuse del suo arresto, per settimane condivide una cella di 12 metri per 7 con altre 170 persone fino a che non viene condotto davanti ad un ufficiale che gli intima di confessare i suoi crimini: traffico d’armi, lotta armata e terrorismo, tutti puniti con la morte.
I resoconti della sua prigionia sonno terribili: appeso a 40 centimetri da terra sotto il sole cocente per ore mentre veniva bastonato con ferri arroventati; un minuto di tempo per andare in bagno ogni 12 ore (pena la morte), per raggiungerlo dovevano attraversare due ali di guardie che picchiavano i detenuti; racconta che la tortura peggiore è stata quando «mi hanno stretto i genitali e mi hanno sodomizzato con una staffa di ferro». E ancora: «morivano almeno due persone al giorno dall’asfissia e le condizioni igieniche nella cella. A turno, dovevo tirare fuori i corpi e gettarli nell’angolo della spazzatura».
Infine, quando non riesce a mettersi sull’attenti in segno di rispetto durante una visita del capo del carcere alle celle a causa delle botte ricevute, viene trasferito nell’ospedale militare di Damasco, sezione 601, dove prenderà il nome di “numero 1858”. Un luogo in cui i prigionieri erano a disposizione di medici ed infermieri per vari tipi di iniezioni. Qui i carcerieri lo obbligarono a urinare sui cadaveri ammassati in bagno.

La prima reazione che ho avuto è stata quella di pensare: “siamo nel 2017 e ancora capitano queste cose, com’è possibile?”.
Poi mi sono reso conto di come il mio interrogativo non potesse essere posto in maniera più errata: ogni volta che pensiamo: “siamo nell’anno xxxx e…” pecchiamo di superficialità per almeno due volte. La prima, forse meno grave, è quella di preservare il gesto estraniandolo dal tempo e quindi in qualche modo − e forse paradossalmente − attenuando i fatti invece di conferire loro più gravità. La seconda, ben più pervasiva e incidente nella nostra vita, è quella di non solo dare per scontato che ci sia un progresso nella storia dell’uomo, ma che questo progresso coinvolga anche la nostra morale, la nostra etica. Come a dire che gli uomini contemporanei hanno più elementi morali a loro disposizione per capire non solo che questi fatti non dovrebbero accadere, ma che il motivo è che essi siano sbagliati.
Ma chi l’ha detto? Ogni volta che pensiamo che con lo scorrere degli anni gli uomini non solo possano ma addirittura debbano evolversi moralmente − a mio modo di vedere − commettiamo una grandissima violenza nei confronti della nostra umanità. Ed è questa una delle cause per cui, ad esempio, abbiamo dovuto aspettare fino al 5 settembre 1981 per vedere finalmente abrogate le disposizioni in merito al delitto d’onore in Italia.
Ogni volta che affermiamo “i tempi non erano ancora maturi” apriamo uno spiraglio alla possibilità che per ottenere dei diritti ci siano un tempo ed un luogo adatti. Adatti! Come un clima per una specie di animale o un colore per un mobile. Ogni tempo è adatto! E questo perché esso non esiste, almeno non nella misura in cui scandisca una fantomatica evoluzione, un dispiegarsi di possibilità che forse, magari, chissà io e te non siamo poi così diversi.
Umani, troppo poco umani, per scherzare con Nietzsche.

Andiamo ancora più in profondità: è così necessaria una morale? A guardar bene, quanto detto fin qui non fa altro che presupporre ciò che cerca di negare, perché è ancora inserito in un contesto morale. Riproduce la superficialità capovolgendola.
Detto in altri termini: necessito di una categoria in cui inserire questi fatti per non doverli compiere? Sono cioè obbligato a pensare che essi siano sbagliati per discostarmi da essi? (e viceversa, dovrò compiere solo azioni giuste perché sono tali?) E poi: giuste e sbagliate per chi? Per me? Per gli altri?
Riprendiamo Nietzsche: egli ci conduce attraverso un’analisi genealogica della morale e ne individua la natura psicologica e la genesi storica, che conducono ad una sua considerazione come evidente di per sé nella storia dell’uomo. Sono i valori etici e le motivazioni umane, troppo umane, a creare una morale che non è altro che uno strumento di dominio. Affidarsi alla morale significa negare la nostra capacità di saper scegliere sulla base dell’accettazione della vita. Sapendo che, comunque vada, panta rei.

Massimiliano Mattiuzzo

[Immagine tratta da Google Immagini]

Siamo buoni o cattivi?

La natura non è un’autorità morale su cui fare affidamento. Se dovessimo chiederle come comportarci in società, probabilmente ci direbbe di sbranarci: per lei merita di vincere il più forte, il più furbo, quello che si adatta meglio all’ambiente. Vedetela un po’ come volete, darwiniani o meno che siate. L’abbiamo chiesto quindi al filosofo della scienza Telmo Pievani.

Nel dubbio comunque, usciamo di casa e andiamo a chiedere maggiori informazioni a un nostro cugino, quello che è sempre informato sulle cose, lo smanettone. Lo troviamo allo zoo, con tutta la sua famiglia degli scimpanzé in una casa di vetro spesso di cui non deve nemmeno pagare le tasse.

Sono passati 6 milioni di anni dall’ultima visita, secolo in più, secolo in meno. Potremmo quasi accoppiarci a lui senza rischi di parentela ravvicinata.

Ci avviciniamo alla gabbia e lo vediamo tranquillo, amorevolmente impegnato a spulciare i suoi simili: sembra conosca altruismo, bontà, gentilezza (seppur con i suoi modi rudi e totalmente proibiti dall’umanissimo galateo).

E mentre ci commuoviamo vedendo questo simpatico quadretto di vita quotidiana, ci arriva uno schizzo di sangue a due centimetri dall’occhio, fortuna c’era di mezzo la parete di vetro.

Infanticidio, il giudice degli scimpanzé sentenzia così: si è trattato di un caso di infanticidio, anzi, non uno, ma tanti.

Altruismo e infanticidio coesistono, ma sono opposti? Antitetici? Lo Yin e lo Yang di un’unica complessità? No, per loro l’omicidio non rappresenta la faccia oscura della loro specie, è “solo” un comportamento, un’azione spontanea. Si aiutano, si spulciano alla sera dopo una dura giornata lavorativa, ma quando si infastidiscono per una lite condominiale, partono alla ricerca dei vicini da sgozzare, senza farsi troppi problemi morali.

Nel DNA da cui proveniamo troviamo questo istinto all’aggressione, alla violenza per risolvere un conflitto, un problema da cui ci sentiamo minacciati. E dire che guardando le notizie da ogni parte del mondo mi sarei quasi convinto del contrario. Ma per noi c’è di mezzo la cultura che getta ogni dibattito nel caos della scienza.

La natura attorno a noi è violenta, è un giardino selvaggio all’interno del quale non puoi mai abbassare la guardia. Anzi, abbassala pure, qualcuno ti sbranerà e nessuno piangerà la tua morte, perché saremo tutti intenti a sbranare o a farci sbranare. Eppure a un certo punto l’uomo ha costruito un recinto, ha isolato la violenza e l’ha portata dentro sotto forme diverse, o forse si è solo infiltrata tra un asse e l’altro della staccionata dell’Etica: qualcuno potrebbe comunque approfittarne per introdurre l’omicidio della suocera, tra le altre cose.

Sconsolati, torniamo a casa e ci fermiamo anche dai bonobo, altri cugini, un po’ più lontani e dimenticati pure alle cene in famiglia. Anche qui troviamo tracce di aggressività, che però è stata adeguatamente isolata grazie a un’attività tanto naturale quanto eccentrica: il sesso. Enormi gruppi di bonobo si trasformano in attori di un film porno la cui trama è – come al solito – molto semplice: un’orgia. In questo modo l’aggressività viene sedata e tutto torna alla normalità.

Ma questa forma di violenza non mi pare si sia ancora infiltrata nel nostro recinto, soprattutto da quello che sento dire sulle suocere: preferiremmo in ogni caso l’omicidio.
La nostra storia sociale ci mostra che nel recinto dell’essere umano spuntano violenza e solidarietà: tenetevele entrambe e scandalizzatevi di meno. La nostra evoluzione è per piccoli gruppi: piccoli gruppi contro piccoli gruppi, che attraggono poi altri piccoli gruppi. La solidarietà si sviluppa tra chi è dalla nostra parte e l’aggressività contro chi è fuori, un avversario. Due facce della stessa moneta. La tiriamo in alto e la facciamo roteare fino al dorso della mano, copriamo il risultato con l’altra e scegliamo: contro il prossimo uomo saremo buoni o cattivi?

 

Giacomo Dall’Ava

[Immagine tratta da Google immagini]

intervista a Gli uffici di Oberdan

gli uffici

L’intervista agli Uffici di Oberdan, continua il percorso iniziato con l’intervista a Sisma ed apre ufficialmente la mia nuova rubrica: Traffici d’idee, una rubrica che è un pretesto per parlare delle persone che incontro e per incontrane di nuove. Fino a qui si è parlato con dei musicisti, in futuro ce ne saranno degli altri ma ci sarà spazio per altre storie di individui o di gruppi di esseri umani impegnati nel ricercare qualcosa di personale. A me la scelta di cosa valga la pena di essere raccontato.

Perché parlare con gli altri, parlare degli altri di altro è parlare con se stessi di sé. A me diverte e quindi…

Intervista a GLI UFFICI DI OBERDAN

Incontro Davide Cadoni (chitarra e voce) e Pasquale Rao (Basso). Con Davide Amadio (batteria) compongono Gli uffici di Oberdan. Inizia a fare buio.

Spiegatemi il vostro nome, posso capire perché Oberdan, ma gli uffici?

Oberdan, e la sua storia, incarnano l’animo rivoluzionario e sovversivo che in fondo spinge tutti noi a cercare di eludere lo stato “non naturale” delle cose, quel fuoco che arde contro tutto ciò che ci tiene all’oscuro della verità. Si parla di rivoluzioni sociali che possono aver luogo solo dopo quelle personali. Come lui, ognuno di noi dedica la vita ad una personale e continua rivoluzione. Ogni giorno scopriamo nuove sfumature e decidiamo se esse fanno parte indelebilmente del nostro essere o se invece lasciano margine al miglioramento, permettendoci così di plasmare in meglio la sostanza densa in cui immergiamo le nostre giornate. Oberdan offre la sua vita con lo scopo di riunificare l’Italia, annettendo territori posti per altrui volontà oltre il confine. Come lui vogliamo esplorare quegli orizzonti sconosciuti che sentiamo potrebbero arricchirci, che sentiamo ci debbano appartenere. Egli diventò martire per dare vita ad un’Italia unificata, metafora del nostro tutto. Mettere in gioco la propria vita per completarci come persone, per raggiungere il proprio senso, a costo anche della morte. Gli uffici mi chiedi? Sono stanze immaginate dentro le quali ci piace pensare si preparasse la rivolta “Si suona come si vive, per scoprire, costruire e conquistare quella parte di noi che sentiamo debba in qualche modo appartenerci, per accendere la luce in quegli uffici in cui progettiamo ogni giorno le nostre rivoluzioni.”

Come vedrebbe il presente O.?

La vedrebbe male, perché l’Italia è di fatto ancora divisa, non c’è senso di fratellanza , non c’è ascolto ne dialogo tra le persone. La speranza è che la musica possa continuare ad aprire gli occhi e i cuori delle persone, annullando le distanze che portano a sentirci soli in mezzo alle nostre trincee.

parto con le domande filosofiche della redazione:

Nelle vostre canzoni si scorge il paradosso tra l’evoluzione dell’uomo attraverso lo sviluppo tecnologico e l’involuzione della sua etica: secondo voi è impossibile che tecnica ed etica possano percorrere insieme la stessa strada? Perché?

Mi dicono che la tecnica non è un male, il problema è l’utilizzo che se ne fa. Mi dicono anzi che la tecnica è meravigliosa. Anche fare un cd richiede un sapere tecnico notevole, occorre saper suonare, saperlo produrre e poi saperlo distribuire al pubblico. È il profitto che poi crea i problemi. Il profitto quando questo diventa l’unico obiettivo.

Ecco si il problema tra etica e tecnica è proprio questo. Andrebbero benissimo le due cose se puntassero entrambe ad un obiettivo giusto. Chiedo cosa vuol dire giusto? Giusto è ciò che può servire a nutrire e a perseguire il bene comune, e personale. Giusto è quel qualcosa che veramente è utile all’uomo, un’utilità che si avvicina al naturale. Alla natura animale dell’uomo, non intesa come irrazionale, o non solo, ma come stato di natura non condizionato dal contesto sociale. Quella cosa tanto ricercata da Hobbes e Locke. Si aggancia subito la seconda domanda.

2 Nella vostra canzone “Contronatura” mi hanno stupito questi due versi:

“Non cercare di andare contro natura

non cercare di andare contro quello che sai”

Cosa vuol dire per voi ‘andare contro natura’? Essere ‘secondo natura’ o meno, è, secondo voi, qualcosa che dipende dal soggetto singolo o dalla società?

I versi citati sono un gioco voluto, possono essere intesi come le parole della società, che eleva il suo giudizio a verità naturale, inattaccabile. Non andare contro natura, contro quello che sai, quindi contro quello che ti è stato detto. Allo stesso tempo queste parole possono essere un mantra da ripetersi. Un ricordarsi quello che sai dalla nascita, prima che i dogmi sociali imprigionino il tuo pensiero, quei desideri puri e quei bisogni reali che tutti possediamo.

Cerchiamo poi di definire cosa sia naturale. Ma non ci riesce alla perfezione, e siamo contenti di questo. Si ci sono dei bisogni comuni, ma non siamo omini di pongo fatti con lo stampino, il senso di questo esistere è proprio scegliere quali sono le vie che più ci piacciono, quelle che ci fanno correre senza mollare.

3- Leggendo il testo di “Perdo tempo” mi viene da pensare che ci sia paura nei confronti del tempo. Secondo voi il tempo è soggettivo, quindi è una costruzione mentale che il singolo plasma a seconda delle sue esigenze o esiste davvero un tempo oggettivo pertanto menefreghista nei confronti dell’uomo?

Preciso che tra una domanda seria e l’altra ci perdiamo in cazzate esistenziali senza capo ne coda, ma estremamente fondamentali. Ma di questo parlerò dopo.

Rispondono alla mia domanda ed ammetto che sono costretto a richiedere più volte la risposta, alla fine arrivo a capirci qualcosa. Per limiti miei ovviamente. Riassumo come posso. Il tempo oggettivo come quarta dimensione fisica lo scartiamo proprio. Non ci interessa ciò che non passa attraverso l’uomo. C’è nel tempo umano, un tempo considerato semi-oggettivo. La classica linea della vita, che ci dovrebbe spiegare quando è il momento di fare cosa. Ma agli Uffici non piace avere obblighi e preferiscono cancellare le tacche da questo metro. Perché? Perché anche questo tempo è un’invenzione. Si finge oggettivo quando in realtà è una costruzione altrui. La risposta è: “non è che non esita proprio, ma chissenefrega!”. La soluzione non è misurare il tempo. È caricarlo di valore. Quando una vita è ben spesa anche l’angoscia del tempo sparisce. I Baustelle dicono: “credi di morire, non è niente se l’angoscia se ne va”.  Pasquale mi racconta di come sia cambiata la sua vita da quando suona: “Prima tornavo a casa da lavoro, guardavo la tv, andavo a letto e poi di nuovo a lavoro. Adesso ci troviamo a suonare. Creiamo qualcosa di nostro. Sono sempre stanco morto. Ma sono felice.” E mi dice anche che ogni cosa dovrebbe essere fatta come fosse l’ultima volta. Non credere a quello che si fa. Quello è perdere tempo! E non, come si sentono dire tutti quelli che fanno qualcosa che gli piace: fai qualcosa di utile, fai qualcosa che serva, non fare il perdi tempo.

E ci troviamo a perdere tempo a chiacchierare, a scoprirci, a scrivere articoli, a scrivere poesie, ad ascoltare musica buona e schifosa. A fare progetti che magari non fanno successo. Ma come mi dicono Gli Uffici di Oberdan, l’importante è non voltarsi indietro e vedere una vita di rimpianti, l’importante è averci provato.

Ok prima vi parlavo di tutte quelle altre cose non propriamente attinenti alle domande, provo a raccontarle unendole alle sensazioni dell’ascolto del loro disco:

Parte svarione, solo per chi ha tempo da guadagnare.

Ascolto gli Uffici di Oberdan su Spotify, quello per computer che quello sul telefono fa schifo. La velocità degli anni “perché il tempo ci sfugge ma il segno del tempo rimane[1]”. E con il passare del tempo, nei miei attimi recenti, la gente scema mi pare sempre meno interessante e mi trovo ad essere meglio di loro senza presunzione. Ok uno due tre, schiaccio play:

“Puntiamo solo a salire, puntiamo solo ad impazzire” puntiamo pesante  sui nostri sogni, puntiamo a scendere dal letto con felicità. Che poi è donna e quindi per averla non va rincorsa.  Ma stiamo parlando di rivoluzione e di bombe in tasca. “pronte ad esplodereee” e forse bastano due bombe in tasca come coperta di Linus per fare la rivoluzione, Oberdan non si nasce si diventa, si diventa morendo, ma vabbè.

“ Non cercare di andare contro quello che sai” “la chiave della felicità è la disobbedienza in sé a quello che non c’è[2]”. Non cercare di imparare dagli altri quello che non sai, meglio stare incompleti che vivere altre vite “so che hai sogni non tuoi”. Cosa vuol dire contro natura  chiedo agli Uffici? contro natura gioca sulla natura naturale e su quel che ti dicono sia naturale. Ma cos’è naturale? “com’è spoglia la città da quando soffre solo il freddo”, naturale è ciò che appartiene all’animale umano, il naturale ce l’hai nel sangue, non è naturale l’imposizione della società che crea bisogni indotti intrappolando l’individuo. a casa mia si parla di mangiare e di proteggersi da varie cose: dal disordine, da futuro, da stare da soli, da far soffrire gli altri e dal non farli soffrire proprio. Proteggersi è naturale, ma imprigionarsi non lo è. Per gli Oberdan è una ricerca non finita, il loro album è un invito a ricercare la propria via, nel rispetto degli altri, della bellezza naturale e di quella umana. È un tentativo di slegare le catene ai tizi nella caverna, consapevoli che i molti se ne resteranno comodi al buio, ma qualcuno uscirà alla luce. “sarebbe stato più semplice non aver mai aperto gli occhi, sarebbe stato più facile, non averli chiusi mai”

Dopo averli intervistati è più chiaro questo cd, dovrebbe essere obbligatorio ed illegale un colloquio con l’artista. Continuiamo parlando della comunicazione, degli effetti di parlare solo di sesso e violenza

Venerdì sono andato a vedere Jovanotti. Che gioca al rock n’ roll. Anche Ligabue dice qualcosa di simile, aspetta come dice? Apro Youtube e trovo questo: Andrea comunica il suo suicidio con un video, poco dopo si toglie la vita. E forse gli Oberdan avevano ragione, tira più un morto ammazzato che un carro di buoi. Sulla fica non saprei.

“Mi vedi bene; mi vedi bene; mi vedi bene; mi vedi bene ma io — non ci riesco!!” e subito penso alle ragazze e dimentico Andrea “Andrea si è perso, ma non sa tornare, Andrea ha in bocca un dolore, la perla più scura[3]”. Ha ragione Andrea, che i miei articoli vanno letti cagando. E mi rende felice avere un posto nel mondo, un posto di pace e meditazione. “Che bello che era averti attorno/ come aver trovato un posto al mondo/ dove alla fine fare ritorno/ quando non c’è un posto dove andare[4]” “Non essere noioso Non sentirmi più solo/ Stare bene così/ Senza un posto nel mondo[5]

In sostanza se non srotolo una morale, se non estraggo pathos dal concetto dell’album, vuol dire che  PERDO TEMPO? Di questo parliamo al secondo spritz metà Aperol e metà Campari, di quello che ti dicono, del non naturale che diventa fondamentale, ti dicono che se non si fanno le cose come vanno fatte, si perde tempo. Se non si fanno le cose che vanno fatte si perde tempo. E così il tempo non si vince mai, si asseconda. E il tempo poi vince sempre sulla lunghezza, si può batterlo solo in intensità. E gli Oberdan mi dicono: meglio bruciare rapidi e intensamente piuttosto che spegnersi lentamente senza aver mai prodotto alcun calore. “Non tutto quel che brucia si consuma” “e lo ripeto ancora, fino a impararlo a memoria, finché siamo qui, noi siamo gli immortali[i].”

Finisco l’intervista, ci penso qualche giorno, che la vita non è facile, la vita non è male se scegli come spenderti, scegliere da gusto all’esperienza, dà peso all’esistenza.  E la scelta viene dal desiderio e dalla ragione, la scelta è l’espressione dell’individuo. E che parlare con la gente è sempre una scusa per scoprirsi

parlare di qualcuno

È parlare di tutto il resto

dei pochi sconosciuti

tra i sette miliardi

e dei soliti sette gatti

 

cose dalle cose.

parlare del tale, dell’ernia iatale

sempre parlare di tutto

il resto

lasciare o non lasciare il resto di mancia

lasciare o lasciare una manciata di affetto

in prestito, in franchising

la propria personalità, francamente

Franca, dovresti smetterla di essere così brava

 

parlando di qualcuno

parlare di tutto il resto

e dei pochi sconosciuti

tra i sette miliardi

tra i soliti sette gatti

che ci si sente sparlati

ed è fastidioso non sentirsi nominati.

e non posso fare a meno di infastidire

di infastidirmi, di evitare

di essere schiacciato, di schiantarmi sul gelato

E di scegliere sopra quale merda ronzare

di proclamare la mia indifferenza

nell’attesa della tua venuta.

Bzzz

amen

 

Gianluca Cappellazzo

 

[1]Baustelle, Le rane

[2]Afterhours, Quello che non c’è

[3]Fabrizio De André, Andrea

[4]Ministri, Comunque

[5]Marracash, Senza un posto nel mondo

[i]Jovanotti, Mezzogiorno. Jovanotti, gli immortali.