Il complesso del balcone: su regimi e dittatVre

Argomento delicato – delicatissimo – quello sulle dittature, forme di governo dalle origini antiche e sempre presenti da qualche parte nel mondo, quindi sempre attuali. Il regime assolutistico su cui si poggiano è insieme spauracchio e feticcio, incubo e sogno, nostalgia e volontà di oblio. In seno al suo contraltare – la democrazia – sembra non esserci spazio per parlarne approfonditamente senza scadere in un elogio o in una condanna a priori. L’errore più frequente è quello di accomunarle tutte sotto lo sguardo miope del buon occidentale, raccogliendole nel contenitore delle cose brutte del mondo; mentre quello più evidente è tesserne le lodi senza conoscerne i risvolti più quotidiani.

Perché chiamarlo ‘complesso del balcone’?
Si tratta di un insieme di cose, anche contrastanti tra loro, che formano un complesso appunto, un ginepraio di costrutti sociali che si differenziano geograficamente e culturalmente. Il balcone invece è una metafora – e in certi casi una vera concretizzazione – che identifica una netta separazione tra la rappresentazione del potere: il dittatore, e l’elemento su cui il potere viene esercitato: la massa, il popolo.

Esistono quindi delle costanti che incontriamo in tutti i regimi dittatoriali e la prima è appunto la piramide sociale: il dittatore al vertice, il popolo alla base e nel mezzo l’insieme di funzionari/militari nominati direttamente dal dittatore. La seconda costante è la gestione del potere: il dittatore assume il ruolo di monarca assoluto – tra il 1976 e il 1977 il feroce Jean-Bedel Bokassa seguì alla lettera tale passaggio, poiché trasformando la Repubblica Centrafricana in Impero lui divenne imperatore, calcando le orme di un lontano Napoleone – mentre il culto della personalità assume proporzioni quasi religiose, basti pensare alla Corea del Nord retta dalla dinastia dei Kim.

I punti in comune terminano qui, tutto il resto è differenziato in termini culturali.
Noi occidentali poniamo la dittatura generalmente sotto una luce negativa perché annienta la libertà individuale e collettiva (libertà di stampa, di parola, di credo ecc), e tendiamo a fare la stessa cosa per tutti i regimi del pianeta; si tratta del nostro inguaribile eurocentrismo – o “occidentalcentrismo” – che ci porta a credere in un concetto assoluto di libertà. Essa invece è variabile, o meglio, i valori da cui è composta vengono posti in piani differenti sia dal singolo individuo sia da un insieme di più individui: una società.

Se per noi occidentali nei primi due o tre posti della scala dei valori fondamentali ci sono la libertà di pensiero e la libertà di stampa (legata all’informazione), per un pastore siberiano potrebbe esserci la libertà di movimento in un territorio molto vasto mentre per un abitante delle isole Trobriand potrebbe esserci la libertà di accumulare cibo senza doverlo necessariamente consumare.
Con i dovuti riguardi, funziona quindi come se parlassimo di preferenze personali: se per me leggere un libro è sinonimo di libertà, per qualcun altro potrebbe essere correre, pescare, disegnare e così via.

Concretizzando: chi dovesse sopprimere la libertà di caccia, verrebbe giudicato negativamente dai siberiani, ma gli europei, che poco si interessano di nomadismo e altrettanto poco sentono la caccia come bisogno primario, probabilmente considererebbero virtuoso sia il divieto sia chi lo ha promosso.
Al contrario chi dovesse sopprimere la libertà di stampa, sarebbe oggetto di critica nel mondo occidentale, mentre in Siberia passerebbe come una legge qualsiasi che nemmeno sfiora l’interesse comune.
Ne consegue che se per noi occidentali i dittatori sono figure negative, per qualche altro popolo potrebbero essere ‘normali’ se non addirittura positive.

Il condizionale è d’obbligo, prima di orientare la nostra opinione nella classica esaltazione dell’uomo forte, o nel nostalgico ricordo di un regime scomparso svariati lustri antecedenti la nostra nascita (è un po’ come provare nostalgia per il buon vecchio Annibale… mai visto né conosciuto), ma anche prima di condannare, senza se e senza ma, un regime che molto probabilmente è l’unico elemento capace di tenere assieme un Paese, servirebbe sviluppare una capacità critica più distaccata, non per pontificare all’infinito su temi triti e ritriti, ma per comprendere meglio ciò che sta accadendo attorno a noi, al nostro Paese, alla nostra collettività.

Alessandro Basso

 

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La domanda di Yali: superiorità o fortuna

A volte mi capita di pensare di essere nata nella parte fortunata del mondo e in un momento storico che tutto sommato può dirsi buono. Certo, la situazione politica sembra non promettere molto bene, laddove dal punto di vista civile e sociale ci sarebbe invece bisogno di interventi notevoli e tempestivi. L’accesso al mondo del lavoro, la tutela e il sostegno della maternità, il miglioramento del sistema scolastico: questi sono solo alcuni esempi di quanta strada ci sia ancora da fare prima di poterci adagiare sugli allori, ammesso che questo sia davvero possibile un giorno.
D’altro canto, però, non possiamo mica dire che ci va così male! Il diritto all’istruzione ci è garantito, abbiamo la facoltà di decidere autonomamente riguardo le cose importanti della nostra vita, godiamo di un’ampia libertà di movimento, abbiamo a nostra disposizione un tempo libero non solo per il nostro benessere ma anche per il nostro divertimento. Tuttavia sappiamo bene che tutto questo in altre parti del mondo è ancora un miraggio. Ci sono zone devastate dalla guerra, ci sono fiumi umani in attesa alle frontiere, ci sono intere popolazioni sfruttate, c’è chi muore ancora di fame, c’è chi è costretto a sposare e condividere la propria vita con persone che non ama, c’è chi vive allo stato “selvaggio” ignorando ogni forma di civilizzazione e di modernità.
Ciò sembrerebbe rafforzare il mio iniziale punto di vista: viviamo davvero nella “buona” porzione di questo variegato e complicato mondo. Nelle pagine iniziali del testo “Armi, acciaio e malattie” Jared Diamond, biologo americano e professore di fisiologia, descrive l’incontro che ebbe nel 1972 con Yali, un politico della Nuova Guinea. Yali indirizzerà allo studioso una domanda che indubbiamente sembra mossa dalle mie stesse constatazioni: “Come mai voi bianchi avete tutto questo cargo e lo portate qui, mentre noi neri ne abbiamo così poco?”. Perché le redini del mondo furono a lungo nelle mani prima degli europei e poi degli americani? Come si è arrivati a parlare di eurocentrismo? Da cosa dipende il divario che in termini contemporanei caratterizza il Nord e il Sud del mondo?
Avete già iniziato ad elaborare qualche risposta “da filosofo”? Avete forse riversato un’eventuale risposta nella filosofia stessa? Fermi tutti! Confesso che anch’io sono caduta in tentazione: anch’io ho pensato che il fattore decisivo fosse stato l’invenzione della filosofia, l’esercizio del pensiero, lo sviluppo di una riflessione in materia politica, e via dicendo. Ma niente di tutto questo: bisogna invece andare molto più indietro nel tempo. Il professor Diamond in quanto a lettura del passato è più abile e più convincente addirittura di un filosofo!
Egli mostra che nel corso della storia l’umanità ha conosciuto tassi di sviluppo diversi nei vari continenti; potere e ricchezza sono stati a lungo prerogativa di una porzione ristretta di mondo. La spiegazione ottocentesca di sfondo etnico e/o razzista, come già è stato dimostrato, non è affatto in grado di delineare le motivazioni alla base della supremazia esercitata principalmente dagli europei in questi 2000 anni. Nessuna superiorità biologica, nessuna miracolosa caratteristica genetica. I fattori determinanti per Diamond sarebbero stati geografici in primis, e in secondo luogo ecologici e territoriali. L’elemento iniziale di vantaggio delle prime civiltà mediorientali fu infatti il poter sviluppare una forma progredita di agricoltura. Questa possibilità dipese infatti da un privilegio geografico, ovvero dall’orientamento del continente euroasiatico secondo un asse est-ovest, il quale fu in grado di garantire una maggiore estensione di territori con le stesse caratteristiche climatiche, con lo stesso numero di ore di luce e con il medesimo ecosistema. Fu dunque la risorsa ambientale ciò che permise lo sviluppo di pratiche di vita sedentarie, la specializzazione dei compiti e dunque le prime forme di suddivisione sociale e le prime organizzazioni protostatali.
La storia successiva la conosciamo bene e in parte coincide con la stessa storia della filosofia e della tecnica: con l’avvento della civiltà classica il fulcro dello sviluppo si spostò verso ovest, tant’è vero che quando si venne a creare quella particolare situazione nella quale gli europei disponevano delle risorse necessarie alla scoperta e alla conquista di territori a loro geograficamente lontani, essi, di fronte a tale possibilità, non si tirarono affatto indietro. In effetti, perché tirarsi indietro? Perché sottrarsi alla volontà di potenza? C’erano in ballo il merito e la gloria della realizzazione di imprese prima impensabili, siano queste la scoperta dell’America, l’avvento dell’imperialismo o lo sfruttamento economico dei territori sottomessi. Saremmo pronti oggi a smentire senza dubbi altre forme moderne di sottomissione? La nostra “superiorità civile” è davvero frutto di avanzate politiche sociali o deriva piuttosto dagli strascichi della storia passata?

Federica Bonisiol