Intrudere ed estrudere: l’inaccettabile opposizione di Jean-Luc Nancy

Nel 1992 il filosofo francese contemporaneo Jean-Luc Nancy ha subito un trapianto di cuore.

Ha raccontato questa estenuante esperienza nel libro L’intruso, edito da Cronopio e uscito nel 2000. Nancy basa la sua riflessione, breve ma densa, sulla coppia di sostantivi intrusione/estrusione, due termini che si oppongono ma che al contempo si richiamano cercandosi, abbinandosi, dandosi reciprocamente un senso. Non potrebbe esserci estrusione senza intrusione: quando, infatti, scegliamo di estrudere qualcosa – ossia di eliminarla, allontanarla – è perché essa viene percepita da noi come un intruso da scacciare, come un estraneo che ci crea problemi, ci invade o richiede troppo da noi; magari un impossibile che non possiamo o non vogliamo dare.

Il cuore di Nancy, quello con il quale è venuto al mondo, diventa l’organo da estrudere: appare come un intruso all’interno del suo stesso sistema corporeo, un intruso che non è più in grado di svolgere il suo compito e che mette a rischio la salute del filosofo. Si rende quindi necessario un trapianto: un altro cuore, un cuore che si attende come un libro fuori catalogo ordinato in libreria. Il cuore di un altro, capace di salvare la vita di Nancy, ma solo dopo un’intrusione violenta, fantascientifica, quasi impossibile da immaginare.

Scrive Nancy: «Dal momento in cui mi fu detto che era necessario un trapianto, tutti i segni parvero vacillare, tutti i riferimenti capovolgersi» (J.L. Nancy, L’intruso, 2000). Il suo cuore, che gli «saliva alla gola come un cibo indigerito», lo stava abbandonando. Per sopravvivere, avrebbe dovuto ospitare in sé qualcosa di estraneo.

Ma come si fa ad accogliere un intruso, che per sua stessa definizione giunge imperioso e si introduce in un ambiente familiare con aggressività e potenza, con scaltrezza e imprevedibilità? L’intruso arriva «senza permesso e senza essere invitato. Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che, altrimenti, perderebbe la sua estraneità» (ivi). Bisogna accettare un’inaccettabile.

I medici devono estrudere per poi includere.

Di fronte a questa scomoda e temibile realtà, Nancy si sdoppia, così come doppio si fa il senso della sua stessa esistenza. La sua vita sarà la morte di un altro essere umano. Ciò che sente è «di essere caduto in mare pur restando ancora sul ponte» (ivi). Egli è in due luoghi contemporaneamente: in balia della morte che incombe, della quale il suo cuore malandato si fa messaggero; in balìa della vita che ancora lo trattiene a sé con la promessa di una speranza, di una soluzione. Nancy è al di qua e al di là, così come sarà e resterà se stesso con in petto l’organo di un altro.

Il filosofo capisce anche che se si vuole sopravvivere bisogna prima diventare estranei a se stessi. Prima dell’arrivo dell’intruso il suo sistema immunitario viene preventivamente preparato a essere neutro, ossia inutile, per facilitare la sua venuta. Esso viene quasi cancellato, per minimizzare il rischio di un rigetto. «L’intruso è in me e io divento estraneo a me stesso» (ivi), spiega Nancy. L’estraneità si moltiplica e i farmaci anti-rigetto gli causano un abbassamento delle difese immunitarie che sfocia in cancro. Questa nuova malattia lo costringe a ulteriori sofferenze che paiono infinite e che sbalzano ancora e ancora la bussola della sua identità.

Ma egli sopravvive. E lo fa perché l’uomo ha imparato a superare se stesso divenendo «colui che snatura e rifà la natura, colui che ricrea la creazione» (ivi).

Per sopravvivere dobbiamo continuamente estrudere qualcosa e includere qualcos’altro di nuovo. Lo facciamo con il nostro organismo – le unghie troppo lunghe o i capelli, che vanno tagliati ma che poi ricrescono. Lo facciamo con persone e situazioni che, come il vecchio cuore di Nancy, ci divengono indigeste. Il ciclo della vita esclude per accogliere, e accoglie sapendo a priori che quella venuta resterà, come dice Nancy, scomoda e dal sapore straniero fino a che seguiterà a venire, fino a che non sarà divenuta qualcosa di familiare – ma quella familiarità durerà sempre e soltanto per un tempo determinato, sfociando poi in una nuova estrusione che sa di auto-defezione.

«L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso che non smette di alterarsi […] intruso nel mondo come in se stesso» (ivi).

Un paradosso che va accettato, compreso, abbracciato.

 

Francesca Plesnizer 

[Photo credit Ali Hajiluyi via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Apprendere a raccontarsi: scritti di vita condivisi nella pratica clinica

Da quando, con il progressivo affermarsi della bioetica, l’obiettivo della pratica clinica è scivolato dal semplice e diagnostico to cure alla complessità etica del to care, numerosi sono stati i dibattiti circa il come questa cura rivolta alla totale attenzione della complessità della soggettività umana potesse essere efficacemente realizzata non unicamente da parte del medico, ma anche di ciascun operatore e professionista sanitario che, nelle sue mansioni specifiche, ha un ruolo cardine nel percorso di cura del paziente.

Chiaro è che, come la letteratura l’ha ribadito a  più riprese, il curare, inteso nei termini di una guarigione progressiva fino al ripristino dell’equilibrio omeostatico del paziente, minimizza la complessità di quelle attività e di quei gesti di cura che, giorno per giorno, vengono rivolti al malato. Non si tratta, tuttavia, di minimizzare l’importanza del fenomeno del curare “tecnico” del medico, le cui competenze sono pertanto imprescindibili per lo svolgimento di una buona pratica clinica, quanto più di ammettere l’integrazione di questa sfera con quella di una presa in carico che, all’interno della logica della diagnosi e della prognosi, presenta un valore aggiunto nella direzione del miglior interesse del paziente.

Con la nozione di cura si spiana il sentiero descritto dalla vulnerabilità umana, dalla disabilità, da quella fragilità che, in un momento o nell’altro, ci segneranno, rendendoci un po’ più consapevoli della nostra dipendenza all’altro e agli altri. Lo strumento che più permette alla cura di dispiegarsi è, senza dubbio, la narrazione.

Da principio, il modello narrativo è nato e cresciuto in seno al diffondersi, negli Stati Uniti e poi in Europa, dell’etica della cura. Un’etica volta alla valorizzazione di ogni dipendenza e vulnerabilità umana, non unicamente un’etica femminile, bensì una pratica che trova le proprie radici nella struttura ontologica dell’essere umano: nella sua finitudine e inevitabile mortalità.

Siamo tutte e tutti, fin da subito, ovvero fin dalla nascita, spezzati. Nel corso di alcuni momenti della vita, sono questi pezzi di sé a dover essere raccolti e dispiegati, narrati e ascoltati.

La medicina narrativa, di cui Rita Charon è uno dei principali rappresentanti, nasce da questo bisogno: il bisogno di dar voce a quelle parti di sé da ricostruire e che, durante il decorso della malattia, appaiono indecifrabili. Quello che Charon propone è un metodo fondato sulle medical humanities avente l’obiettivo di stimolare la narrazione e la ricostruzione autobiografica del paziente attraverso l’intervento di una diversità di discipline quali la letteratura, la psicoanalisi, la filosofia, e l’arte. L’inserimento di un approccio multidisciplinare nella classica pratica clinica evidence based, aiuterebbe il paziente a narrarsi, attraverso stimoli di diversa natura, e a raccontare la propria sofferenza integrandola nel percorso di rielaborazione del Sé.

È tuttavia sufficiente una pratica multidisciplinare per aiutare l’Io a ricostruirsi a partire dalle ferite della malattia? Oppure esiste, all’interno della pratica clinica, un aspetto più profondo che la narrazione potrebbe indagare?

Lo abbiamo già anticipato, ma ripetiamolo: il racconto assume, all’interno della dinamica medico-paziente, un ruolo chiave. È importante, tuttavia, soffermarsi sulla natura e sulla direzione del racconto che, nato all’interno della dialettica curante-malato, porterebbe le due soggettività sullo stesso piano ontologico, quello della loro stessa condizione di partenza definente l’essere umano nella sua natura: dipendenza e vulnerabilità.

Paul Ricoeur è il filosofo che più ha approfondito l’importanza del “racconto di vita”, nonché l’orizzonte etico di senso che la dinamica narrativa, attivandosi, porta con sé. L’identità narrativa è la dimensione profonda in cui l’Io si dispiega attraverso lo scorrere del tempo, pur lasciando una permanente traccia di sé. Dispiegandosi, l’Io apre le porte dei propri confini identitari e si impegna responsabilmente nei confronti dell’Altro da sé.

Con l’altro, ci si racconta. Ci si espone al mondo e si lascia la propria traccia. E così, vice versa. L’altro si racconta a noi. Si espone al mondo. Ci lascia una propria traccia. Si costruisce così un piano dialettico in cui le storie di vita non possono che intrecciarsi l’una con l’altra, in cui le ipseité, riprendendo una al nozione del filosofo francese, si costruiscono le une attraverso le altre.

La dimensione dialogica, così come la intende Ricoeur, nasce quindi in ragione di un percorso che, come il filosofo lo definisce in una delle sue ultime opere, è un percorso di riconoscimento. Un riconoscimento che avviene tra pari, pari componenti dell’enorme puzzle che è l’umanità.

È sul piano della mutualità e della “sollecitudine” caratterizzante la condizione di ciascuno a partire dal proprio stare al mondo, che il riconoscimento si traduce nell’accettazione dell’alterità attraverso quella storia raccontata che è la sua, sciogliendo conflitti e superando le contraddizioni.

Nella pratica clinica è noto come spesso i dilemmi morali emergano da conflitti valoriali tra soggettività che, nella loro diversità, diventano testimoni della propria storia di vita. Pertanto, in tali circostanze, ciò che richiede di essere ascoltato è uno spazio di mutevole comprensione che permette a ciascun Altro di dispiegarsi. Non esistono ricette, o regole d’oro. “Solo” lo sforzo di apprendere dall’altro, mettersi in discussione e ricostruire. E, inevitabilmente questo lavoro di decostruzione e ricostruzione non può che avvenire nel momento in cui si dà la libertà all’altro di accedere nella propria vita, contribuendo per la scrittura di un suo nuovo capitolo.

La comprensione e infine lo scioglimento di conflitti etico-clinici non può dunque avere inizio laddove manca un terreno fertile per la crescita di un apprendimento condiviso, rivolto alla continua scrittura della propria storia in relazione a quelle alterità che, necessariamente, incidono sul nostro io.

Talvolta, l’assenza della temporalità necessaria per riscoprire tale narratività relazionale fa sì che quella alleanza terapeutica venga meno, insieme alla perdita di fiducia.

 

Sara Roggi

 

[Photo credits Debby Hudson su Unsplash.com]

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Il significato del “bene” nella pratica clinica. Casi clinici di fine vita

Non ci dimenticheremo mai di Alfie. Così come non ci dimenticheremo mai di Charlie.

Bambini così piccoli per essere strappati via dalla vita. Guancette porpora, occhi stanchi, spesso chiusi. L’abbraccio commovente di un padre al proprio figlio. Un orsacchiotto di peluche disteso accanto a quel corpicino esile, una compagnia familiare su un letto estraneo, quello di un ospedale. Macchine accese a scandire la vita che passa, che scivola, che scorre senza “se e senza ma”.  Senza concessioni, né tregue. Il tempo passa − da quanto tempo, forse troppo? Ma chi siamo noi, in fin dei conti, per giudicare il troppo e il troppo poco, il giusto e lo sbagliato? −, e quei corpicini sono ancora lì, la ventilazione meccanica li aiuta a respirare, il sondino nasogastrico ad alimentarsi e idratarsi.

Come potremmo mai dimenticarci di Dj Fabo, Eluana e Piergiorgio Welby? Corpi sofferenti, talvolta coscienti, ancora in grado discernere il loro bene, di ascoltare il proprio desiderio, di affrontare la morte anche laddove questa rappresenta la sola alternativa ad una condizione irreversibile, irreparabile.

Ci ricordiamo questi volti, le notizie trasmesse giorno dopo giorno dai telegiornali, le dispute tra chi sostiene che la vita debba essere protetta e difesa e che dunque i trattamenti siano necessari e imprescindibili per tale fine, opponendosi all’interruzione dei presidi vitali da un lato, e coloro i quali, dall’altro, difendono il diritto alla vita nei termini di una finitudine umana mortale cui non ci è permesso di sottrarci e contro la quale, prima o poi, veniamo a  chiamati a fare i conti.

Certo, quando si parla di bambini e di minori è sempre più complicato. Lo è poiché ci esponiamo alla vulnerabilità estrema di una relazione che deborda quella medico-paziente: i terzi sono dei genitori, direttamente implicati nella cura giornaliera del proprio bambino, personalmente coinvolti in una sofferenza senza fine che vede il loro figlio sospeso tra la vita e la morte.

Ce lo ricordiamo tutti il recente caso Alfie, la sua storia ha commosso il mondo intero; fino alla fine, la sua mamma e il suo papà hanno lottato contro tutto e contro tutti − perfino contro i giudici e i medici che si prendevano cura di lui. Volevano salvarlo, salvarlo da quella vita già segnata; salvarlo da un destino che, forse, avrebbero voluto cambiare con tutti i mezzi a loro disposizione. Ma di quali mezzi disponevano effettivamente? Una tracheotomia e una PEG per allungare il numero dei giorni da vivere e capire se, in un modo o nell’altro, ci sarebbe stata la possibilità di cambiare il decorso di una malattia neurodegenerativa, purtroppo inguaribile?

Vero è che Alfie per un po’, una volta interrotta la respirazione artificiale, è riuscito respirare in completa autonomia. Giorni che facevano credere che il piccolo guerriero fosse riuscito a dimostrare di potercela fare anche da solo, senza l’aiuto della tecnica medica. Eppure, se questo è ciò che molte notizie volevano far trasparire con la comunicazione “Il piccolo Alfie respira da solo!”, è giusto porre l’attenzione sulla sofferenza nascosta di ogni suo singolo respiro. Una sofferenza indecifrabile, determinata da uno stato fisico molto fragile. Respirare autonomamente significava riuscire a sopravvivere, certo; riuscire a sopravvivere fin tanto che ce l’avrebbe fatta con le proprie forze, le energie di un piccolo guerriero. Ecco perché i presidi vitali sembravano necessari: il bambino aveva dimostrato di essere forte e un giorno, avrebbe potuto farcela di nuovo. Il desiderio dei due genitori, infatti, era nutrito dal bisogno di dare al piccolo Alfie non una possibilità di mera sopravvivenza, ma di vita. Sarebbe però stato davvero concretizzabile? Fino a che punto il giudizio clinico può essere scavalcato? Poteva il prolungamento quantitativo della vita del piccolo paziente corrispondere ad un progresso qualitativo?

La decisione di sospendere i presidi vitali, dettata dai medici in funzione di una tutela della vita, ha rappresentato l’estremo gesto di cura, inteso come un to care e non come un semplice to cure. Laddove guarire non è possibile e utilizzare trattamenti salvavita diventa sproporzionato, il ruolo dei medici continua ad essere quello di prendersi cura del paziente, traducendosi nei termini di un giudizio di proporzionalità rispetto al trattamento previsto. È questo l’aspetto più ignorato quando la bioetica emerge dai casi clinici degni di nota. “Il medico deve fare il bene del paziente, non procurarne la morte”: questo si dice quando i trattamenti vengono interrotti. Ma di quale bene stiamo parlando? Qual è la vera intenzione dei clinici di fronte a casi irreversibili? In quali circostanze le cure sono appropriate e non rientrano nella medical futility?

Quando i clinici hanno riferito ai genitori di Alfie la necessità di sospendere i presidi vitali, è stato perché proseguirli non avrebbe costituito un atto medico volto al raggiungimento del bene dello stesso paziente. Al contrario, sarebbe equivalso al prolungamento di sofferenze intollerabili cui il bambino non avrebbe potuto nemmeno dare voce. L’intenzionalità sottostante alla pratica clinica non è quella di causare la morte − in quanto la sospensione ne costituirebbe unicamente la condizione clinica − ma rispettare la vita, accettando i limiti di una scienza che, come la medicina, non può fare tutto, non può prolungare indefinitamente l’esistenza procurando, in taluni casi, unicamente una stasi, un’immobilità, e in altri, una diminuzione della qualità di vita del paziente.

Il dolore della perdita è qualcosa di inenarrabile. Indescrivibile. Silenzioso.

Il piccolo Alfie, il piccolo Charlie, Eluana, Piergiorgio, Dj Fabo. Tanti nomi. Tante storie che ci hanno trasmesso il valore della vita e del coraggio. Contesti culturali diversi, dall’Italia all’Inghilterra. Ogni racconto ci parla di una finitudine incontestabile, che si impone prepotentemente. Tanti nomi che hanno chiamato in causa le nostre vite, interrogandoci sulle paure profonde che ci attraversano. Certo è che, nella pratica clinica, la fine della vita è una questione inevitabile ed è necessario ascoltare quell’universo di relazioni che, ben oltre la clinica, è impastato di sofferenza, fragilità profonde e causa di molti conflitti, incomprensioni. Ciò affinché sia possibile, un giorno, parlare un linguaggio comune in cui la barriera tra medici e pazienti, tra medici e genitori, possa essere abbattuta, trasformando quel muro di calce che li separa in uno spazio comune di comunicazione e riconoscimento reciproco.

 

Sara Roggi

 

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Piccoli cuori artificiali

In un comunicato stampa del 6 dicembre 2016, l’Ospedale Pediatrico del Bambino Gesù si è incaricato di avviare, dai primi mesi del 2017, la sperimentazione clinica del minicuore artificiale Jarvik 15mm.

Fu esattamente all’interno del Dipartimento Medico Chirurgico di Cardiologia Pediatrica del Bambino Gesù che, quattro anni fa, fu impiantato, per la prima volta al mondo, un prototipo di Jarvik Heart miniaturizzato, salvando la vita a un bambino di soli sedici mesi.

Parallelamente, è stata la Food and Drug Administartion, organismo supervisore di controllo della sanità statunitense, ad aver autorizzato la sperimentazione clinica su ottantotto bambini affetti da una cardiopatia avanzata del minicuore artificiale, il dispositivo di assistenza ventricolare sinistra della Jarvik.

Lo scopo di tale ricerca sperimentale è quello di verificare l’affidabilità di due dispositivi cardiaci distinti: da un lato, il dispositivo ventricolare sinistro intracorporeo della Jarvik 15mm, alimentato da batteria esterna, e dall’altro, il Berlin Heart pediatrico, un sistema di assistenza paracorporeo che costringe il bambino, in attesa di trapianto, al ricovero ospedaliero.

Certo, il fine ultimo di queste ricerche non viene valutato unicamente in termini quantitativi, bensì in termini qualitativi. Si tratterebbe, infatti, di comprendere quale sarà la soluzione clinicamente più efficace per il benessere e la sopravvivenza dei piccoli pazienti.

L’ingegneria medica ha fatto dei grandi passi in avanti negli ultimi decenni.

Basti pensare ai LVAD (Left Ventricular Assist Device), dei dispositivi di assistenza ventricolare sinistra di nuova generazione.

Considerando la scarsità di donatori rispetto all’elevato numero di pazienti cardiopatici, questi apparecchi rappresentano una reale terapia alternativa al trapianto di cuore. Permettendo così a un bacino più ampio di pazienti di poter sopravvivere; talvolta, di sopravvivere in condizioni di salute migliori rispetto agli stessi trapiantati.

Ed è esattamente questo il punto. Senza LVAD, un paziente con scompenso cardiaco avanzato e non inserito in lista, muore. Non ha alcuna speranza di poter sopravvivere.

C’è tuttavia da sottolineare che i LVAD, se da un lato sono considerati impianti tanto invasivi quanto una qualsiasi altra operazione a cuore aperto, dall’altro lato funzionano unicamente tramite un controller a batterie ricaricabili. Non è un caso che, proprio quest’ultimo aspetto, possa sollevare alcune problematiche etiche.

Pertanto, la vita dei pazienti con impianto LVAD è appesa letteralmente ad un filo: dipendenti di questa pompa artificiale, devono costantemente fare attenzione alla durata delle batterie – di circa otto ore– che li mantengono in vita. Dimenticarsi di ricaricarle equivarrebbe a morire.

Se qualcosa andasse storto, se un meccanismo interno smettesse di funzionare, sarebbe necessario correre d’urgenza al più vicino centro VAD di riferimento.

In Italia, però, una decina di regioni sono sprovviste di tali centri. Non è un caso se la posizione geografica è diventata, nel nostro territorio, uno degli elementi imprescindibili per la selezioni dei candidati all’impianto, sollevando per altro numerosi interrogativi circa l’equo accesso a queste preziose – e costose – risorse, capaci di mantenere in vita in casi di cardiopatia grave e avanzata.

Di possibili conseguenze ed effetti collaterali, è innegabile, ce ne sono tanti. Per questo, è giusto che il paziente, accompagnato dall’équipe sanitaria, sia reso consapevole – se ancora cosciente – delle diverse alternative cliniche, così come degli effetti collaterali post impianto.

Quando si parla di bambini, però, è tutta un’altra storia. C’è una creatura che non sa e non è cosciente di ciò che potrebbe andare incontro. C’è la sua innocenza e l’ingiustizia di una vita tolta ancor prima di essere vissuta. C’è una dignità da preservare fino all’ultimo respiro. C’è il dolore di quei genitori posti di fronte alla complessità di un interrogativo che oscilla tra la “vita a tutti i costi” e il “lasciare andare” il loro bambino. Come diventa possibile fare i conti con la complessità di un’esistenza che non lascia scapo? Come decidere per il bene del piccolo paziente, allo scuro delle imprevedibili conseguenze che l’impianto potrebbe effettivamente causare? Come possiamo proteggere i nostri bambini e fare loro del bene?

Seguire il principio ippocratico di beneficienza – o beneficialità –, in linea con il detto latino primum non nocere, conduce i medici, i professionisti sanitari e i familiari ad affrontare situazioni complesse, spingendo ciascun soggetto implicato nella relazione di cura a rivalutare il valore del senso dell’esistenza. Un’esistenza talvolta già strappata e ferita e che, forse, chiede silenziosamente di essere lasciata andare.

 

Sara Roggi

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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